user profile avatar
Gianfranco Murtas

Caso Bovio. La combriccola Kilwinning 1485 all’assalto di Quirinale e Montecitorio. E, di più, della decenza. Licet ed omertà, ancora Barabba e Ponzio Pilato, e Nicodemo (parte prima)

di Gianfranco Murtas

article photo


Lo racconterà lo storico di domani questo tempo di mortificazione e di lutto per i galantuomini del Grande Oriente d’Italia qui a Cagliari e nell’Isola imprigionati da una dirigenza circoscrizionale (presidente ed Oratore in primo luogo, ispettori "nominali" ed altri) dimentichi della loro missione. Lo racconterà e troverà nelle più depravate ed impresentabili cordate clandestine, a scendere ed a salire nelle funzioni obbedienziali, le ragioni e le dimensioni dello scandalo doloroso e luttuoso: del delitto ripetuto cento volte e cento volte negato. Perché se nessuno reagisce al furto di una Torah dal Tempio di una loggia emulation (costretta poi a ricorrere al catenaccio per proteggere le sue carte di segreteria e altre dotazioni rituali), se nessuno reagisce all’insulto pasticciato e volgarissimo sul verso di un labaro allineato fra altri cinquanta negli austeri corridoi d’un palazzo che dovrebbe tutto sprizzare serietà, senno, benefizio e giubilo, se Ponzio Pilato, dopo Caifa, diffonde la parola d’ordine con minaccia di punizione ai disobbedienti “fate terra bruciata attorno a chi protesta”, qualcosa non è andato e non va per il senso giusto. Né porterà bene a niente e a nessuno.

Se una preziosità d’arte e di memoria storica viene insolentita dai miliziani fascistoidi in sfrenato delirio ludico e la personalità d’oro di Giovanni Bovio viene trattata come comparsa di commedie fumettistiche da niente, e spalla ora dei principotti inglesi ora del generale golpista Pinochet, ora di un’accolta di imbecilli tesserati tutti Kilwinning 1485 che posano a turno farfugliando stupidaggini e nessuno reagisce, qualcosa d’importante, veleno tremendo, mi pare stia alterando la natura della corporazione: quella corporazione umanistica che nel nome della patria e della libertà dal 1861 – con De Lachenal e Serpieri, Gavino Scano (!) e Felice Uda, Antonio Giuseppe Satta Musio e Antioco Cadoni, Giuseppe Palomba e quant’altri campioni del parlamento e dell’accademia, dell’impresa, delle professioni e del giornalismo contavano molto e molto nella Sardegna ancora risorgimentale e del dopo – teneva alto, a Cagliari, l’onore del Grande Oriente d’Italia. Quell’onore ora è impolverato a terra, infangato anzi, e v’è chi chiede… fino a dove, fino a dove, fino a quando?

L’elenco è noto, è stranoto!

La ritualità massonica irrisa, la bara dell’architetto Hiram barattata con una canna da pesca – che un tardivo interprete vorrebbe bizzarramente rendere mezzo di redenzione applicandola alle scene del lago di Tiberiade (dove non la canna da pesca ma semmai le reti erano lo strumento di lavoro degli apostoli pescatori). 

I 214 morti ed i settemila feriti fra le esplosioni del porto di Beirut, giusto la scorsa estate, ribaltati con Minnie, i cuoricini rosa e il cappuccino fumante da un “buongiornissimo” del 1° Sorvegliante della Kilwinning – naturalmente con il tardivo interprete che rielabora in chiave… antihegeliana colazione e pancia piena fra tante fiamme ancora devastanti...

Quando la religione, che è la più intima ed infrangibile testimonianza della pietas dei viventi verso coloro che non sono più, viene ridotta al grottesco, cade qualsiasi diritto di replica. Soprattutto se con essa è portato un involutissimo (non saprei se anche pasticciato) attacco al pensiero di Hegel. Letture antiche e certo non specialistiche mi han lasciato il ricordo affascinato d’un filosofo che considerava la religione, nella sua espressione più elevata e vicina alla verità, il Logos incarnato. E la teologia del Vangelo di Giovanni – che è quanto riporta alla “luce” celebrata da una qualsiasi loggia legittima e regolare a Cagliari (a palazzo Sanjust!) come a Manila, a Londra come in America e in Australia – pare essere insieme la premessa e la promessa del raggiungimento del maggior sapere, del sapere assoluto.




La galleria delle rappresentazioni creative – potrebbe un giorno emergere un Grande Architetto imbroglione e sporcaccione che gioca a carte con il nuovo Venerabilissimo della famigerata loggia tutto mascherato fra la Colonna B e quella J – è ampia quanto neppure uno s’immagina e varrà impegnarcisi (in un tempo che forse neppure sarà troppo lontano) a ricomporre tutto anche per data e concedere all’ammirazione civica, davvero tutto in una volta ed aggiornato, tanto sfoggio di intelligenza e buon gusto.

Meriterà uno spazio esclusivo, uno spazio tutto suo, il riguardo riservato alle autorità della Repubblica: al presidente Sergio Mattarella, al presidente emerito Giorgio Napolitano, al presidente della Camera dei deputati Roberto Fico. 

Dal primo dei due volumi di Il libro del massone italiano di Ulisse Bacci – nome eminentissimo della Massoneria giustinianea che accompagnò tanta parte delle granmaestranze Mazzoni e Petroni (il Petroni reduce dalle segrete pontificie), Lemmi e Nathan e Ferrari, Torrigiani anche, fino a che fu zittito dai fascisti – leggo il rituale delle agapi fraterne e quanto si riferisce ai primo dei sette canonici brindisi: Alla salute del Capo dello Stato, alla prosperità della patria – Fuoco! (tutti bevono). Questo brindisi può essere illustrato con un breve discorso dal Venerabile.

Leggo poi dalle annate di Erasmo Notizie il puntuale scambio di messaggi fra i Gran Maestri presidenti delle Gran Logge, fino a Stefano Bisi, ed i presidenti della Repubblica, fino a Sergio Mattarella. Ci tornerò col dettaglio.

Nella creativa traduzione della Kilwinning 1485 (e del suo Venerabile pro tempore, colui che si firmava con il dito medio offerto erga omnes ed a Bovio quadribendato in anteprima) leggo invece: Forse, non è un gran Presidente, e forse non è nemmeno “super partes”. Forse non è, e non sarà mai, un grande statista. Ma è il mio Presidente, e io mi tolgo il cappello quando rido! Bersaglio immediato, anche con accompagno fotografico, il presidente Mattarella. 

La medesima creativa esternazione politologica era stata proposta anni addietro, e mantenuta viva e documentale fino a pochi mesi fa, riferendola al presidente Giorgio Napolitano, anch’egli con fotografia d’accompagno.

Era poi venuta, partorita da una mente stavolta coperta da una paglietta mi sembra sahariana, un’ulteriore elaborazione: Sono del parere che, in lingua italiana, le parole “Fico” e “Mattarella” debbano essere declinate esclusivamente al femminile l’una e al maschile l’altra.




Di tempi più recenti ancora (parrebbe 11 marzo 2020) è un’altra formula dottrinaria che – s’è visto – associa i due presidenti, quello del Quirinale e quello di Montecitorio: E’ d’obbligo, mestamente chinare il capo verso coloro i quali, seppur privi di capacità alcuna, meschinamente tentano di eccellere! Sono quelli che, in pratica: mangiano l’uovo dal culo della gallina. Con tutto ciò che questo comporta!

Se un Maestro Venerabile non è patologicamente sdoppiabile, come nel romanzo di Stevenson, in un dottor Jekyll e in un mister Hyde potrebbe pensarsi che il dignitario che la sera comanda – in onore del capo dello Stato – il «Fuoco!» ai suoi riuniti attorno alla tavola dell’agape possa riferirsi non all’allegoria rituale ma ad un violento, esplosivo dispregio di merito della più alta autorità della nostra Repubblica. Potrebbe pensarsi…, lo penso, e ne sono schifato, centomila volte schifato ma ormai non più sorpreso.




Riflettendo su un mondo rovesciato

Sarò come sempre franco in queste mie riflessioni offerte peraltro soltanto a chi senta di poter corrispondere con pari limpidezza d’animo, al di là delle strette convergenze politiche che qui non c’entrano nulla. La circolarità ecumenica della Libera Muratoria – come Kipling insegna con i suoi versi sublimi – mi ha sempre affiancato a socialisti (o marxisti critici) e liberali di varia declinazione, a moderati e progressisti, a protestanti e cattolici e agnostici. Dalle diversità combinate e in dialogo, senza ambizioni di sincretismo né di silente conformismo, emerge il meglio, miracolo di natura intelligente sempre rinnovato. Il che, ovviamente, non contraddice che un perimetro ideale ed etico-civile la Libera Muratoria lo marchi integrandolo o valorizzandolo nella concretezza storica della sua testimonianza: com’è stato da noi – da noi italiani – per l’unità della patria, per gli ordinamenti liberali e democratici risorgimentali in monarchia prima ed in repubblica successivamente, per la laicità delle istituzioni sempre – così di quelle politiche come di quelle educative e scolastiche –, per il sogno europeo che apre al domani. Ecco il perimetro. E poi si potrà essere centralisti o federalisti, conservatori e illuministi o riformisti, avanzati riformatori sociali o altro… che importa? Ma non c’è spazio per i fascisti, non c’è spazio per i dogmatici od i Robespierre tagliateste.

Sto lavorando alla biografia di un grande storico dell’arte quale fu Sabino Iusco, che novantenne è passato all’Oriente Eterno nel 2013. Concluse la sua formidabile carriera professionale come direttore del museo di Castel Sant’Angelo. Fu prima soprintendente alle Belle Arti della Basilicata con sede a Matera, e prima ancora, in Sardegna per diciassette anni quasi, professore di letteratura in facoltà di Magistero, poi funzionario dirigente alle Gallerie e Monumenti e professore di storia dell’arte all’esordiente e già subito prestigioso liceo artistico di Cagliari (lo stesso in cui insegnò figura modellata il caro e compianto nostro Franco d’Aspro). E fu Maestro Venerabile della loggia Hiram n. 657, la stessa di d’Aspro, la stessa che accolse proprio allora, ricevendolo da Carbonia, Armando Corona, la stessa che era stata impiantata da Mario Giglio ed aveva iniziato Paolo Carleo, un concentrato di intelligenze vivide, un piedilista ricco e vario per la pluralità dei rigogli intellettuali e civili. Un genio, Sabino Iusco, un uomo specchiato quanto pochi altri mai. Orgoglio della Libera Muratoria cagliaritana ed isolana, conoscitore della secolare arte ed architettura sarda ben più che noi sardi, ma a noi sardi, ai nostri studenti rivelata in lezioni che sapevano di cielo stellato. E da lui sono costretto oggi a un confronto… a un confronto con la miseria della Kilwinning e dei suoi protettori mascherati.

Pressoché concluso (e dunque pronto alla pubblicazione) è uno studio sulla partecipazione dei massoni sardi alla grande guerra. E’ noto che una decina di Artieri (quasi tutti giovani) delle varie logge isolane o sardi quotizzanti in officine del continente, caddero in combattimento – cominciando da Giovanni Romanelli l’Oratore della Sigismondo Arquer e da Ottavio Della Ca’ il 28enne Maestro Venerabile della Karales –, numerosi altri furono feriti e/o restituiti mutilati alla vita civile e professionale, diverse decine decorati con varie medaglie al valore militare ora dell’esercito ora della marina. Uno studio comprensivo della storia del Dormitorio pubblico donato dalla loggia Sigismondo Arquer al Comune di Cagliari nel giugno del 1915, opportunamente girato poi, nella straordinaria contingenza bellica, alla Croce Rossa quale ospedale chirurgico. E comprensivo anche dell’attività dell’Unione Femminile cui prontamente si convertirono le donne candidate alla loggia “d’adozione” patrocinata dal Saggissimo del Capitolo R+C degli scozzesi, con la dottoressa Paola Satta – la prima laureata in medicina della Sardegna, nel 1902 – Venerabile e con Antonietta Campagnolo (espressione di tanta famiglia tutta squadra-e-compasso a coprire un secolo intero nella sequenza delle generazioni!): quell’Unione Femminile che fu in prima fila, già dall’inizio e per quattro e più anni – quelli della guerra e quelli di dopo –, nell’assistenza civile. E ancora… sono costretto oggi a confrontare tanto meritevole protagonismo civico con la miseria produttiva – tolte una o due iniziative di obiettivo pregio però ormai lontane nel tempo – della Kilwinning carezzata dai vertici della Circoscrizione e dagli altri di contorno! 

Anche il focus massonico nella basilica di Nostra Signora di Bonaria – all’interno del più vasto studio sulla toponomastica massonica cagliaritana (con testi, foto e grafici) – combinando i nomi di Antonio Ghisu e Francesco Ciusa e Franco d’Aspro…, anche il focus sulle intitolazioni massoniche degli ospedali e delle scuole di città e paesi dell’Isola – sono cosa di studio mio sì, ma soprattutto sono pagine aperte, per la conoscenza di tutti, e l’orgoglio di tutti, circa la nobiltà di un passato fraternale esemplare cui fa riscontro oggi la vergogna d’una loggia volgare quant’altre mai potremmo immaginare.




Riprenderò i vari filoni qui soltanto affacciati per sviluppare in particolare l’aggressione fumettistica alle autorità apicali della Repubblica e meglio illustrare la deresponsabilizzazione di chi non regge il passo, né soprattutto ha mostrato il buon gusto di ritrarsi per la prova drammaticamente fallita.

Ancora, stavolta, voglio invece soffermarmi sulla virtù di un passato tanto prossimo da considerarlo piuttosto tempo presente: un presente che pur avrebbe potuto, e potrebbe, innalzare e menti e cuori di tutti, e nella esemplarità della sua offerta farsi guida di un impegno civico e solidaristico di tutti, di tutti, di tutti davvero… per il bene e il progresso della umanità. E vado a Virginio Condello, al Fratello Virginio Condello.

L’esempio di Virginio Condello e quel suo dono prezioso

Era come derivato, Virginio Condello, dal miglior filone dei Luigi Cocco Serreli e degli Armando Businco – medico l’uno e, in quel 1909 del terremoto di Messina, ancora studente di Medicina l’altro, destinato poi alla più alta cattedra universitaria a Bologna e alla testimonianza antifascista, fino ai limiti di un lager burgundo, e intanto rinchiuso nei campi di prigionia della Repubblica Sociale Italiana, lui sempre – dai suoi generosi quindici anni – mazziniano nelle militanze repubblicana, sardista e azionista, nelle arrischiate intese catacombali di Giustizia e Libertà contro la dittatura, perfetto cittadino e perfetto democratico, perfetto massone e perfetto medico cui giustamente sarebbe stato intitolato, un giorno, l’Ospedale Oncologico della Sardegna. Sì, dal grande filone umanitario e democratico di Luigi Cocco Serreli ed Armando Businco e degli altri allora giovani barellieri attivi al porto di Palermo (e prossimi anch’essi all’iniziazione massonica) era giunto al Grande Oriente d’Italia e alla Fratellanza cagliaritana Virginio Condello. 




Fu lui a donare una Torah alla sua loggia, quella Torah che campeggiava sull’ara rituale accanto alla Bibbia concordata (interconfessionale) ed al Corano, e che un giorno venne sottratta da mani furtive, così ferendo sentimenti, memorie e valori fuori mercato, la religione e l’arte stessa dei costruttori, la Tradizione rituale dei liberi muratori. Un delitto di cui tutti hanno saputo, di cui tutti sanno – un delitto gemellato a quell’altro degli insulti pasticciati (e qui irripetibili) nel labaro del Capitolo Knight of Heredom, ma che come nelle perdizioni della mafia è restato e resta ancora coperto da neghittosità omertose non classificabili dai codici di una onesta e dinamica, vitale compresenza mirata integralmente e non ad altro che ad «edificare templi alla virtù e scavare oscure e profonde prigioni al vizio». Per la maturazione individuale e comunitaria, nella prospettiva comunionale.




Debbo dire di Virginio Condello, apostolo della cooperazione produttiva e distributiva isolana, protagonista dei migliori servizi della Caritas diocesana di Cagliari, giustinianeo di altissima dignità morale, oltre che intellettuale e professionale: Cappellano e poi Secondo Sorvegliante della loggia Heredom. Dei tesori della cultura ebraica era stato sempre appassionato e competentissimo studioso. Come Sabino Iusco, anche lui passò all’Oriente Eterno, alla Valle dei Giusti, figlio buono di Domineddio, nel 2013 del nostro umano calendario.

 



Aveva lavorato nella rete Conad, aveva diretto l’ufficio studi dell’Enaip, poi quello delle Acli e la sede sarda dell’Eurispes (realizzando il primo rapporto sulla qualità della vita in Sardegna), era stato collaboratore diretto del presidente della Regione Palomba e dell’arcivescovo Ottorino Pietro Alberti fondando, in ambito Caritas, il primo fondo antiusura attraverso il consorzio fra la diocesi di Cagliari ed un certo numero di banche, e poi anche dedicandosi al progetto Policoro teso all’inserimento professionalizzato dei giovani nel mondo aziendale. Aveva accompagnato il progetto sociale Marinando (appunto nel quartiere cittadino della Marina) e proiettato anche all’estero la sua ingegnosità dando vita a un’azienda agricola (avicola) a Salvador de Bahia, in Brasile, per dar lavoro a quei “ragazzi di strada” altrimenti a rischio crescente. Direttore provinciale di Confcooperative, aveva partecipato con contributi di studio di altissimo spessore a manifestazioni che nel volontariato e nella solidarietà sociale avevano le loro luci ispirative e la prova dell’efficacia realizzativa. Fortunatamente internet conserva alcuni di questi contributi, come quelli ripetutamente offerti a Radio Radicale oppure, da noi, al Centro Giovanile Domenicano di Selargius. Ne cito uno: su “I diritti umani: luci e ombre nel mondo attuale”.

Personalità nobile e preziosa di cui il Grande Oriente d’Italia nelle sue maturazioni cagliaritane avrebbe ben potuto vantarsi, oltre che giovarsi. Per il bene dell’Uomo, nella migliore visione ecumenica tante volte illustrata dai Gran Maestri, operò in campi diversi e complementari, civili e religiosi. Alla Caritas cagliaritana era giunto negli anni della guerra della ex Jugoslavia, ed anche con il suo aiuto progettuale e organizzativo l’Isola accolse circa 300 profughi, in specie piccoli con le loro madri, e tutti inserì gradualmente nelle nostre strutture sociali e lavorative. 

«Una persona preparata – così nel ricordo di don Marco Lai, direttore della Caritas cagliaritana, che i bosniaci in fuga accolse anche in casa, cedendo perfino il proprio letto –, di cultura non solo accademica ma anche ecclesiale e biblico-teologica, radicata nel sociale. Fu lui a sensibilizzare la Regione sull’importanza dell’accoglienza dei bosniaci permettendo la creazione di un gemellaggio tra Chiese sorelle». Poi, sempre in Caritas, la preziosa collaborazione con il Centro Studi, «grazie alla sua capacità di approfondire e comunicare la Dottrina sociale della Chiesa». Uomo di spiritualità, preghiera e visione sociale, sì visionario e pragmatico ad un tempo, positivo sempre. Sempre nuovo e sempre uguale a se stesso anche nei duri mesi della malattia, che «dopo un primo momento di sconcerto e turbamento – così sempre nella testimonianza di don Lai – ha vissuto con speranza cristiana, con una spiritualità che ci ha lasciato in eredità».    

Lo stesso idealismo, la stessa spinta morale nello stretto campo professionale. Molti hanno voluto rendergli testimonianza all’indomani della morte. I suoi collaboratori ed i dirigenti di Confcooperative: «Ha portato un po’della Caritas in Confcooperative, creando un rapporto di dialogo costante. Una persona generosa, disponibile, attenta al prossimo. Quando veniva al lavoro ci faceva sentire importanti. Un grande lavoratore: fino all’ultimo ha frequentato l’ufficio, gli dicevamo di riposarsi, di tenersi riguardato. Il suo impegno è stato fondamentale nel rilancio strategico di Confcooperative e della cooperazione regionale». E ancora: «Una persona brillante, con grandi caratteristiche anche di umiltà, senso civico oltre che senso cristiano. Era un “cultore della cultura”, amava approfondire le cose, come lo studio della Bibbia, anche sul campo. Il suo stesso ultimo lavoro, realizzato per il Dossier annuale della Caritas, evidenzia, soprattutto nella parte bibliografica, una ricerca costante, con disponibilità a mettere in discussione le proprie convinzioni»…

Questo l’uomo, il Fratello che donò alla sua loggia la Torah – il libro sacro, “luce” simbolica così intimamente associata, appunto nella simbologia muratoria, alla squadra (della rettitudine) e al compasso (della ingegnosità) che una certa ombra, ignara di sé e degli altri, un brutto giorno, profanando luogo e umanità, sottrasse all’utile di tutti, in una casa che mai avrebbe immaginato – ripenso al mio Vincenzo Racugno che quel solenne compendio aveva donato con infinita generosità – potesse diventare teatro di sconfortante oltraggio. 



Fonte: Gianfranco Murtas
RIPRODUZIONE RISERVATA ©

letto 1838 volte • piace a 0 persone0 commenti

Devi accedere per poter commentare.

Scrivi anche tu un articolo!

advertising
advertising
advertising