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Gianfranco Murtas

I Baccaredda/Bacaredda e gli altri con loro. Storie nostre cagliaritane (parte seconda)

di Gianfranco Murtas

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Esplorando l’albero genealogico, in salita e in discesa, dei Baccaredda ho cominciato a dar conto del secondo livello, accennando anche al terzo, degli ascendenti del nostro sindaco Ottone, vale a dire dei nonni paterni Gaetano e Maria Parma, il primo figlio a sua volta di Agostino e Caterina Manca, la seconda di origini liguri (e precisamente di Lavagna) senz’ulteriore aggiunta.

Dicendo di Gaetano e Maria Parma ho creduto bene di allargarmi ai collaterali di radice Baccaredda, vale a dire ai fratelli di Gaetano (e prozii paterni di Ottone): Rafaele coniugato con Efisia Marini e padre di don Agostino parroco di Sant’Eulalia e in gioventù convinto giobertiano, e don Antonio sacerdote già lui in quel di Genova e caduto nella epidemia colerica del 1855.

Un recupero imprevisto nella genealogia: Francesco Baccaredda

Autoassegnatomi ormai da un anno il corposo programma delle ricostruzioni sia generalmente ambientali che specificamente familiari utili infine a focalizzare la personalità e l’azione amministrativa e politica (ma direi anche letteraria, pubblicistica, giuridica e docente) di Ottone Bacaredda ho naturalmente condiviso certe mie acquisizioni con i tanti che amano la materia ricevendone a mia volta apprezzabili segnalazioni di particolari a me sfuggiti. E ciò, nonostante abbia trascorso, lungo più giorni, molte e molte ore in Archivio storico diocesano a compulsare i secolari Quinque libri delle quattro antiche parrocchie urbane – di Castello e delle tre appendici, in specie di Marina e Stampace – per scovare preziose tessere del mosaico in fieri, elementi validi per la ricomposizione, intanto, dell’albero genealogico. E certamente, da quei registri, molto ho trovato di finora ignoto e molto anche è venuto a conferma o a parziale correzione degli appunti memorialistici stesi dal prefetto Efisio Ottorino, figlio primogenito del sindaco, nella sua tardissima età (e precisamente nel 1964: appunti generosamente consegnatimi in copia dall’avv. Carlo Baccaredda Boy nipote di Efisio Ottorino e bisnipote di Ottone).

L’obiettivo era di inoltrarmi nel “gran mare” del Settecento, ma la parziale mancanza delle digitalizzazioni per la dispersione o distruzione di qualche registro originale (così purtroppo per Stampace ma anche per la Marina) o la cattiva scannerizzazione dato il degrado materiale della carta, o ancora l’illeggibilità grafica delle annotazioni (di battesimi, matrimoni e funerali) fissate, a mano stanca o distratta di parroci o delegati, ancora in castigliano a secolo avanzato, tutto questo ha per gran parte frustrato la ricerca ed il suo esito. Niente è però definitivo, e chissà che in un tempo futuro, dedicandovi non soltanto pochi ma… molti giorni, non possa altri raccogliere più di quanto non sia riuscito oggi io.

La condivisione dei risultati, sì parziali ma sostanziali, delle fatiche spese mi ha rimbalzato, dicevo, una segnalazione che debbo all’amico Stefano Lucchese. Si tratta di un riferimento a tale Francesco Baccaredda argentiere cagliaritano la cui attività risulta registrata dal 1787 (antivigilia della rivoluzione francese!) al 1823 e del quale ha trattato Alessandra Pasolini nel bel saggio “Argentieri sardi o attivi in Sardegna dal Medioevo all’Ottocento: notizie bibliografiche”, pubblicato nel n. 7 del biennio 1997-98 della sempre preziosa Biblioteca francescana sarda.

Pur in difetto di elementi anagrafici per i doverosi riscontri, tenderei senz’altro ad ascrivere l’artigiano cagliaritano alla famiglia da cui verrà, alla fine del 1848, Ottone Baccaredda (o Bacaredda come egli preferì sempre firmarsi, autoriformando il proprio cognome). Citando diversi studiosi che hanno firmato lavori particolari (M.G. Messina, L. Siddi, M.A. Serra, C. Galleri, oltreché se stessa), la Pasolini ricorda che Francesco Baccaredda fu membro del gremio degli argentieri almeno dal 1787 e suo clavario nel 1821 e 1823, socio lavoratore per alcuni anni di tale Giovanni Atzori e produttore, fra il molto altro – certificando col marchio «FB» - di «un elegante candeliere a tortiglione» per un privato e, nel 1808, destinato alla parrocchia di Mogorella, di un ostensorio, un calice ed una navicella; lo stesso marchio (stavolta isolato da quello del socio IA) compare «nella stauroteca di Orgosolo, in una corona imperiale della chiesa dei SS. Giorgio e Caterina di Cagliari, in una zuccheriera di collezione privata cagliaritana, nelle eleganti carteglorie della collezione del Banco di Sardegna. È presente, assieme allo stemma sabaudo – aggiunge ancora la Pasolini – in un calice di Pula, nella lampada di Decimoputzu, del 1797, con la croce sabauda coronata; si accompagna all’impronto MD dell’assaggiatore Melchiorre Durando nella teca eucaristica del duomo di Cagliari, nel diadema dell’Addolorata di Sinnai, nelle pissidi di S. Francesco di Oristano e del duomo di Cagliari». Una sua presenza di lavoro sembra altresì documentata presso l’antica parrocchiale di Serramanna (dato che qui egli venne liquidato di una qualche somma).

Ma dopo tanto scrupolo nel dettagliarne il profilo creativo o la produzione d’arte artigiana, bisognerebbe collocare il Francesco nell’albero familiare dei Baccaredda cagliaritani (e si ricordi che ancora sino alla fine dell’Ottocento l’attuale via Mazzini era intitolata proprio agli argentari o argentieri che dir si voglia. Lo ricorda (invero lamentandosi del cambio dell’intitolazione) lo stesso Dionigi Scano nel suo celebratissimo Forma Kalaris (che è del 1934): «In questa via, fino ad una ventina d’anni or sono, erano molte botteghe d’orefici e d’argentari che prima erano stabiliti dentro il Castello nel Carrer de los Plateros». «Carrer» o «Calle de los Plateros» individuabile, secondo lo stesso Scano, nella attuale via La Marmora: «Il che indica che gli argentari, prima di portar le loro botteghe fuori del Castello, erano stabiliti nella via che presentemente prende il nome dello insigne illustratore della Sardegna…».

Imprecisata l’epoca del trasferimento, chissà se Francesco sarà stato castellano o liapolese, ma certo è che, per il riferimento anagrafico che ne colloca l’età adulta e matura giusto nel passaggio fra Sette e Ottocento, egli potrebbe essere familiare – fratello o cugino – di Agostino, vale a dire del padre di Gaetano, nonno di Efisio, bisnonno di Ottone.

Importava introdurre qui questo nuovo elemento, collocando il nominativo in una linea genealogica che meriterà, come detto, di ricostruire – almeno a copertura dell’intero XVIII secolo – con ulteriori ricerche d’archivio.

E comunque, trattato dei nonni Baccaredda – Parma (Palma viene sempre registrata, per… banale svarione del curato, Maria che era stata battezzata al fonte del santuario della Beata Maria Vergine del Monte Carmelo in Lavagna presso Genova e morì a Cagliari nel settembre 1828, accompagnata ad uno dei cimiteri stampacini – Bonaria era ancora in preparazione – dal clero di Sant’Anna, la magnifica e monumentale parrocchiale fresca allora d’inaugurazione), dovevo scendere a dire dei genitori di Ottone, riservandomi di trattare nel presente articolo anche dei nonni materni, tanto dei Poma quanto dei Brouquier (con quanti loro collaterali s’affacciano nelle schede anagrafiche variamente messe su, così come nei memoriali domestici). Ripeto: il più di questo contributo è volto ad illustrare in modo particolare, e riunendo molto dell’inedito zampillato dalla ricerca, la personalità dei genitori del nostro sindaco: Efisio ed Efisia (quest’ultima, appunto, Poma Brouquier).

Efisio l’intendente

È nella città così ben descritta da Carlo Brundo (e per gli aspetti di vita economica, e tanto più di relazione con il territorio provinciale, da Carlo Baudi di Vesme) che, tre anni dopo la sconfitta napoleonica di Waterloo e la celebrazione del congresso di Vienna con tutti i suoi postulati di Santa Alleanza ed abbinata Trono-ed-Altare, nel buio della restaurazione savoiarda viene al mondo, a Stampace, Efisio, il primogenito di Maria Parma e Gaetano Baccaredda.


Dando spazio alle annotazioni autobiografiche da questi stese in età avanzata e ricapitolando l’intera sua vita – negli anni ’80 inoltrati dell’Ottocento – quasi un secolo dopo suo nipote Efisio Ottorino non manca di riprodurre nel quaderno delle maggiori memorie familiari quanto di lui anche scrissero, in occasione della morte, coloro che lo conobbero e in specie i redattori de Il popolo sardo, il quotidiano che dal 1893 si presentò sulla scena cagliaritana come concorrente de L’Unione Sarda ed espressione, contro la voce cocchiana rappresentata dal giornale di viale Umberto/Regina Margherita, dell’opinione piuttosto crispina, che ancor più s’irrobustirà quando nel 1895 (e per un anno circa) sarà assegnato alla sede di Cagliari il prefetto Gaetano Sciacca, fedelissimo del presidente del Consiglio e ministro dell’Interno.

Ecco cosa e come Efisio sr. scrive di se stesso, a fine carriera (si pensiona, dopo brutti malanni di salute, nel 1884 e in quello stesso anno pubblica, presso la romana Tipografia Metastasio, Cagliari ai miei tempi, che avrà una ristampa soltanto 92 anni dopo per iniziativa dell’editore Fozzi):

«Io mi mantenni col lavoro come importava la mia posizione. Tentai i possibili risparmi e i miei impegni osservai con rigore per conservare quel pochissimo che col correre del tempo formasse un gruzzolo per deporlo in mani del figlio. Ho soggezione a dire questo dopo essere stato assiduo faticatore! Abbiamo conservato una casa modesta in buona posizione dove io sono cresciuto e vivo ancora. Avrei voluto migliorare la proprietà se mi fosse stato possibile di guadagnare di più restando fermo nel proprio paese senza viaggiare di continuo come occorreva nel passato in località disagiate e con spese gravi per adempiere ai doveri impostimi. A forza di stenti si pervenne a non avere bisogno di nessuno, sempre orgoglioso di vivere come era possibile senza prestiti, neppure di un soldo: questo pure è un mio vanto. È a mia moglie che devo il più che ho potuto conservare: è opera sua. La buona volontà, il lavoro e l’amor proprio sono stati il mio gran capitale. Io ho lavorato assai ma mia moglie più di me: non sarei diventato vecchio senza di lei e nelle pene sofferte fisicamente e moralmente questa giustizia è dovuta a una donna savia e affettuosa. Se si pon mente a tutto non occorre di lagnarsi gran fatto: si è vissuto senza disdoro, non confusi con gli abietti e avendo una reputazione che il mio povero padre se ne orgoglierebbe. Il figlio ha mantenuto le sue orme ed è ciò che più mi è caro. Io avrei potuto fare una carriera più pronta ed anche forse più gradita ma non ci fu maluccio se lascio il posto, dopo 43 anni di onorevoli servizi, d’intendente di finanza, con missioni laboriose e difficili, adempiendo un dovere lungo e scabroso, nominato dal governo, io che fui riputato repubblicano, rispettato ed anche stimato, nonostante la carica piuttosto odiosa, nella provincia in cui ebbi a governare finanziariamente, cosicché mi vidi fregiato di onorificenze e di lettere onorevoli, che posso chiamare guadagnate col lavoro. Vi è d’aggiungere qualche cosa di più: come funzionario feci quel poco che poteva ma quel di più che ho fatto l’ho nella mia coscienza: il sacrificarsi è una mania ed i miei capi e i miei medici hanno detto abbastanza. Le troppe cure, il troppo lavoro hanno pregiudicato la mia salute: oh! non se ne parli più del fatto. Ma come cittadino pel troppo affetto al mio paese io corsi il pericolo di perdere tutto, perché l’amor proprio mi avrebbe obbligato non di amare onori ma di odiare l’esistenza… Quello che mi occorse di mettere insieme l’ho fatto. Tutto tutto certo di no ma deve bastarmi il già scritto…».

Circa le simpatie politiche “a sinistra” di Efisio Baccaredda potrebbe farsi riferimento alle conclusioni del suo libro (di cui dirò meglio più in là) La Sardegna sotto il reggimento del Piemonte e dell’Italia. Tanto più quando, nelle conclusioni, egli scrive: «Dal governo italiano ha già la Sardegna avuto qualche soddisfazione, e specialmente dal partito liberale subentrato a quello della stiticheria. I progressisti, avendo maggior fede nell’avvenire del paese, e spirito più generoso e meno parziale, non sono tanto restii nell’estendere alle regioni più travagliate e ingiustamente trascurate della nazione, l’influenza vivificatrice di un provvido governo. Perciò è legittimo il desiderio che essi stiano lungamente al potere, e miglior fortuna nello svolgimento del loro programma, il quale è veramente liberale».

Riprendo dagli appunti biografici/autobiografici: «La vecchiaia è il male più grande che esista, quel male progressivo che non cessa che colla morte. Colla rottura della mia salute non son potuto rimanere integro: quindi io devo morire prima di mia moglie, essa che è rimasta sempre sana. Di ciò ne godo per la ragione che se rimanessi solo senza la vecchia mia compagna che mi ha sorretto come si può sorreggere una persona debole che ha bisogno di mille cure, senza delle quali soffrirei assai fisicamente e per necessità anche moralmente. Per me sarebbe insoffribile nell’età in cui avanzo rapidamente, senza mia moglie.

«Son nato sano e sanissima è la mia natura; ma pure coll’andar del tempo son venuti incomodi che offendono la salute. A Cosenza in età matura fui attaccato dal colera e nel procinto di morire».

Integra, sul punto, la memoria scritta del nonno il prefetto Efisio Ottorino. Lo fa richiamando un’altra severa affezione giunta al vecchio a Siena, nel 1884, pochi mesi prima dell’andata in quiescenza. Era allora ospite dei nonni il nipote neppure decenne, e di tanto – di un «maledetto embolo» e delle affannose cure – riporta il ricordo.

«Ora – conclude l’anziano funzionario della Intendenza di finanza – mi mantengo più di quello che mi è lecito e mi lagno non d’altro che del poco buon uso delle gambe, io che sono stato sempre un camminatore esimio e resistente. L’affezione che per fortuna godiamo dei parenti non cesserà, non dubito, fino alla fine dei giorni.

«A riguardo del mio figlio non abbiamo che a lodarci in tutto e per tutto: io non sono avvezzo a fare testimonianze d’affetto: quel che sento è assai più di quello che è lecito dire. L’amore è rimasto tra padre e figlio ed io non so esprimermi. Sono stato ben fortunato di poter contemplare un figlio che si fa onore per qualunque rispetto si voglia considerare. I padri, si sa, sogliono essere vanitosi ma qui non è il caso».

Il pensiero rivolto al figlio Ottone – forse già eletto sindaco o forse non ancora, forse ancora (dopo il 1886-1887) soltanto consigliere comunale e provinciale, forse ancora (dal 1887) soltanto presidente dell’ospedale civile, forse ancora (dal 1882-83) soltanto docente universitario e però già da un lustro e più avvocato e sempre novelliere e poeta – è quello finale, quasi ad alludere ad un gradito, e certo ineluttabile, passaggio di testimone…

Scrive Efisio Ottorino: «Collocato a riposo nel dicembre di quell’anno [1884], il nonno con la nonna Efisia si stabilirono a Cagliari nell’antica casa Baccaredda in piazza Jenne. Egli si riprese bene in salute e visse ancora molti anni nella città nativa e dove morì, fra il grande compianto, il 5 giugno 1894».

In mortem di un galantuomo impiegato statale

Ha gusto, è evidente, Efisio Ottorino di intrattenersi sulla figura del nonno da cui ha ereditato il primo nome e cui è legato da un affetto intenso. Sembra tornare a lui, a giusto sessant’anni dalla morte, con spirito devoto, intanto raccogliendo le testimonianze che di quel cagliaritano integro di cuore e di mente resero i contemporanei quando lasciò Cagliari e la vita. Scrive così:

«Nacque in Cagliari il 13 ottobre 1818 e ivi (aveva sposato il 5 aprile 1845 Poma Efisia di Giuseppe) morì il 5 giugno 1894. Il necrologio di lui, pubblicato nel numero 165 del 5 giugno 1894 del “Popolo Sardo” (Cagliari) così suona: “L’uomo egregio, che pochi giorni or sono, col suo nobile aspetto austero e bonario allo stesso tempo, riempiva di gioia il cuore dei suoi cari e dei suoi amici, e che la cittadinanza tutta, estimatrice delle virtù morali e civili, vedeva con singolare compiacenza, nonostante l’età avanzata ed i fisici malori, resistere ancora alla fatal legge degli uomini, spirava stamane all’alba, dopo tre soli giorni di sofferenze, circondato dalla pietà e dalla venerazione dei congiunti e dal rispetto degli amici, spirava come il giusto, ricongiungendosi al suo creatore.

«“I particolari rapporti di amicizia che ci legano al figlio dell’estinto, che il popolare suffragio, e non contrastato dai buoni, innalzò alla prima magistratura della città, non possono né devono in questo momento doloroso soffocare i moti del nostro cuore ed impedirci di offrire ai lettori un cenno speciale che ricordi il cittadino testé sceso nella tomba.

«“Sentiamo d’informarci alla verità piuttosto che ad un dovere di convenienza, sentiamo d’interpretare i sentimenti di tutti e di scrivere sotto l’usbergo di crederci puri.

«“Con Efisio Baccaredda si è spento un padre di famiglia esemplare, un ottimo ed onesto funzionario, un cittadino virtuoso e colto.

«“Come d’amore fu tutta quanta l’opera sua dal giorno che la mente s’aperse al raggio del cielo del natio paese, all’amore s’ispirò in quell’atto della vita, che, pure essendo l’applicazione di una legge fisica, è destinato in ugual grado a sopperire al bisogno di creare attorno a noi come un’atmosfera di affetti altruistici, continuatrice di quelli che per fatalità di cose vengono a mancare, all’amore s’ispirò in tutti i rapporti, che s’aggrupparono attorno a quella società, che, con frase antica e sempre nuova, fu appellata seminario della repubblica.

«“Efisio Baccaredda fu tipo di padre di famiglia, perché affatto fu per lui patrimonio sacro, al quale con modestia, ma con virtù antica, dedicò la vita sua: perché tenne sempre di mira l’attributo più bello della domestica società, che quando vi si mostra, la trasfigura: il dovere. E del buon seme gittato, ne siam tutti testimoni, raccolti buoni e copiosi frutti.

«“Di Efisio Baccaredda, come funzionario dello Stato, possiamo dire che, entrato in carriera giovane, forte ed ardito, pieno d’ingegno ed intelligenza, tutti presagirono in lui un brillante avvenire, perché alle altre preclare virtù accoppiava una ferrea volontà di lavoro.

«“Né i pronostici andarono falliti. Nell’adempimento dei suoi doveri trovò tali attrattive, che gli fecero dimenticare se stesso.

«“Il lavoro fu la sua sirena, e dispregiatamente fatale.

«“E nell’amministrazione finanziaria conseguì una posizione elevata (raggiungendo il posto di intendente di finanza). Superiori e dipendenti possono attestare che in lui emersero in sommo grado riunite le qualità del funzionario e che senza contrasto lo resero amato e riverito.

«“Per il volgere degli anni, non sarà certo spento ancora nella città nostra il ricordo del tempo, in cui si trovò a dirigere i servizi finanziari della provincia, e tutti ne piangeranno la morte, perché in tutti gli atti, pur essendo stato rigido osservatore dei propri doveri, e non poche volte dolorosi, trasfuse tutta la dolce severità della sua anima buona.

«“Come cittadino fu animato sempre da quell’ardente amor di patria di chi, più dell’infanzia si può dire, ne precorse col sentimento e col pensiero le aspirazioni ed il progetto.

«“Per la Sardegna e per Cagliari in specie ebbe una predilezione tutta propria, che le frequenti e lunghe lontananze per ragione d’ufficio, anziché indebolire, valsero a fortificare.

«“E quando inesorabil morbo manifestatosi già da molti anni addietro, e al quale disgraziatamente ha dovuto ora soccombere lo costrinse con sommo rammarico ad abbandonare l’ufficio, in cui avrebbe potuto ottenere più alti e meritati onori, qua, nella nostra diletta città, finì per stabilirsi, ad essa dedicando il meglio dell’intelligenza e delle forze che ancora gli rimanevano.

«“Del suo amore singolare per l’isola e per la città natia Efisio Baccaredda lasciò prova non dubbia coi suoi due libri: “La Sardegna sotto il reggimento del Piemonte e dell’Italia” e “Cagliari ai miei tempi”. Questi lavori pubblicati sotto il nome di “Emilio Bonfis”, novella prova della modestia dell’uomo, di cui oggi lamentiamo la perdita, furono già giudicati con molto favore, certo non sospetto, perché ne era sconosciuto l’autore: e se attestano del verace amor di patria dell’estinto, dell’interesse con cui ne studiò il passato e ne desiderò l’avvenire, valgono a mettere in chiaro le pronunziate attitudini, che egli sortì da natura per la coltura delle letture, comuni del resto ad altri membri di sua famiglia.

«“Noi non possiamo oggi parlarne di proposito; ma mancheremmo al nostro dovere se non esprimessimo la convinzione che tali libri, misti di reminiscenze utili e di speranze generose, sono destinati a vivere perché tutti potranno attingervi ammaestramenti vari e nobili per illustrare un periodo di storia del nostro paese e per provvedere ai bisogni del suo migliore benessere.

«“Intanto per richiamare alla memoria dei nostri concittadini gl’intendimenti dello scrittore valgano più che le nostre parole quelle che si leggono nel preambolo al primo dei suaccennati libri e che riconfermano il carattere del cittadino, che fra breve dormirà sotterra.

«“-Nell’isola sarda io passai diversi anni della non tanto breve esistenza, or fanciullo, or nell’età delle illusioni e ora in quella dei disinganni. Nessuno, forse, o pochi si ricorderanno di me; ma il mio cuore batte ancora come ha battuto sempre per quella terra sventurata perché vi ho trascorsi giorni ineffabili di consolazioni e di amarezze e che non si dimenticano mai. Non potrà quindi sembrare stranezza che io le mandi da lontano, impotente a far di meglio, un saluto riverente quanto affettuoso con questo mio scritto-.

«“A nome dunque degli amici, a nome della città tutta, salutiamo riverenti la salma di Efisio Baccaredda. Alla signora virtuosissima, che aveva scelto per compagna nella vita, al degnissimo figlio, ai congiunti esprimiamo il nostro più vivo e sentito compianto e possa questo, per quanto sarà possibile, lenire il profondo cordoglio di tutti. E tutti conforti il pensiero che la nobile figura di Efisio Baccaredda resterà a lungo scolpita nel cuore della città; il pensiero degli esempi di virtù, degna d’interessi, che, nelle diverse manifestazioni della vita, egli ci ha lasciato”». Così Il popolo sardo.

Fra i numerosi necrologi merita una segnalazione quello de L’Illustrazione Sarda, periodico cagliaritano “di scienze, lettere ed arti”: «Anche l’Illustrazione depone un fiore sulla tomba dell’egregio cittadino scomparso dalla scena del mondo».


Da “L’Unione Sarda” e dall’avv. Andrea Cao Cugia

Nel 1894 L’Unione Sarda era giornale fieramente avversario di Ottone Bacaredda e della sua amministrazione, oltreché evidentemente, e fin da subito, del suo partito. Affidata alla direzione del giovanissimo Marcello Vinelli, coccortiano di ferro (ma nel 1920-1921 egli, con gli altri cocchiani, sarà presente nel listone che riporta alla sindacatura municipale il “nemico” di un tempo), la redazione, appena trasferita da via Monache Cappuccine a palazzo Marini del viale Umberto (poi Regina Margherita), non perdeva occasione per attaccare e criticare la giunta…. ora per il corrente della cronaca ora per lo strutturale dei bilanci e delle grandi scelte magari circa le opere pubbliche.

Naturalmente la scomparsa del padre del sindaco dileguò, per un giorno, ogni malanimo ed anche ogni legittima ragione di contrasto, e le parole scelte per il trafiletto del notiziario cittadino rivelano chiaramente questo atteggiamento civile. Né minor significato ha lo spazio riservato al compianto espresso a nome della giunta provinciale amministrativa dall’avv. Andrea Cao Cugia che de L’Unione era stato il primo direttore.

Naturalmente anche L’Unione Sarda celebra il padre del (da essa non amato) sindaco cittadino. Il trafiletto non è ricompreso, chissà per quale ragione, nel fascicolo familiare, ma pure merita di essere citato. Eccone il breve testo uscito il 5 giugno ed anticipato dall’annuncio funebre (si osservi qui come il cognome dell’estinto sia pareggiato a quello conosciuto del figlio sindaco, con una sola c): «Apprendiamo con vivo sentimento di dolore la notizia della morte del cav. Efisio Bacaredda, intendente di finanza a riposo, padre venerato dell’attuale sindaco di Cagliari.

«Il Bacaredda, oltre che distinto funzionario ed ottimo padre di famiglia, fu scrittore geniale ed occupò con lode, dopo il suo collocamento a riposo, qualche carica pubblica.

«Al figlio desolato, alla famiglia tutta noi porgiamo le espressioni della nostra sincera partecipazione al lutto che li ha colpiti.

«Nell’odierna seduta della giunta amministrativa, il cav. Andrea Cao Cugia membro elettivo, propose che la giunta esprimesse alla famiglia e al figlio del compianto comm. Bacaredda, già membro della giunta amministrativa la condoglianze di quel consesso pel lutto che li ha colpiti e la giunta deliberava che il presidente si facesse interprete di questi sentimenti per mezzo di lettera ed incaricava il cav. Cao Cugia di rappresentarla ai funerali».

Va in proposito ricordato che la giunta provinciale amministrativa, presieduta d’ufficio dal prefetto o dal consigliere delegato, comprendeva nel 1894, insieme con l’avv. Cao Cugia anche l’arch. Pietro Atzara, il neg. Agostino Marini, l’avv. Giuseppe Siotto ed i consiglieri di prefettura Vittorio Angius e Mario Manno, oltre ai supplenti avv. Ranieri Ugo ed Antonio Atzeri.

Ecco la cronaca delle esequie pubbliche con l’immancabile rappresentazione dell’intero gotha delle autorità e notabilità cittadine (titolo “I funerali del comm. Bacaredda”):

«Imponenti riuscirono ieri sera i funerali del compianto comm. Bacaredda, intendente di Finanza in ritiro.

«Una folla immensa s’accalcava nei pressi dell’abitazione del defunto dove si formò il numeroso corteo.

«Precedevano gli istituti di beneficenza e i pii stabilimenti. Venivano in seguito la banda cittadina e due plotoni delle guardie municipali sotto il comando del comandante signor Petretto.

«Il carro funebre di prima classe era coperto di ricchissime corone. Reggevano i cordoni il cav. De Strobel, direttore delle Dogane, il cav. Lasagna, direttore del Catasto, il prof. Picinelli, rappresentante del Municipio, il cav. Cao Cugia, rappresentante la Giunta amministrativa, il cav. Splendore, intendente di Finanza, il cav. Rossi Doria, intendente di Finanza a riposo, e il cav. Baffico e il cav. Manca Sciacca dei reduci.

«Ai lati del carro poi si trovarono gli inservienti del Municipio, della R. Università e della Provincia.

«Seguivano il feretro: il Prefetto della Provincia comm. Bacco col segretario di Gabinetto avv. Calvia, il generale comandante dell’isola comm. Ghersi, il rettore dell’Università cav. Fenoglio, il presidente della Deputazione provinciale cav. E. Boi, il consigliere delegato cav. Giacomelli, il procuratore del re cav. Cannas, il R. Provveditore agli studi cav. Lizio Bruno, l’ingegnere capo del Genio civile De Stefanis, i consiglieri d’appello cav. Nieddu e cav. Cao Pinna, il direttore della manifattura dei tabacchi cav. Pastore, l’ispettore di pubblica sicurezza cav. Cervis, il direttore della colonia penale di San Bartolomeo cav. Sampò, il maggiore del Distretto cav. Castellari, il vice presidente della Camera di commercio cav. Pellas, il negoziante Canepa presidente della fratellanza commerciale, il cav. Marcolini presidente dell’Ospizio Carlo Felice, il direttore del Banco di Napoli cav. De Simone, molti assessori e consiglieri comunali, membri della Deputazione provinciale, membri della Giunta provinciale amministrativa, professori della R. Università e degli altri istituti, impiegati municipali, dell’intendenza e degli altri uffici governativi, una rappresentanza del circolo universitario, oltre moltissima folla.

«Chiudeva il corteo un drappello dei pompieri sotto il comando del sergente sig. Bottero.

«Facevano coda al corteo undici vetture di gala.

«Al Cimitero parlarono il cav. Cao Cugia e il prof. Picinelli. Ecco il discorso del cav. Cao Cugia:

«Signori! Circondiamo reverenti questa bara, e rendiamo all’uomo di cui rinchiude le spoglie l’omaggio dovutogli per virtù cittadine fruttuose di nobili esempi. A tale ufficio vi chiamo in nome della giunta amministrativa, che si onora di aver potuto annoverare fra i suoi membri più degni il comm. Efisio Bacaredda.

«Egli ha compiuto ieri con placido tramonto sua giornata serena e limpida, dall’alba al meriggio, e fino all’ora estrema, come serena fu l’anima sua e limpido per onesti affetti il suo cuore.

«Di lui può ripetersi col Petrarca che mai bramò cosa alcuna contro il dovere, non per timore di pena o vaghezza di lode e di premio, ma per soddisfare alla propria coscienza. Ma premio non cercato egli ottenne, poiché il sentimento del dovere costantemente adempito rese beata la sua vita fino alla tarda età, raggiunta senza che gli venisse meno la cortese affabilità o in lui s’affievolisse quella genialità di spirito che rendeva più che gradita, preziosa la sua dimestichezza ed accresciutagli la stima procacciatasi colle sue virtù.

«È molto l’esser ammirato, ma assai più l’esser amato. E questa sorte invidiata toccò al comm. Bacaredda che i concittadini amarono in vita e ricorderanno con memore affetto come colui che i suoi ozi laboriosi dedicò ad illustrare con penna arguta la sua città natale, a promuovere il progresso materiale e morale.

«Testimonio ed arra di questo affetto è il solenne rimpianto cui assistiamo in quest’ora ed in questo loco. E se pure un sentimento di riguardo e l’affettuosa simpatia verso il suo figliolo che presiede alla nostra città come primo magistrato concorre a rendere più imponente la manifestazione di questo rimpianto, ciò ridonda ad onore del defunto, perché degli onori conseguiti dai figli gran parte è dovuta ai loro genitori, che ad essi furono maestri e guida col precetto e coll’esempio.

«Io mi inchino dinanzi alla bara del comm. Efisio Baccaredda ed addito il suo esempio, augurando a Cagliari nostra cittadini che come lui dedichino al suo lustro e decoro tutte le forze dell’intelletto e del cuore».


Certo colpisce la carica oratoria e l’enfasi delle modalità con cui, come per qualsiasi altro notabile del suo tempo, la stampa e le rappresentanze istituzionali, espressero il loro lutto: colpisce tanto più quando le si ponga a confronto con le riflessioni che lo stesso anziano intendente aveva messo su carta, ripensando con evidente e insuperata tristezza ad alcuni… negletti decessi registrati nella sua famiglia ed anche ad una ritualità sociale che pareva soffocare e contraddire, tutte le volte, ogni più intimo sentimento:

«Dopo morto – per il seppellimento non è mestieri la processione con tutta quella turba di gente niente affatto edificante… Quando il povero morto è portato via, egli non ha più bisogno di amici, egli che non vede né sente.

«Che gioverebbero i fiori per lui che non hanno più fragranza? Ma più o meno si esige pompa nella processione benché trattasi di spettacolo di poca durata e talvolta anche un tantino commovente salvo poi più freddi e indifferenti. Non si tergono le lacrime ma si vede che trattasi della fine di una povera esistenza per quanto possa apparire cara o rispettabile. Si suole d’ordinario finire coll’abbandono, senza aspettare un momento, alzando le spalle e ridendovi dopo senza rincrescimento, e così sparisce l’uomo come esige la sapiente natura!

«Ridurre la processione è talvolta una necessità od una semplice convenienza perché per vanità o per pregiudizio sogliono apparire quello che esse non sono. Il ricco si ingonfa negli apparecchi nemici di un momento e ciò è nel suo diritto come pure è diritto della Chiesa di vivere col suo uffizio. Sia comunque i superstiti faranno il dover loro, che è quello di non provocar scandalo, di non maledire la rinomanza della famiglia. Si sa, il mondo si pascola di apparenze. In quanto a me dico che facciano tutto quello che vogliono dacché non posso più intromettermi col mio volere, non esistendo più la mia individualità. Però mi sarebbe assai gradito che fossero rispettate le mie idee ed anche i miei errori. A mia moglie, a mio figlio ripeterò un’altra volta sola: potessi seppellire senza processione alcuna: basterà di portarmi via presto presto come chiede l’igiene e la legge: un morto puzza sempre un poco essendo essere in dissoluzione. Dunque addio per sempre».

Nelle stesse pagine, appunto, qualche mesto ricordo di congedi domestici: «Le donne della famiglia morirono dopo aver lasciato molti figli. La prima che soccombette fu la cara Adelaide, una donna che poteva dirsi una vergine per la bontà eccezionale e per l’aspetto amabile.

«Soccombette l’altra più tardi, Gaetana, maritata Ravot, di molto spirito e con idee fantastiche: ma era travagliata da numerosa famiglia che amava assai ed il marito ebbe sempre cura della consorte sino alla fine e ciò non è poco merito»...

Finezze sentimentali di un intendente, di un anziano cagliaritano che la professione ha trasformato in una trottola, fra provincia e provincia dell’Italia del nord, del centro e del sud, e della Sardegna stessa. «Piace ricordare – annota il nipote forse identificandosi in lui – che Efisio Baccaredda ebbe, fra le altre virtù, quella di amare la musica. Fu assiduo alla “prima” di ogni opera lirica di sommi musicisti: ad es. alla prima della storica rappresentazione dell’“Otello” di Verdi».

Focus fratelli-sorelle

Relazionando, nel precedente contributo, su Gaetano Baccaredda e Maria Parma ho naturalmente dato conto dei loro figli, partendo appunto da Efisio il primogenito. Varrà qui, ancorché in breve rassegna, tornare sul punto datando e collocando secondo quanto riferito dai Quinque libri parrocchiali, regolarmente firmati (per quarant’anni!) dal parroco, o presidente-parroco della Collegiata stampacina, e prossimo vicario generale (negli anni dell’esilio punitivo dell’arcivescovo Marongiu-Nurra) don Giovanni Antonio Oppo: quel monsignore che il severo papà Gaetano frequentemente imponeva al figlio Efisio come confessore negli spazi immensi della nuova chiesa innalzata a dar maggior prestigio al singolare affollamento di edicole stradali e soprattutto navate e navatelle (taluna con storico ipogeo) della zona: fra Santa Chiara e, più prossima ancora, San Giorgio e Santa Restituta e Sant’Efisio e anche San Michele…

Ecco le date del battesimo (pressoché sempre coincidenti con quelle della nascita) dei piccoli Baccaredda:

il 13 ottobre 1818 Efisio Maria Gaetano (il secondo e terzo nome sono quelli dei genitori!), con padrino quel dottor-professor Efisio Nonnis sanitario illustre dell’ospedale Sant’Antonio (e poi del Civile) e docente autorevole d’arte chirurgica della regia università. (In quanto al secondo padrino – dicesi madrina – tanto in questo caso come negli altri e in generale, l’ufficio era commesso dalla Chiesa alla levatrice di turno);

l’11 dicembre 1820 Ignazio Antonino Tomaso, bimbo sfortunato che chiuderà appena decenne la sua vita;

il 16 gennaio 1823 Gaetana Efisia Maria che, come accennato, sposerà Pietro Ravot e sarà madre di numerosa prole;

il 2 dicembre 1824 (ma con singolare replica il 22 febbraio 1825!) Antonio Francesco Matteo, destinato a far famiglia con una Ferreri (e discreta carriera pubblica) nel continente;

il 13 dicembre 1826 Adelaide, con padrino tale Efisio Manunta, scomparsa – così sembra (dagli appunti familiari) – in età ancora giovanile.

Come già avvertito, appena due anni dopo l’ultimo parto, da ritenersi particolarmente doloroso, Maria Parma sposa di Gaetano e madre di tanta prole, cederà anche lei finendo ancora giovane – forse trentenne appena – in una bara. Fu allora fatica aggiuntiva per Gaetano, certamente con qualche soccorso della più larga famiglia, quella di crescere cinque figli divenuti orfani tanto presto…

Curiosità per curiosità...

In altra circostanza ho fatto esplicito riferimento alla carriera di Efisio Baccaredda così come viene documentata dal Calendario del Regno (s’intende del Regno di Sardegna, dagli anni ’40 all’intero decennio successivo) e dall’Annuario del Ministero delle Finanze nel periodo post-unitario. Val bene comunque ripetere la sequenza (che pur qualche vuoto dovrà presentare per dispersione delle registrazioni): con la qualifica di “scrivano presso la sezione Magistrato d’appello”, a Sassari, certamente nel biennio 1849-1850 e forse anche nell’anno successivo; qualificato “verificatore Direzione Nizza” nel biennio 1854-1855, a Ventimiglia; con nuova qualifica di “segretario Amministrazione delle contribuzioni dirette”, ad Alessandria, nel biennio 1856-1857; con sedi successive, dal 1862 (o forse 1861) al biennio 1865-1866, a Vercelli prima (ancora come segretario Amministrazione delle contribuzioni dirette), ed a Sassari poi (primo segretario di II classe delle Finanze), nonché a Cosenza.

Sia consentita qui una breve digressione. Di Sassari l’anziano Baccaredda mostra una ottima conoscenza critica, così come, peraltro, della sua Cagliari. Proprio nel già citato La Sardegna sotto il reggimento del Piemonte e dell’Italia vi sono alcuni capitoli, quelli centrali, che stabilendo un inevitabile confronto fra i due maggiori centri urbani dell’Isola non mancano di fornirne anche una approfondita disanima delle dinamiche storiche, sociali, urbanistiche ed amministrative. L’autore va in polemica con Carlo Corbetta, un visitatore fra i tanti che, dal continente e/o dall’estero, sono venuti in Sardegna, lungo un secolo intero, per raccontarla di dritto e di rovescio, naturalmente secondo un’ottima personalissima. Sarà Lawrence l’ultimo della serie con Ottone Bacaredda ancora in vita, nel 1921…

Dunque Corbetta ha scritto due libroni titolati Sardegna e Corsica. Nel primo il focus è stato tutto sardo, e le descrizioni sono andate alle cose, ai fenomeni, ai costumi, e nella seconda parte ai luoghi, ai centri in cui egli è entrato e di cui si è fatto una certa idea: Logudoro, La Crucca, La Nurra, Bocche di Bonifacio, L’Asinara, Castel Sardo, Porto Torres, Sassari, Sorso, Alghero, Grotte… così i titoli del capitolo I appunto della seconda parte. Cagliari è descritta al capitolo IV. Non può dirsi che la visita sia superficiale, fatta soltanto per scriverne magari con sufficienza, ma Baccaredda padre, prendendo lui la penna cinque anni dopo – lo scarto è fra il 1877 e il 1882 – non apprezza (denunciando «strafalcioni») e comunque… fa le pulci mettendo in bisticcio l’ultimo arrivato un po’ con tutti, ora con il professor Zanelli ora con padre Bresciani... (Sarebbe gustosissima una lettura parallela dei due testi).

Dal 1867 al 1871 ebbe la fortuna, Efisio Baccaredda di essere assegnato alla sua città, e fu una fortuna anche per suo figlio che a Cagliari poté frequentare i quattro anni del corso di giurisprudenza e laurearsi. Dal 1872 riprese la migrazione, addolcita anche da una più significativa promozione: a Genova si trattenne fino al 1876 (primo segretario di I classe delle Finanze), ad Avellino fino al 1879 (intendente di 4.a classe), a Siena dal 1880 al 1883 o forse al malandato 1884 (intendente di 3.a classe, e dal 1881 di 2.a classe).

Naturalmente di ogni permanenza in un capoluogo di provincia, dal Piemonte alla Calabria, passando per la Liguria e la Toscana, la Campania e la Sardegna, potrebbe dirsi qualcosa. Mi limito qui ad una pur marginale curiosità della prima assegnazione sassarese. Allora era presidente della sezione del “Magistrato d’appello in Sardegna” – questo il titolo dell’ufficio – il cav. Giovanni Caboni, nove erano i consiglieri, tre i sostituti dell’avvocato fiscale generale ed altrettanti quelli dell’avvocato dei poveri e così del procuratore dei poveri. Ebbene, nel novero dei tanti magistrati applicati al comparto amministrativo/giurisdizionale (e più di taluno riconducibile alle più note famiglie isolane, si pensi soltanto a Pasquale Tola) non ne mancarono alcuni da potersi ricollegare un domani alle vicende pubbliche di Ottone Bacaredda: Domenico Picinelli era il padre dell’avv. Giuseppe, che fu il bacareddiano che avvicendò il Nostro allorché si decise a dimettersi dalla sindacatura per farsi deputato al Parlamento (e sindaco fu, Picinelli, dal 1900 al 1905), mentre Carlo Marengo era colui che si mostrò munifico benefattore del nuovo ospedale civile di Cagliari e che Ottone Bacaredda presidente del nosocomio, prima d’avviarsi alla sindacatura, onorò inaugurando una magnifica statua celebrativa dello stabilimento stampacino.

Curiosità per curiosità… s’aggiunga che nel supplemento al n. 45 del 24 febbraio 1885 la Gazzetta Ufficiale riferisce della liquidazione di pensione agli impiegati appena andati in quiescenza: 4.800 lire toccarono ad Efisio Baccaredda.

Due libri

Di lui rimangono, s’è detto, due opere andate a stampa: La Sardegna sotto il reggimento del Piemonte e dell’Italia, uscita nel 1882 (con recensione, fra l’altro, in Il presente della Sardegna, n. 16/1882), e Cagliari ai miei tempi, di due anni dopo, «contenente – così ha scritto Nicola Valle nel volume del cinquantenario bacareddiano – una vera miniera di notizie e di minuti particolari di cui generalmente la Storia (con iniziale maiuscola) non tiene conto, e tuttavia determinanti della vita, dell’evoluzione, del benessere e delle deficienze della Cagliari di quegli anni e ne hanno condizionato il progresso: vi si parla del carattere, delle virtù domestiche, delle famiglie più in vista, delle abitudini, della edilizia, dei monumenti, dei problemi economici ed urbanistici e persino della piccola politica municipale con i suoi risvolti ed i suoi retroscena».

L’opera è stata oggetto di attenzioni anche in tempi relativamente recenti. Valgano i richiami che ne fa Franco Masala nel suo Architettura dall’Unità alla fine del ’900, all’interno della collana “Storia dell’arte in Sardegna” edita da Ilisso nel 2001: «Nel 1884 Emilio Bonfis, pseudonimo di Efisio Bacaredda, padre del futuro sindaco di Cagliari Ottone, sottolineava lo stacco evidente tra il rinnovamento urbano impresso a metà Ottocento da Gaetano Cima con i suoi molteplici interventi, soprattutto nel Castello e nella Marina, e l’edilizia corrente alla ricerca di un decoro borghese che comincerà a delinearsi nel decennio finale del secolo, anche in concomitanza con il piano regolatore di Giuseppe Costa (1890-91), che si occupava per la prima volta dell’espansione urbana. Sull’allineamento lungo le nuove strade, in genere alberate, che seguivano il vecchio tracciato delle mura della Marina, ormai demolite, o nel viale Trieste, cominciarono a sorgere alcuni palazzi…».

E peraltro – è ancora Masala a rilevarlo – Bacaredda (Baccaredda) sr. ben aveva colto la propensione ai tempi lunghi circa la decisioni politiche dello sviluppo: «Il periodo ordinario di incubazione per ogni opera, anche la meno ardua e la più urgente, – questo scriveva Emilio Bonfis – è per Cagliari affare cui spesso non basta la vita media di un uomo. Dal germe, o idea madre, allo sviluppo di essa, occorre almeno un corso di trenta o quaranta anni».

È mosso da un sentimento tutto cagliaritano, Emilio Bonfis, ma non concepisce la città capitale senza il territorio vasto e vario che l’accompagna e con essa relaziona, pagando i giudizi troppo spesso sbrigativi dei visitatori del continente. Proprio in La Sardegna sotto il reggimento del Piemonte e dell’Italia, e precisamente nel capitoletto titolato “I touristes italiani in Sardegna”, scrive con un fare scultoreo che la sottile ironia ancor più evidenzia: «A qualche italiano venne il gusto di fare un viaggio da touriste in Sardegna. In men che detto fatto, il viaggio è compiuto. E come se di sciocchezze, di sproloqui e di impertinenze non se ne fossero dette e scritte a sazietà a danno di quella povera isola, si ricorre subito a “far gemere i torchi”, per non defraudare l’universo delle loro scoperte ardite, delle impressioni peregrine raccolte e dei profondi studi fatti, lì per lì, sulle ciance oziose e insulse, raccattate su pei trivi, o rovigliate fetidamente in qualche vecchio lunario, ove si discorre dei sardi, da taluno che li conosce come può conoscere gli gnomi» (pp. 52-53).

È di rilievo, però – mi riferisco sempre a La Sardegna… -, anche il preambolo un cui breve estratto era rientrato nella nota biografica, sopra riportata, de Il popolo sardo: «Spero che mi sarà perdonato d’essermi posto a scrivere sulla Sardegna, dacché altra ragione non mi vi ha indotto, che il desiderio di fare una buona azione.

«Nell’isola sarda io vi passai diversi anni della mia non tanto breve esistenza, or fanciullo, or nell’età delle illusioni e ora in quella dei disinganni. Nessuno, forse, o pochi si ricorderanno di me; ma il mio cuore batte ancora, come ha battuto sempre, per quella terra sventurata, perché vi ho trascorsi giorni ineffabili di consolazioni e di amarezze, e che non si dimenticano mai.

«Non potrà quindi sembrare stranezza che io le mandi da lontano, impotente a far di meglio, un saluto riverente quanto affettuoso con questo mio scritto. Se esso riuscisse per avventura del tutto disutile, contrariamente alle mie intenzioni, servirà almeno ad attestare i miei sentimenti per l’isola, e la gratitudine alle molte cortesie ricevute dai sardi, e in modo tutto particolare dai cittadini dell’illustre e disinteressata città di Cagliari, ove io passai il maggior tempo della mia alternata dimora in Sardegna, e che per ciò conosco a preferenza di qualunque altra parte dell’isola.

«I miei pensieri, le mie idee limitate sì, ma oneste, e che sono già nella coscienza di quei pochi che meglio amano e conoscono la Sardegna, tento diffonderli, acciocché si formi quella convinzione che conduca presto a ripopolare e accreditare la Sardegna.

«Mi valsi talfiata di pensieri, e anche di parole altrui a conforto dell’opera mia, che se non sarà presa nel vero suo verso, cercherò le consolazioni nelle seguenti parole di J. J. Rousseau: “Il y a, dans la méditation des pensées honnéts, une sorte de bien-etre que le méchants n’ont jamais connu: c’est celui de se plaire aver soi-méme”».


Una nota preliminare

Più nota è forse l’opera Cagliari ai miei tempi. Riferendosi qui alle varie osservazioni intorno al precedente suo La Sardegna sotto il reggimento del Piemonte e dell’Italia, e ancora occultando la sua propria identità, così Efisio Baccaredda conclude: «A chi, cortese troppo verso di me, ebbe l’idea e fece il voto che mi fosse conferita la cittadinanza cagliaritana, rendo ora come più so grazie eminenti, pur certo di non essere indegno di un tanto onore, avendo io sempre con grande amore pensato alla Sardegna, e di essa sempre con eguale affetto discorso, senza parole ibride, senza frasi di nebbia, mai mentendo a me stesso né al vero, guidato dall’ammonimento di Seneca: “Testimonium veritati , non amicitiae reddas”.

«E però, abborrente da ogni adulazione, a chi presiede ai destini della Sardegna dissi in palese, che i cenci che la ricoprono non sono un manto di ricca porpora, né fulgide gemme le lagrime da lei versate; ma dissi pure ai sardi, e il dissi a viso aperto, che anche essi, per quanto è loro dato, deggiono alacremente concorrere a mutare quei cenci in ricca porpora, quelle lagrime in fulgide gemme».

Pare qui di ritrovare una eco del messaggio politico che suo cugino Agostino, il teologo non ancora prete e figlio di Rafaele Baccaredda ed Efisia Marini, ha lanciato, con altri, in quel certo periodico cagliaritano (giobertiano ed antigesuita) del 1848: «L’Amico al Popolo ed al Governo», come dire: diritti e doveri della cittadinanza, diritti e doveri dell’autorità pubblica. Mai nessuna pretesa sia opponibile alla controparte ove manchi la prova della propria (morale e civile) legittimazione.

«Non si curino adunque i sardi di indagare s’io sia nato o no in terra italiana, e più particolarmente in Sardegna: curino solo d’esplorare con animo benigno le intenzioni mie; e ciò tanto desidero, che del mio parlare, troppo vivace talora al loro indirizzo, avrei caro che essi (i cagliaritani particolarmente) si ricattassero facendo più e meglio che io loro non suggerisca di fare, prevenendomi anzi con forte slancio e in tal forma provandomi, che ad essi in modo alcuno non fece mai mancamento il buon volere e l’attività, e che io, per zelo soverchio travedendo, oltrepassassi il giusto confine dei miei platonici apprezzamenti.

«Fatta astrazione del merito letterario, che a me fa scarso sussidio, mi si riguardi con quella incoraggiante simpatia, onde deggiono gl’italiani ora più che mai riguardare G. Méry, e segnatamente G. Winspeare, l’illustre autore del Tourmente, il quale, spontaneo, entusiasta, coraggioso, si eresse a difensore delle loro nazionali aspirazioni contro ogni ingiusta e inconsulta espressione di detrattori stranieri.

«Ora eccovi un nuovo mio scritto. Esso pure concerne, se non in tutto, in parte almeno, la Sardegna. Vi hanno commiste reminiscenze a speranze: colle prime divisando di comporre quasi una cronachetta degli ultimi cinquant’anni, più etnografica che politica della diletta mia Cagliari; colle altre facendo voti onde questa, come ne ha il dovere e il diritto, meglio curi l’annona e l’edilizia, tanto ora trasandate, e tanto nondimanco vitali e supreme cose per il suo benessere materiale ed economico.

«Se gradirete questa novella mia scrittura, voi mi ripagherete assai largamente di soddisfazione, come già faceste, accogliendo con favore l’altra mia scrittura sulla Sardegna».

Bonfis, FIS.o B. e le sue dediche

Non so se mia mai stata studiata la genesi dello pseudonimo scelto da Efisio Baccaredda per firmare i suoi due libri. Penso – ma potrei sbagliarmi – che con la B iniziale del suo cognome, egli abbia voluto recuperare pressoché tutte le lettere, anagrammate, del proprio nome di battesimo. Chissà. Certo è che l’occasione delle due uscite dalle tipografie consentì all’autore di autocertificare, per la memoria pubblica, i suoi affetti.

La Sardegna… (sono sessantuno brevi capitoletti che vanno in successione) ad Ottone: «A mio figlio cui auguro che l’amor suo per la Sardegna torni a essa più del mio efficace».

(E a proposito. Nelle note famigliari egli non ha voluto risparmiarsi una pur sobria considerazione: «A riguardo del mio figlio non abbiamo che a lodarci in tutto e per tutto: io non sono avvezzo a fare testimonianze d’affetto: quel che sento è assai più di quello che è lecito dire. L’amore è rimasto tra padre e figlio ed io non so esprimermi. Sono stato ben fortunato di poter contemplare un figlio che si fa onore per qualunque rispetto si voglia considerare. I padri, si sa, sogliono essere vanitosi ma qui non è il caso»).

Cagliari ai miei tempi (i capitoli sono qui 42, distribuiti in due parti: “Annona” ed “Edilizia”) ad Antonio, quell’Antonio suo collega nella burocrazia statale e geniale novelliere e drammaturgo e anche storico-demologo, uomo di scrittura perciò, costretto dalla vita ad una residenza lontana dalla sua isola: «Al mio caro fratello della Sardegna al pari di me sempre memore e amantissimo».

Un busto da ritrovare

Nella sua tornata del 30 marzo 1922 il Consiglio comunale di Cagliari approvò alla unanimità la proposta della giunta e dettagliata dal nuovo sindaco Gavino Dessy Deliperi, circa la accettazione del dono che la famiglia Bacaredda intese fare al Comune capoluogo in adesione alle volontà testamentarie del sindaco scomparso.


Così nel verbale di quella seduta (ho recuperato l’atto presso l’Archivio storico comunale, perfettamente assistito dall’équipe ad esso preposta): «[Il sindaco Dessy Deliperi] Comunica, pertanto, che l’illustre compianto Grand’Uff. Prof. Ottone Bacaredda, a dimostrazione del Suo affetto verso la Città, cui dedicò tutto le energie della mente e del cuore, volle che fossero donati al Comune i Suoi libri che apportano un prezioso contributo all’incremento della Biblioteca comunale, e il busto in marmo del padre, apprezzato autore di studi sulla Sardegna e su Cagliari, due delle cose che Egli ebbe più care, e che la famiglia, in ossequio alla volontà espressa in vita dal defunto, ne ha già fatta al Comune la consegna.

«Dichiara che la famiglia del Prof. Bacaredda ha ancora voluto donare al Comune lo scrittoio dell’illustre Uomo e che la Giunta propone che il Consiglio voglia deliberare l’accettazione dei doni generosi a perenne e venerato ricordo del grande e benemerito cittadino scomparso, ed i ringraziamenti dell’Amministrazione e della cittadinanza alla famiglia.

«Il Consiglio, unanime, approva la proposta della Giunta».

Ora è da dire che di tale busto, già consegnato al momento della accettazione della donazione – la data dovrebbe essere quella stessa del conferimento della biblioteca, vale a dire il 7 gennaio 1922 – , non si sa più nulla. Ho chiesto notizie al segretario generale del Comune, ma ancora non è pervenuta (foss’anche per semplice buona educazione) una sua risposta.

Io posso immaginare – ma si tratta di una pura congettura, non disponendo di alcun documento specifico al riguardo – che l’opera d’arte sia stata collocata fin dall’inizio negli spazi al primo piano del palazzo municipale che furono adibiti a biblioteca e tali rimasero fino alla seconda guerra mondiale ed ai disastri di quella guerra fascista (bombardamenti, crolli e distruzioni, dispersioni, ecc.). Se così, è credibile che le rovine di una parte del palazzo civico abbiano coinvolto anche il busto di Efisio Baccaredda? Oppure: fu esso salvato, o prima o dopo la guerra, e custodito (e dimenticato) nei magazzini del Comune?


Altre volte ho osservato che nel 1970 i miei amici indimenticati Bruno Josto Anedda e Luciano Marrazzi ottennero dal sindaco Paolo De Magistris – uomo di squisita sensibilità civica e culturale – il busto del filosofo repubblicano Giovanni Bovio, databile al 1904, il quale costituiva una delle suppellettili d’arte della loggia massonica di via Barcellona quando i questurini fascisti, nel novembre 1925, irruppero e sequestrarono quel che là trovarono. Bovio incluso, e forse Garibaldi, e Carducci e quant’altro. Per quarantacinque anni quel manufatto di gesso pesante grande una volta e mezza il naturale riposò nei vani sotterranei del palazzo municipale. È possibile che, per una ragione o per l’altra, anche il busto di Efisio Baccaredda, che il Comune ebbe in dono dalla famiglia per volontà testamentaria di Ottone Bacaredda, riposi anch’esso nei magazzini?

Di donna Efisia Poma…

Certo fu amore vero e profondo e tenero e grato quello che unì Efisio Baccaredda alla sua Efisia Poma: lo stampacino e la liapolese fecero famiglia nella primavera del 1845 (l’anno in cui – valga questa nuova curiosità – presero a circolare nell’Isola le prime avventurose, false falsissime, pergamene d’Arborea: le nozze furono celebrate nella parrocchiale di Sant’Eulalia dal rev. Raimondo Bernardi, presidente della Collegiata). Da quattro anni quasi il giovane primogenito di Gaetano Baccaredda e Maria Parma lavorava presso l’amministrazione statale (allora del Regnum Sardiniae) e lei – Efisia – gli fu compagna in ogni senso, pratica collaborativa e consolatrice ad ogni bisogna, da quando, a fusione perfetta consumata, cominciò per suo marito, partendo da Sassari, la lunga teoria dei periodici trasferimenti: il Nizzardo dopo Sassari, e poi il Piemonte… prima che le armi e i plebisciti portassero all’unità territoriale e giuridica della patria. Lei con il piccolo Ottone a seguirlo nelle peregrinazioni dei comandi amministrativi. Potrebbe anche dirsi – misurando il focus di Efisia e per riflesso quello di Ottone – che fino al 1867, a quando cioè Ottone ormai giovanotto si iscrisse all’università di Cagliari, furono ben tre i lustri vissuti in continente e tre soltanto, forse quattro, gli anni trascorsi a Sassari, quelli della primissima infanzia di Ottone e quelli della sua adolescenza ginnasiale o liceale al Canopoleno/Azuni.

Efisia Poma, dunque. Alle affettuose espressioni che suo marito le aveva riservato nelle note familiari, sentendola e indicandola come propria solertissima custode, come santo cemento domestico, il nipote Efisio Ottorino aggiunge di suo la ricostruzione, sia pure sommaria, della sua famiglia d’origine.

Nata il 17 novembre 1817 nel quartiere della Marina era forse la secondogenita di Giuseppe Poma e Raimonda Brouquier (1792-1872). I Brouquier erano una famiglia di radici marsigliesi passata, sembrerebbe, per il Canton Ticino (a Mendrisio precisamente) e trapiantatasi, negli anni della Rivoluzione o poco prima, a Cagliari. Qui, per l’intuito di Angelo, colui che aveva trapiantato i suoi nell’Isola (e dove lui stesso era poi deceduto nel 1807), i Brouquier avevano fatto fortuna negli affari, legandosi alle attività commerciali del porto ed eran stati anche capaci di metter su in pochi anni un discreto patrimonio immobiliare all’interno del trapezio della Marina, fra case e magazzini ora a sa Costa ora nella strada del Gesus e la via Darsena, poco distante dalla storica porta dell’ingresso orientale al quartiere… Da Angelo tutto era passato ai figli – a Francesco padrone di contrada is Tagliolas, ad Anna (o Marianna, moglie del notaio Mameli e proprietaria di case che erano o sarebbero appartenute alle monache cappuccine) e soprattutto a Raimonda il cui fortino era soprattutto in zona Darsena, dove avevano abitazione anche i Cambilargiu, altra famiglia interessata, nello svolgersi delle generazioni e negli intrecci con i Poma, all’amministrazione politica e non soltanto all’economia della città, fino alla sindacatura di Ottone.

Perché poi è così che ti fai una idea dei collegamenti diretti e indiretti fra le famiglie residenti nella città capoluogo prima e dopo l’unità d’Italia, nella città piazzaforte e poi nella città smilitarizzata e tutta orientata al business portuale ed alla progressiva internazionalizzazione dello scalo: frugando negli archivi fra i Quinque libri parrocchiali/diocesani e l’anagrafe impiantata dopo il 1865, e fra le carte scritte di sodalizi i più vari.

… e dei suoi

Il parentado Poma era affollato anch’esso. Ed a restare soltanto a quelli che più direttamente potevano aver avuto parte nelle vicende infine riconducibili al sindaco-mito del quale si vuol descrivere, seppure sobriamente, le relazioni familiari, certamente meriterebbe una citazione Marianna, zia paterna di Efisia (e prozia di Ottone), coniugata Cano e residente a Sassari.

Già vedova, morì anziana (lasciando una figlia nubile, Martina) nella primavera 1899, pressoché negli stessi giorni d’aprile programmati, a Cagliari, per il matrimonio di Antonina – la terzogenita di Ottone e Rosa Rossi – con Giovanni Battista Leonardi. La partenza della famiglia alla volta del capoluogo turritano per i funerali della congiunta motivò la dispensa, da parte del procuratore del re, dalle seconde pubblicazioni nuziali e la cerimonia – quella felice, non quella del lutto – poté svolgersi come previsto.

Di Efisia era uno dei fratelli più cari per il valore e per la triste sorte Cosimo, maggiore del 12° Regg. Brigata Casale, il quale morì sul campo di San Martino (1859, seconda guerra d’indipendenza), decorato da due medaglie d’argento al valore militare. Né egli (zio materno di Ottone) fu il solo della famiglia a meritare la gloria: bisognerebbe pensare a Francesco Boy Salazar (consuocero di Ottone, di cui dirò in altro articolo) che, sottotenente del 2° Regg. Bersaglieri pagò duramente la sua partecipazione alla battaglia di Custoza e morì per i postumi bellici, anni dopo, lasciando a Cagliari due figliette di età acerbissima). Con Cosimo vanno citati anche Gaetano il primogenito dei fratelli Poma (1813-1869) ed Angelo (classe 1822), che visse lungamente a Firenze, «afflitto da malattia nervosa – così ricorda il nipote Efisio Ottorino – che non gli consentiva, pur essendo di costituzione sana e vigorosa, di varcare il portone di casa».


Franceschina, più giovane di Efisia di ben tredici anni, era la piccola di casa: fu lei che, nata a Cagliari nel 1830, sposò Emanuele Cambilargiu «probo cittadino, stimato funzionario statale» ed ebbe in città, insieme con il marito ed i figli, lunga affettuosa consuetudine di vita con casa Baccaredda. Loro figli erano «l’ing. Peppino, uomo di bell’ingegno ma alquanto bizzarro, il dott. Carlo, funzionario di prefettura, intelligente, colto, di buona indole (ebbe dalla moglie Clelia tre figli: Noel, colonnello e poi professore dell’avvocatura, Gina in De Contini e Lia in Bottero entrambe professoresse) socievole, un po’ litigioso; Gaetano, colonnello d’artiglieria, studioso, serio e sereno (mi fu di efficace, disinteressato, cordiale aiuto durante i miei studi ginnasiali e liceali a Cagliari [annotazione infratesto di Efisio Ottorino]); Annetta, buona, preziosa per la singolare sua abilità nei più nobili lavori casalinghi; ricercata stimata ed amata dai vari parenti, visse e morì, in avanzata età e nubile a Cagliari». Ciò avvenne nel 1943.

Primo in lista, dunque, era quell’ing. Giuseppe – cugino primo del sindaco – che delle giunte Bacaredda fu assessore per ben dieci anni, dal 1890 al 1897 e lasciò poi fra gran polemiche e morì relativamente giovane, appena un mese dopo sua zia Efisia.

Di cugino Cambilargiu

Classe 1852, Giuseppe Cambilargiu era stato da subito nel gruppo detto “partito della Casa Nuova” e, eletto anche lui nella tornata del novembre 1889, era entrato in giunta per occuparsi dell’edilizia, delle questioni urbanistiche (compresi i famosi “riallineamenti”, tormento amministrativo perché si trattava di armonizzare l’esistente con il nuovo, e soprattutto con i rettifili stradali) e del regolamento cimiteriale ecc. Confermato nel 1891 e nel 1895 – vigilia della felice conclusione della annosa vertenza fra il Comune e le Finanze statali – conservò il posto nell’esecutivo (con lui erano i colleghi Valle, Picinelli, Serra Meloni, Muntoni e Pintor, ed i supplenti Ballero e Fadda, e tutti brillavano per riflesso del trionfo personale di Ottone Bacaredda rieletto con 1.413 preferenze) – fu nel 1897 che il suo nome finì per identificarsi con una crisi politica dai più ritenuta fastidiosa oltreché speciosa, e per Bacaredda doppiamente sgradevole.

La causa era da rinvenirsi nel contrasto fra le valutazioni dell’assessore e quelle dell’Ufficio Tecnico relativamente ai compensi per maggiori lavori pretesi dall’appaltatore della manutenzione delle chiaviche: favorevole l’Ufficio Tecnico (e l’assessore Muntoni), contrario Cambilargiu che avrebbe voluto una più puntuale verifica del conto ed intanto espresse riserve su modi e durata dei lavori. Sul punto chiese ed ottenne la costituzione di una commissione consiliare (formata dagli ingg. Vivanet, Marcello e Sanjust).

«Cagliaritano spirito bizzarro» lo definì La Sardegna Cattolica che avrebbe voluto liberarsene: «una volta si dimise ma accettò poi di rimanere; ora, invitato ad andarsene, non se ne va…»: assentatosi alle tornate consiliari, avrebbe dovuto dichiararsi decaduto per automatismo. Ma Bacaredda temporeggiò allora, temporeggiarono un po’ tutti. Talvolta i rapporti personali, si sa, fanno premio su quelli della politica, e si cercò quindi una composizione dei dissensi, se possibile. Una parola forse decisiva la disse il consigliere Mathieu, bacareddiano doc, il quale – contro il parere dei clericali di Enrico Sanjust - volle stornare il pericolo delle dimissioni dell’intero esecutivo: «oggi per le preghiere reiterate del Consiglio, essa deve restare in carica e dichiarare decaduto l’assessore. Il paese ci sarà grato d’aver fatto noi un’opera buona e la giunta un atto di abnegazione».

Da cugino a cugino. Un certo giovedì 9 dicembre, lo stesso sindaco invitò il suo riottoso assessore a spiegare, chiaramente e una volta per tutte, al Consiglio le sue ragioni, rendendo finalmente pubbliche quelle “rivelazioni” da lui tante volte annunciate come dimostrazione del supposto cattivo governo amministrativo della città. E parlò, infatti, Cambilargiu, ma tutti colsero che non si trattava che di pretesti. I suoi addebiti all’Ufficio Tecnico riguardavano anni lontani, anzi lontanissimi, quando ad esso era preposto altro funzionario. Le strade si dovettero separare. E restituito interamente alla sua vita professionale, scomparve infine, ancora giovane, nel febbraio 1910.

L’addio di Efisia

Lei, Efisia Poma sposata Baccaredda, ebbe la sorte di una vita lunga: arrivò ai 92 anni, morì anziana (anticipando soltanto d’un mese suo nipote Peppino Cambilargiu) nella casa di famiglia, fra la via Roma e la via Baylle (palazzo Carlomagno). Così la cronaca delle sue esequie nelle pagine de L’Unione Sarda:

«Imponentissimi sono riusciti i funerali della signora Efisia Poma, madre del comm. Bacaredda, solenne attestazione d’affetto verso la buona e pia signora, di simpatia e d’amicizia verso il figlio egregio.

«Il feretro preceduto da tutti gli istituti pii, dalla banda cittadina, dagli studenti universitari con bandiera, dai mazzieri municipali e dai bidelli dell’università, era attorniata da moltissime signore amiche e conoscenti dell’estinta, ed era seguito dal sindaco ing. Marcello con tutta la giunta comunale e da moltissimi consiglieri, da una rappresentanza della Società Operaia con a capo il suo Presidente signor Concas, da una rappresentanza della corale Verdi di viale Margherita e da tutte le notabilità ed autorità cittadine.

«Al cimitero dinanzi la bara dell’estinta hanno parlato il cav. Campurra, l’ingegnere Marcello, lo studente Mulas e l’avv. Ballero.

«Al comm. Baccaredda rinnoviamo le nostre più sentite espressioni di cordoglio. Valga la solenne dimostrazione d’affetto che tutta la cittadinanza ha tributato alla povera madre sua a lenire il dolore dell’egregio uomo».

Per parte sua, con annuncio personale, Ottone ringraziò dalle colonne dello stesso giornale del 4 gennaio: «A quei pietosi e cortesi cui piacque rendere l’estremo omaggio alla mia cara Madre, giungano accette le espressioni della mia perenne gratitudine».

Importa qui aggiungere che la foto di copertina del presente articolo, ritraente Ottone Bacaredda 35-40enne, alla vigilia dell’assunzione della sindacatura, ed inviata al più giovane amico Beniamino Bolla (1855-1925) costituisce un inedito reperto affidatomi da Stefano Lucchese discendente dalla notissima famiglia Bolla che attorno a sé, lungo i decenni ha sviluppato innumerevoli affinità con i Rossino, i Larco, appunto i Lucchese, ecc. Se particolarmente noto era il negozio di giocattoli della via Manno, ancora nella viva memoria di tanti, di certo non secondario fu ed è l’imponente palazzo detto Bolla-Rossino del corso Vittorio Emanuele, nei pressi di S’Ecca Manna, che per molti decenni fra Otto e Novecento fu una delle centrali della vita di relazione della buona borghesia professionale, commerciale ed artistica cagliaritana.


Aggiornamento del 07/10/2022

Ricostruire la biografia di Ottone Bacaredda dopo quanto scrisse Pippo Della Maria nel 1971, nel cinquantesimo della morte del grande sindaco, per il volume collettaneo voluto dal Comune (allora a guida di Eudoro Fanti) significa, di tutta evidenza, aprire un cantiere che non si sa quando potrà dirsi veramente ultimato. Anche perché l’obiettivo sarebbe di collegare al meglio la storia personale alle mille relazioni e civiche e private amicali che Ottone Bacaredda intrattenne nel lungo tempo della sua vita, nei trentatré anni di leadership amministrativa (di cui diciassette da sindaco, e sempre comunque da consigliere comunale, oltreché provinciale), ma anche prima, al tempo della sua formazione – fra Cagliari e Sassari e tante città del continente, Genova sopra tutte – e nei tre lustri che distanziano il rientro sardo, per avviare la sua attività legale e la sua docenza universitaria ed anche per implementare e impreziosire la sua produzione letteraria, dalla vittoria elettorale della Casa Nuova e dalla assunzione della sindacatura a palazzo di Città. In tale contesto mi è sembrato che l’amicizia con i Bolla, e in particolare con Beniamino, di pochi anni più giovane di lui, fosse importante e meritevole di speciale indagine. Spero che qualcuno la faccia questa indagine, dando anche onore ad una famiglia – quella Bolla appunto, e in capo a tutto Bolla-Pastore – che nella Cagliari dell’Ottocento un ruolo di eminenza seppe conquistarsi per tutto merito. Il bellissimo signorile palazzo del corso Vittorio Emanuele, come ho scritto e che forse nel primo Novecento ospitò una di quelle logge massoniche sulle quali puntò l’indice torquemada il giornale fascista “Battaglia!”, fra il 1924 e il 1925, e nel quale, od attorno al quale si svilupparono le famiglie discendenti, fu come la capitale, insieme fisica e morale, di un milieu borghese che associava fra loro professionisti, commercianti ed artisti. Naturalmente l’insegna semplificata di “palazzo Bolla –Rossino” (con riferimento a Battista Rossino) va intesa in questo senso. Né peraltro tutto si concludeva nel Corso verso s’Ecca Manna, a voler ripensare alle indovinate proiezioni nella via Manno di tanti sogni, a voler ripensare ai tre empori di giocattoli che per decenni seppero dar felicità a tanti bimbi cagliaritani, me compreso, sessanta e settant’anni fa…  


***

Scrivo queste note mentre continuano a giungere, drammatiche, le notizie da Kiev e dalla Ucraina tutta. Sia maledetto chi ha scatenato l’inferno ed ha provocato la morte e la sofferenza di tanti innocenti. (Ed ancora una volta abbiamo la plateale dimostrazione della nullità liberale degli esponenti della destra italiana, pagana e imbrogliona, da cui insistenti sono venuti, negli anni, gli accarezzamenti ad un pericoloso dittatore nato).


Fonte: Gianfranco Murtas
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