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Gianfranco Murtas

Monsignor Pier Giuliano Tiddia, auguri 93 volte! Fra le sue molte pagine di vita, ecco quella di giovane ausiliare degli arcivescovi Bonfiglioli e Canestri

di Gianfranco Murtas

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Compie oggi 93 anni monsignor Pier Giuliano Tiddia, arcivescovo emerito di Oristano e anche presidente emerito della CES, la Conferenza Episcopale Sarda.

Proprio in questi giorni è uscito il primo volume di uno studio che Tonino Cabizzosu ha curato sulla storia della Conferenza Episcopale Sarda a partire dal 1850, diciamo dall’indomani della fusione perfetta, cioè dell’estensione alla Sardegna (ex Regnum Sardiniae) degli ordinamenti giuridici e delle istituzioni di rappresentanza vigenti secondo l’articolato dello statuto albertino, fra Piemonte, Liguria e Savoia, e mi piace cogliere l’occasione per associare queste due eminenti personalità della Chiesa isolana che naturalmente mille rapporti hanno intrecciato fra di loro nel disbrigo degli affari di competenza dei rispettivi ministeri e che il testimone si sono passati nel 1988 in quanto alla direzione del Bollettino Ecclesiastico Regionale. Il periodico della CES – figlio del glorioso Monitore Ufficiale dell’Episcopato Sardo, dal quale tanti di noi hanno tratto, per i propri studi e le pubblicazioni a seguire, notizie e documenti, fondato nel 1909 – era stato diretto da don Pier Giuliano Tiddia per ben 34 anni, ed allora egli, caricatosi sulle spalle le nuove fatiche pastorali dell’archidiocesi di Oristano, preferì cedere alle più fresche energie dell’allora giovanissimo parroco di Bottida e prossimo direttore dell’Archivio Storico Diocesano di Cagliari, nonché professore di storia della Chiesa alla Facoltà Teologica della Sardegna, la responsabilità di continuare nell’ufficio. (Cabizzosu ci lavorò – aggiungo anche questo –, in veste trimestrale, per nove anni giusti, fino al 1997. Poi il Bollettino – teoricamente affidato a vari presbiteri del clero di Iglesias, di Nuoro e di Oristano – cessò di fatto, limitandosi a qualche numero straordinario, mentre per certi versi ne fu supplente il Notiziario Diocesano di Cagliari, voluto da mons. Ottorino Pietro Alberti come arcivescovo di Cagliari e anche come presidente della CES, ed affidato alle cure di don Gianfranco Zuncheddu. Sotto l’episcopato Mani tutto, a volersi trasformare ancora ma con debole progetto, si perse).

Don Pier Giuliano è anche il decano, per anzianità di nomina, dell’episcopato sardo: sono trascorsi ormai 47 anni dalla sua ordinazione vescovile, che spese per un primo dodicennio come ausiliare, a Cagliari, dapprima di mons. Giuseppe Bonfiglioli e poi di mons. Giovanni Canestri, e per vent’anni come metropolita di Oristano. Per qualche tempo, allora, fu anche amministratore apostolico di Lanusei e successivamente di Ales-Terralba. Dal 2006 vive ritirato, ma può dirsi che fino a che l’età e soprattutto la salute gliel’hanno consentito, egli ha proseguito le sue attività, sempre richiesto da parrocchie e gruppi ecclesiali di varia natura (nel novero gli ex fucini incontrati in gioventù!) ora per celebrazioni ora per un’assistenza ecclesiale di contenuto teologico e culturale sempre di ampio raggio.

La scomparsa recente di diversi vescovi emeriti in capo alla CES – da don Tarcisio Pillolla a don Sergio Pintor, a don Ninetto Vacca (ma il pensiero si allarga a comprendere padre Paolo Gibertini ed il cardinale Luigi De Magistris) – ha tristemente impoverito la fascia di presuli che costituivano come un collegamento prezioso fra generazioni diverse di pastori della Chiesa sarda.

L’esperienza umana ed ecclesiale di don Pier Giuliano Tiddia conforta ancora la CES oggi composta, per il più, a vescovi cinquanta/sessantenni come Baturi (di segno ciellino), Carboni, Melis, Saba (in permanente pubblico sfoggio e sciupio di inutili violetti), ecc. presieduti da don Antonello Mura, e che procede con molta fatica (e a mio parere con modesti e incerti risultati) nella propria missione.

Anni addietro raccolsi una lunga intervista da monsignore ed oggi, onorandone la purezza del servizio e la virtù di cui sono stato innumerevoli volte testimone diretto (anche per la confidenza che a lui mi ha unito fin dai primi anni ’70, e ciò nonostante tante distanze di orientamento civile e giudizio politico, ma per certi versi anche ecclesiale), vorrei riproporre un capitolo di quella conversazione che aveva il passo della autobiografia (cf. Il Vangelo, la Chiesa e la Sardegna: una esperienza di vita. Conversazione con monsignor Pier Giuliano Tiddia, arcivescovo emerito di Oristano, Cagliari, Graphical di Loddo, 2009).

Vescovo titolare di Minturno

Del 1974 è la nomina a vescovo ausiliare. Cresceva il prestigio ma di pari passo anche il carico di responsabilità. Gli stati d'animo?

Tutto avvenne nella massima riservatezza. Strano, perché qualche spiffero c'è sempre. Si era nell'ordine delle probabilità, perché spesso i vicari generali sono promossi, ma non è una regola in nessun modo. Accolsi la nomina come un atto di fiducia del papa e del mio arcivescovo.

Com'è la procedura?

La nomina avviene a Roma. La competente Congregazione - evidentemente quella per i Vescovi - comunica la delibera all'ordinario diocesano perché a sua volta ne informi l'interessato. Ciò naturalmente quando si tratta di prima nomina. Era il 21 dicembre 1974, un sabato, e monsignor Bonfiglioli aveva in agenda un ritiro spirituale con le suore. Prima che uscisse passai da lui come ogni mattina e ricordo che incominciò a dire «O oriens...» che è l'antifona al "Magnificat" del giorno. Dovevo interpretare?

E poi cos'è avvenuto?

Quando finii con le pratiche dell'ufficio, rincasai perché l'arcivescovo ancora non era tornato. Nulla di strano. Però ecco, a metà pranzo una telefonata. Era lui: «se ne è andato via presto...», «eh, all'ora di chiudere, eccellenza», «abbia pazienza, venga subito da me». Presi la macchina e andai da lui. Mi accolse nell'atrio. «Beh, facciamo le cose in fretta: lei è stato nominato vescovo; venga venga, la faccio parlare con il cardinale Baggio». Ecco capito anche il motivo di quegli orari inconsueti dell'antifona «O oriens...»: il cardinale Baggio aveva appena presentato al papa le proposte di nomina che erano state deliberate dalla Congregazione per i Vescovi. L'udienza era fissata per la tarda mattinata di quel sabato mattina. A udienza conclusa, ottenuta la firma di Paolo VI, il cardinale ne informò monsignor Bonfiglioli, con il quale evidentemente c'era già l'appuntamento telefonico, e gli comunicò o confermò la notizia.

Quindi ecco che l'arcivescovo mi passò il telefono, e il cardinale... «per comunicarti che sei diventato vescovo..., cara eccellenza...». Scherzava. E io, confuso, cosa potevo rispondere? «grazie, eminenza».

Quindi una bella promozione ma comunicata nel più informale dei modi: via telefono. E poi cosa successe?

Il cardinale Baggio mi chiese: «l'annuncio quando possiamo darlo? Diciamolo il 24». Risposi: «va bene». Bisogna considerare che eravamo a ridosso di Natale, e che il 24 dicembre era fissato l'incontro dell'arcivescovo con i canonici, i collaboratori di curia e altri, per lo scambio degli auguri.

Così avvenne, era mezza mattina. Monsignor Sitzia, allora ancora sano, porse a nome di tutti, il saluto. L'arcivescovo poi, al momento di rispondere, disse: «fate entrare i laici». C'era qualche decina di persone fuori della sala infatti. E appena la sala fu piena, ecco che dette l'annuncio della nomina. Cambiò tutta la scaletta degli auguri.

Chi è stato il suo... sponsor? O diciamolo più seriamente: come, realisticamente, ha preso corpo questa promozione che pure poteva essere nelle previsioni?

La proposta, nel caso concreto, è certamente partita da monsignor Bonfiglioli, che evidentemente considerava anche le dimensioni della diocesi, le nostre centoventi e passa parrocchie, l'esigenza da parte sua di occuparsi anche della presidenza della Conferenza Episcopale Sarda, ecc.

Come è regola, la proposta dell'ordinario passa alla Congregazione che istruisce la pratica. Vengono raccolte notizie sull'interessato, con vincolo di segretezza, nella diocesi di residenza o altrove, infine il prefetto porta la decisione alla plenaria della Congregazione e poi la delibera finale passa al papa.

Che nel caso - essendo Paolo VI - avrà letto nel fascicolo, o avrà saputo dal cardinale Baggio, che lei era quel tale don Tiddia che l'aveva accolto in seminario il 24 aprile 1970 e che aveva assistito a Cagliari, per tanti anni, l'amata FUCI...

Chissà, forse sì. In genere, le proposte che vengono presentate al papa sono una terna. Nel caso concreto, perché questa è una confidenza che mi fece monsignor Bonfiglioli stesso gratificandomi molto, lui disse «o Tiddia o ci rinuncio». D'altra parte non può non considerarsi che da più di un anno lavoravamo gomito a gomito, ed evidentemente c'era ormai un affiatamento e anche una stima da parte sua per il lavoro che sbrigavo... Ma il cardinale Baggio, che sapeva il suo, lo rassicurò. Io di me, però, non sapevo davvero nulla, nessuno mi aveva mai anticipato nulla. Se terna formale ci sia stata non lo so, né è giusto che lo sappia.

Ed ebbe il titolo di Minturno. Come mai?

Minturno è una ex-sede vescovile da tempo incorporata nella diocesi di Gaeta, in provincia di Latina. Non avendo più un suo vescovo residenziale, il titolo - come peraltro quello di svariate centinaia di ex-diocesi di tutto il mondo - viene assegnato ad un vescovo ausiliare o al responsabile di un ufficio, come per esempio nella Santa Sede. Anche in Sardegna abbiamo diversi titoli episcopali che sono assegnati a vescovi talvolta anche stranieri... Così c'è il vescovo di Dolia, il vescovo di Suelli, il vescovo di Santa Giusta, ecc. E d'altra parte anche il nostro monsignor Luigi De Magistris, pro-penitenziere maggiore emerito, ha il titolo di Nova, antica diocesi ora scomparsa del nord Africa, o monsignor Pillolla, quando prima di andare ad Iglesias era vescovo ausiliare di Cagliari, aveva il titolo di Cartenna, che era una comunità cristiana che rimanda addirittura a Sant'Agostino...

Minturno presso Gaeta. Se è lecito andare per parentele tematiche, mi sovvengono, legando Gaeta a Cagliari, due eventi: uno nobile l'altro malvagio. La leggenda di vita di Efisio Martire vede il giovane soldato, fra la conversione e la disobbedienza a Diocleziano, rivolgersi proprio agli artigiani gaetani perché gli confezionino una croce uguale a quella miracolosamente impressagli sul palmo della mano. L'altro episodio è del 1849, giusto 160 anni fa. Pio IX ripara a Gaeta perché a Roma si è affermata la repubblica di Mazzini ed invoca la protezione delle potenze straniere: interviene l'esercito francese e fa vittima, fra gli altri, il nostro Goffredo Mameli: poeta-soldato ventunenne con sangue cagliaritano nelle vene, il cui inno patriottico si suole presentare in omaggio ancora oggi ai successori del papa teocrate e beato. Lei è stato a conoscere la sua diocesi-non diocesi?

Sì, alcuni mesi dopo la nomina. All'inizio di settembre andai a presentarmi, a conoscere ed a celebrare la messa nell'antica cattedrale. Come particolare di curiosità aggiungerei che al momento della comunicazione telefonica il cardinale Baggio non ricordava il titolo. Lo seppi dopo, il giorno dell'annuncio ufficiale.

Stemma e motto

Quale motto episcopale scelse e quale stemma. E perché?

La scelta dello stemma fu tra le prime preoccupazioni da risolvere, mi veniva richiesto, ed occorreva per le stampe che preparano l'ordinazione episcopale. Mi venne in mente il richiamo di una meditazione svolta dal carissimo papa Giovanni XXIII: il Libro sacro e il Calice richiamano fortemente la missione del sacerdote e prima del vescovo. Ecco le immagini del mio stemma: in alto è la colomba, immagine biblica dello Spirito Santo.




Mi fa piacere questo suo rimando a papa Roncalli, alla cui biografia, per le parti sarde - sia quelle conciliari, sia quelle precedenti -, ho dato anch'io un pur modesto contributo.

Prendendo possesso della basilica di San Giovanni in Laterano, il 9 novembre 1958, papa Giovanni svolse una bella meditazione che mi piacerebbe ripresentare. Eccola:

«Tutto ormai si raccoglie sull'altare sacro e benedetto, dove l'occhio riguarda due oggetti particolarmente preziosi e venerandi, un libro e un calice. Fra il libro e il calice ponete il Sommo Sacerdote: ponete con Lui tutti i partecipanti al sacerdozio, di ogni lingua e di ogni rito, qui e in tutti i punti della terra. Il Vescovo e tutti i sacerdoti in sua collaborazione esprimono il primo carattere della missione pastorale nella S. Chiesa: l'insegnamento della sacra dottrina. Eccovi nel Messale i due Testamenti; eccovi nell'annuncio fatto al popolo il punto principale e più alto del sacerdozio cattolico, che è quanto dire del Vescovo. Non è questo, diletti figli, il primo compito del sacerdozio cattolico, comunicare cioè la grande dottrina dei due Testamenti, e farla penetrare nelle anime e nella vita? Questo è il richiamo, questo è il compito del Libro aperto sull'altare: insegnare la vera dottrina, la retta disciplina della vita, le forme di elevazione dell'uomo verso Dio.

«Accanto al Libro, ecco il Calice. La parte più misteriosa e sacra della Liturgia Eucaristica si svolge attorno al calice di Gesù, che contiene il suo Sangue prezioso. Gesù è il nostro Salvatore, e noi partecipiamo misticamente al Corpo suo, la Santa Chiesa. La vita cristiana è sacrificio. Nel sacrificio animato dalla carità sta il merito della conformità nostra a ciò che fu lo scopo finale della vita terrena di Gesù, fattosi nostro fratello, sacrificatosi e morto per noi, al fine di assicurare nella consumazione della vita umana la nostra gioia e la nostra gloria nei secoli eterni. Il Calice sull'altare e i riti venerandi che congiungono il pane e il vino consacrati in un solo Sacramento, segnano il punto più alto, la sublimità della unione tra Dio e l'uomo, e la perfezione della professione cristiana».

Molto bello. E come motto la sua scelta fu?

Per il cartiglio scelsi una frase di Sant'Agostino: «Servi sumus eius Ecclesiae», siamo servi della sua Chiesa. L'espressione, certo significativa, è presa dal testo agostiniano sulla vita dei monaci. Il santo Dottore aggiunge: «Siamo servi della Chiesa di lui, e specialmente delle sue membra più inferme. Se siete fratelli, se siete figli nostri, se siamo conservi, o meglio servi vostri in Cristo, ascoltate i nostri ammonimenti, osservate i nostri precetti, ricevete ciò che vi somministriamo».

Con questo commento, Sant'Agostino ricorda ad ogni vescovo il suo compito di prestazione, ma nota anche che essa non è sempre attesa e seguita in merito alla coerenza della fede.

La consacrazione quando avvenne?

Il 2 febbraio 1975, in cattedrale. La parrocchia era stata intanto affidata già dal 1973 a monsignor Cesarino Perra che era canonico penitenziere e già abitava a Castello. Un'altra bella figura di sacerdote colto, che amava le cose antiche in larga parte lasciate al suo comune natale di Sinnai.

D'intesa anche con monsignor Bonfiglioli, scelsi la cattedrale, anche se la basilica di Bonaria era più ampia. C'erano diverse ragioni che mi fecero optare per il duomo: intanto ero vescovo ausiliare di Cagliari, e quella era la sede del vescovo. Poi della cattedrale ero stato parroco per due anni, ero nel Capitolo già da sette anni, e dell'ambiente - dico della curia nella varietà dei suoi uffici, fra cancelleria, economato, e poi anche tribunale - ero un assiduo per lavoro già da vent'anni... Feci una ricerca: l'ultimo vescovo che era stato ordinato in duomo era stato monsignor Giuseppe Cogoni nel gennaio 1931, anche lui era vicario generale e fu mandato a Nuoro, e nel 1938 ad Oristano.

In antico c'erano stati degli ausiliari che dovevano accompagnare i vescovi cadenti, qui non c'era un vescovo cadente, ma un vescovo che riconosceva di aver bisogno di un aiuto per il gravoso lavoro pastorale da affrontare. Ed a cui detti, come sempre ho cercato di fare, la migliore collaborazione.

Naturalmente invitò il cardinale. Baggio, che da Cagliari mancava da neppure tre anni. Sbaglio?

Credetti giusto chiedere al cardinale di darsi disponibile come consacrante principale, e accettò molto volentieri. Come conconsacranti chiesi a monsignor Giuseppe Bonfiglioli ed a monsignor Paolo Carta: con lui ci conoscevamo da sempre, da quando io ero seminarista, e siamo rimasti sempre in contatto. Certo, avrei potuto invitare anche monsignor Giovanni Cogoni, mio predecessore come rettore del seminario, o altri, ma i conconsacranti potevano essere due soltanto... Comunque intervennero anche i vescovi delle altre diocesi sarde e dal continente fu presente anche monsignor Alberti, con il quale già ci si conosceva perché nei primissimi anni '70 fu rettore del seminario maggiore ormai trasferito a Cagliari. Ebbe le sedi episcopali di Spoleto e Norcia.

Quando giunse per la cerimonia, il cardinale Baggio portò la bolla di nomina anche di un altro vescovo ausiliare, monsignor Giovanni Pes, dato come aiuto all'arcivescovo di Oristano Sebastiano Fraghì. E infatti monsignor Pes fu per diversi anni ausiliare ad Oristano. Nel 1979 tornò nella sua diocesi d'origine, Bosa cioè, aggiungendovi nel 1986 la sede di Alghero. Da giovane sacerdote era stato un assiduo del seminario di Cuglieri, gli studenti ne ammiravano la cultura.

Naturalmente cattedrale stracolma...

Sì, le navate e i transetti erano stipati. Partecipavano, anche moltissimi sarrochesi, e i miei familiari.

Avevamo un discorso in sospeso. La festa a Sarroch...

Sì. "Orientamenti", allora ancora a direzione condivisa fra monsignor Pillolla e monsignor Zuncheddu, pubblicò, in un numero speciale della vigilia, un lungo articolo firmato da Italo Porru che raccoglieva le impressioni dell'ambiente, iniziando proprio dal parroco che allora era, già da una decina d'anni, don Modesto Puddu. Don Puddu, posso aggiungere qui, fu uno dei due presbiteri assistenti, che mi affiancarono durante tutta la cerimonia. L'altro, per volontà dello stesso arcivescovo, fu l'anziano e carissimo monsignor Dino Locci.

Dei servizi pubblicati da "Orientamenti" si può dare una pur rapida scorsa. Tralasciamo quanto è di laudativo nei miei confronti - puro risultato di benevolenza che non sta a me dire quanto meritata e quanto no -, e andiamo proprio al... diciamo, succo delle notizie. Si virgolettano le parole del parroco: «Mons. Tiddia si recava spesso a Sarroch specialmente la domenica per celebrare la S. Messa e per trascorrere qualche ora in famiglia; successivamente, a causa dei molteplici impegni conseguenti ai nuovi incarichi, le sue visite sono diventate sempre meno frequenti e si presuppone che ora, purtroppo, lo siano ancora meno. Comunque tutta la popolazione gli è vicino... Il Sindaco dott. Stefano Coroneo e rappresentanti della Giunta Comunale sottolineeranno con la loro presenza alla consacrazione il giubilo di tutta la popolazione».

Poi si parla del dono preparatomi dalla comunità parrocchiale: un pastorale, opera del professor Franco d'Aspro, «e conseguentemente di elevato valore artistico» con lo stemma e il motto, e nel retro la data «2.2.1975»: si precisa, «un pezzo unico in fusione d'argento» e, aggiunge il cronista riferendo le parole di don Puddu: «Il pastorale è un dono del paese: spontaneamente, senza sollecitazioni, questue o sottoscrizioni, i compaesani, dopo la notizia della nomina vescovile, hanno in breve tempo realizzato quanto era necessario per l'acquisto del pastorale e lo hanno consegnato al parroco».

In effetti quel bacolo pastorale mi fu consegnato insieme dal parroco e dal sindaco durante il rito dell'ordinazione. È solenne ed anche pesante: lo uso ancora nelle celebrazioni più solenni. Quando sarà il momento tornerà alla parrocchia di Sarroch.




Il pastorale opera di Franco d’Aspro

Mi fa piacere che il suo pastorale lo abbia realizzato Franco d'Aspro, mio amico indimenticato e libero pensatore a tutto campo, e però attraversato sempre da una ispirazione religiosa finissima ed autentica.

Naturalmente conoscevo da lungo tempo io stesso il professor d'Aspro, autore di molti soggetti religiosi presenti in diverse chiese di Cagliari, e anche su campanili, come al Carmine, o in piazze come davanti a Bonaria o davanti al santuario di fra Ignazio...

È il solo bacolo che possiede?

No, un altro mi fu regalato dai fucini: è più leggero, lo uso abitualmente. Invece, evidentemente in altra circostanza, mi fu regalato un pastorale in ebano.

Un dono africano molto bello, che ho donato a mia volta al seminario di Oristano, ed è anche questo un segno del mio legame con quella mia missione conclusiva e in particolare dell'affetto nutrito per l'istituzione seminario in sé, ciò che significa le persone che vivono nel, anzi il seminario: i ragazzi e i professori e superiori.

E gli altri doni simbolici che in una simile circostanza non mancano di certo?

La mitra me la donò monsignor Bonfiglioli, la croce pettorale il cardinale Baggio, che subito precisò simpaticamente «guarda che non è d'oro»!... L'anello invece fu un dono di monsignor Carta, con l'avvertenza che si trattava di un ricordo di monsignor Lorenzo Basoli, a lungo vescovo di Lanusei e padre conciliare.

Torniamo al tema "Sarroch e il suo vescovo ".

Allora, l'articolo di "Orientamenti" proseguiva con la cronaca simpatica di una visita a casa dei miei genitori, «una graziosa villetta nella via del mare circondata da un civettuolo e ben curato giardino». Era il giardino curato da mia madre, ma anche da mio padre.

E dai miei genitori il giornalista si fa raccontare qualcosa della mia infanzia, dei miei studi, e anche del tempo immediatamente successivo alla mia ordinazione sacerdotale. «Veniva pertanto assegnato alla Parrocchia di Villa S. Pietro ove giornalmente si recava in motocicletta», e qui ecco il racconto dell'incidente, e delle preghiere di fra Nicola. «Ha tante anime da salvare», avrebbe risposto fra Nicola, per come ricordava mia madre... e infatti, giù giù le tappe non della carriera ma, io direi più correttamente, del mio ministero. Le tappe che abbiamo visto, fino a quella di vicario generale del 12 settembre 1973, ad oltre vent'anni dall'ordinazione.

Questo articolo da Sarroch è lungo, però il resto è tutta una serie di complimenti che ci possiamo risparmiare...

E sono d'accordo con lei. Ma, complimenti a parte, sono interessanti gli interventi che quel numero e anche il successivo di "Orientamenti", allora tornato ad essere di formato tabloid, contengono sia d'informazione che di opinione. E interessanti sono anche le tante fotografie di memoria biografica e di attualità, documentanti l'evento che tutto questo suscitava.

Beh, anch'io potrei ricordare un articolo veramente bello e profondo della professoressa Mariolina Maxia. Anche per onorare la memoria di questa carissima nostra docente di filosofia, e in mezzo a tanta dottrina, stralcerei appena una battuta che mi investe personalmente, naturalmente in chiave ecclesiale. Questa: «Ecco perché la nomina di un Vescovo ausiliare dell'Arcivescovo di Cagliari è un dono che deve riempirci di gioia: gioia alla quale vorremmo che nessuno restasse estraneo, non soltanto coloro che si sforzano di vivere con maturità consapevole la loro appartenenza alla Chiesa, ma anche quelli che guardano ad essa come spettatori indifferenti o curiosi. Don Pier Giuliano Tiddia è nostro, appartiene alla nostra diocesi, è legato a tanti di noi da profondi vincoli d'amicizia: anche questo è un motivo della nostra gioia, perché ogni valore umano trova nel mistero dell'Incarnazione luce e verità nuove».

Ha fatto bene a ricordare questo intervento della professoressa Maxia e con esso io richiamerei anche quello di monsignor Cherchi sui precedenti vescovi ausiliari dell'archidiocesi: pochi in verità, ma con questa chicca, che sempre mi era sfuggita, di monsignor Salvatore Delogu che fu incaricato, allo stesso tempo, della guida della diocesi di Lanusei e dell'ufficio di ausiliare a Cagliari. Valga per curiosità: «Fu eletto vescovo titolare di Canne in data 15.4.1972, consacrato l'11 giugno dello stesso anno e destinato ad essere amministratore apostolico della diocesi di Ogliastra e contemporaneamente vescovo ausiliare di Cagliari. La sua, più che una questione pastorale, era una questione giuridica. Risolta questa, mons. Delogu fu nominato regolarmente vescovo di Lanusei e automaticamente cessò il suo titolo di vescovo ausiliare».

Su questo punto potrei ricordare che mi capitò nel 1981 di succedere, come amministratore apostolico, proprio a monsignor Delogu, in attesa dell'arrivo di monsignor Piseddu, che fu eletto nell'estate dello stesso anno e consacrato ai primi di novembre.

Le storie si incrociano sempre. Ma restando ancora in questo veloce excursus della stampa diocesana in festa, doverosa citazione si dovrebbe fare del saluto dell'Azione Cattolica, a firma di Tonina Dessy, nome storico dell'associazionismo cattolico. La Dessy ricordava i corsi di esercizi spirituali, le giornate di ritiro o gli incontri di studio ed esami di cultura religiosa da lei curati lungo molti anni per la Gioventù Femminile di A.C. E si dovrebbe anche richiamare un dottissimo articolo di Paolo De Magistris, pubblicato in prima pagina sul numero post-ordinazione, mentre i precedenti scritti erano tutti nel numero di vigilia...

Sì, in quest'altra edizione il pezzo forte lo firmò ancora la professoressa Mariolina Maxia, un po' cronaca un po' riflessione spirituale ed ecclesiale. Ma si aggiunsero anche i contributi di don Usai, per il seminario, di un esponente del laicato impegnato e anche della rete delle famiglie religiose in diocesi.

Quest'ultimo è un articolo-testimonianza utile perché, intanto, riferisce autorevolmente - senza che si debba andare subito a controllare la precisione dei numeri - che nell'archidiocesi di Cagliari nell'anno di grazia 1975 erano operativi ben «18 fra ordini e congregazioni religiose maschili con oltre 220 religiosi, 180 dei quali sacerdoti e 40 laici». Ed a parte la presenza gesuitica nella facoltà teologica, se ne registrava una molto diffusa nel governo parrocchiale, investendo addirittura 14 comunità, nell'assistenza ad associazioni come quelle dei laureati e dei maestri cattolici, nei settori del lavoro manuale - ritengo fosse un riferimento aclista -, e allo stesso Centro diocesano vocazioni.

Ci fu per me una mobilitazione di affetti a dir poco commovente. È bello ricordare quei momenti, anche perché la vita non ci dà sempre, né forse ci dà spesso gioie.

Però potremmo anche completare la rassegna citando almeno un articolo del francescano padre Luciano Canonici sulla storia della diocesi di Minturno, che abbiamo prima evocato.

La storia, o forse la leggenda, ne attribuì la fondazione addirittura a San Pietro. Comunque la storia vera ricorda il nome di un vescovo del 11 secolo che trasformò in cattedrale cristiana il tempio di Giove. La località era Minturnae. E poi numerose date importanti sono registrate nell'alto medioevo, con svariati protagonisti ora positivi ora negativi, da Gregorio Magno ai longobardi, ecc. Nella biblioteca monumentale di Montecassino sono custoditi molti preziosissimi documenti riguardanti la diocesi di Minturno.

Collaborando per dieci anni con monsignor Bonfiglioli

E torniamo adesso dove avevamo lasciato: al 1975 e al suo ufficio di vescovo ausiliare. Come organizzò il suo lavoro?

Le funzioni e i poteri del vicario generale li stabilisce il codice. L'intesa operativa che prendemmo subito con monsignor BonfigIioli era che dove andava lui non c'era bisogno che andassi anche io per fargli assistenza e così duplicare. In settimana concordavamo gli impegni soprattutto dei giorni festivi, poi ci si vedeva per i resoconti. Con l'arcivescovo, d'altra parte, un incontro lo avevamo tutti i giorni. Salivo da lui alle 9, salvo situazioni eccezionali. Riferivo, mi dava istruzioni. Le materie erano tante, dall'ufficio catechistico alla Caritas, ecc. Dopo di che scendevo in curia, al piano terra, per ricevere la gente e i parroci, e lui faceva la stessa cosa, secondo agenda, al primo piano del palazzo. Tutte le domeniche io andavo almeno in una parrocchia, magari c'erano le cresime..., ma anche senza queste, andare aveva merito in sé, era un incontro pastorale, di conoscenza, confronto, dialogo.

Un vertice bicefalo funziona?

Non è un vertice bicefalo. La responsabilità della diocesi l'ha il vescovo residenziale. L'ausiliare collabora, si chiama ausiliare apposta. Certo, il vescovo ausiliare ha tutti i poteri del residenziale tranne quelli riservati alla sua persona. Si tratta quindi di intendersi con reciproco rispetto. Con monsignor Bonfiglioli, ma lo stesso potrei dire di monsignor Canestri dopo di lui, ho lavorato in perfetto accordo sempre. Io sapevo quello che lui desiderava, e cercavo di essere in linea, adeguato alle necessità. D'altra parte, lui non interferiva mai. Non mi ha mai detto di non decidere senza il suo permesso, accoglieva volentieri quello che facevo. Mi dava ampio spazio di libertà, e io cercavo di non invadere il campo delle sue decisioni.

Quali presenze conservava negli uffici della curia?

Sotto il profilo degli incarichi particolari mi alleggerii notevolmente. In quanto vescovo ausiliare conservavo l'ufficio di vicario generale ed ero membro di diritto del Consiglio presbiterale, del quale divenni il moderatore (restando l'arcivescovo il presidente). E mantenevo ancora la direzione del bimestrale "Bollettino Ecclesiastico Regionale", nel quale per qualche tempo mi aiutò don Efisio Pala, più tardi parroco anche lui della cattedrale e canonico.

Se dovesse indicarne una, quale iniziativa di monsignor Bonfiglioli le pare degna di speciale risalto magari anche perché la coinvolse più direttamente?

Fra il moltissimo che questo nostro amato arcivescovo ha compiuto nella diocesi nei dieci anni in cui l'ha guidata, io citerei la visita pastorale. Egli la iniziò il 6 gennaio 1975 - poche settimane prima della mia consacrazione cioè - e la portò avanti lungo cinque anni. E in questa visita lui affidò a me la parte amministrativa, cioè l'esame e le relazioni sullo stato materiale delle singole parrocchie, edifici, bilanci, ecc. Ero convisitatore, come si dice. Non si andava insieme. Io concordavo direttamente con i vari parroci quando vederci, giorno ed ora, anche per esaminare con loro, e con calma, le carte. Ogni tanto qualcuno mi chiedeva anche di restare per celebrare la messa.

Ricordo, degli anni centrali dell'episcopato di monsignor Bonfiglioli, il programma lanciato all'insegna di "Evangelizzazione, i ministeri", come s'intitolò. Fu lei stesso a presentano nel febbraio 19781 guardando al presente e all'immediato futuro. Che ne fu?

Quel piano, suggerito dagli indirizzi della CEI emanati nel maggio 1977, era imperniato su un'idea-forza: i carismi della Chiesa nell'articolazione ministeriale che include sia il servizio dei ministri ordinati che il servizio reso alla comunità dalle più varie componenti del popolo di Dio: i laici - si pensi alla famiglia -, i movimenti apostolici, i religiosi, ecc.

Uno spazio importante fu dato, in chiave di apertura, ai cosiddetti ministeri "istituiti", accessibili anche ai laici, come il lettorato e l'accolitato: il primo per proclamare la parola di Dio nell'assemblea liturgica, il secondo per aiutare i presbiteri e i diaconi nel loro ufficio.

In effetti, a livello di Chiesa locale, cioè in primo luogo di sistema parrocchiale, il recepimento fu ampio e positivo, così nell'aggiornamento e nella diffusione della catechesi non soltanto fra i fanciulli e i giovani, ma anche fra gli adulti. I giornali se ne occuparono molto, non mancando però di rilevare, giustamente, anche le difficoltà complessive di un quadro che, per dire soltanto del seminario, vedeva, in meno di dieci anni, un calo dei due terzi degli studenti fra la prima media e la terza liceo: da 220 a 60 circa.

Difficoltà e soddisfazioni di quegli anni. Cosa le rimane, ripensandoci a tanti anni di distanza?

Parliamo di trent'anni fa. Fra le soddisfazioni la consacrazione di nuove chiese, perché con monsignor Bonfiglioli proseguì positivamente quel fenomeno, già avviato da monsignor Botto e continuato dal cardinale Baggio, di ulteriore ramificazione della rete parrocchiale, accompagnando così la espansione edilizia della città e dei paesi soprattutto dell'entroterra. Penso adesso a Sant'Isidoro di Sinnai, nel 1980. Era parroco don Erasmo Pintus...

Fra le difficoltà che parevano addirittura crescenti allora, e furono infatti negli anni avvenire ancora più accentuati, c'era il calo drammatico delle vocazioni.

In quegli anni collaborai di frequente con il giornale diocesano, "Orientamenti", affidato a don Tonio Tagliaferri, dopo esserlo stato a don Piero Monni e don Gianfranco Zuncheddu. Basterebbe scorrere quelle annate e si troverebbero decine di miei articoli, che poi semplicemente riflettevano una parte della mia attività pastorale e anche di studio, ecc. Magari anche come ripresa dei temi discussi dai sinodi dei vescovi di quel tempo, che volevo portare alla conoscenza e alla considerazione della nostra diocesi. Ripenso adesso alla "quattro giorni" sulla spiritualità del clero, svoltasi a Roma nell'autunno del 1980, oppure al tema della famiglia: la relazione introduttiva al sinodo sulla famiglia fu tenuta dal cardinale Ratzinger ancora arcivescovo di Monaco, e ricordo che scrissi almeno una decina di articoli di riflessione sull'argomento.

Ma mi occupai anche di tematiche che erano all'ordine del giorno allora come l'insegnamento della religione nelle scuole pubbliche, in particolare alle elementari.

E su un piano più sociale?

Porto con me con piacere l'introduzione di una prassi nel carcere: mi riferisco alla messa celebrata per i detenuti in occasione del Natale e della Pasqua. Prima, naturalmente, provvedeva, come ogni domenica, il cappellano e il vescovo interveniva quando c'erano da amministrare delle cresime preparate dallo stesso cappellano. Oggi, a distanza di tanti anni, l'arcivescovo dice messa normalmente, nei momenti liturgici forti, a BuonCanmino.

Altro ancora?

Beh, su un piano sia sociale che ecclesiale potrei ricordare diversi viaggi pastorali compiuti all'estero negli anni fra '70 cd '80.

In Kenia, poi in Argentina ed in Germania

Andiamo per destinazione. Il primo blocco fu per?

Per il Kenya. Avvenne all'inizio dell'estate 1977, proprio fra giugno e luglio. Mi recai a Nanyuchi, al centro del paese, sulla linea dell'equatore. Si era a 2.000 metri sul livello del mare e si dormiva con le coperte. Lì visitai la missione tenuta da alcuni sacerdoti cagliaritani, missione tuttora esistente. Allora essa era retta da don Gianni Sanna e don Salvatore Scalas. Vennero con me sia don Gianni Spiga che don Antonio Porcu. Atterrammo a Nairobi, e poi a bordo di una jeep giungemmo sulla montagna dove si stava senz'altro meglio. Visitai i villaggi della zona pastorale, e la domenica celebrai la messa nella chiesa parrocchiale: una ampia e bella chiesa, con tante statue di santi, fra cui ricordo Santa Rita e Sant'Antonio da Padova. I fedeli arrivavano da distanze anche di 30 chilometri. Benedissi pure un matrimonio. Don Scalas, bravissimo interprete, traduceva in dialetto locale quanto io dicevo in italiano. In una zona di foresta concelebrai con il vescovo monsignor Gatimu per il centenario della diocesi. Andai anche a trovare il vescovo nella sua sede, a Neyri, e mi fermai a cena, con qualche problema... di partecipare ai piatti locali.

Un'altra tappa fu invece a?

In tutt'altro continente: America del sud, destinazione Argentina. Mi recai a Buenos Aires per la celebrazione del IV centenario della città, nel 1980. Ricevette l'invito ufficiale monsignor Bonfiglioli, il quale volle andassi io, dati i suoi problemi di salute. L'invito era motivato dal legame della città con la Madonna di Bonaria: il primo nome della località fu infatti Puerto de Nuestra Segnora del Buon Aire, diventato Buenos Aires quando ci fu lo spostamento del centro abitato nella zona interna. Intanto, la relazione della città con la madonna di Cagliari venne molto considerata.

Di fatto gli ospiti dall'Europa furono la regina di Spagna ed il sottoscritto, considerato come ospite d'onore, con tanto di vettura e accompagnatore per una settimana. Mi fu pure conferita la cittadinanza onoraria. Conservo, come traccia simpatica di quella esperienza, una pagine del "Boletin Municipal de la Ciudad de Buenos Aires" che decreta tutti quegli onori all'«Obispo de la Ciudad de Cagliari, Cerdena». Mi fermai a Buenos Aires dal 10 al 16 giugno. Oltre le cerimonie ufficiali (cattedrale e municipio) andai a celebrare nelle chiese dove avrei potuto incontrare famiglie italiane, in particolare nella chiesa di Nostra Signora di Bonaria affidata ai padri mercedari. La struttura e la statua erano del tutto diverse dalle nostre, ma per fortuna riuscii a convincere per la preparazione di una statua, realizzata ad Ortisei, simile alla nostra. Ora è esposta all'ingresso della cattedrale. In particolare ricordo che si avvicinò a salutarmi una signora, il cui cognome era chiaramente sardo. Mi disse di essere nata in Argentina dove i suoi nonni erano giunti nel 1904. Per fortuna non incontrai il dittatore Videla, che non venne ai vari incontri.

Bella fortuna veramente, considerato anche quanto s'è detto - e mai chiarito - su certe connivenze fra uomini di chiesa e la dittatura militare. Altre avventure?

Sì, ma in Europa, che è stata la terra principale della emigrazione italiana e sarda in particolare. Svariate volte sono stato in Germania, nella zona di Friburgo, facendo capo alle residenze di due nostri missionari: don Antonio Desogus e don Lauro Nurra.

Mi incontrai con la comunità degli emigrati in adunanza, visitai il console italiano ed anche l'arcivescovo di Friburgo, celebrai messa in cattedrale con il capitolo dei canonici...

In italiano o in tedesco?

In tedesco! Rispolverai l'antica conoscenza, almeno di quel tanto che serviva per la liturgia.

Inoltre?

Come ho detto le visite furono diverse. In una di queste amministrai le cresime ai figli degli emigrati italiani, fra i quali i sardi non erano pochi. Ma poi debbo dire che le occasioni per mantenere e alimentare i rapporti con i riferimenti di quelle comunità - intendo i sacerdoti amici don Desogus e don Nurra - non mancarono neppure nei miei anni oristanesi...

Un caro ricordo è la sosta di riposo a casa di don Nurra nella Foresta nera, ai confini con la Svizzera.

Amministratore apostolico in Ogliastra

Nei primi mesi del 1981 lei fu incaricato dell'amministrazione apostolica della Chiesa di Lanusei. In quale contesto avvenne questa nomina?

Ricevetti l'incarico quando monsignor Salvatore Delogu cessò perché trasferito a Valva e Sulmona in Abruzzo. Fu lui stesso, come mi confidò allora, a proporre alla Santa Sede il mio nome. Mi voleva bene e mi stimava. Ricordo che la nomina ufficiale mi fu trasmessa dal segretario della Congregazione per i Vescovi che era monsignor Moreira Neves, che conoscevo personalmente, il quale mi telefonò la notizia verso le 13. Era una di quelle telefonate che... non aiutano la digestione. Anche se io credo che noi preti e vescovi siamo in campo per servire, e quindi ci dobbiamo dare sempre una ragione di quel che ci viene chiesto. Ma in quella situazione, preso alla sprovvista, gli feci notare: «ma eccellenza, Cagliari-Lanusei è un viaggio molto pesante, sono 145 chilometri!», e lui: «un motivo in più per fare in fretta». Sennonché questa "fretta" durò nove mesi, perché presi possesso, con la presentazione della bolla papale, il mercoledì delle ceneri - cioè ai primissimi giorni di marzo - del 1981, e mantenni l'incarico che durò fino a novembre 1981...

Quando arrivò, fresco di promozione, don Antioco Piseddu, parroco di Sant'Anna a Cagliari. La parrocchia del suo battesimo.

E anche un sacerdote che conoscevo benissimo anche perché quando io lavoravo nella parrocchia della cattedrale e in curia, lui era segretario particolare del cardinale Baggio; ero già stato con lui in seminario, dove insegnava italiano.

E che esperienza fu l'amministrazione apostolica in Ogliastra?

Non fu cosa facile, Cagliari-Lanusei è veramente una bella distanza e la strada oltre che lunga non è neppure facile. Inoltre, nel 1981 ero ausiliare di monsignor Bonfiglioli che purtroppo cominciava a declinare, e quindi dovevo assisterlo e sostituirlo più che prima.

Andavo di frequente a Lanusei, circa ogni due settimane trattenendomi ogni volta alcuni giorni, in modo da essere presente a tutti gli incontri dei sacerdoti, poi alle funzioni della settimana santa e poi ancora per le cresime. D'estate mi fermai un mese intero per essere più facilmente accessibile a tutti. Andavo, incontravo, ricevevo sempre molte persone, ho girato e visitato se non tutte, certamente molte parrocchie fra loro anche distanti, su versanti opposti di quelle montagne, come Seulo, Sadali, Urzulei... La diocesi aveva allora 30 parrocchie e 40 sacerdoti, era abbastanza grande come territorio ma non aveva grandi numeri, e quindi era abbastanza gestibile.

Naturalmente mi fu preziosissima la collaborazione di monsignor Stocchino, che era il vicario generale di monsignor Delogu, e che confermai immediatamente. E ricordo con gratitudine l'affetto di quell'ambiente, la vicinanza dei sacerdoti che mi aiutarono in una pastorale che presentava evidentemente delle caratteristiche diverse da quelle di Cagliari, per ragioni sociali e geografiche abbastanza intuibili.

Continuai ad andare a Lanusei anche dopo la nomina di monsignor Piseddu, lasciando soltanto negli ultimi giorni, per consentire maggior libertà nell'organizzazione dell'ingresso del nuovo vescovo, ma restando comunque sempre disponibile via telefono per eventuali questioni importanti o urgenti. Sul piano formale conservai i poteri fino alla presa di possesso formale del nuovo vescovo. Questo avveniva due anni prima della pubblicazione del nuovo codice di diritto canonico.

Integro quanto lei ha detto in questa rapida rassegna, aggiungendo quanto la stampa riferì al consuntivo di quei nove, quasi dieci mesi di sua permanenza in Ogliastra: con le visite alle parrocchie per il servizio delle cresime, le visite ripetute all'ospedale di Lanusei ed ai centri Aias per incontrare bambini e giovani con varie difficoltà motorie. E ancora: l'incontro con duemila ragazzi dell'Azione Cattolica e, sul piano ancor più strettamente ecclesiale, nel recinto dei ministeri ordinati voglio dire, gli incontri con il clero nella settimana santa del 1981, la quattro giorni a Bau 'e Mela sul tema "Spiritualità del presbiterio diocesano ", la consacrazione della chiesa intitolata a Cristo Re nella cittadina capoluogo...

Ricordo benissimo. Fu anche murata una lapide, nella nuova chiesa, per solennizzare l'evento. Ma veramente spero che, al di là della lapide marmorea, sia il rapporto spirituale e umano instaurato con il presbiterio e con tutta la comunità ogliastrina, quella religiosa eminentemente ma anche quella civile, ad essere rimasto nella memoria e nel sentimento. Senz'altro io conservo piena memoria e un forte sentimento di quella mia immersione ogliastrina.

Nello stesso autunno 1981 lei ordinò il primo diacono permanente della diocesi di Cagliari. Fu una svolta nella vita ecclesiale locale. Come vi si trovò coinvolto?

Mi interessai del diaconato permanente proprio dagli inizi per incarico espresso di monsignor Bonfiglioli. Erano cinque i primi candidati, con i quali mi incontravo ripetutamente, guidando la loro formazione... Forse anche per questo, la prima ordinazione diaconale l'arcivescovo volle che la celebrassi io. Fu in cattedrale mi pare il 22 novembre 1981, per Gianfranco Atzeni, che purtroppo ci lasciò poi prematuramente. Era sposato e aveva figli.

In seguito dovetti chiedere di essere sostituito perché non ce la facevo a tenere il carico, e allora fu nominato don Tonio Pittau, un sacerdote che mi fa piacere ricordare anche per le circostanze oscure della sua morte nel 1988, allorché era parroco della cattedrale.

Le problematiche del diaconato permanente, tante volte semplificate se non proprio banalizzate, ho naturalmente continuato a seguirle dal di fuori.

Pro-rettore del Regionale e la morte di monsignor Sitzia

Nel marzo 1982 lei guidò i chierici sardi in udienza da Giovanni Paolo Il. Siamo ad appena una decina di mesi dal terribile attentato. Che ricordo le è rimasto?

Ero allora, per un anno, anche prorettore del seminario regionale, ed a fine marzo, con gli animatori accompagnai la trentina di nostri studenti a Villa Tuscolana, dei salesiani, per seguire un corso di esercizi spirituali guidati da padre Angelo Sapa. «Umiltà, fede, riconciliazione e penitenza»: quelli erano i temi, mossi da una forte intenzione cristologica.

Domenica 28 marzo fummo ammessi nella cappella paolina per partecipare all'eucarestia presieduta, alle 7,30 del mattino, da sua santità. Concelebrammo anche noi, sei sacerdoti e vescovo che guidavamo il gruppo. I nostri ragazzi e i sampietrini eseguirono i canti. Si concluse tutto con il canto del "Deus ti salvet Maria". La liturgia era quella del "seme che muore per portare frutto". Ammessi poi nella sala Reggia, dopo qualche parola del papa, a ciascuno di noi fu donato un rosario, e anche... un imperativo: «crescete dentro e crescete di numero».

Sempre vicino lei a monsignor Bonfiglioli che ormai era al compimento del suo decennale cagliaritano. Ma costretto sempre più a sostituirlo.

Quei mesi mi rimangono impressi per più ragioni. Perché quel decennale tendeva a farsi sempre più penoso per lo stato di salute dell'arcivescovo e anche per la pressoché concomitanza della morte del caro monsignor Sitzia, che molto mi aveva addolorato.

Per onorarne la memoria scrissi una breve nota per il nostro settimanale: «La capacità intellettuale e la preparazione culturale di Mons. Sitzia erano quasi nascoste dalla sua prontezza nel mettersi al servizio di chi si rivolgeva a lui. Ascoltava a tutte le ore: per telefono, nella scuola, nell'ufficio della Curia, al termine delle sacre funzioni... Voleva che tutti conoscessero la sua obbedienza fedele alla Chiesa... Mons. Sitzia era senza pretese, non disturbava nessuno, non voleva che nessuno si disturbasse per lui».

Riguardo all'arcivescovo, potrei anche qui ricordare alcune delle parole scritte per ringraziarlo del servizio episcopale cagliaritano ormai, appunto, al decennale: «Nella conversazione personale Mons. Bonfiglioli si dimostra sempre disponibile e attento, per ottenere, più che l'osservanza delle norme, quella "sapientia cordis" principio e anima della vita cristiana. Nel governo della diocesi ha portato la lettera e lo spirito del Concilio, al quale aveva partecipato personalmente. La delicatezza della proposta e dell'azione ha fatto intravedere l'animo di chi non pretende di sapere tutto, ma è lui stesso alla ricerca, preoccupato di imparare e maturare lo spirito del pastore, che non si può acquisire una volta per sempre».

Questo avveniva nel giugno 1983. Nell’ottobre dello stesso anno, domenica 23 per la precisione, potei concelebrare con lui e con numerosi nostri sacerdoti diocesani nella basilica di San Paolo fuori le mura, a Roma, dove ci recammo per l’anno santo straordinario, indetto nel 1950° anniversario della morte e resurrezione di Gesù. Eravamo ben 900 pellegrini, il coordinatore era il compianto don Luciano Vacca. La liturgia della parola s'imperniava sulla parabola del figliol prodigo.

Mercoledì 26, poi, ci fu, in piazza San Pietro l'udienza plenaria, diciamo così, all'interno della liturgia giubilare celebrata da Giovanni Paolo II. Eravamo in centomila! Dalla parrocchia di don Vacca, San Gregorio Magno di Pirri, fu donato al santo padre, a nome di tutti, un grande tappeto sardo per la sua cappella.

Arriva monsignor Canestri

La progressiva decadenza fisica di monsignor Bonfiglioli accrebbe il peso del suo ufficio: non solo accompagnare e aiutare, ma anche sostituire. Come visse quelle fasi?

Era doloroso vedere la decadenza dell'arcivescovo, tanto più se lo si ricordava nella sua efficienza dei primi anni. Efficienza sulla quale però faceva premio sempre la semplicità e la bonomia, per non dire bontà, come anche era annunciato dal suo motto episcopale. Trovava difficoltà crescenti soprattutto nella parola, non poteva più parlare nelle cerimonie pubbliche. Io intervenivo quando lui me lo chiedeva, stavo sempre ai suoi desideri. Cercò anche di guidarci nelle funzioni legate all'anno santo straordinario 1983-84 del quale ho appena detto. Chiaramente me ne dovetti occupare soprattutto io. Proprio allora rinunciò alla diocesi, fra molta sofferenza, anche se sono certo che nel suo intimo aveva la serenità di chi sa di aver fatto tutto quel che era nelle sue umane possibilità. Concludemmo il nostro anno santo quando già era stata data notizia della nomina a nuovo arcivescovo di monsignor Giovanni Canestri.

Ecco, monsignor Canestri, vice gerente della diocesi di Roma, promosso alla sede metropolitana di Cagliari. Lei lo conosceva già?

Lo conoscevo di vista. Il suo arrivo me lo comunicò il cardinale Baggio in forma riservatissima, consigliandomi implicitamente di incontrarmi con lui. Questo incontro avvenne a Roma al principio di febbraio 1984.

Dopo le dimissioni di monsignor Bonfiglioli, decaduto dunque dall'incarico di vicario generale, io ero stato eletto dai consultori amministratore diocesano. In pratica dovevo governare io la diocesi in attesa dell'arrivo del nuovo arcivescovo. Per questo credetti giusto di andare a salutare monsignor Canestri prima ancora che l'annuncio della sua venuta da noi fosse reso pubblico.





Lui era stato altre volte in Sardegna?

Non so se fosse mai venuto nell'Isola prima. Ad ogni modo, per lui era un salto nell'ignoto. Fu cordialissimo e molto delicato, anticipandomi la sua fiducia, fiducia che avrebbe poi dovuto prolungare per quel malessere sopravvenuto all'arrivo a Cagliari e che lo tenne lontano...

È rimasto nelle cronache. Come sono andate precisamente le cose?

Intanto ricorderei che in occasione della Pasqua, che cadeva quell'anno il 22 aprile, diffusi un messaggio che seguiva immediatamente l'omelia tenuta il giovedì santo presiedendo la messa crismale con tutti i sacerdoti della diocesi. Fu anzi in quell'occasione che l'arcivescovo, mio tramite, prese possesso del governo diocesano. Concludevo il mio messaggio pasquale esortando tutti alla preghiera per il nuovo pastore ed alla riflessione sulla sua missione, raccomandando la partecipazione alla prima celebrazione eucaristica di monsignor Canestri «tra noi e per noi», nella domenica in albis.

Egli arrivò a Cagliari col primo aereo del mattino di sabato 28 aprile. Io andai ad accoglierlo e lo accompagnai a Bonaria, perché secondo la tradizione dei vescovi di Cagliari il ritiro spirituale avviene, prima del solenne ingresso, a Bonaria. Giunti al convento, quando mi congedò, mi confidò di sentirsi poco bene: «da stamattina quando sono partito da Roma..., ad ogni modo spero, con qualche pastiglia, di riprendermi...». Lo salutai e partii per Nurri, dove avevo fissato le cresime.

Tornato in città, verso le 21 ricevetti una telefonata proprio da Bonaria con cui mi si comunicava che l'arcivescovo era stato ricoverato d'urgenza in ospedale. Naturalmente andai subito al San Giovanni di Dio. Era veramente tardi, doveva essere stanchissimo e però volle tranquillizzarmi: l'indomani avrebbe fatto l'ingresso secondo programma.

L'indomani, domenica 29, io avevo fissato in mattinata tre turni di cresime; quindi andai da lui abbastanza presto - verso le 8 - prima di partire per le varie destinazioni. Mi disse: «non sto ancora bene, ma speriamo». Feci quel percorso di cresime, ricordo che le ultime erano a Selargius a mezzogiorno e mezza. Certo ero preoccupato prima di tutto per lui, per la sua salute, e poi anche per la cerimonia, per i tanti che erano in movimento, molti che dalla provincia venivano a Cagliari per assistere all'insediamento... Arrivai a casa nel primo pomeriggio. Telefonate una dopo l'altra, mi chiedevano: «ma è vero?»... Cosa potevo rispondere: «non sappiamo...».

Verso le 15, andai in ospedale per informarmi della situazione e subito incontrai il professor Provenzale che mi disse: «lo convinca che non vada». Entrai nella camera dell'arcivescovo e lui mi accolse con questa proposta: «lei vada, incominci la funzione, io semmai arrivo alla fine a dare un saluto». Obiettai: «ma guardi, stia attento, lei non sa come va a finire questo malessere. Se le dovesse sopraggiungere uno svenimento, s'immagini cosa capiterebbe in chiesa...». Rispose: «ha ragione, vada e faccia tutto lei».

Come ho detto, sul piano del diritto canonico, lui era già pienamente arcivescovo di Cagliari, perché ne aveva preso possesso, mio tramite, il giovedì santo. Ed io non ero più amministratore diocesano ma ero tornato ad essere il vicario generale.

Insomma un cambiamento improvviso di programma. Fece in tempo ad avvertire quelli che dovevano guidare la cerimonia?

Soltanto in parte. Si doveva partire da Piazza Indipendenza, sennonché io, che arrivai con la mia 126 con la quale mi potevo muovere con facilità, potei dare un primo contrordine. Dissi: «tornate in chiesa, si fa tutto in cattedrale». Senza altre spiegazioni. Arrivai nella sacrestia dei canonici dove i sacerdoti, già vestiti con gli abiti liturgici, stavano per andare alla piazza, e dissi: «guardate, c'è un cambiamento, la cerimonia la presiedo io». Ci fu un parapiglia in quel momento.

Erano presenti anche due vescovi - monsignor Bonfiglioli e monsignor Carta - e con loro e gli altri sacerdoti ho dato inizio alla messa. Si doveva partire con il saluto del sindaco, che era Paolo De Magistris, il quale comprensibilmente rimase un po' impacciato, e ricordo che disse proprio: «io ho qui il testo delle parole che avrei rivolto a monsignor Canestri, che però non c'è. Ve lo leggo lo stesso, per dire i sentimenti con cui avremmo accolto il nuovo arcivescovo».

E lei, nella sua omelia, cosa disse?

Non ho tenuto una mia omelia. Ho letto il testo che l'arcivescovo aveva scritto e mi aveva consegnato proprio perché ne dessi lettura. Dissi soltanto: «io non devo parlare ricordando un assente, qui è lui stesso che parla perché mi ha dato il testo del suo discorso...». Alla fin fine si svolse tutto regolarmente. Tante offerte che avevano portato come omaggio da varie parti io le mandai a casa sua: erano i frutti della terra, solo che lui certamente non ha potuto neanche assaggiarne. E così è finita la giornata.

Ed ha riferito poi al povero monsignore ricoverato che tutto era comunque proceduto abbastanza bene, e della commozione e preoccupazione di tanti per la sua salute?

Sì, certo, la sera, dopo la funzione, andai per la terza volta, nella giornata, in ospedale. E naturalmente gli riferii, gli portai i saluti, i segni dell'affetto, ecc.

Ma la vicenda non è finita. Cosa accadde dopo?

L'indomani - lunedì 30 che è l'apertura di tutto quello che il l° maggio vuol dire a Cagliari—, mi telefonò personalmente alle 9 di sera il primario. Mi disse: «lei è il responsabile della diocesi, debbo avvisarla che fra poco entrerò in sala operatoria». Era chiara l'urgenza: quel giorno, quell'ora... La cosa era seria.

La sera stessa telefonai a Roma, forse alla segreteria di Stato - il cardinale Baggio doveva aver già lasciato il suo ufficio -, non ricordo con chi parlai. La notizia comunque fu subito risaputa. Tant'è che l'indomani mattina, col primo aereo, arrivò il cardinale Poletti, vicario generale del papa a Roma. Andai a prenderlo io all'aeroporto per accompagnarlo poi all'ospedale. Mi misi lo zucchetto in testa, e così riuscii a passare, perché dovevo attraversare il viale Fra Ignazio venendo dall'aeroporto, c'erano is traccas di Sant'Efisio... Comunque, anche senza troppe difficoltà arrivai al San Giovanni di Dio, dove mi pare di ricordare fossi già stato proprio di primissimo mattino.

L'operazione era andata bene: un'ulcera perforante e rischiosa, niente di più, ma comunque era una situazione in sé grave. Naturalmente monsignor Canestri era sedato. Il cardinale Poletti si informò delle condizioni del malato con il personale medico, salutò l'arcivescovo, poi stemmo un po' insieme e lo accompagnai infine in episcopio, dove si fermò. Io dovetti lasciarlo perché, contando che il 1° maggio in via Roma ci andasse monsignor Canestri, quando fissai l'agenda, mi ero preso un altro impegno di cresime.

C'erano cresime in ogni parrocchia e ogni giorno in quel periodo!

Le cresime si fissano più spesso dopo la Pasqua e fino a giugno, e le parrocchie della diocesi erano divenute circa centotrenta... Quindi mi rimisi in macchina e andai, non ricordo dove, ad amministrare cresime. E al ritorno nuovamente visita in ospedale... Questo avvenne per più giorni, come peraltro era giusto fare. Passata qualche settimana, ecco finalmente una prima ripresa... C'erano cose importanti da decidere, e non potevo né volevo fare nulla che non fosse autorizzato... Io potevo dire: «c'è questo di importante; io penserei di fare questo, cosa ne dice?». Ma non me la sentivo di non coinvolgerlo, di non informarlo. Anche se, dall'altra parte, dovevo rispettare il suo bisogno di tranquillità.

Ricordo che c'erano alcune nomine urgenti da fare. C'erano parrocchie vacanti e le nomine le poteva fare solo lui, o io ma a nome suo... Tutto fu poi fatto e ufficializzato a luglio, fu un movimento che interessò una ventina di sacerdoti.

Mi pare che uscì dall'ospedale dopo un mese circa, ma era in condizioni ancora di grandissima debolezza... Chiesi conferme al primario che mi rassicurò: l'operazione era andata bene, non c'era nessun postumo particolare. Poté partire per la convalescenza. Andò in Svizzera, presso la casa delle suore che lo assistevano. Tornò a Cagliari alla fine di agosto, riprendendo pian piano, allenandosi all'attività, cercando di conoscere la nostra realtà.

Una sinergia leale sempre, ogni giorno ed ogni ora

Funzionò bene anche la vostra intesa? Quale differenza c'era, nell'impatto pastorale, fra l'arcivescovo di prima e quello di dopo?

L'armonia con monsignor Canestri fu totale come totale era stata quella con monsignor Bonfiglioli. Con il nuovo arcivescovo collaborai per un anno e mezzo, dal 29 aprile 1984 al 4 novembre dell'anno successivo, quando mi giunse la notizia del trasferimento a Oristano. Lui desiderava che io restassi, ma mi chiesero di andar fuori, e io al solito obbedii... Veramente per me non c'è stata alcuna difficoltà di collaborazione. Entrambi gli arcivescovi si erano rivelati persone amabili, delicate... Anche monsignor Canestri mi dette piena fiducia e con lui continuai nel metodo inaugurato con il predecessore: ci si vedeva tutti i giorni, la mattina alle 9 in punto per concordare alcuni impegni o alcune decisioni. Anche lui chiedeva, ascoltava, si faceva aiutare con grande disponibilità e, direi, umiltà. Naturalmente, essendo nuovo dell'ambiente, venendo in questo mondo che gli era ancora ignoto, non faceva passi avventati, era prudente.

All'inizio del 1985 lei festeggiò - si fa per dire, ché effettivamente le feste mancarono - i dieci anni di episcopato. Rilasciò qualche intervista tentando un consuntivo e insieme prospettando un preventivo. L'archidiocesi in quel momento contava 530mila abitanti e 128 parrocchie. Da quel che lei disse, sembra che avvertisse più luci che ombre. L'ottimismo della volontà che faceva premio sul pessimismo della ragione?

Noi siamo sempre impari ai bisogni che abbiamo davanti. Ma dobbiamo dare sempre il meglio che possiamo. Certo, l'espansione della popolazione, allora, poneva problemi crescenti per esempio sul piano sociale, legati alla casa, alla solitudine degli anziani, all'occupazione giovanile, purtroppo al diffondersi della droga - ricordiamoci che la prima comunità era nata a Cagliari dai francescani di San Mauro nel 1980 - ecc. Ma forse la società era complessivamente più propositiva di prima. C'era una maggiore serenità nella prospettazione delle proprie tesi, senza una contestazione dell'esistente priva di argomenti o di una intenzione conciliativa.

La mia idea era che la stessa Chiesa locale, nella complessità delle sue componenti, sapesse superare il tono puramente o prevalentemente esortativo di un tempo, indirizzando meglio il proprio messaggio con maggiore precisione verso le sedi portatrici di responsabilità politica. Ma poi anche sapesse meglio radicarsi in quegli ambiti nei quali maggiori erano le necessità e le urgenze: in sostanza dove maggiore era il deficit di fraternità vissuta. E aggiungo che già si cominciava a pensare a un aggiornamento del piano pastorale, che monsignor Canestri avrebbe successivamente lanciato all'insegna delle microrealizzazioni di carità.

La visita di Giovanni Paolo II in Sardegna

Dell'ottobre 1985 è la visita in Sardegna ed a Cagliari di Giovanni Paolo Il. Quale la sua testimonianza, e quale parte ne ebbe lei?

La visita era programmata per tutta la Sardegna, toccando quasi tutte le diocesi. Quindi non c'è stata nessuna richiesta specifica alla diocesi, la visita era compresa nel programma pastorale del papa come primate d'Italia, che infatti nel corso dei lunghi anni del suo pontificato ha visitato larghissima parte delle diocesi della penisola e delle isole. Gli accordi furono presi dalla segreteria di Stato con monsignor Spanedda, che in quel tempo era presidente della Conferenza Episcopale Sarda oltreché arcivescovo di Oristano.

Papa Wojtyla aveva già allora una grandissima esposizione mediatica. Folle acclamanti sempre e dovunque, ma anche passive e non relazionali altro che sull'onda dell'emozione. Direi empatia umana ma, di frequente, superficiale indugio sul messaggio. Concorda con questa opinione e, se sì, avvertì lei, avvertirono i capi delle comunità ecclesiali isolane che il rischio si presentava anche in Sardegna?

Porto una testimonianza personale precisa. Nell'estate del 1985, dunque mentre intensa proseguiva la preparazione della visita, scrissi per il giornale diocesano di Cagliari un articolo da cui potrei stralciare alcuni brevi passi che rispondono bene, credo, alla domanda. Eccoli qua:

«Nei tempi recenti è certo cresciuta la vicinanza fisica del Papa, la sua visibilità: possiamo dire che è altrettanto viva la fede nel Papa, l'adesione e la fedeltà al Papa, guida spirituale del Popolo di Dio? Notando la presenza immediata del Papa nel mondo contemporaneo, con l'accorrere delle folle per incontrano, dobbiamo insistere sull'attenzione al suo messaggio, che Egli offre ai credenti e al mondo per mandato di Cristo».

E ancora: «dobbiamo preparare, nella fede orante, il nostro incontro col Papa: prima ancora di seguire sulla carta il suo itinerario o di leggere l'orario dei programmi, senza preoccuparci per ora del posto da conquistare per vedere bene il Papa. È necessario infatti occupare il posto del credente, che desidera essere confermato nella fede da Pietro, che vuole stabilizzarsi sulla sicurezza di quella Pietra, nella fedeltà al Pastore supremo Cristo Signore, che ha dato a Simone di Giovanni il mandato di pascere il suo gregge».

Concludevo rilanciando l'invito dei vescovi sardi diffuso nella Pasqua 1985: «Prepariamoci con un programma di sincero rinnovamento, ispirandoci al Concilio: più profonda conoscenza del ministero cristiano nella catechesi alla gioventù e agli adulti; più responsabile inserimento dei nostri laici nelle comunità ecclesiali e nella società civile; sempre maggiore generosità nell'amore verso gli ultimi».

Il papa fu a Cagliari la sera di sabato 19 dopo aver visitato le diocesi di Iglesias, Oristano, Nuoro e Sassari. Al suo arrivo in città fu salutato dal sindaco De Magistris e dal ministro Carta davanti al municipio, poi salì per riposare in episcopio. Do per scontato che vi parlaste. Soltanto convenevoli o ci fu qualcosa di più importante?

Collaborando con monsignor Canestri, mi capitò di essere anch'io molto vicino al papa, perché anche stavolta, a differenza di quel che accadde per Paolo VI che fu ospite dei mercedari a Bonaria, lo si doveva ricevere nel palazzo arcivescovile. Qui Giovanni Paolo II soggiornò dalla sera dell'arrivo in città, di rientro da Sassari e dopo il saluto in municipio. E con il papa ci siamo quindi trovati a cena. Fu messo, per protocollo, alla sua destra monsignor Canestri e io alla sua sinistra. Alla nostra tavola partecipavano anche il sostituto della segreteria di Stato Martinez Somalo, poi cardinale, e altri due o tre accompagnatori, mi pare monsignor Monduzzi e il segretario particolare.

I nostri vescovi intervennero invece al pranzo dell'indomani, dopo la messa a Bonaria. D'altra parte il papa li aveva già visti tutti nel giro delle varie diocesi metropolitane o a Nuoro. Dunque lui risalì dalla via Roma a Castello con monsignor Canestri, io lo aspettavo a casa. Nell'atrio dell'episcopio - era già tardi - ci fu la presentazione di tutti gli ufficiali della nostra curia, i saluti di benvenuto, e poi andammo quasi subito a cena, una cena sobria.

Ecco, con quali discorsi?

Mah, certo ci fu qualche scambio di impressioni su quel che aveva visto e però ricordo bene che prendemmo qualche accordo nuovo per il programma dell'indomani. Avevo ricevuto molte sollecitazioni perché il papa, andando come era previsto all'ospedale Brotzu, si fermasse un attimo anche davanti all'Oncologico, il tanto di una benedizione agli ammalati. Così durante la cena, quando gli proposi di fare una deviazione andando all'ospedale, per fermarci di fronte all'ospedale Businco, accettò subito volentieri. Dato il modo con cui accolse la richiesta, verificai anche la sua affabilità e disponibilità.

Nel concreto, la mattina seguente, non solo si fermò il tempo di una benedizione, ma scese dalla macchina, entrò nel cortile dell'Oncologico e anche nel grande atrio che era pieno di ammalati, Un breve saluto, una preghiera, la benedizione... Fu una cosa molto commovente. Naturalmente, poiché si trattava di una variazione al programma, mi ero preoccupato di dare gli avvisi a chi di ragione, come la polizia, per sapere come guidare il corteo.

E il resto della giornata?

Tutto secondo copione. Con molto entusiasmo da parte nostra e molta disponibilità e anche molto calore da parte del papa. Lui si alzò presto, e quando ci andai io lo trovai già in cappella, immerso nella meditazione. E poi gli ospedali, come ho detto, la grande messa sul sagrato di Bonaria davanti al mare, il pranzo in episcopio con tutti i vescovi della Sardegna. Ad un certo punto, il santo padre, siccome sentiva la stanchezza, ci salutò lasciandoci terminare il pranzo da soli e si ritirò a riposare una mezz'oretta. E poi, mi pare già alle 15,30, fu in cattedrale per il saluto ai sacerdoti, religiosi e religiose, quindi al carcere di BuonCammino.

Un ricordo particolare?

Sì, io avevo preceduto il papa e il suo seguito. Le guardie all'ingresso, mi dissero subito che, per regolamento carcerario, con il papa potevamo entrare soltanto l'arcivescovo Canestri ed io, in quanto vescovi del luogo; per gli altri si richiedeva la carta d'identità. Sennonché quelli del seguito di Giovanni Paolo II non erano pochi di certo: c'erano il segretario particolare del papa, il sostituto alla segreteria di Stato, il maestro delle cerimonie, il direttore dell "Osservatore Romano" e altri monsignori ancora, nonché, fra i sardi, don Sergio Manunza che era il segretario di monsignor Canestri. Non potevo certamente tornare in episcopio e procurarmi i documenti, non c'era tempo. Allora mi venne spontanea un'indicazione: «Benissimo! la carta chiedetela pure quando arriverà il corteo».

Mi accorsi poi che lasciarono passare tutti. Nel cortiletto c'era ressa. Fu molto bello il discorso di accoglienza del detenuto e poi, soprattutto, quello del santo padre. Egli appena finito, chiese di salutare le detenute. L'incontro non era previsto. Naturalmente accompagnammo il papa, anch'io ero nel gruppo: non potevo perdere l'occasione! Nella cappella del reparto femminile lui espresse parole spontanee, e furono altrettanto spontanei gli applausi delle carcerate...

E quindi la tappa finale al largo Carlo Felice. Altri ricordi?

Eravamo nel Largo dalla parte di via Roma e quasi di fronte al municipio dove era avvenuta la sera prima l'accoglienza da parte del sindaco De Magistris. Era un momento molto atteso: il papa incontrava i giovani. Una serata memorabile.

Sono usciti vari libri, fotografici e anche con i testi dei discorsi, che documentano tutta la visita sarda e anche la permanenza a Cagliari...

Peccato che non si sia fatto altrettanto con Paolo VI, ancorché con i mezzi più modesti di quindici anni prima. Della visita di Paolo VI è rimasto pochissimo, tra filmati e album fotografici e resoconti scritti. Può essere un'idea quella di riunire il materiale documentario e fotografico, che sicuramente c'è e magari è disperso.

Comunque, per concludere, intorno alle 20, forse dopo, raggiungemmo una banchina del porto e in elicottero accompagnammo il santo padre all'aeroporto militare di Decimo. Quando ci alzammo in volo, egli raccolse la testa fra le mani: fece silenzio; poteva essere un atteggiamento di riposo, ma penso che più probabilmente fosse una ricerca di raccoglimento per pregare qualche minuto. Da Decimo, dove era arrivato la mattina del 18, egli ripartì per Roma.

Ha avuto altre occasioni di incontrano e magari di ricordare la visita sarda?

Certamente, ci siamo incontrati varie volte. Le visite ad limina - ce n'era stata già qualcuna anche prima del 1985 - in tutto saranno state altre quattro o cinque. In quelle occasioni ci invitava sempre a pranzo e quindi riprendevamo i discorsi sulla Chiesa di Sardegna. Gli era rimasto un ricordo chiaro dell'ambiente e delle persone.

***

Scrivo queste note mentre continuano a giungere, drammatiche, le notizie da Kiev e dalla Ucraina tutta. Sia maledetto chi ha scatenato l’inferno ed ha provocato la morte e la sofferenza di tanti innocenti. (Ed ancora una volta abbiamo la plateale dimostrazione della nullità liberale degli esponenti della destra italiana, pagana e imbrogliona, da cui insistenti sono venuti, negli anni, gli accarezzamenti ad un pericoloso dittatore nato).


Fonte: Gianfranco Murtas
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