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Gianfranco Murtas

Nel dies natalis di David Maria Turoldo, servita: pensieri, ricordi, preghiere, propositi, recuperi… A Cagliari, nei luoghi di cura e di sconfitta, accompagnati da Nazareno, frate cappuccino

di Gianfranco Murtas

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Ieri all’ora nona mi dissero:

il Drago è certo, insediato nel centro

del ventre come un re sul trono.

E calmo risposi: bene! Mettiamoci

in orbita: prendiamo finalmente

la giusta misura davanti alle cose;

con serenità facciamo l’elenco:

e l’elenco è veramente breve.


Appena udibile, nel silenzio,

il fruscio delle nostre passioncelle

del quotidiano, uguale

a un crepitare di foglie

sull’erba disseccata.

Così, fra i suoi Canti ultimi, padre David Maria Turoldo il profeta servita. E ancora:


Mio male non è l’orrendo drago

che pure mi addenta e si avvinghia

su per il corpo come il Serpente sull’albero della vita.


Mio male è sapermi impotente

a dire il tuo dramma, mio Dio,

di fronte allo stesso male:

il tuo patire della nostra pena

di saperci così infelici.


O di non cantare con degni canti

la festa che fai quando

un bimbo è felice

e un disperato torna a sperare…


Frugo, nella mia biblioteca di casa, fra gli scaffali della sezione religiosa (Biblica-Cattolica-Ecumenica, non sarda) di fianco ai tanti crocifissi opera di Franco d’Aspro. Fra essi è il Cristo di Buchenwald, gigantesco e terribile. Meriterebbe una cattedrale o anche una chiesa di campagna, nel mezzo dei braccianti sfruttati in qualche parte del nostro mondo anche prossimo. Frugo fra i ripiani che con le opere di Carlo Maria Martini e quelle, altrettanto preziose e pur così diverse, di Tonino Bello, riuniscono i titoli di Lorenzo Milani, Primo Mazzolari, Ernesto Balducci… e quanti altri sono con loro: Arturo Paoli e Carlo Carretto, naturalmente con Charles de Foucauld e René Voillaume… e naturalmente con monsignor Oscar Arnulfo Romero ed Helder Camera, Leonardo Boff e Gustavo Gutierrez ed i teologi della liberazione… Sono circa seimila volumi, compresi quelli sul Concilio e il suo prima e il suo dopo, su papa Roncalli e papa Montini, e gli altri ancora di storia remota e storia prossima…Frugo perché cerco Turoldo, il Turoldo che ho in casa, il Turoldo che accompagna. Tutto ha un senso speciale ora che stiamo arrivando al trentennale della sua scomparsa, disseccato da un tumore. Trovo Il dramma è Dio (nelle tre edizioni Fabbri 1991, Rizzoli 1992 e BUR 1996), Amare (nelle edizioni del 1989 e del 2002), O sensi miei… Poesie 1948-1988 (monumentale BUR 1993), anche Dio è infelice (Piemme, ristampa 1993 e prefazione di Geno Pampaloni), Il Vangelo di Giovanni, guida alla comprensione dei testi (Rusconi 1997), Il sesto angelo, poesie scelte prima e dopo il 1968 (Oscar Mondadori 1976, introduzione di Angelo Romanò), e ancora Mie notti con Qohelet (Garzanti 1992, postfazione di Gianfranco Ravasi) e Caro Turoldo (di Fortunata Starita Colavero, biografia uscita per i tipi delle Paoline nel 1998 con una presentazione di Antonio Gentile e una introduzione di Giuseppe Maria Galassi, servita del convento napoletano di San Pietro a Majella). Trovo anche una sua curatela e traduzione (con Giordano Remondi) dall’inglese: La storia di Gesù, un’opera uscita per la prima volta nel 1980 con i testi di Norman J. Bull e le gustose illustrazioni di Mike Could e ripubblicata in italiano ed in grande formato dalle edizioni di San Paolo nel 1988 (fino a una quinta ristampa nel 1998): un sussidio insieme divulgativo e preciso, documentato, d’intento insieme pedagogico e d’alta cultura storica e spirituale… Poi, nell’emeroteca che ho impiantato prima della biblioteca, ragazzo squattrinato che poteva raccogliere e classificare soltanto i ritagli dei giornali, ecco una cartellina con gli estratti di stampa…

Mi accompagno in questi giorni a padre Turoldo. E’ un bello stare con lui, ma molto impegnativo. E con la sua ideale compagnia riagguanto un pezzo di calendario cagliaritano. Ci metto dentro tanto Efisio Spettu, prete che ci credeva, amico mio perduto e indimenticato, per lunghi anni cappellano dell’oncologico. E altri santi del mio tempo e della mia terra, e storie qualsiasi, davvero qualsiasi. Rifletto sugli incastri di calendario, senza cercare nelle pure coincidenze nessuna magica spiegazione di niente, ma pure ragiono sui prima e sui dopo, sugli anticipatori e sulle sequele ideali.

Un frate, e quell’altro para circanti, e quell’altro ancora


 Sono trascorsi trent’anni, più di diecimila giorni da quello capitato nel bisestile. Il 29 febbraio 1992 fra Nazareno di Pula s’involava, da Cagliari, nel non tempo e nel non spazio, nel suo paradiso delle permanenze, in quello stato che i dotti chiamerebbero “senza prima e senza dopo”. S’involava accompagnato dal pensiero e dalla preghiera di molti il laico insaiato francescano tanto amato a Cagliari e nell’Isola tutta, dai molti che a lui erano ricorsi per lunghi trenta e più anni come per colmare un vuoto: quello seguito al congedo, incredibilmente doloroso, di quel suo confratello ai cui funerali, io bambino non ancora neppure iscritto alla prima scuola, potei assistere portatoci da mio padre. Fu nel viale che era chiamato, in antico, “degli ospizi”, quando ancora accoglieva, con i frati del convento e della chiesa d’impianto cinquecentesco intitolata a Sant’Antonio da Padova, i cosiddetti “infelici”. Infelici per la perdita chi della vista chi dell’udito, chi dell’accompagnamento familiare (l’Infanzia abbandonata) chi dell’età attiva (quelli del Ricovero di Mendicità figlio, all’indomani dell’unità d’Italia, della combinata o parallela carità cristiana e cattolica e di quella laica e massonica). Una folla straripante, in quel giugno 1958: come se Cagliari e l’Isola intera si fossero riversate a dire grazie e a dare onore a fra Nicola para circanti, che era passato in innumerevoli case e anche a casa mia, allora fra la Marina e sa butanica. Appena sette anni prima – mi vien da ricostruire così il calendario, andando all’indietro per trovare gli antecedenti, dunque le premesse d’una continuità storica e sentimentale bisognosa di lettura intelligente – la stessa irta e larga salita per Buoncammino, di lato all’orto botanico e all’anfiteatro romano, s’era affollata anche quella volta, già quella volta, di gente delle più varie condizioni, per celebrare frate Ignazio fatto santo, a Roma, da Pio XII. Una canonizzazione avvenuta giusto a duecentocinquanta anni dalla nascita, nel cuore del Sarcidano, di Vincenzo Peis, centosettant’anni dopo la sua morte da noi, in città. Lo scultore Franco d’Aspro – libero pensatore eppure spirito religioso quanto pochi altri – aveva innalzato, nel 1955, una statua con le fattezze del cappuccino piccolo e curvo, onorato da ricchi e da poveri, para circanti già lui del Settecento cagliaritano, quando Cagliari era soltanto e ancora la federazione dei quattro quartieri due-trecenteschi murati, e mosaico di salite e discese tutte polvere e con miseria diffusa ai margini dei tanti palazzi dei nobili don feudali d’importazione coloniale. Una rappresentazione bronzea collocata di fronte all’ingresso della chiesetta cui avrebbe fatto compagnia, uscendo dallo stesso laboratorio e dalla fornace di Villamassargia, una serie di grandi candelabri alti tre o quattro metri con rilievi di alcune scene francescane, riuniti nel santuario tutto cappuccino aperto accanto alla cella di riposo e preghiera di tanto santo. Nel 1968, nel decennale della morte di fra Nicola e prima di altri lutti, i miei si erano radunati proprio lì, per una festa religiosa di famiglia.


Frate Ignazio, frate Nicola, ora frate Nazareno. Frati laici di comunità. Una sequenza che neppure si sarebbe interrotta nel 1992, appunto trent’anni fa, diecimila giorni fa.

In uno spazio del convento-seminario serafico nuovo, la camera ardente aveva accolto, attorno alle spoglie di fra Nazareno – Nazareno in religione, Giovanni Zucca all’anagrafe civile ove era stato registrato nel 1911 in quel di Pula – migliaia e migliaia di persone. Me compreso, là in compagnia di Salvatore Cubeddu interprete del sentimento popolare più abile di me. A dare onore riflettendo su una vita meritevole s’esser messa sul moggio, ad illuminare tutti, virtuosi e peccatori, giovani e vecchi. Una vita con molte scene, forse soltanto in apparenza contrastanti o contradditorie… C’è un libro che racconta molto di Pula, del paese nella sua quotidianità rurale, ambientata proprio negli anni dell’infanzia ed adolescenza di Giovanni Zucca. L’ha scritto Gustavo Piu, un magistrato scomparso ormai da tempo, riferendo della sua prima età scanzonata e… moderatamente studiosa (poi fra il Siotto Pintor ed il Dettori del capoluogo), lui che era il fratello minore (e di secondo letto) del più noto, fra noi in Sardegna ed a Cagliari, monsignor Mario Piu, storico parroco di Sant’Anna e infine cappellano di Sant’Antonio abate in via Manno.

Visse dunque 81 anni fra Nazareno pulese, servo di Dio e prossimo beato e prossimo santo, e i primi venti e più li trascorse, in quel passaggio che la nostra società nazionale aveva conosciuto andando dalla grande guerra alla dittatura – consumando la guerra e consumando anche la dittatura -, nella campagna del paese natale, nel lavoro duro degli accudimenti agli animali e alle coltivazioni. Poi altre storie, l’emigrazione africana, la prigionia in Kenia, l’incontro con padre Pio da Pietrelcina, la scelta religiosa.

Al fonte della parrocchiale del paese era stato battezzato, due settimane dopo la nascita, il 6 febbraio. Alla stessa data, nel calendario dell’anno che avrebbe registrato la sua morte, scomparve precedendolo di poco nei grembi dell’Onnipotente, una umile figlia sarda, senorbiese, figlia già fatta madre però e costretta negli ultimi mesi in una stanza dell’ospedale oncologico del capoluogo. Un’agonia iniziata d’improvviso e sviluppatasi in parallelo, quella della figlia già fatta madre, neppure quarantenne, e quella del frate cappuccino di San Francesco. La storia dice che v’era stato, fra i due, e tratto chissà da dove, un ambasciatore: sì un messo, un procuratore senza credenziali né documenti, itinerante fra l’importante nosocomio regionale – concentrato allora dei migliori clinici dell’Isola – e la casa di cura che aveva accolto il religioso per assicurargli almeno quell’assistenza placebo che doveva accompagnarlo alla fine creduta ormai imminente.

Per santo mestiere

Mi hanno recapitato, e regalato, due, tre paginette di un memoriale di privato familiare. Da condividere o da tenere nel cassetto. Mi par giusto farlo pubblico.


 «Il frate era stanco stanchissimo, si sapeva. Gli era stata riservata una camera in un reparto specialmente silenzioso, vigilato da una caposala, religiosa anch’essa, che impediva ogni passaggio ed ogni disturbo, fosse anche motivato dalle migliori intenzioni. Ma quando, la mattina presto, arrivò l’ambasciatore, direttamente dall’oncologico, la suora lo accolse quasi con festa riferendogli che, al risveglio, all’alba, fra Nazareno le aveva confidato di avvertire un dolore supplementare, un nuovo tribolo venuto ad aggiungersi ai suoi già tutti catalogati e già tutti in rapido aggravamento: di più, venuto come un “dono” estremo alla sua missione fattasi estrema anch’essa, forse… Forse un tribolo da spiegarsi, date alcune circostanze poi emerse, come annuncio di quella visita azzardata, certamente imbarazzata, ma insieme obbligata, avvertita come necessaria, non per bussare a miracoli ma soltanto per confidare e affidarsi. Il frate aveva accolto la nuova afflizione ed accolse dunque l’ennesimo suo visitatore. Lo accolse per santo mestiere, intuendo o, chissà, conoscendo già il motivo della visita, e lo fece entrare subito nella sua comunione. Stando seduto su un lato del lettuccio con il rosario in mano, e la busta delle famose caramelle sul comodino. Un incontro di pochi minuti, cinque, dieci, qualcosa così. S’intesero i due, giocarono per triangolazioni catturando l’ineffabile. Consolato e rinfrancato l’ambasciatore peregrinante, che aveva temuto all’inizio di dover lui passare per il filtro dell’intelligenza spirituale del frate, insomma d’esser radiografato nell’anima ed esserne bocciato con mille rimproveri. Invece no, era stato dispensato da ogni giustificazione. Perché non doveva contare il messo quella volta, contava soltanto la sua missione. E fra Nazareno appunto alla missione soltanto dette attenzione e promise cura.

Decrittando un farfuglio

«Passarono pochi giorni, cento ore in tutto, e il sei febbraio del calendario, come giusto ottantuno anni prima al fonte della parrocchiale di San Giovanni Battista per Giovanni Zucca, una grazia che non può dirsi illuminò l’exit della giovane figlia già fatta madre. Tutt’attorno al suo letto di degenza, all’oncologico, nella camera illuminata dal pieno giorno ma pure carezzata da un silenzio che anticipava la sera e la fine di tutto, i suoi accompagnavano con un supplementare mutismo l’angoscia del momento, tutti rassegnati alla sconfitta. Le cannule delle flebo ormai inutili già staccate dal braccio, lei con gli occhi chiusi e dalla sua bocca un biascicare continuo alcune vocali all’apparenza prive di senso. Interpretate però, e infine, da qualcuno, attorno a quell’altare tutto umano, tutto laico, come allusive: dovevano essere le iniziali dei nomi dei suoi figlietti. Si capì tutto e subito allora, all’improvviso, e si poté osare… raccogliendo e decrittando quel farfuglio, regalando sprazzi di vita, di colore, al congedo, tenendo la morte, ancora per qualche istante, fuori della porta… Di quella decrittazione trasferendo alla moribonda l’energia vitale. Perché andando in risalita, ogni parola era come la didascalia di una diversa scena di vita vissuta nel quotidiano disbrigo del compito domestico ed educativo: la culla, la pappa, il giocattolo, la cartella di scuola… fino ad arrivare alle nozze, al giorno alto e fecondo di una breve vita già al capolinea.

«Gli occhi chiusi ormai da un giorno o forse da due o da tre si aprono, guardano attorno – chissà se vedono - e la voce riprende chiara la sua inflessione, non farfuglia più e invece lucidamente commenta: “Sì, c’era tanta gente quel giorno!”. Ma non solo: anche risponde ad un’incredula infermiera capitata in quel momento nella piccola camera affollata: “Come sta, signora?”. “Bene, grazie”. Erano le 13 e un quarto di giovedì 6 febbraio. Aveva, quella figlia, giusto l’età di fra Nazareno quando questi andò, per schiarirsi la mente, a San Giovanni Rotondo».


Un mistico potrebbe azzardare alte letture, riformulando le casuali coincidenze in disegni di provvidenza. Perché impedirglielo? Di quel giorno che vide un grande come padre David Maria Turoldo, religioso servita ed autore di Il dramma è Dio, andarsene anche lui dopo tanta disturbante presenza, nel suo corpo, del drago più malefico che sia dato immaginare. Un volo leggero nella realtà ineffabile. La missione – ritorna la parola – del frate laico cappuccino che era stato per lunghi anni il questuante della sua comunità, e dei poveri sovvenuti da quella comunità di Buoncammino, s’era compiuta. S’era preso lui, come dolore supplementare, quello dell’inferma a lui sconosciuta ma certamente non estranea, e l’aveva sostenuta nel volo leggero prima di compiere il proprio, ventitre giorni dopo. E godersi, anche lui dal Cielo, lo spettacolo della gran sincerità dei cuori sardi.


Fonte: Gianfranco Murtas
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