user profile avatar
Gianfranco Murtas

1915-1925, Lussu e l’amicizia con Camillo Bellieni teorico del sardismo

di Gianfranco Murtas

article photo


Un percorso, cominciando da Luigi Oggiano, il santo del PSd’A

La commozione che mi avvinse l’animo leggendo una pagina profondissima del Mazzini sul “dovere” quasi mi spinse a ricordare qui il concetto fondamentale onde è pervasa tutta l’opera sua politica e filosofica.

Ma, parlando ai giovani isolani, da cui si attende oggi la prova più bella di generosità e di entusiasmo, mi pare di sentire che una parte delle nobilissime tradizioni mazziniane sia trasfusa nell’animo loro ad alimentare i sentimenti più puri, ad incitare, a sorreggere.

Mi pare anzi così perfetta in ciascuno di essi la coscienza dei supremi concetti etici, che chiedo perdono della insistenza con cui invoco la cooperazione di tutte le giovani energie per la “Unione Giovanile Sarda”…

Così inizia un articolo di Luigi Oggiano ventenne, al tempo ancora studente all’università di Modena, su La Nuova Sardegna del gennaio 1913.

Quarant’anni più tardi – passata la tempesta della grande guerra, passata la dittatura protrattasi per un ventennio, passata la nuova tragedia bellica imposta alla patria da Mussolini, passata anche la complessa stagione delle concentrazioni di CLN, delle Consulte e della Costituente, passata la prima legislatura repubblicana vissuta da senatore del Partito Sardo – così ancora scriveva, il 16 settembre 1951, Luigi Oggiano al giovanissimo Lello Puddu militante repubblicano a Nuoro:

Sulla via segnata da Mazzini e dai Grandi del Risorgimento i nobili spiriti si ritrovano; a mortificazione dei dimentichi, degli scettici, degli improvvisatori, di coloro che giudicano della vita solo dalle utilità e dai beni materiali che ne possono trarne, e meglio ancora se facilmente.




E così il 22 luglio 1953, all’indomani dell’insuccesso alle urne segnato dall’avventura del maggioritario: 

Se fossimo facili alle variazioni di umore, questa ultima sagra elettorale dovrebbe allontanare definitivamente dalle cose pubbliche molti cittadini, che sono vissuti e continuano (devono continuare) a vivere in coerenza ed in fedeltà – vorrei dire in comunione, se non vi fosse peccato di presunzione o di superbia – con i Grandi Spiriti del risorgimento, e soprattutto con l’incrollabile Mazzini […]. E intanto per tutti bisogna guardare avanti ed in alto, in purità e- se così è necessario – in sacrificio. La piazza non è nostra, ma può essere nostro, e deve essere, il culto delle cose e delle idee che non danno denaro, come in un sacrario. 

Pensando al centenario del Partito Sardo d’Azione, oggi nazionalitario e indipendentista e fattosi alleato dei leghisti già sacerdoti del dio Po ed officianti dell’Ampolla padana ed antimeridionale, il pensiero è tornato a lui, ad Oggiano, al santo del sardismo vero che non esiste più ormai da tempo. Perché nella fedeltà agli ideali dei suoi vent’anni confermata in pieno ai sessanta e dopo ancora, fino alla dolorosa scomparsa del 1981, Luigi Oggiano compì l’intera sua esistenza, fondendo i valori della sua vita a quelli dell’impegno civile e democratico che onorò sempre al meglio, protagonista e testimone.




Ancora non me ne capacito: oggi vedo sulla scena le arlecchinate addirittura dei cosiddetti fondamentali. Chi si professa nazionalitario e indipendentista, tardo epigono di Simon Mossa, s’è fatto socio dei sovranisti che ieri mattina erano per il frazionamento dell’Italia in macroregioni e per l’autosufficienza del nord industriale, non come l’intendeva quel Partito Italiano d’Azione antiprotezionista che era entrato nei sogni di Fancello e Bellieni nel 1921 e 1922... Come se un bravo cattolico entrato in crisi con la congregazione della dottrina della fede o del culto divino, invece di accostarsi, per meglio concentrarsi ed analizzare, al luteranesimo, passasse armi e bagagli a Zaratustra, o alla divina Kali, a Shiva, Brahama e Vishnu o scegli tu…


Il sardismo repubblicano a Cagliari, in Spagna ed a Montecitorio, in GL e nell’azionismo

La mia lettura del fenomeno sardista che va in questi giorni compiendo il centenario della sua manifestazione come partito politico rimanda, sotto il profilo delle più alte idealità, cioè della scuola di pensiero di chi il partito volle nelle complessità del combattentismo postbellico, alla democrazia risorgimentale italiana, insomma a Mazzini e Cattaneo. Non tutto si esaurì lì, naturalmente, ché le radici e le pulsioni non soltanto ideologiche ma soprattutto sentimentali furono molteplici. Ciò non di meno – e anche al di là delle citazioni da parte della prima dirigenza – restano i fatti che impegnarono il primo sardismo, oltreché nelle strette rivendicazioni regionali e regionaliste, all’indomani della conclusione della grande guerra – il gran macello sopportato con eroismi indescrivibili e “calmierato” dalle promesse del governo a pro della Sardegna rurale – propriamente nella politica antifascista con il protagonismo di Lussu e naturalmente di Bellieni e Fancello e tanti altri, militanti generosi di base: così valse la candidatura del repubblicano Agostino Senes, altro bersaglio dei fascisti in quel d’Oristano, nella lista sardista del 1921, valse il sostegno repubblicano ai Quattro Mori nella campagna avvelenata del 1924 anche con l’intervista a Lussu su La Voce Repubblicana e soprattutto con la condirezione Angius-Mastio del quotidiano Sardegna, valse la commemorazione mazziniana del 1925 da Pintus e Mastio nella sede de Il Solco sardista, valse la stretta solidarietà repubblicano-sardista nelle maglie segrete di Giustizia e Libertà, negli arresti del 1930 e dopo ancora, nei tribunali e nelle carceri, nella guerra di Spagna, nella prima resistenza sul continente italiano (a fare un nome soltanto, ed eccellente: Armando Businco, ventenne tesserato repubblicano a Cagliari, poi militante mazziniano nel PSd’A, a Bologna mazziniano azionista), negli accordi del 1944-45 fino alla battaglia referendaria e per la Costituente, nel gruppo Autonomista nell’Assemblea di Montecitorio (azionisti, sardisti, un valdostano), nel voto repubblicano alle liste del PSd’A alle regionali del 1949, 1953, 1957, 1961, 1965, e alle amministrative comunali e provinciali d’accompagno, nell’intesa parlamentare del 1963… In stagioni storiche così diverse, e pregnanti, in pace e in guerra, la fraternità dell’impegno pubblico – ideale e politico, perfino nella rappresentanza – mostrò quello e non altro. Senza appiattimenti reciproci od omologazioni, ma in mutuo alimento di esperienze ed elaborazioni.




Poi venne Simon Mossa e quanti già vent’anni prima, al congresso di Macomer del luglio 1944 e dopo ancora, ai congressi sardisti di Oristano del 1945 e di Cagliari del 1947, si sentirono più coinvolti nel sentimento localista e meno in quello che aveva ispirato già nel 1921 il disegno federativo del Partito Italiano d’Azione: ché l’obiettivo era allora meridionalista e ruralista in chiave nazionale, per riformare lo Stato (liberale e centralista) non l’Italia delle razze, a lui riportarono emozioni e sogni separati dal ragionamento, o dalla razionalità, direi dalla politica che sa costruire la storia e non il mito. Con Simon Mossa – un’intelligenza nobile e leggera, erede di grandi famiglie paterna e materna – entrarono (o s’irrobustirono) nel PSd’A quelle suggestioni che Giovanni Battista Melis non ebbe la forza di contenere all’interno del maggior patto che aveva sottoscritto nel 1962, al tempo dell’approvazione del Piano di Rinascita e della Nota aggiuntiva al bilancio dello Stato depositata da Ugo La Malfa (ministro della programmazione nel primo governo di centro-sinistra) in Parlamento, con l’Edera e che l’anno successivo lo avrebbe portato alla Camera con i numeri del collegio unico nazionale alimentato dai resti elettorali dei mazziniani di Ravenna e Forlì, di Milano e Frosinone, di Bari, Napoli e Reggio Calabria. 

Certo resterebbe qui da chiosare, in quanto al riferimento alle arti del sogno ed a quelle della razionalità, all’inventiva progettuale della politica ed a quella fantasiosa della mitologia, con una osservazione che eviti depistamenti interpretativi: sognarono anche i mazziniani come Efisio Tola che fu scoperto aderente alla Giovane Italia e fu fucilato trentenne a Chambery, sognarono quelli che sottoscrissero gli accordi della Giovine Europa centonovant’anni fa, sognarono anche quelli che centrarono la cittadinanza in obbligato superamento della sudditanza e la connessero con le costituzioni e il suffragio universale (ed infatti a Sassari i mazziniani d’inizio Novecento insegnarono a leggere e scrivere agli zappatori onde ammetterli all’elettorato attivo e la mazziniana Bastianina Martini si professò suffragetta, per l’elettorato femminile), sognarono quelli che credettero nella democrazia, nella repubblica, nelle autonomie territoriali (all’interno della unità politica) contro certo autoritarismo liberale e monarchico come fecero Asproni e Tuveri, ecc. La storia d’oggi può dire quanti di quei sogni fossero radicati insieme nella morale patriottica e nella storia possibile e necessaria… o fossero evasioni dalla responsabilità dell’oggi e qui.

Certamente il filone sardista al quale ho fatto sopra riferimento, quello che ha mantenuto il simbolo e il nome (alterandone e rovesciandone il segno però e purtroppo), è il filone storico e prezioso, libero dal 1923 dei pesi di chi opzionò l’intesa con il Partito Nazionale Fascista, originando il fenomeno cosiddetto dei fasciomori o del sardo-fascismo (quello dei Tredici – il commissario/podestà che detronizzò Giordano Bruno nel 1926 dalla sua pietra nell’aiuola strategica presso la Porta dei Leoni – e degli Endrich, gerarca della dittatura che imprigionò Cesare Pintus e silente quando furono emanate le leggi razziali, e Pili e Putzolu e gli Orano ed i Cao e gli altri). Rimando a tale proposito a una recentissima bella pubblicazione – discutibile ma seria e apprezzabile – della serie di Excalibur (è il n. 127), a cura di Angelo Abis, generoso difensore della sua causa ideale.

Gli apostoli dell’Autonomia nei primi tempi

Sul numero 1 del quadrimestre gennaio/aprile 2020 de Il Pensiero Mazziniano, periodico dell’Associazione Mazziniana Italiana, ho pubblicato l’articolo che di seguito riproduco.




Io li ho sempre visti, Lussu e Bellieni, da un osservatorio dichiarato: quello del repubblicanesimo moderno, segnato dalla esperienza politica novecentesca – antifascista prima, governativa poi – dell’azionismo lamafiano. Un osservatorio di marcata nobiltà intellettuale ed etico-civile, portatore di alcune categorie interpretative e di alcune tavole di valori che naturalmente non esauriscono o sussumono le quote dello spettro largo della democrazia – la quale invece esige il rispetto anche di quella frammentarietà espressiva – e anzi, al contrario, hanno consapevolezza di costituire parte di un tutto, porzione originale del maggior pensiero politico come si è andato definendo in Italia nel corso di due secoli. E comprensivo anche, nella mia lettura, della elaborazione e della pratica sardista, quella andata dalle origini fino a tutti gli anni ’60 – passando per l’inquadramento in GL, la lotta per la repubblica, la responsabilità autonomistica nel quadro della repubblica “una e indivisibile” –, e purtroppo bloccata o alterata o deviata dalle crescenti pulsioni poi entrate nella quotidiana dialettica del Partito Sardo ed anche nei suoi documenti congressuali: il nazionalitarismo e l’indipendentismo zampillati dalle suggestioni (e le provocazioni) delle “lingue tagliate” e poi del bilinguismo perfetto, del neutralismo, della zona franca avvertita come applicazione di un indirizzo ideologico, cui si è aggiunta un supposta soggettività internazionale e un sovranità interlocutrice diretta delle istituzioni europee. Si tratta di una materia tante altre volte affrontata, perché al sardismo come inveramento della democrazia repubblicana in un territorio comunque altro – anche ma non solo perché isolano –, di altra cultura e di singolare sviluppo storico, io ho portato da sempre non soltanto l’attenzione dello studioso ma anche l’amore del militante della democrazia.

Se uno spazio posso concedere al personale, richiamerei qui la tante volte dichiarata professione lussiana, naturalmente sul piano etico-civile, o chiamalo pure patriottico (con tutto il vigore democratico dell’espressione, non certo con le rudi sdolcinatezze retoriche del nazionalismo reazionario), non ovviamente per i tratti socialisti della sua ideologia come con il tempo, e in particolare dalla fase post-azionista, egli è andato elaborando ed affermando all’interno della sinistra parlamentare, nel PSI e poi nel PSIUP. Ricordo il fastidio con cui questa precisazione – che non voleva, né vuole, essere una tavola dogmatica a sua volta – fu accolta dall’egregio professor Gian Giacomo Ortu, nel 1994, allorché presentando un libro su Ferruccio Parri “sardista elettivo”, ebbi modo di dichiararmi. Come se Lussu – un gigante della democrazia italiana – pretendesse di essere colto e rilanciato come un pacchetto tutto da sposare. Avrei potuto accettare o condividere il suo neutralismo, il suo giudizio anti-NATO del 1949, il suo coprotagonismo nel patto d’unità d’azione fra socialisti e comunisti fino al 1956 e cioè all’invasione sovietica della Ungheria, alle sue posizioni costantemente opposte agli interessi dell’occidente in politica estera e militare? Accettare e condividere, o magari soltanto comprendere la scelta socialproletaria dei “carristi”, quel costituirsi fra 1963 e 1964 in partito politico avversario pregiudiziale del centro-sinistra ed al soldo permanente dell’Unione Sovietica?

Ma Lussu resta un gigante della democrazia del Novecento, un protagonista assoluto della opposizione alla dittatura fascista ed all’internazionale dark degli anni ’30 e ’40, e del pensiero autonomistico, fiero avversario – qui senza equivoci – di ogni ipotesi o suggestione separatista.

Ricordo – e se possibile un giorno trascriverò e pubblicherò gli appunti e le relazioni – un incontro con Francesco Masala, un lussiano tutto intero in quanto al socialismo, con in più lo spirito nazionalitario e l’estraneità e la diffidenza (non vorrei dire avversione) non alla politica romana ma all’Italia, come se tutto fosse risolvibile in una lettura della drammatica colonialista fra l’Italia – l’Italia torinese e fiorentina, veneziana e genovese, bolognese e romana, napoletana e pugliese e siciliana, l’Italia dell’arte e della letteratura, di San Francesco e Dante, di Michelangelo e Leopardi e Manzoni, e l’Italia dell’industria e dell’agricoltura – e la Sardegna “terra annessa”. Avvenne negli anni ’80, nella sede repubblicana di Cagliari, ad iniziativa della Federazione Giovanile. Distinzione e rispetto.

Ma poi ecco Bellieni. Del quale – proprio per il filone dottrinario che io ricerco sempre, per previo riscontro in un inquadramento generale, fra i teorici del sardismo e poi nella dirigenza del Partito Sardo – ho sovente richiamato la famosa lettera “agli amici de movimento cagliaritano” pubblicata su La Voce dei combattenti del 31 dicembre 1920. Un testo studiato da Luigi Nieddu e Federico Francioni, profondo e sempre attuale, che respira il “tempo lungo” e insieme risponde alle brucianti domande del tempo presente (quello dell’immediato primo dopoguerra ma anche quello degli esordi del Duemila!).   

Ne riprendo alcuni dei passaggi centrali: «Che noi sardi non siamo etnicamente e linguisticamente italiani, questo è un fatto incontrovertibile…», «il lungo isolamento ha creato un tipo di razza con tali specifici caratteri fisici e sentimentali, che esso non ha niente che fare né con il tipo di italiano del Nord, tenace e disciplinato, che ha subito influssi gallici e germanici, né con quello del Sud, d’umor lieto, espansivo e ciarliero, con incroci di sangue ellenico ed arabo… La nostra lingua è una corruzione ed uno sviluppo del latino rustico alla stessa maniera delle altre lingue romanze… 

«I primi documenti che noi possediamo dopo l’alto medioevo sono scritti in sardo, lingua della nazione, e se è vero che qualche altro popolo delle diverse regioni d’Italia adoperò il volgare locale nelle sue scritture ufficiali, è anche indiscutibile che toscano, veneto, napolitano, siciliano sono legati da grandissima affinità, tanto da poter essere considerati come varietà di un’unica lingua. Tali li considerava anche Dante, il quale, volendo includere nel quadro dei dialetti italiani anche il sardo, si sbrigò delle gravi difficoltà che a ciò si opponevano, chiamandolo una scimiettatura del latino. La quale affermazione basta a far apparire come sia invalicabile l’abisso separante le favelle delle due sponde del Tirreno; infatti è fenomeno psicologico comune in Italia rispondere nel dialetto locale a chi interroga in italiano, mentre in questo caso il sardo o tace, o risponde in italiano. Gli ibridismi linguistici italo-veneti, italo-romani, italo-napoletani così frequenti in bocca ai continentali non sono possibili per i sardi, i quali debbono parlare italiano integralmente, portando in esso il più delle volte la sintassi della lingua materna, cioè il segno della loro irriducibile forma mentis.

«Non la razza, non la lingua, non gli istituti giuridici, neppure la storia fino al 1848 noi abbiamo comune con l’Italia, neppure gli interessi economici quali sorgono dalle condizioni naturali dell’ambiente, prima che altri rapporti politici artificiosi vengano a modificarli…

«Col 1847, venne l’Italia. I cagliaritani in un giorno ed una notte di delirio consegnarono i loro privilegi, le antiche costituzioni dell’isola, tutte le garanzie di autonomia e di libertà nelle mani del Re. In un istante sublime di entusiasmo trasformarono in una provincia lontana quello che era lo Stato Sardo. E da allora ha inizio una quistione sarda.

«Cari amici, sono passati 72 anni. In questo periodo molti fatti nuovi sono avvenuti, che non è possibile annullare, dimenticare. Innanzi tutto noi giovani colti parliamo e pensiamo in italiano… Ora siamo imbevuti fino alle midolla di cultura italiana, ed ogni giorno un piroscafo parte da Terranova per andare a finire sui moli di Civitavecchia. In ventiquattro ore siamo a Roma. L’economia sarda si è completamente mutata… Abbiamo combattuto con gli italiani in Crimea, nelle guerre d’indipendenza, in Africa, in questa guerra. C’è molto sangue sparso assieme. Anche di esso occorre tener conto.

«Ed allora! Consideriamo freddamente la nostra posizione presente nei rapporti con l’Italia… Ma anche nell’interesse nostro, ci sarebbe possibile separarci dalla penisola? Non vengo a trattare la questione dei tributi, della possibilità di provvedere alla propria esistenza indipendentemente, perché io la do per risolta a nostro favore. Noi abbiamo tante ricchezze… Ma qui è il nodo centrale della questione. Abbiamo noi la forza morale di creare nel nostro organismo, di fare balzare fuori dall’oscura matrice della storia, una nazione sarda, concreta individualità che abbia un suo compito ed una sua funzione nella vita europea? Problema morale che è fondamento di tutti gli altri problemi… Essere Stato a sé dovrebbe significare negazione del patrimonio ideale italiano che è nostro patrimonio individuale, creazione di una coltura sarda di là da venire. E’ ciò possibile?

«Per quanto cerchi prospettarmi la questione in senso favorevole, a me sembra di no… siamo di razza e di materno linguaggio sardi, irrimediabilmente sardi, e se fummo sentimentalmente ed eticamente spagnuoli, ora non lo siamo più affatto: siamo italiani. Noi non possiamo divenire Stato… il giorno in cui la separazione fosse un fatto compiuto, noi sentiremmo balzare nel cuore un sentimento dolorosamente soffocato sino allora, che ci costringerebbe a rialzare sulle nostre case il tricolore abbattuto. Bisogna rassegnarci alla constatazione che noi siamo una nazione abortiva…

«Noi dobbiamo arricchire la realtà spirituale italiana con il nostro contributo di vita sarda, dobbiamo rappresentare un elemento necessario nel gioco delle forze della economia nazionale. Noi dobbiamo volere l’autonomia, non l’indipendenza, dobbiamo divenire concretamente italiani attraverso la conoscenza della nostra tradizione isolana…

«Noi non abbiamo intenzione di negare l’Italia. Neghiamo quell’astratta italianità che ci fa schiavi dei burocrati romani, che fa consistere lo Stato nella volontà di tre o quattro città principali, nelle quali sono accentrati tutti i privilegi di un organismo sfruttatore e parassitario. Noi neghiamo un’Italia siffatta perché vogliamo che il significato e il valore di questa parola investa una realtà più profonda che non sia quella delle tabelle di sale e tabacchi. Noi vogliamo riconoscerci sardi per essere veramente italiani…».




M’impongo qui una digressione. Il richiamo così insistente nelle produzioni sardiste dei primi anni ’20 a Mazzini e Cattaneo – basti scorrere le collezioni de La Voce dei combattenti e de Il Solco – e la prossimità ideale e politica ed elettorale (dove più dove meno nei territori isolani) al PRI, del quale pure Bellieni contesta alcuni indirizzi, rimandano a un consonanza che è stato un delitto non coltivare dalla fine degli anni ’60. Le due speculari impazienze – dei sardisti di minoranza (la frazione Puligheddu-Corona marginalizzata a Nuoro ed a Cagliari dalla leadership della famiglia Melis) e dei repubblicani isolani e anche della dirigenza nazionale – hanno forzato la divaricazione che un intervento di pedagogia politica, come nell’elettorato e nella militanza del PSd’A era possibile, avrebbe potuto assorbire: valorizzando anzi la presenza nazionale del sardismo (attribuendo all’on. Giovanni Battista Melis un sottosegretariato magari all’Agricoltura od alla Cassa per il Mezzogiorno), così da responsabilizzare politicamente quanto già era culturalmente pacifico nella migliore dirigenza. 

Che quel rapporto ideale fra sardismo e repubblicanesimo fosse un patrimonio della storia da servire anche col voto lo confermava ancora Bellieni in una famosa intervista del 1974 – l’anno che precede la sua morte a Napoli – a L’Unione Sarda. Dichiarava, Bellieni, di votare repubblicano a Napoli (magari segnava il nome di Francesco Compagna o Giuseppe Galasso sulla scheda elettorale), aggiungendo che se fosse stato in Sardegna avrebbe però, naturalmente, preferito i Quattro Mori, divenuti avversari implacabili (con pari forza ricambiati, o provocati) dei repubblicani. E comunque, al di là di questi aspetti, confermava la sua visione di sempre, del sardismo come risultante o applicazione territoriale del pensiero politico democratico non socialista. Non socialista, appunto, per ribadire l’opposizione ideologica a quella che era diventata nei decenni la lettura ideologica, sempre più radicale in termini di lotta di classe, di Emilio Lussu.    

   Le simpatie, non ideologiche ma etiche e politiche con il socialismo – ma attenzione: quello unitario, cioè riformista, non massimalista – manifestate da Lussu nei primi anni ’20, al suo esordio parlamentare rispondono, a mio avviso, oltreché alle dimensioni del gruppo parlamentare (presente sulla scena con tutt’altro spessore che la frammentarietà delle formazioni autonomiste) anche e soprattutto per la qualità dei suoi leader, da Turati a Matteotti, da Treves a Prampolini.

Se la storia ideale/ideologica del sardismo pur al suo esordio come formazione politica organizzata riporta al repubblicanesimo di Mazzini e Cattaneo, la sensibilità sociale accentuatasi negli anni di guerra per la condivisione delle aspettative future dei suoi soldati, orienta Lussu ad un indistinto socialismo destinato a non conoscere evoluzioni pratiche per tutta la fase dell’antifascismo in patria. Sarà poi la militanza in GL – dove pure egli è tacitamente assegnato alla corrente o rappresentanza repubblicana, di fianco a quella socialista di Rosselli – ad accentuare in crescendo una propensione socialista e con GL formazione di ispirazione socialista giungerà nel 1943 al Partito d’Azione.

Ma se questo è il… cercare la bussola di Emilio Lussu, da subito chiara è la scelta bellieniana. Fin dal 1919. 


Verso il PRI, amicizia e diffidenza        

Le polemiche, anche crude, fra il PRI d’inizio anni ’20 e il primo sardismo (PSd’A) d’impronta cooperativo-liberista ad obbedienza bellieniana non negano la comune appartenenza al filone storico e teorico della democrazia italiana marcata Cattaneo e, per altri aspetti, Mazzini stesso. Basterebbe anche consultare le annate de Il Solco (al tempo quotidiano stampato a Cagliari) prima del fascismo e per quanto il fascismo andato al potere nel 1922 tollerò (fino al 1926, fra un sequestro e l’altro, al pari de La Voce Repubblicana sequestrata alla stazione d’arrivo) per trovare conferma della rispondenza ideale e ideologica ai motivi della democrazia repubblicana del sardismo all’esordio della stagione autonomistica.

Bisognerebbe dire: quanto più oggi, essendo trascorsi altri cento anni (!) da quel 1920 che contabilizzava i 72 anni d’unità costituzionale fra Sardegna e Piemonte, il sentimento italiano si è rafforzato nella vita morale del nostro popolo. Dalla quarta guerra dell’indipendenza italiana (come i repubblicani e gli interventisti democratici intesero la guerra del 1915-18) ad oggi sono trascorse altre quattro generazioni ed i fenomeni d’omologazione culturale ed socio-economica ancor più ci hanno fatto italiani non meno che i lombardi e i lucani.

Sarebbe necessario forse interrogarci su quello che siamo rispetto a categorie come "patria", "nazione", "paese", "repubblica", ecc.

L’impostazione generale che, anche con le tante pubblicazioni nelle cui copertine ho associato i simboli della democrazia sardista (le bandiere al vento) e della repubblica italiana (il tricolore), io ho offerto al dibattito pubblico in questi ultimi vent’anni (dai tempi de L’Edera sui bastioni, che detti alle stampe nell’ormai lontano 1988).


Il pensatore e l’uomo d’azione, il teorico e l’eroe

C’era stato bisogno di entrambi – di Bellieni e di Lussu – negli anni seguiti alla grande guerra: quelli dell’organizzazione del movimento dei combattenti (1919-1920) e della sua trasformazione in partito politico (1921), quelli anche dell’opposizione al montante fascismo (1922-1923-1924) e al regime (nel 1925 ancora nella legalità, quindi nella costrizione clandestina: ivi compresa la silenziosa ma riconoscibile protesta morale). Storie parallele, le loro, e soltanto per certi e pur decisivi tratti prossime e convergenti, in quella prima metà degli anni ’20, richiamate al confronto – per approdi stavolta definitivamente divergenti – all’indomani del secondo conflitto mondiale e fino al luglio 1948, al momento terminale e polemico cioè della scissione sardo-socialista dai Quattro Mori della tradizione.

Camillo Bellieni ed Emilio Lussu sono stati queste due rette parallele “a direzione mobile” che, al dunque, soltanto per un lustro, poco più, si sono incrociate virtuosamente, per tradurre in efficacia politica l’intuizione e l’originalità del primo sardismo: per associare definitivamente il giovane partito a quella tavola dei valori universali – libertà costituzionale e democrazia rappresentativa – cui un’altra non modesta porzione del PSd’A aveva rinunciato nel 1923 accogliendo, per un pacchetto di opere pubbliche da finanziare con un miliardo di lire governative, la sollecitazione alla confluenza nel Partito Nazionale Fascista.

Quel che sarebbe venuto dopo – nel rapporto fra Bellieni e Lussu – sarebbe stato soltanto quasi occasionale e limitato ai sentimenti, non alla politica: per la proiezione lussiana, dopo la cattività carceraria e quella confinaria, sul teatro internazionale dell’esilio, nelle attività dell’opposizione concentrazionista ai governi autoritari del continente (fra Italia, Germania e Spagna) e, per converso, per la volontaria clausura nel recinto degli studi, anch’egli lontano dall’Isola, del professore e bibliotecario sassarese. Per la permanenza di quest’ultimo – alla fine del secondo conflitto mondiale – nella sua residenza napoletana, obiettivamente e inevitabilmente distante dalle vicende del partito pur tanto amato ed ora risorto con ruoli da protagonista sulla scena regionale; per la progressiva compromissione lussiana nelle strategie del socialismo nazionale, passando per le esperienze del Partito d’Azione e del Partito Socialista Italiano, e attraversando anche i contrasti interni al Partito Sardo vanamente chiamato al passivo assorbimento nei maggiori schieramenti partitici, onusti di glorie (il Pd’A) e, magari, di rappresentanti parlamentari (il PSIUP, dal 1947 nuovamente PSI).  

Insomma, di primo acchito, quell’associazione di nomi che rimandano entrambi alle origini del sardismo nelle trincee della grande guerra ed al primo sviluppo nelle sezioni dell’Associazione Nazionale Combattenti, e poi ancora alla sua maturazione nella definizione antifascista, indurrebbe a pensare e dire di un lungo comune tragitto politico meritevole dell’analisi del confronto; in un più lucido e pertinente approccio essa chiama invece a segnare i limiti delle comunanze, o anche dei coinvolgimenti dialettici, riconoscendo che il molto più è restato nell’area della mutua estraneità… 

Ma forse è proprio la rimarchevole importanza delle fasi di contrasto ideologico e militante rispetto a quella dei momenti di comune visione ed impegno ad obbligare al recupero dei fili robusti della loro vicenda umana e pubblica al fine di cercare di valutare il merito di singolari tratti di vita: una vita – forse da entrambi – sempre e comunque spesa con un senso drammatico dell’esserci, che però si configura come partecipazione in Lussu, e piuttosto come testimonianza per Bellieni.

Tanto più questa storia parallela meriterebbe il ripasso quando si ponesse mente anche alla singolare circostanza di calendario che vede giungere per l’uno e per l’altro, nello stesso anno – il 1975 –, l’evento di morte: quasi come termine di predestinazione, come per scongiurare primati temporali di biografia e terze stagioni senza il peso, e il valore, delle compresenze.


L’adolescenza nell’Italia di Giolitti

Viene da ricordare, intanto, la comune appartenenza ad una classe anagrafica – del 1893 è Bellieni, del 1890 Lussu – chiamata ad offrire quadri giovani all’esercito, nel tragico macello della guerra 1915-1918, quando proprio dalla marginale e negletta Sardegna giungerà all’Italia il più formidabile contributo, in termini di vite umane, al compimento del suo risorgimento unitario. 

Quando ricevono la chiamata, sono giovani entrambi laureati e interessati, con voglia di protagonismo, alla grande storia. Camillo è nato a Sassari ed ha trascorso l’infanzia a Thiesi, nel cui ospedale il padre – originario del Comasco –, gestisce la farmacia. S’è poi trasferito nel capoluogo, quando il dottor Nicola viene assunto al maggior nosocomio cittadino. Ha frequentato il liceo classico Azuni e, insieme, l’associazione anticlericale cosiddetta d’Avanguardia, che ha vivace presenza un po’ in tutte le province del Regno (Cagliari inclusa) e si nutre del mito di Giordano Bruno, seguendo l’insegnamento razionalista di Roberto Ardigò. Ne è diventato addirittura il segretario e s’è abituato ad una vita che è insieme di studio e di confronto dialettico. S’è poi iscritto a giurisprudenza già forse pensando di bissare, dopo la prima laurea – ma stavolta alla Sapienza di Roma –, con il dottorato in filosofia. Si è formato, in giovanile potenza, come uomo di pensiero, però esprime anche, senza eclatanza, un talento artistico. L’ha ereditato dalla madre sarda, Elisabetta Marras, delicata ritrattista, e lo condivide con il fratello Vittorio (prossima vittima della guerra, con decorazione al valor militare).

Ha partecipato ad un concorso per segretario capo della biblioteca di Ingegneria, a Napoli, vincendolo. Nel capoluogo partenopeo si è collegato subito con gli ambienti dell’Unione Radicale. Sarà per l’intera sua vita, anche durante la militanza sardista, un liberista sociale di stampo salveminiano, meridionalista mai affascinato dal socialismo di qualunque declinazione. 

In guerra è andato da volontario, 22enne. Nel 1914, ancora neutralista, ha accompagnato a Sassari Cesare Battisti che, in un intervento al Civico, ha sostenuto con forza la causa degli irredenti trentini. «Parlò con rude semplicità ma non mi convinse. Era favorevole alla difesa della civiltà occidentale ma non volevo che l’Italia fosse trascinata nel turbine della guerra. Ma Battisti, spalleggiato da un avvocato belga, convinse tutti», è il ricordo di Bellieni – giusto sessant’anni dopo, in una intervista concessa a Giacomo Mameli per L’Unione Sarda (10 settembre 1974).

Giudicato «non idoneo né alle fatiche di guerra né alle fatiche di pace» (cfr. l’intervista a L’Unione), finisce comunque al fronte. Prende parte alle prime battaglie importanti e cruente, al Monte 6 Busi, conquistando quota 114 e 118. Richiamato a Benevento e mandato al secondo corso a Modena, è spedito quindi come sottotenente nel 43° fanteria a Ponte di Plava, quota 383… Nel 1917 resta ferito gravemente, resterà invalido. Al congedo sarà compensato con due medaglie al valor militare.

Con varie somiglianze si presentano l’infanzia e l’adolescenza di Emilio, fatta eccezione – oltreché per il profitto scolastico – per la classe d’origine, non borghese ed urbana ma piuttosto, almeno nel filone paterno, radicata nella piccola (ed agiata) proprietà rurale, in quella parte della provincia di Cagliari che guarda al Nuorese e costituisce quasi un ponte verso la Barbagia e l’Ogliastra: è il Gerrei, territorio di civile e decorosa povertà spartita fra pastori e agricoltori, tutti protagonisti di una, ormai residuale, «società patriarcale comunitaria senza classi» e dunque senza esclusioni. 

Gli studi ginnasiali li ha compiuti dai salesiani, venuti in Sardegna per evangelizzare con la scuola in quel di Lanusei, ma il cui rigorismo porterà il ragazzino a ribellioni e fughe, per difendere un indisponibile diritto (e gusto) alla libertà. Un istinto e un bisogno compresi dal padre Giuannicu (divenuto intanto sindaco cocchiano di Armungia) che lo ha inviato a Roma, sperando anche, ma vanamente, in un miglior profitto. La conclusione è stata a Cagliari. Dal liceo Mamiani al liceo Dettori: pagelle modeste, ma esperienze di vita non inutili. Nel 1910 s’è iscritto alla facoltà di legge. Un altro impegno fra lezioni e libri anch’esso tormentato, interrotto (per scelta) dal corso allievi ufficiali svolto a Torino e poi ripreso e terminato senza troppe pretese. Nel capoluogo della provincia ha frequentato, per restare sempre dalla parte dei critici – circostanza che lo rassomiglia molto al giovane Bellieni –, la sezione repubblicana e s’è dichiarato – con la parte non socialista dello schieramento parlamentare democratico avanzato – interventista. 

In guerra inizia, giusto nel maggio 1915, da sottotenente, al comando di un plotone della Brigata Sassari, costituitasi da pochi mesi con l’unificazione di due reggimenti fanteria, l’uno di stanza a Cagliari l’altro a Sassari.  


La grande guerra, quarta dell’indipendenza nazionale

Di Lussu militare scrive Bellieni nel suo celebre libretto edito dal Nuraghe nel 1924, all’interno della breve collana Le avanguardie di Sardegna. Inevitabilmente, la biografia diventa anche autobiografia.

La prima scena è quella del loro incontro, «In una baracca un po’ ampia», dove «due uomini erano seduti su lettucci di assi e di sacchi. Il Maggiore un po’ anziano, dai grandi occhi neri e dai baffi marziali, ed il suo aiutante, un giovanotto con gli occhiali, il viso piccolo tutto barba, il resto del capo avvolto in un passamontagna. Presentazioni: – Sottotenente Bellieni – Maggiore Cuoco – Tenente Emilio Lussu».

Prima missione, al Budello. Parla il Maggiore: «Aiutante lo accompagni… Bisogna che quel servizio sia presto eseguito… stasera col suo Plotone lei darà il cambio in linea. Prenda quindi immediatamente visione del fronte». 

«Starai bene qui fra noi», è il conforto del tenente 25enne al più giovane sottufficiale. «Io lo guardavo: alto, snello, la schiena dritta, un visetto di bimbo, il naso corto e un po’ all’insù, la barbetta a cespuglio che accarezzava con un gesto nervoso, gli occhi piccoli, truci, scintillanti dietro gli occhiali. Truci, e ad un tratto pieni di dolcezza, quando rideva, con una larga bocca cordiale che mostrava i denti bianchi allineati», è la descrizione che Bellieni fa subito di Lussu, che gli appare colloquiale e amico, guida sicura e pratica. «Abbassa un po’ la testa… Ora bisogna seguire un camminamento malsicuro che porta al saliente delle Frasche. Gli Austriaci sono a sinistra e di fronte. Quando meno te l’aspetti t’arriva una fucilata di fianco. Passa adesso di corsa perché in questo tratto siamo scoperti».

A destinazione lo spettacolo è impressionante: «un carnaio informe e ben rilevato sul terreno, in cui si mescolavano le tinte verdastre dei brandelli di vestiti e le giallo-ceree membra ancora riconoscibili». «Il Maggiore desidera che per i sessanta metri di fronte a te affidati, li seppellisca…, bisogna farlo con prudenza. A dieci metri dietro la trincea si è completamente allo scoperto… Non li abbiamo ancora coperti di un po’ di polvere, non s’è ancora raccolto il piastrino di riconoscimento. E’ una vergogna. E sono tutti sardi», sono ancora parole del tenente Lussu al sottotenente Bellieni.

«Che si trattasse di un soldato eccezionale mi ero subito accorto, dall’atteggiamento ammirato e rispettoso dei vecchi della Sassari, levatisi prontamente al suo passaggio. Ben presto ne ebbi conferma dai loro discorsi fatti a mezza voce in dialetto senza alcun imbarazzo per la mia presenza, giacché non avevano fatto ancora la scoperta ch’ero sardo. Allora dopo le Frasche, la grande maggioranza degli ufficiali era continentale», è un’efficace rappresentazione di quell’umanità a rischio permanente di vita, da parte dello scrittore, a rischio anche lui.




C’è, in queste pagine ancora iniziali del suo libretto, la sequenza delle prime tappe belliche della Brigata: le sponde del Garda, Bosco Cappuccio, Bosco Lancia, Bosco Triangolare, i contrafforti del San Michele… «Emilio Lussu, ufficiale di compagnia, magnifico esempio di valore ai soldati, veniva in seguito a queste azioni promosso tenente per merito di guerra. Poi Aiutante maggiore del 3° Battaglione e una delle figure più notevoli nell’azione delle Frasche che rappresentò il magro attivo della disastrosa offensiva ottobre-novembre sul Carso, gabellata dalla retorica cadorniana come un grande successo… Dopo tre giorni di lotta senza tregua in cui Emilio Lussu fece prodigi di valore, il 151° riusciva a prendere piede nelle Frasche; e, nella notte seguente, con una mirabile azione ardita, il 152° penetrava di sorpresa nei Razzi. L’azione combinata riuscì a meraviglia… ma quando si attendevano nuovi rinforzi per l’azione dilagante su Doberdò, essendo ormai il fronte austriaco sfondato, e lontane le riserve nemiche, giunse invece l’ordine di tenere le posizioni a qualunque costo. Il contrattacco austriaco accompagnato da uno spaventoso bombardamento che polverizzò le due trincee, fu tentato con truppe fresche giunte da Trieste». Risultato: il dimezzamento dei «reparti nostri esauriti dall’assalto», l’apertura di «un vasto arco non tanto nella linea avversaria, quanto nella nostra».

L’eroismo della Sassari «salvò l’Italia da un anticipato Caporetto. In uno contro dieci, la trincea battuta in pieno da granate austriache di tutti i calibri…, i soldati sardi ressero all’urto dei reggimenti freschi e numerosi, moltiplicandosi nella resistenza, eseguendo con folle ardire delle sortite, per aver il dominio morale sul nemico… Emilio Lussu in quella circostanza fu ammirabile. Tenne i collegamenti. Percorse la linea di fuoco, rincuorò i sopravvissuti al bombardamento, guidò i pochi plotoni di rincalzo nelle zone di fronte dove non erano che morti. Nei momenti più critici, si trasformò in lanciatore di bombe, in soldato di linea. Fu una delle poche menti che funzionarono in quelle ore di esaltazione eroica, o di tacita rassegnazione».

Sono le pagine, queste centrali della minuscola pubblicazione bellieniana, straordinariamente avvincenti, e per le azioni richiamate e per la prosa asciutta e, insieme, partecipe. Fino all’evocazione del trionfo morale e anche, per così dire, estetico, della Sassari “regionalizzata” in uno scenario di assoluta tragedia. «Piovevano in quei giorni da tutto il fronte soldati colle mostrine dai cento colori, lanciabombe, tiratori scelti, porta tubi di gelatina, elementi affezionati ai loro reggimenti, ben trattati dai loro comandanti, moltissimi in attesa di andare in licenza… Eran costoro gli elementi scelti di ciascun reggimento: messi a contatto con camerati del restante d’Italia, i sardi spinti dal sentimento d’orgoglio e d’emulazione che è vivissimo in essi, cercavano di essere i migliori, i più solerti, i più audaci; andavano alla ricerca della lode; godevano della ricompensa conquistata... Strappati dal loro ambiente, questi soldati... furono inviati alla Brigata Sassari con una sola parola: Sardegna. Siete sardi, dovete andare alla Brigata che ha fatto onore al vostro paese, per combattere e morire dove hanno combattuto e son morti i vostri fratelli sardi, per la gloria della Sardegna. Tremendo richiamo a tutti i misteriosi vincoli di sangue, ad un processo di selezione di razza compiuto nell’isolamento di secoli, in una terra… capace di assorbire e trasformare completamente in due generazioni le genti forestiere che vi prendono stanza».

Il sardismo, potrebbe ben dirsi parafrasando lo stesso Bellieni, nasce dalla intuizione e dalla volontà del Comando supremo! E’ lì l’«ideale luce» che costituisce «il segreto clima morale del Fior, dello Zebio, della Bainsizza, del Col del Rosso, d’Echele, del Piave - Viva la Sardegna! Gridavano tutti gli ufficiali nell’ora dell’assalto, anche i non sardi…».

E Lussu! «Nella quindicina di riposo, i soldati oramai ripuliti, con le divise nuove, le mostrine bianco-rosso fiammanti, lo ammiravano mentre passava di galoppo, diritto in sella, sul cavallo un po’ bizzarro che a volte faceva degli scarti… L’Aiutante maggiore del 3° Battaglione sapeva stare in sella, era un guidatore disinvolto e sicuro. Per un popolo di cavalieri qual è il Sardo, che esige il corretto portamento in sella… queste virtù di contegno accrescevano il prestigio di Emilio Lussu».

Un prestigio che non cerca furbe conferme. Anche nella mensa, attorno ai fiaschi di vino vissuti dai più come «gaudio di vivere»: «Emilio Lussu riusciva a dare carattere di signorilità facendo vibrare il sentimento di cameratismo, ristabilendo i diritti dell’intelligenza, della conversazione brillante, al posto dei volgari lazzi, figli dell’orgia»…

«Emilio Lussu – sono ancora parole del suo biografo – era non soltanto ufficiale valoroso…, ma era anche un uomo di cuore. Fece la guerra convinto della necessità di essa, pronto al sacrificio, severo con sé e con gli altri, ma senza indulgere mai ad un sentimento di ferocia che più spesso di quel che non si creda, si faceva strada nei cuori. Ricordo che di ritorno sullo Zebio, dopo la mia prima ferita, lo trovai stremato dall’angoscia, ridotto quasi ad un vecchio. Mi abbracciò e gli spuntarono le lacrime. Poi mi disse piano, perché nessuno sentisse: - Sono stanco sai, di fare il macellaio. Fino adesso avevo fatto l’ufficiale, ora invece bisogna portare gli uomini al massacro senza scopo. Ed alla fine il cuore si spezza.

«Io lo guardai in silenzio, non riuscendo a trovare una risposta… Venti volte Emilio Lussu saltò fuori dalla trincea… Una singolare fortuna pareva accompagnarlo. Ed un giorno finalmente, di fronte alla stoltezza dell’olocausto di centinaia di soldati, senza alcun risultato, senza una visione d’assieme, senza alcuna probabilità di successo, la sua coscienza si ribellò all’ordine rinnovato di ricominciare alle dieci del mattino l’assalto quotidiano. Chiamato dal Comandante la Divisione, fermo sull’attenti, ascoltò in silenzio le disposizioni impartite, sempre le stesse da quasi venti giorni. I Comandanti del 3° Battaglione, uccisi, feriti, ammalati, si avvicendavano vertiginosamente, e solo l’Aiutante maggiore restava, miracolosamente, a custodire la continuità del servizio.

«- Ha inteso tenente? Mi dia assicurazione per una immediata esecuzione.

«- Signor no...

 «- Come signor no! Non intende eseguire l’ordine?

«- Signor no.

«- Io la faccio fucilare immediatamente.

«- Signor sì».

Bellieni racconta di questo eroismo spontaneo, non chiassoso, celebra senza un’ombra di retorica un santo laico, fedele fino all’ultimo alla ragione e alla coscienza. «Capitano, Comandante di Compagnia, di Battaglione. I superficiali sognatori di un esercito democratico, all’acqua di rose, umanitario, immagineranno che Lussu, sostenitore sin d’allora dei diritti del proletariato, capo di plebe in rivolta nel dopo-guerra, sia stato l’ufficiale odiatore della forma, di quel contegno esteriore che è croce e delizia di tutti i vecchi troupiers di Caserma. Tutto al contrario: Emilio Lussu fu un rigido osservatore della forma anche in trincea… l’Esercito, arma e difesa della Nazione, non può partecipare a quel cozzare di contrasti, di aspirazioni, d’ideali che è lotta di popolo. L’Esercito invece, anche nello stato più democratico, è fissa gerarchia di valori, è devozione completa ad un supremo ideale, è regola di ogni attività, è forma».

Ancora: «Emilio Lussu fu un vero comandante, fu l’uomo dal pugno di ferro, giusto, conoscitore del cuore umano, pronto a premiare chi generosamente si offriva volontario, pronto a punire con la rivoltella il codardo che tentava sottrarsi al dovere. I soldati lo amavano, avevano in lui una cieca fiducia. E nelle ore più solenni l’ufficiale rigido sapeva talmente confondersi con l’uomo di cuore, che dalla sintesi di queste opposte qualità sorgeva fuori una figura di dominatore, piena di fascino e di mistero». Seguono altri quadri di memoria, altri flash su azioni e uomini e territori e tempi. Sempre più emergono i tratti di una personalità fuori dell’ordinario…

«Passavano ormai gli anni, e la sua vita si confondeva con quella della Brigata. Man mano che la Sassari si copriva di gloria la figura del giovane capitano risaltava sempre più. Non era stato mai ferito. Spezzatosi il polso per un accidente durante la ritirata, quando la Brigata, che s’era coperta di gloria sulla Bainsizza, costituiva l’estrema protezione dell’esercito, ed ogni giorno affrontava il nemico per rallentarne la marcia, egli ritorna dopo pochi giorni in (prima) linea e partecipa alla battaglia di Col del Rosso, dove finalmente resta ferito ad un braccio. Guarito in breve tempo, è di nuovo col suo reparto. La battaglia del Piave lo ritrova ancora inesauribile animatore di tutto il reggimento, di tutta la brigata… Nell’ottobre i bianco-rossi sono i primi ad entrare a Vittorio Veneto. Emilio Lussu cavalca alla testa del suo battaglione, come un grande eroe barbarico che guidi un esercito di crociata in difesa della fede. E al limitare del paese un vecchio prete si inginocchia dinanzi al suo cavallo, e additando le leggendarie mostrine dei soldati mormora con voce rotta da pianto: - Siano benedetti questi colori: gli ultimi ad abbandonarci nei giorni della sconfitta, i primi a ricomparire nell’ora della vittoria».


«Un uomo di ferro a noi necessario»

Bellieni scorge in quei trascorsi la legittimazione lussiana a guidare il movimento degli ex combattenti in volata verso il sardismo politico: «in quei giorni di ritorno alla vita civile il mito di redenzione alla patria originato dal martirio della trincea fu profondamente sentito da tutti i combattenti, da tutti coloro che durante le giornate più tormentose avevano sognato il dietro-front dopo la vittoria, conservando le formazioni di battaglia, per la punizione e purificazione di un’Italia glaccida, barattiera, priva di ideali… Lo scrivente, comprendendo il significato storico del movimento politico che s’era iniziato nell’isola, …si batté perché alla testa dei combattenti sardi fossero dei capi degni degli uomini di sicura fede, e i soldati che non avrebbero sfruttato i loro commilitoni, e fosse dato il bando alle vecchie e nuove maschere della democrazia e del liberalismo. Bisogna che ritorni Emilio Lussu in Sardegna. E’ questo l’uomo di ferro a noi necessario. Ripeteva ciò nel dicembre 1918 ad amici ex combattenti cagliaritani… E mentre a Cagliari s’iniziava una campagna a parte di alcuni giovani non combattenti, ma pieni di fede, per la importazione di grandi uomini di marca continentale per le prossime elezioni, lo scrivente metteva in guardia i reduci contro tali illusioni che avrebbero potuto recare, come infatti recarono, gravissimi danni alla nuova formazione politica. E additava agli elettori dell’Ogliastra e del Gerrei l’eroe non ancora ritornato, Emilio Lussu, come l’uomo, il soldato puro uscito miracolosamente dalla guerra per fare da condottiero nella battaglia civile».

Lo ricorda, anzi lo celebra scrivendone su La Voce dei combattenti, il giornale che inizia a dirigere nella primavera del 1919: «il suo criterio, l’equilibrio delle facoltà intellettuali, il coraggio nell’assumere responsabilità non gli venivano mai meno, neanche nelle ore tragiche della battaglia e della morte imminente… Ad essa egli si era votato, pur comprendendo interamente il valore della gioia della vita; ma questo giovane pieno di baldanza, e di fiducia nel fatale trionfo dei suoi ideali, è uscito da quattro anni di guerra un uomo maturo, dalla ferrea volontà, degno di guidare un intiero popolo. Chi lo ha visto nella penultima battaglia del Piave, racconta le sua gesta come quelle di un eroe da Mito. In piedi, dopo sette notti di veglia, egli lanciò il grido per il contrattacco finale. Procedeva tra le raffiche delle mitragliatrici avversarie, battendo a terra un’alta mazza, la tracolla carica di bombe, intuonando una canzone alla nostra maniera. Tutta la brigata entusiasta lo seguiva, gli artiglieri riprendendo i loro pezzi gridavano: Viva la Sardegna!».


«Eroe di un popolo», anzi eroi…

A un mese dalla morte dell’antico compagno d’arme e di parola, nel fatidico 1975, Bellieni pubblica un suo ricordo, sulla terza pagina de L’Unione Sarda (4 aprile 1975, poi riproposto – sotto il titolo di “Quei quattro mori listati di rosso” – per il numero monografico Emilio Lussu. Una leggenda sull’altipiano, dell’Editrice Janas, 1991). Certo, attraversa le stagioni di un’intera esistenza, ma non può non indugiare proprio su quella specialissima del loro incontro, insieme umano e – per le premesse che getterà – politico.

Si riferisce, Bellieni – biografo ed autobiografo –, al loro primo incontro, accennando ad aspetti non affacciati nelle pagine dell’opuscolo sulle Avanguardie. «Appariva garbato e diplomatico esecutore degli ordini del comando di battaglione; sempre affettuoso e gentile nei miei riguardi; anche quando mi disse in tono un po’ ironico che potevo andare a Ca’ del Vescovo, nelle plaghe di Aquileia ad occuparmi di bombe e di bombarde, perché l’ultimo arrivato al reggimento e gli altri colleghi pari grado avevano necessità di un po’ di riposo nel ridente villaggio di Campolongo del Friuli, ove si era discesi da qualche giorno in accantonamento. Sì, in fondo era vero che risultavo l’ultimo arrivato, ma me lo disse in un tono così confidenziale, garbato e cordiale, con una punta di ironia che non volli osservare che da tre mesi non mi ero tolto le scarpe, non avendolo permesso le circostanze, ed accolsi l’invito. E così per due anni la nostra amicizia fu schietta e sincera, fino a che non mi venne ordinato di lasciare il fronte di Monte Zebio sull’altipiano di Asiago, per attendere alle faccende anzidette di bombe e bombarde in un poligono di corpo d’armata».




Preso volontariamente il comando di un plotone di arditi, avrà, Bellieni, nel novembre 1917, la sua dose di sessanta pallottole nella gamba sinistra. Tre ricoveri in sequenza: a Fozza, a Bassano, a Siena infine. E due decorazioni al valore. Rientrerà poi in Sardegna, per una battaglia nuova sì ma alle altre intimamente collegata: nel senso che si trattava di mettere a frutto, politicamente, quel sacrificio di popolo…  

Quando esce il quaderno edito dal Nuraghe di Raimondo Carta Raspi è già trascorso un lustro dalla fine del gran macello, e molte sono state le vicende belle e brutte – fra adesioni e diserzioni – vissute dal movimento dei Combattenti e dal primo sardismo organizzato. «Emilio Lussu è ancora sulla breccia; noi vecchi suoi compagni, i combattenti del 1919, siamo ancora in gran parte al suo fianco, nonostante recenti amarezze. Il distacco di alcuni commilitoni che presero altre vie, ci ha portato molto più dolore che non sdegno. Ma l’ultima battaglia ci ha riempito di conforto. Rappresentiamo una grande viva forza, non solo sarda ma italiana; giacché il partito Sardo è un monito ed un esempio per tutto il Mezzogiorno, e per tanta altra parte d’Italia, economicamente e spiritualmente Mezzogiorno. E guardiamo verso i giovani. Usciti stanchi dalla guerra, invecchiati di dieci anni, tormentati di ferite ed acciacchi, noi siamo materiale destinato a bruciare, strumento della Provvidenza in un’età di transizione. Reggeremo ancora per poco nell’ardua fatica intrapresa. Vengano gli adolescenti di ieri, ad occupare i nostri posti di combattimento, e ci confortino con il loro entusiasmo, le loro inesauribili energie».

«Gli avvenimenti di quel periodo – scrive Bellieni in ribadita veste di testimone oltre che di storico, nelle ultime pagine del prezioso opuscolo – appaiono composti a distanza in un quadro di serenità, avvolti in un’atmosfera di nostalgia come tutte le cose morte. Non son più che il ricordo della nostra giovinezza. L’uomo politico è invece ancora troppo vicino a noi, troppo fraterna e stretta è stata la nostra collaborazione, perché si possa scrivere della storia, quando si combatte la lotta di parte...».  

Per fare unita l’Italia, finalmente ora anche con Trento e Trieste nei confini della patria, la Sardegna aveva dato il meglio di sé, e reclamava ora, non per un venale saldo di credito, ma per un’irrinunciabile esigenza di giustizia, riconoscimento ed autonomia. Il processo di elaborazione sarebbe stato lungo, e anche confuso e contraddittorio nelle istanze rivendicative, ma infine – setacciato all’esame delle contingenze – esso avrebbe prodotto idealità e testimonianze degne dei più alti fori della democrazia.


Il movimento dei Combattenti, il PSd’A e l’antifascismo

Alla primitiva sdrucciolevole ideologia lussiana di stampo sindacal-rivoluzionario, che solo la tempra morale del Capitano sapeva nobilitare almeno nelle suggestioni, s’opponeva una più laica e lucida testimonianza del giovane sassarese, più legato – per formazione sui libri e nei confronti dialettici – alle posizioni salveminiane. Per questo egli partecipava, con un contributo non ancora definito ma comunque già distinguibile, alle assise nazionali del combattentismo (la prima, a giugno, nella capitale). Per questo dirigeva La Voce dei combattenti, diffusa particolarmente nel Sassarese. Per questo si faceva missionario, anche con un fare assistenziale e sociale – paese per paese del Capo di sopra –, di un sardismo in divenire: un sardismo pre-partito la cui prima manifestazione propriamente politica – dopo le assemblee associative di Oristano e Nuoro (aprile, maggio) – era nel confronto elettorale del novembre dello stesso 1919. 

Per parte sua Lussu – giunto finalmente nell’Isola nell’estate di quell’anno, accolto dalle atmosfere generate dal suo stesso mito propagandato per mesi e mesi in ogni centro delle due provincie, ed accolto anche da una funzione assegnatagli dalla sezione Combattenti cagliaritana: quella di presidente – si getta immediatamente nell’azione politica, valendosi, come strumento fondamentale di predicazione, de Il Solco, settimanale e quindi quotidiano, – che sostiene in città e nel meridione dell’Isola le stesse fondamentali tesi della Voce sassarese, lancia le medesime parole d’ordine, presenta all’opinione pubblica una medesima istanza innovatrice ed autonomistica.

Accomunati comunque da una forte pulsione di rinnovamento della politica, Lussu e Bellieni focalizzano, con progressiva incisività, il nodo da sciogliere per superare il passato e creare finalmente il nuovo, nella politica e nelle istituzioni: il riconoscimento dei suoi diritti alla Sardegna non può non passare che con una riforma radicale dello stesso impianto politico-istituzionale dell’intero Paese. Non è subito, all’interno delle stesse aree di consenso che si consolidano attorno ai due leader, una scelta repubblicana, ma certo in progressione l’istanza socio-economica evolve, trasformandosi intimamente, in una rivendicazione anche politico-istituzionale. Superando l’agnosticismo istituzionale – che tanto aveva rallentato anche il cammino del socialismo italiano, il quale per lungo tempo aveva marxianamente confinato la tipologia costituzionale nella categoria delle sovrastrutture – si sarebbe puntato, seguendo la pressione dei più giovani e colti militanti, alla opzione repubblicana.

La partecipazione alla vita dell’Associazione Nazionale Combattenti – che ha scelto per sé un autonomo ruolo di protagonista politico-sociale – conserva, da parte delle sezioni sarde (che possono vantare un credito superiore a quello di qualunque altra organizzazione territoriale), una riserva: la preminenza dell’interesse isolano su ogni altro. In altre parole: la consapevolezza del raccordo fra istanza regionale e istanza nazionale associa ma non subordina (come è invece nell’ideologia classica del repubblicanesimo, che costituisce la famiglia politica più prossima al sardismo) la prima alla seconda. Ancora molto confusi sono i linguaggi che circolano nell’ANC, mentre brucianti sono le emergenze sociali – ad iniziare dal carovita e dall’occupazione rurale – patite dall’Isola. Per questo il combattentismo pre-sardista aderisce alle agitazioni dei minatori dell’Iglesiente (dicembre 1919), rifiutando di impegnarsi negli scioperi politici che più volte, nello stesso anno, vengono proclamati dai sindacati della sinistra ora per contestare le pressioni internazionali sulla Russia leninista ora per solidarizzare con gli operai magiari e dello stesso ex impero moscovita… Per questo esso decide di concorrere al confronto elettorale, per questo Bellieni e Lussu (esclusi entrambi dalla candidatura per difetto d’età) sono i più attivi – con scritti, discorsi, visite locali, attività organizzative – nella preparazione e nel sostegno alla lista dell’elmetto. La Sardegna che hanno in mente, la Sardegna che è entrata maggiormente nella loro esperienza di vita (quella delle trincee inclusa), è la Sardegna rurale, contadina, non quella operaia politicamente compromessa con il socialismo…  

All’insegna del proporzionale, la conta democratica vede l’elezione di tre esponenti nessuno dei quali reduce di guerra. La scelta del movimento/associazione è stata infatti quella di aprirsi, nella rappresentanza, a personalità di area, escludendo vincoli reducisti. I deputati aderiscono, a Montecitorio, al gruppo salveminiano di Rinnovamento.

Comunanze e distinzioni. Già all’indomani del risultato delle urne, prendono a definirsi – invero più sul piano della prevalenza delle sensibilità che non su quello delle direzioni politiche – le linee, fra loro dialettiche, in capo a Lussu ed in capo a Bellieni (ed alle sezioni territoriali di riferimento). Se infatti il leader sassarese sostiene l’utilità di una articolazione del movimento dei Combattenti, in simbiosi con i gruppi salveminiani, in tutte le regioni meridionali del continente e nelle isole maggiori, facendosi portatore della istanza ruralista (riforma agraria, liberismo commerciale e doganale in chiave di contrappeso all’alleanza fra borghesia industriale e proletariato operaio del nord), Lussu è per la “mano libera” – ancora per qualche tempo – onde non dissipare, nella pur prioritaria istanza sociale, la carica di rinnovamento politico.

E’ un dibattito ideologico (sulla natura stessa del movimento) e politico (che guarda cioè alle prospettive e alle strategie anche d’alleanza) intenso e vivace. Ma non è mai, nella espansione dialettica delle tesi che vengono via via affacciate, una questione di alternative secche. Non può non porsi infatti, né nella linea Bellieni né tanto meno in quella Lussu, la questione socialista, o del rapporto con le classi lavoratrici rappresentate dal movimento sindacale e dal Partito Socialista. L’antibolscevismo non può chiudere il dialogo, e l’eventuale intesa, con la militanza e la dirigenza (anche parlamentare) del socialismo italiano.

Non è questa la sede per un approfondimento ulteriore di tali ragioni di distinzione e/o di contrasto. Quel che importa segnalare è che – in questi primi anni postbellici, caratterizzati dall’attivismo combattentista, dalle prime prove elettorali (dopo le politiche verranno, nel 1920, le amministrative e l’anno successivo ancora le politiche), e dall’esordio del Partito Sardo d’Azione organizzato – la dialettica Bellieni/Lussu è comunque prova di una solidarietà umana e ideale profonda fra i due.

Importa piuttosto portare l’attenzione a una fase in cui – pur permanendo intatta quella condivisione di principi e di obiettivi – la lucidità del più “moderato” (almeno nominalmente) Bellieni darà dei punti a Lussu – dalla cui impostazione egli tende a discostarsi sensibilmente – proprio circa la cruciale questione del rapporto con il fascismo. Perché molto è cambiato, fra 1922 e 1923, rispetto ancora al 1921 (cioè all’esordio parlamentare di Lussu). Nell’ottobre 1922 Mussolini – espressione e capo di una formazione di minoranza estrema – ha preso la guida del governo del Paese. Poche settimane dopo egli ha nominato prefetto di Cagliari il generale Gandolfo, facendolo plenipotenziario in una trattativa da concludere con il Partito Sardo d’Azione, per la confluenza di quest’ultimo – nel nome della comune radice combattentistica – nel fascismo.

Per alcuni mesi, nel cavalco d’anno, è stata tutta una girandola di incontri palesi e clandestini (a Cagliari ed a Roma), di lettere partite e ricevute, di documenti passati al voto e alle ratifiche, di vaglio di ipotesi di nuovi scenari, di pro e contro… Dal punto di vista del fascismo romano si trattava di liberarsi dei “duri e puri” alla Sorcinelli – perseguitato anzi (col suo giornale L’Unione Sarda) dallo stesso PNF per il suo estremismo –, dal punto di vista del sardismo transigente si trattava di accogliere l’opportunità di prendere la guida della nuova “macchina del potere” e ottenere all’Isola, a tre lustri dalla legislazione speciale del Cocco-Ortu, un flusso di finanziamenti effettivamente capaci di cambiare la velocità di marcia della sua economia e innalzare il livello di vita delle popolazioni. E’ una storia nota e più volte esposta in saggi egregi, a cominciare da quelli di Luigi Nieddu e di Salvatore Sechi.

Ripetutamente i massimi organi dirigenti dei Quattro Mori hanno dichiarato l’antifascismo del partito. La sferza della violenza nera s’è abbattuta infinite volte, fino al sangue dell’assassinio, sul corpo dei militanti. Come dimenticare tutto questo? Nello stesso giorno in cui Mussolini ha ricevuto l’incarico di formare il suo governo, a casa Mastino – nel cuore di Nuoro –, dove si è celebrato il terzo congresso del PSd’A, ci si è lasciati ipotizzando la sollevazione popolare contro il nuovo ministero (che, comunque, presentatosi alla fiducia di Montecitorio, riceverà il compatto no dei deputati sardisti).  

Plenipotenziario Gandolfo, plenipotenziario – dall’altra parte – Lussu (appena dimesso dall’ospedale dopo l’ultima aggressione squadrista, e mentre il patto “di pacificazione” siglato il 13 novembre mostra tutta la sua inconsistenza). Lussu si fa possibilista. Sarà lui stesso a darne testimonianza in un lettera pubblicata su Il Popolo Sardo del 18 febbraio 1923, così precisando le sue controproposte al generale-prefetto: «Immediato impegno del Governo per la realizzazione delle aspirazioni autonomistiche della Sardegna; Concessione temporanea dell’Isola franca, esenzione cioè dell’Isola dai dazi doganali; Il Partito Sardo d’Azione, aderendo al fascismo, non rinuncia a nessun punto programmatico, conserva il suo indirizzo e le sue caratteristiche». Con un quarto punto, o corollario (in verità messo in dubbio, nella sua veridicità, da studiosi come il Nieddu, che attribuisce l’intera testimonianza a un’esigenza di legittimazione democratica ex post): «Accettare senza discutere le mie dimissioni da deputato e il conseguente ritiro dalla vita pubblica».A manifesti di confluenza (del PSd’A) e di accoglienza (del PNF) già diffusi prima della ratifica di qualunque accordo, si svolgeva – il 23 gennaio 1923 – la tornata del Consiglio Provinciale in cui Lussu avrebbe, pur con tutte le cautele circa tempi e modi, confermato l’accettazione della proposta gandolfiana. Una capitolazione annunciata, di cui si caricava la responsabilità proprio nel momento in cui dichiarava di trarsi definitivamente da parte: «Per quanto la mia parola possa esser causa di contrasti, sento tuttavia il dovere di dire alcune cose, in un momento che è per me pieno di profondi sentimenti. Parlo per l’ultima volta, perché gli uomini che hanno rappresentato un partito, sorto unicamente per il bene dell’Isola, non possono essere sospettati di speculazioni quando in un’ora come questa, dopo aver compiuto ciò che credevano un loro dovere, sentono la necessità di sparire».

Ma niente può farsi in pace. Perché se da parte dei fascisti della prim’ora (i sorcinelliani) continuano gli atteggiamenti di ostilità a qualsiasi intesa – ché i nuovi arrivati li sacrificherebbero, inevitabilmente, nelle posizioni di vertice del partito – e da parte del delegato regionale del PNF avv. Falchi si ribadisce che ogni ponte è teso verso i «combattenti» del PSd’A e non verso il Partito Sardo in quanto tale, sul fronte opposto lo sconcerto e la ribellione non mancano di materializzarsi e tuonare. Da Napoli scrive Bellieni, e i giornali isolani pubblicano il 2 febbraio: «Lontano dall’Isola non posso conoscere le eventuali crisi spirituali che hanno determinato un così radicale voltafaccia; ritengo necessario separare nettamente la mia responsabilità da quella di amici d’ieri che hanno consegnato le gloriose nostre bandiere all’avversario tradendo così la precisa volontà d’un sovrano Congresso».

Sono di questo periodo – ma continueranno per un anno e oltre – le lettere di Bellieni (e Fancello) a Lussu. In una prima fase – quasi con impeto pedagogico – proprio per riagguantare la barra della tradizione ideale, intransigentemente democratica, del sardismo. 


Il fallimento del progettato Partito Italiano d’Azione

In qualche modo parallela alla vicenda dell’intesa/non intesa con il fascismo è quella del raccordo del Partito Sardo d’Azione con altre formazioni autonomistiche del continente. E’ il progetto di un Partito Italiano d’Azione che operi come nuovo soggetto sulla scena politica del dopoguerra, portando in essa contenuti innovatori e programmatici e, di conseguenza, politici. 

La confusione dei lavori congressuali dell’ANC in svolgimento a Napoli nel settembre 1920, quell’incapacità della dirigenza di proporre un indirizzo sufficientemente maturo sul quale poter confluire, da parte di organizzazioni regionali e lobby sociali, aveva indotto Bellieni a proporre – con una circolare inviata alle sezioni sarde associate – la formale costituzione di un partito politico regionale, libero dalla pregiudiziale della effettiva partecipazione alla guerra. Al congresso di Macomer del 1920 il confronto era stato tutto programmatico, con il prevalente successo della linea Delisi (o Delisi-Lussu), imperniata sull’azione ed organizzazione sindacale come base della futura economia territoriale. Pochi mesi dopo – aprile 1921, vigilia delle elezioni parlamentari – era stato formalmente costituito, ad Oristano, il Partito Sardo d’Azione. L’impianto politico s’era fatto più robusto, con l’aggiunta all’indirizzo Delisi della qualificante istanza autonomistica.

Il pensiero politico bellieniano non chiudeva, però, la questione sarda nei confini di una elaborazione locale, tanto meno di una elaborazione ideologizzata come pareva essere quella maggioritaria. Anzi, la rivendicazione autonomistica in termini propriamente di regionalismo aveva per lui – come s’è accennato – un valore nazionale, perché intendeva scardinare il vecchio impianto burocratico statale, lontano dalle esigenze dei cittadini, se non anche corrotto. I contatti con correnti o personalità democratiche del continente – gli “azionisti” ed i federalisti riuniti attorno alle riviste di Vincenzo Torraca (Volontà) ed Oliviero Zuccarini (Critica Politica) – lo portano progressivamente ad immaginare, insieme con l’amico Francesco Fancello/Cino d’Oristano, una riforma dell’intera struttura dello Stato in termini di riconoscimento delle volontà politiche dei singoli territori.

Proprio per questo egli intende il suo partito come una componente di un più ampio schieramento riformatore, a sfondo meridionalista: appunto il Partito Italiano d’Azione. E sarà soltanto quando alcune delle formazioni candidate al nuovo polo politico – primo fra tutti il Partito Molisano d’Azione – cederanno alla lusinga fascista, che egli rinuncerà al progetto e concentrerà i suoi sforzi per la salvaguardia della purezza ideologica e pratica del suo Partito Sardo d’Azione. (Ciò per quanto possa, dalla sua residenza nella penisola: il primo posto al concorso nazionale per la carriera di bibliotecario universitario lo ha portato intanto, dal 1924, a Bologna, e nel periodo bolognese inizia anche l’insegnamento alle secondarie, per passare poi di ruolo negli istituti magistrali, titolare della cattedra di filosofia, storia e pedagogia; almeno fino alla sospensione dal servizio per antifascismo).

Solo apparentemente meno impegnato di Bellieni è, nella prospettiva italianista – nella tessitura della trama interpartitica cioè –, Emilio Lussu. Egli partecipa, ancora nell’autunno 1921, al terzo congresso dell’Associazione Nazionale Combattenti, cui aderiscono ben 400.000 soci di tutte le regioni d’Italia. Riesce anzi ad affermare, in quell’occasione, una linea democratica, che lo vede protagonista assieme a Bellieni stesso, a Ferruccio Parri, a Torraca con il suo gruppo di Volontà. Sono i giorni in cui, ancora con Bellieni, porta la bandiera decorata della Brigata Sassari all’altare della Patria, nella capitale.

Di cartelli con i molisani e gli altri (liguri, romagnoli, lucani, calabresi, siciliani, ecc.) parla esplicitamente in sede congressuale: pur in un’ottica forse differenziata da quella bellieniana, dice di condividere il progetto federativo. Questo emerge da qualche incidentale passo dei suoi discorsi alla Camera, allorché insiste sulla natura non separatista del sardismo (alla fine del 1921 Montecitorio ha applaudito alla indipendenza dell’Irlanda); ma ancor più emerge nel discorso che tiene alla seconda assise sardista (Oristano, gennaio 1922). Intervenendo dopo il segretario politico, insiste perché l’obiettivo di un Partito Italiano d’Azione divenga cosa concreta nell’azione del PSd’A. Parla con impeto, trasmette a tutti la voglia di gettare ponti, non per l’omologazione, no, per… la rivoluzione incruenta. 

Saranno la deriva filofascista di taluni dei soggetti interessati al progetto e la stessa scissione sardista della primavera 1923 a portare al fallimento un sogno che si sarebbe, comunque, infranto assai presto, per il radicarsi del regime dittatoriale che i partiti li avrebbe sacrificati tutti, i maggiori come i minori, i nuovi come i vecchi… 


Accordo o no col socialismo riformista?

Proprio all’inizio dell’ultima legislatura democratica, nata sotto il malaugurante segno della riforma Acerbo, Torraca e Salvemini diffondono un manifesto per annunciare la loro adesione al Partito Socialista Unitario. Già vicino al Partito Repubblicano – anche per i rapporti personali con esponenti del PRI sardo di gran livello come Michele Saba e con giovani militanti come Silvio Mastio e Cesare Pintus (che lo ha intervistato per La Voce Repubblicana alla vigilia delle elezioni dell’aprile 1924) – Lussu sembra anche lui subire l’attrattiva del PSU del martire Matteotti, o forse la suggestione della mossa dei due amici di Rinnovamento. Ma immediata incontra l’avversione di Bellieni. «Caro Emilio, sono contrario in modo assoluto ad ogni patto d’alleanza col Partito Socialista Unitario. Naturalmente pronto ad obbedire ad un congresso», gli scrive l’amico all’indomani della conta elettorale. Le ragioni che egli adduce a sostegno della propria posizione sono di diversa natura, ma certo le più significative sono quelle ideali, e rilevarle serve a marcare ancora una volta la persistente dialettica fra i due leader: 

«Questa è la ripetizione dell’accordo col fascismo. Noi non esisteremmo più come partito nazionale in potenza. Saremmo liquidati. Saremmo un grottesco partito nazionale in via di liquidazione per fusione di ditta. Cioè: gennaio 1923. Inoltre noi con i vari socialismi non abbiamo niente a che fare. Siamo sorti contro. Il partito sardo vuole un sindacalismo libertario che non ha niente a che fare col comunismo o collettivismo che è in fondo a tutti i socialismi… Pazienza per Salvemini che sente risalire le antiche nostalgie della giovinezza. Ma chi non ha mai creduto ad una socializzazione della ricchezza non può restare a lungo in un partito che ha in fondo questa concezione. Si chiamino Turati o Gramsci questo vogliono tutti, comunisti e unitari. Nessuno ha rinnegato Marx. Chi accetta la critica di Mondolfo, chi quella di Lenin ma tutti aspirano alla creazione di uno stato centralistico, autoritario, socializzatore». (Sembrano le parole che Ugo La Malfa pronuncerà, contrastando il Lussu insieme federalista e socialista – contraddizione in termini – al congresso azionista del febbraio 1946).

E ancora, come a riannodare passaggi trascorsi ma sempre fecondi della comune militanza ideale e politica: «Fino a che avrò vita mi batterò per un risveglio autonomo del Mezzogiorno, senza i padreterni della confederazione del Lavoro… che fanno i loro affari di settentrionali. Avrai visto il manifesto che abbiamo ieri pubblicato su Rivoluzione Liberale. Io seguo sempre la stessa via… Per riuscire bisogna insistere senza tentennamenti…

«Ho sentito prima parlare di un “esame nazionale”. Che cosa se n’è fatto? Io, con le rozze facoltà di un cervello non ancora completamente preparato culturalmente, ho tentato qualcosa del genere con “I 200 anni di vita italiana in Sardegna”. Ma niente altro su Volontà si è visto. Poi è comparso il Rinnovamento n. 1. Anche lì grande chiasso, molte carte stampate, poi più nulla. Qualche mese dopo si va a Napoli, si decide: facciamo il partito d’azione italiano. Mi si fa annunziare dal palcoscenico la novità e poi al momento di stringere quando c’erano i delegati di tutta Italia e si poteva fare un blocco formidabile, Torraca dice, bisogna sentire Gasparotto che tiene al Rinnovamento; conclusione: tutti vanno via e non si fa nulla. Noi abbiamo allora creato il Partito Sardo. Qualche mese dopo: altra circolare: i gruppi regionalisti. Nuova idea che cade nel vuoto. Dopo un mese non ci si pensa più. Costituzione a Roma della sezione del Partito Italiano d’Azione, altra fatica, in gran parte di Battaglia, che ci aiutò molto. Poi: vuoto. Ora io non voglio accusare nessuno, ma credo che noi non possiamo andare alla deriva. Bene o male 23.000 Sardi ci hanno dato i loro voti e la loro fiducia nelle ultime elezioni. Forse erano una forza. Basta volere. Basta riorganizzarci. In Sardegna saremmo, basta volere, i padroni assoluti. Gli unitari non contano un fico secco, e a Sassari, almeno, sono dei politicanti flaccidi, legati al sattabranchismo».

Una lettera questa – come quelle che seguono per un anno circa – rinvenuta da Massimiliano Rais fra le carte di Antonino Lussu, cugino di Emilio e suo sodale politico prima e dopo la dittatura. Il carteggio è stato pubblicato in Ferruccio Parri sardista elettivo, da me curato nel 1994.


Un dibattito epistolare, anni 1924-1925

La lucidità della riflessione politica di Bellieni preme sulle suggestioni che destabilizzano Lussu. Da parte dell’esponente sassarese (che scrive da Bologna nei giorni dell’Aventino) un invito viene a Lussu per il lancio di un foglio sardista, emancipando così il partito dall’interessata ed umiliante accondiscendenza volta per volta mostrata verso di esso da La Nuova Sardegna o dal quotidiano di Cagliari: «Noi dobbiamo parlare… perché se da un lato non dobbiamo essere demoliti pezzo a pezzo da un fascismo ferito a morte in continente, non dobbiamo lasciarci assorbire dalle vecchie cricche personaliste che si chiamano oggi opposizione costituzionale, e si chiameranno domani Cocco-Ortu, Sanna, Berlinguer, Umberto Cao ecc. ecc. uomini cioè e non partiti. Dobbiamo parlare per non diventare anche noi cricca, per non fare cioè schifo a noi stessi, e ai giovani che verranno. Io compio uno sforzo grandissimo per avere alleati nel mezzogiorno; si è riuscito a costituire il Partito Lucano che è vivo e vitale, con un giornale quotidiano, per sua fortuna perseguitato dalla polizia. In Avellino comincerà un movimento analogo. Ci battiamo disperatamente, ma una voce deve sentirsi anche in Sardegna…

«Sardegna Libera come tu vedi è un tentativo generico, che serve ad aumentare il confusionismo. Un nostro dovere è combattere la nostra battaglia a fianco delle opposizioni e non farci liquidare…, ma d’altro canto l’assenza di una nota nostra, esclusivamente nostra ci conduce alla morta gora di una generica opposizione.

«Domani ciò che noi vorremo ci sarà rifiutato dai democratici, la nostra concezione rivoluzionaria sarà oggetto di scherno da parte loro, che sono conservatori e reazionari finissimi. Noi siamo contro i fascisti perché ci appaiono falsi rivoluzionari, essi […] vedono nei fascisti dei veri rivoluzionari. Posizioni antitetiche che possono coesistere su un fronte di battaglia, fino a che il nemico è comune, ma che determinano il conflitto, non appena l’avversario comune è abbattuto. Non c’è altra via quindi».

E il 1° febbraio 1925, ancora nella logica delle distinzioni: «In verità mi sembra che di veri repubblicani non ci siamo che noi. Pochini invero, saremo tu, io, qualche altro. Ma insomma solo gli autonomisti si possono chiamare repubblicani. Io mi sono sempre opposto alla confusione nostra col PRI appunto perché stabilendo: Autonomia ponevamo come corollario necessario: Repubblica. Mentre la Repubblica loro non si sa che cosa fosse. Un empiastro indefinibile fatto di romanticismo garibaldino e che scolava fatalmente di filomonarchismo indiretto. Conclusione: io non ho alcuna speranza con tutte le manovre giolittiane, dall’alto, dal basso, ecc. il fascismo che è stata rivoluzione non si può abbattere se non con un moto di popolo. E su questo punto tacciamo sino a quando non saranno possibili cose concrete. Ché, se fossero possibili, io sono pronto».

Insiste, Bellieni, per mantenere al Partito Sardo una sua indipendenza dagli schieramenti ecumenici, ma insiste anche valutando assolutamente necessario martellare l’opinione pubblica con una presenza sulla stampa autogestita, di parte, e con contenuti, oltreché democratici ed antifascisti, anche… liberisti. 

Si riferisce esplicitamente al «modus vivendi doganale tra Italia e Germania» e lancia proposte che sembrano stravaganti, ma hanno invece una loro mirata logica politica, anche se evidentemente di sconfitta, di resa con l’ultimo graffio al carnefice: «Ci sono tre mesi per la scadenza del modus vivendi e per la stipulazione del trattato definitivo. Esso è una buona occasione per il Partito Sardo e per Il Solco. Bisogna martellare ogni giorno chiedendo libertà per ferro, acciaio, rotaie ferroviarie, locomotive, automobili, contatori e accumulatori elettrici, pompe ecc. io ho preparato dei trafiletti modello. Se ne possono fare all’infinito. Fare un giornale vivo, senza il pericolo del sequestro. Su questo argomento il governo non è punto sul vivo. D’altro canto la generica opposizione sempre sullo stesso tono minaccia di fare perdere individualità al nostro partito. Bisogna invece dimostrare le colpe del fascismo anche su questo campo. Bisogna far vedere che, al congresso di Bologna, a quello di Rovigo, dei bieticultori e zuccherieri… erano presenti tutti i deputati fascisti della regione. Noi che abbiamo tutte le nostre esportazioni in crisi abbiamo interesse di fare questa campagna.

«Ricordati che il terribile accrescersi di delitti in Sardegna è effetto della crisi economica.… Quindi campagna liberista fatta viva, ardente, da continui trafiletti. Io invio articoli, ritagli di giornale…».

E dieci giorni dopo: «Il problema italiano è oggi di istituzioni non di gabinetti parlamentari o extraparlamentari. Tutto il tentabile è stato tentato. Bisogna creare un Mezzogiorno sovversivo. Ecco il compito che la storia ha assegnato al Partito Sardo».

Colpisce, a questo punto, come al lucido teorico sfuggano ormai i termini effettivi dello scontro, già quasi agli esiti definitivi, fra democrazia e regime surrettiziamente in atto. E all’indomani della sospensione dalla cattedra e della sua orgogliosa dichiarazione di appartenenza al PSd’A, il 7 dicembre 1925 così scrive a Lussu e Giuseppe Asquer: «Continuate la vostra opera in Sardegna: Il Solco è ben guidato e ben diretto: ha bisogno solo di una maggiore correttezza tipografica, specialmente nei riguardi dell’impaginazione. In tempi di oppressione di libertà non si può fare altro che vivere. Uscire con la sola testata è già un atto di fede». 


Nel secondo dopoguerra

Passata la lunga onda nera della storia, pagati dalla nazione tutti gli alti costi – in termini morali e materiali – imposti per due decenni dalla dittatura e dal suo supplemento di guerra fianco a fianco dei burgundi, tornava Lussu in Sardegna. Un Lussu che non poteva più essere, naturalmente, quello stesso degli anni 1924-1925, ma era un altro Lussu: un Lussu che aveva maturato il suo pensiero, cosmopolizzandolo per le esperienze compiute nel continente europeo ed in America, lui persecutore delle dittature e fantasioso (ma anche realista) inventore di formule efficaci per il ritorno alla libertà.




L’ideologia socialista delle correnti più radicali di GL avrebbe fatto premio, nel Lussu dei secondi anni ’40 e del decennio successivo fino al 1963-1964 (alla scissione dei carristi riuniti nel PSIUP cioè), sulla fedeltà alla tessera. Estraneo alla storia del PSI dei Turati e dei Basso o dei Nenni, egli avrebbe cercato, già almeno, e pretenziosamente, dal 1946-1947, di riclassificare il sardismo nell’alveo di una tradizione piuttosto legata ai ceti urbani ed operai, lontana cioè dal suo radicamento sociale in una terra che vedeva l’organizzazione industriale limitata ad alcune zone soltanto e tipologie produttive: dalle miniere alla lavorazione del sughero o del granito…

Veramente nulla di più lontano dalla sensibilità intellettuale di Bellieni, dalle sue chiavi critiche nella stagione della riconquistata libertà. Si ricordino al riguardo i due “Manifesti ai sardi sulle libertà”, pubblicati nel maggio 1946 (alla vigilia cioè del referendum istituzionale) su Riscossa: quando è il passo, se non troppo veloce, certo molto orientato dalle partigiane convenienze di alcune componenti dell’antifascismo vincitore a preoccupare e togliere soverchie illusioni circa una piena ed effettiva conquista della civiltà della democrazia, comportante insieme il coinvolgimento popolare nelle scelte d’avvenire della patria comune e la signoria dell’istanza morale contro derive autoritarie. Tanto da far ipotizzare perfino scenari di autodeterminazione dei sardi, comportanti lo scioglimento dei vincoli contrattuali «con le altre genti appartenenti allo Stato italiano, libere di intraprendere altre pericolose avventure simili a quelle iniziate con urla guerraiole il 10 giugno 1940»…

Mentre restano dunque, e anzi paiono consolidarsi sempre più, le riserve di Bellieni verso le tappe del processo di evoluzione democratica dell’Italia che con largo consenso di popolo aveva sofferto la dittatura e i lutti di guerra, di quel processo Lussu è uno dei protagonisti più decisi ed autorevoli. E molto, tutto forse di quel che verrà poi – nonostante anche la rottura dell’alleanza governativa del 1947 e quella ancor più cruda per l’adesione atlantica dell’Italia degasperiana – sarà conseguenza di quelle premesse contestate dal Bellieni del 1946, disincantato e pensoso delle sorti sempre deboli della sua terra.






Fonte: Gianfranco Murtas
RIPRODUZIONE RISERVATA ©

letto 2507 volte • piace a 1 persone0 commenti

Devi accedere per poter commentare.

Scrivi anche tu un articolo!

advertising
advertising
advertising