1945-1946. Antonio Romagnino reduce dalla prigionia americana: no al qualunquismo, sì al liberalismo
di Gianfranco Murtas
Resto fedele alle memorie e, in esse, alle persone che di più hanno contato nella mia vita. Nel novero, Antonio Romagnino che, con Cagliari e la Sardegna tutta, ho perduto – amico e maestro – l’11 novembre di tredici anni fa. Rimane il suo nome nella storia civile e culturale dell’Isola e specialmente del suo capoluogo, nella storia della scuola pubblica che ha formato innumerevoli personalità impegnate poi su tutti i fronti della vita professionale, aziendale, associativa, religiosa, politica, ecc.
Resto fedele all’insegnamento del professore grato della confidenza riservatami, ad iniziare – più di mezzo secolo fa – dagli inoltri europeisti, e della generosa disponibilità sempre soccorritrice verso le più diverse esigenze volta a volta rappresentategli. E come sempre, intendendo onorare i suoi lasciti, anche stavolta mi sforzo di presentare qualcosa di nuovo o comunque non conosciuto, si tratti pure di una modesta tessera del gran mosaico “produttivo” da lui realizzato con sobria (e naturale) eleganza, senza mai risparmiarsi.
E così… gli è che in questi giorni in cui, apprestandomi a preparare i materiali per il rilascio di un articolo critico, spero approfondito, su Grande cronaca, minima storia, il memoriale politico di Paolo Pili di recente ristampato, sono ritornato a quel periodico – Presente – che, a Cagliari, fu nel 1946-1947 la voce del movimento qualunquista di Guglielmo Giannini (e, nell’Isola, di Maurino Angioni e appunto di Paolo Pili) e qui recuperare le tracce della collaborazione che il nostro professore prestò per breve tempo, per poi allontanarsi preferendo la solidarietà personale a Francesco Cocco Ortu jr. associata a quella ideale, seppure non senza riserve, allo spazio politico presidiato dal liberalismo di Croce ed Einaudi, offrendo la sua attiva militanza al Partito Liberale Italiano. (Rapida precisazione: le riserve si riferivano all’agnosticismo istituzionale del PLI, a fronte della opzione repubblicana del reduce dalla prigionia americana e là, nei campi del Missouri, o d’altri stati… Nebraska e altri ancora, “convertito” dal pensiero del Toqueville, nonché – si faccia attenzione – al flusso proprio dei qualunquisti in progressivo sbaracco dal Fronte nostalgico per accasarsi, forti o fortissimi nei numeri anche sardi e cagliaritani, attorno alla più nobile Bandiera).
Ebbene, m’è occorso di trovare nelle pagine di Presente un articolo siglato A.R. – così come, un decennio prima, sulle pagine di Sud-Est – che con piena certezza attribuisco al professore e che vorrei inquadrare in quella fase di orientamento o riorientamento ideale-ideologico che impegnava il giovane intellettuale finalmente tornato nella sua città e voglioso di offrire ad essa, con la ripresa della docenza liceale, il meglio che poteva.
Finalmente liberal: nella continuità una svolta
Il 25 novembre 2017 svolsi, al Dettori, una relazione sul percorso pubblico del professor Romagnino al rientro in patria – reduce con reduci – e sulle articolate fasi del suo impegno nella vita politica cagliaritana nella stagione elettorale amministrativa (marzo-aprile) e politica (per la Costituente) in coincidenza con la scelta istituzionale.
Tale relazione, vanificatisi gli impegni assunti dal liceo e dall’associazione Amici del libro di una ripresa nei siti rispettivi, la postai il 6 dicembre dello stesso anno nel blog di Fondazione Sardinia (titolo “Una festa la memoria civica di Antonio Romagnino, fra la mostra documentaria e una serata di testimonianze biografiche”).
Da essa riprendo la parte centrale che aiuta a comprendere meglio il testo che, esito della recente ricerca, presento per la prima volta (titolo “Umanità”) ed uscito sul numero 1 (gennaio 1946) di Presente.
Ho frequentato il professore per quarant’anni, l’ho intervistato un’infinità di volte per il pubblico e per il privato, l’ho anche portato, nel luglio 1973, al congresso del mio partito – quello repubblicano segnato dall’edera della Giovine Europa mazziniana –, e sempre ho colto in lui l’uomo che spaziava e coglieva i nessi fra le esperienze soltanto all’apparenza lontane e perfino di segno opposto od inconciliabile.
Forte di questa impostazione laica e dialogica, Antonio Romagnino ha vissuto però anche, in un’età che non era più di prima giovinezza ma era ancora comunque di giovinezza, esperienze chiamale divisive o partigiane. Fu la passione per la politica a suggerirgli una partecipazione attiva alla vita pubblica, di lato a quella strettamente professionale, invero pubblica di sua natura essa stessa: intendo la docenza liceale.
Mi sono posto la domanda da dove nascesse l’amore di Romagnino per la politica e le risposte che mi sono dato si collocano in un’area che direi delle probabilità, non delle certezze. Corrispondono cioè a quel che io ho capito del profondo della sua personalità.
Non entro nelle sue propensioni personali, benché possa dirsi che una qualche prima risposta possa rinvenirsi nel suo attivismo nel GUF cagliaritano degli anni ’30, e particolarmente nella redazione di Sud-Est (la rivista uscita a Cagliari dal 1934 al 1942), in cui firmò soprattutto articoli di critica letteraria e cinematografica. Una più convinta risposta potrebbe ottenersi, io credo, dal tema della sua tesi di laurea, discussa nell’anno accademico 1938-39: “Lineamenti storici del giornalismo politico sardo dal 1848 al 1870”. Scrivere di un largo e così impegnativo dibattito quale fu quello che precedette o accompagnò la formazione dello stato unitario risorgimentale credo non avrebbe consentito all’analista ed estensore – tale era il tesista –, una estraneazione, una neutralità o una terzietà piena. E gli spazi differenti concessi a questa o quella posizione, la stessa impostazione referente e perfino la scelta delle aggettivazioni sono tutte spie di adesioni o distanziamenti ideali. Ed entrava già lì la necessità da lui avvertita non della omologazione ma della relazione, non dell’assorbimento anonimo della Sardegna nell’Italia, ma del valore aggiunto che la Sardegna, con le sue elaborazioni, avrebbe potuto conferire all’Italia nuova del risorgimento identificata in una causa della storia, degna della storia.
Lo stesso volontarismo bellico potrebbe essere visto come espressione di una voglia partecipativa, traduzione a sua volta di un intimo impulso chiamalo pure politico o patriottico.
Ma ancora: l’assenso espresso alle autorità militari americane circa lo svolgimento delle funzioni collaborazioniste nei campi di prigionia fra la fine del 1943 e l’estate del 1945 – assenso corroborato dallo studio del celebre saggio di Tocqueville La democrazia in America – anche esso pare un’indicazione direi sicura di una maturazione politica, finalmente di segno democratico, destinata a trovare, al ritorno in patria, canali di espressione.
Qui è, a mio avviso, il Romagnino che abbiamo conosciuto, certamente nella varietà dei toni, ma sempre fedele ai valori appresi e meditati e sedimentati: la democrazia rappresentativa integrata dalla democrazia associativa, come in America; la democrazia repubblicana in luogo di quella dinastica, parziale o viziata, della tradizione italiana; la democrazia innervata dai grandi ideali universali ed affrancata da ogni istanza d’utile contingente.
Uomo di minoranza sulla scena pubblica
L’Antonio Romagnino liberale, o liberal – come preferiva essere identificato – imposta e struttura la sua identità politica, già dal ritorno in Italia e finalmente in Sardegna ed a Cagliari nell’ottobre 1945, seguendo quelle linee generali e maestre. Con una tale identità ricoprirà per alcuni anni – dal 1953 a tutto il 1957 – la carica di segretario provinciale del Partito Liberale Italiano, e con tale identità sarà presente nelle liste liberali, o degli aggregati liberali per ben sei volte: nel novero entrano, dopo l’esordio nientemeno che per la Costituente del 1946, le politiche per il rinnovo parlamentare (1953) e per quello del Consiglio regionale (tre volte: 1949, 1953 e 1957), ed entrano le amministrative per la città capoluogo (sono le comunali del 1956); con questa stessa identità liberaldemocratica o liberal, parteciperà, da indipendente nelle liste del Partito Comunista Italiano, alle regionali del 1979. Tanto impegno, sempre, nessun risultato; tante partecipazioni, nessuna elezione; sfiorata quella alle Comunali del 1956. Delusioni un’infinità.
Non si è mai dettagliata la sua esperienza politica, sia partitica sia elettorale. Egli stesso pareva aver rimosso quei passaggi, invero non marginali o episodici, della sua vita: certamente essi, tutti quanti, furono motivo non soltanto di delusione ma anche di frustrazione: nel suo partito per talune operazioni che, sgradite, lo emarginarono, oltreché alle urne per l’insuccesso nella conta. Ne riferirò più oltre. Ma anticiperei questo: non mancò, almeno in talune circostanze – nella metà di quelle gare elettorali, alle comunali del 1956 o alle regionali – la speranza e perfino la convinzione di poter tradurre in voti l’accredito di cui sapeva di godere, come docente e militante della libertà di pensiero e civile; fu invece l’esperienza amara della concorrenza più o meno, e soprattutto meno, leale, che ritenne di subire nel cimento a renderlo consapevole davvero che nella nostra società le intelligenze critiche, indipendenti per statuto anche nello svolgimento di una militanza liberamente intrapresa con spirito civico e patriottico, non hanno spazio, talvolta non hanno neppure l’aria per respirare. Ugo La Malfa, galeotto già 25enne per antifascismo e resistente e padre della patria repubblicana, viveva del suo 2 per cento dei consensi elettorali; Ciccio Cocco Ortu fu per il più in minoranza nel suo partito in cui pur godeva della massima considerazione; i radicali della scissione del 1955 e animatori dei convegni del Mondo di Pannunzio si contavano in poche centinaia in tutt’Italia ed erano tutti nobilissimi e fierissimi; gli autonomisti del Partito Sardo prima dei tralignamenti nazionalitari vivevano d’un 3-4 per cento isolano, eppure venivano da una gran storia che saldava regione e nazione.
La riflessione andrebbe portata sulla funzione delle minoranze nella storia dell’Italia sempre e della Repubblica italiana nei suoi primi trenta-quarant’anni almeno, e delle personalità di assoluta indipendenza morale e intellettuale all’interno delle stesse minoranze sempre agitate, per converso, da qualche animella che puntando ai riscatti quantitativi smarrisce il gusto della intransigenza motivata nello stile prima ancora che sulle cose.
Per intanto, e prima di presentare una completa rassegna delle candidature così come degli atti politici posti in essere dalla segreteria Romagnino, credo sarebbe importante puntare l’obiettivo sui primissimi passi propriamente politici del professore, allora 28enne, fra il ritorno a Cagliari e la prima importante esperienza pubblica. Si vedrà subito tutta la rilevanza dirimente delle sue scelte iniziali: perché la compagnia che con lui affrontò tutte le difficoltà del reducismo e con lui stazionò per otto-nove mesi nel presidio liberale a ridosso del voto referendario e di quello per la Costituente fu la stessa che, alla fine del 1946, dette vita al Movimento Sociale Italiano, formazione di destra il cui statuto nazionale avrebbe indicato tanto nei nostalgici del regime di dittatura e della dinastia Savoia quanto nei collaborazionisti della Repubblica di Salò la propria base sociale ed elettorale. Insomma, dei cento reduci che con Antonio Romagnino fecero iniziale movimento rivendicativo e, il 2 giugno 1946, alleanza con i liberali, almeno novantotto optarono infine per un inquadramento di destra e, obiettivamente, antiliberale.
Segretario del Movimento dei Reduci sardi
La sequenza è questa: nelle settimane che seguono il rientro in città, il giovane Romagnino si fa, con altri, promotore di una formazione d’opinione ed agitatoria che prenderà il nome di Movimento Indipendente Reduci Sardi. Contemporaneamente si accosta, ancora con alcuni dei suoi sodali, alla testata giornalistica Presente, che è in procinto di uscire, con periodicità settimanale, prima – dal gennaio 1946 – a Sassari da Gallizzi, poi – dal n. 5, nella primavera dello stesso 1946 – a Cagliari, col fine di rappresentare proprio le istanze del Movimento.
Nel novembre 1945 il MIRS diffonde un proprio documento che presenta le istanze ideali dei reduci, insieme con quelle più strettamente afferenti il loro reinserimento sociale e professionale; firmano, con Antonio Romagnino, Armando Congiu ed Italo Mereu – i tre costituiscono il “comitato provvisorio” del movimento, ed il testo esce in Rivoluzione Liberale, periodico liberale fondato da Francesco Cocco Ortu e da lui diretto insieme con Giuseppe Susini, notissimo critico letterario (e prossimo direttore de L’Unione Sarda riaffidato ai Sorcinelli), che lo pubblica nel suo numero dell’11-18 novembre. Eccone il testo:
«Caro Direttore,
«poiché difficoltà di ordine tecnico ci hanno finora impedito di dire una parola chiarificatrice, attraverso il nostro giornale "Presente", sul Movimento Indipendente dei Reduci, sicuri dell'ospitalità larga che sempre ha offerto "Rivoluzione Liberale" ci rivolgiamo a Lei perché ci dia la possibilità di esprimere i principali punti programmatici che perseguono i Reduci, associati in questa nuova forma.
«È ormai evidente che ogni associazione di ordine legale lascia nell'indifferenza il pubblico tenacemente distratto e gli organi governativi separatamente volti a perseguire differenti scopi politici sulla base degli interessi particolari di partito. È così che è sorta la necessità dell'unione di tutti coloro che hanno sacrificato alla Patria, non in contrasto con le associazioni legali esistenti, ma bensì fuori di esse, per consentire una agilità di azione che la burocrazia ufficiale è impedita di avere.
«A fondamento della bontà della causa che noi difendiamo, sta il fatto che analoghi movimenti vanno creandosi e collegandosi in tutta Italia. Noi non siamo contro nessuno, e tale assunto poniamo alla base della nostra agitazione, a cui possono aderire tutti coloro che hanno compiuto il loro dovere, in armi, qualunque sia il loro attuale colore politico; il programma pratico, che verrà enunciato dettagliatamente fra pochi giorni, mostrerà la nostra presa di posizione in vista del prossimo congresso dell'Associazione Nazionale Combattenti. Comunque non è prematuro stabilire che noi perseguiremo due paralleli indirizzi: uno propriamente ideologico, in vista di una onesta rivalutazione di tutte le guerre, ed uno pratico con l'affermazione della necessità di una sistemazione di assoluta precedenza per tutti i Reduci».
Alcune settimane dopo, invece, lo stesso Movimento – e comunque senz’altro Romagnino – parrebbe aver preso atto con sfavore di una virata (sia pure soltanto annunciata) del periodico Presente a pro della causa qualunquista. È per tale ragione che, appunto Romagnino insieme con Armando Congiu (che diverrà, anni dopo, esponente del PCI) ma non più con Italo Mereu (giovanissimo giurista che abbraccerà poi anche lui il torchietto dell’Uomo Qualunque), pubblica un comunicato di distanziamento dalla testata prossima ventura. Ecco il brevissimo testo, datato 27 dicembre 1945 a firma di “il comitato organizzatore” del MIRS, consegnato al redattore capo Susini, il quale lo pubblica nel numero del 7 gennaio 1946 di Rivoluzione Liberale:
«Da questo momento il giornale Presente cessa di essere in alcun modo emanazione del Movimento dei Reduci, e pertanto né il dott. Armando Congiu né il dott. Antonio Romagnino fanno parte della redazione e della direzione, e non hanno mai fatto parte dell’amministrazione di tale giornale».
Inizia pressoché allora, direi, la prossimità, che diverrà successivamente collaborazione, di Antonio Romagnino a Rivoluzione Liberale, unitamente ad una militanza nello stile dell’uomo: sulla linea delle idealità e molto attento alle relazioni interpersonali che una vita di partito da se stessa impone: con disponibilità quindi alla partecipazione a tutte quelle incombenze che le regole interne dettavano, così nelle assemblee e nei direttivi come nei cimenti elettorali, col nome sulla lista e con la semina di incontri di propaganda in città e fuori.
Il primo atto di questa prossimità è costituito dalla partecipazione, in quanto rappresentante del Movimento Indipendente Reduci Sardi ed unitamente al generale Giuseppe Musinu (ufficiale della storica Brigata Sassari ed eroe della grande guerra) alla lista dell’Unione Democratica Nazionale che si presenta alle elezioni del 2 giugno 1946 per l’Assemblea Costituente: una lista comprensiva dei liberali del PLI, dei demolaburisti del Partito Democratico del lavoro – anch’esso appartenente all’esarchia ciellenista – e, appunto, del MIRS. In campo nazionale, non in Sardegna, sono altresì aggregati all’Unione anche i movimenti di Francesco Saverio Nitti (cioè l’Unione Nazionale per la Ricostruzione) e di Arturo Labriola (detto Alleanza Democratica della Libertà). Il risultato sarà, nell’Isola, piuttosto buono pur se si mancherà l’elezione del deputato.
È anche da dire che nell’aprile 1946 si tenne a Cagliari il congresso del Movimento, essendo assegnato a Antonio Romagnino, in quando segretario, il compito della relazione introduttiva. Fu questo, forse, l’ultimo episodio politicamente significativo del MIRS, come organizzazione autonoma. Ecco qui un passaggio centrale, forse decisivo, della vicenda politica di Antonio Romagnino che orienterà tutta la sua lunga vita e la sua testimonianza pubblica, radicandola in posizioni sempre assolutamente democratiche – perché mentre egli compirà l’esperienza elettorale unionista per la Costituente stabilizzandosi quindi nell’area liberale, gran parte dei suoi sodali, o sodali fino ad allora, come ho detto prima, alla fine dello stesso 1946, daranno fondamento al primo nucleo cagliaritano del Movimento Sociale Italiano, formazione di destra estrema, estranea al patto costituzionale e di derivazione ideale dal fascismo.
La relazione svolta da Romagnino al congresso locale, si direbbe provinciale, dei reduci è riprodotta nel numero unico, e speciale, di Il Reduce: un giornale (purtroppo perduto alle biblioteche pubbliche sarde) che, mentre offre qualche notizia sulla organizzazione del movimento, raccoglie anche diversi contributi di riflessione politica da parte dei suoi maggiori esponenti.
Questo è il testo dell’articolo/relazione di Romagnino segretario del MIRS (nonché direttore responsabile del giornale), titolato “Problema morale”, in cui si rivendica la nobiltà ideale della partecipazione in armi, sia pure stata ad una guerra perduta, da giovani uomini ora quasi vilipesi, come già dopo il conflitto del 1915-18:
«In nessun paese forse come in Italia, quello dei reduci è un problema ricorrente periodicamente. Non che altrove manchino le cause che possono dargli origine, ma il fenomeno non assume quel carattere politico, e vivacemente [?], che suole prendere da noi.
«In paesi come l’Inghilterra e l’America gli uomini vanno incontro a quella paurosa necessità che è la guerra, e salvo le reazioni individuali, ritornano quello che erano, senza creare una classe fittizia, che si arma di una comune dolorosa esperienza; in Russia potrà capitare, come recentemente è avvenuto, che solo di riflesso i combattenti diventano una classe politica, come propagandisti di una libertà che sebbene [?] ed oppressa, ha pur sempre sfolgorato dinanzi agli occhi del combattente russo nei campi insanguinati d’occidente. In Italia non è così. Forse che da noi è veramente diffusa, senza possibilità di superamento, la mentalità deteriore del reducismo, che fa della guerra una pedana di lancio per chi ritorna? No certo, almeno potenzialmente. Può affermarsi senza ombra di dubbio che in Italia, come in qualsiasi altro paese del mondo, i reduci hanno ripudiato la concezione falsa che per aver fatto la guerra si acquisiscono dei diritti. In Italia, come altrove, sanamente si pensa che la guerra non è più di ogni altra che una esperienza umana, e come tale si fraziona nei piccoli mondi delle anime di coloro che l’hanno vissuta: una grande tragedia collettiva che tocca pur sempre i lati più umani, se riportata nell’intimità delle coscienze schive di perturbamenti rumorosi. Chi tiene realmente a questa ricchezza umana non potrà mai permettere che essa diventi lo spunto di sonanti proclamazioni. L’anonimo combattente che muore o che ritorna, e che lascia intorno poca traccia di sé e dei suoi anni fangosi, è la più calda espressione della guerra come fatto umano. Un uomo, nella sua completezza di moralità e di costume, questa ritrosia e questo velato pudore a parlare “dei giorni di gloria” se la porterà con sé, come un tesoro geloso, e sarà la sua cosa più bella. E della contemplazione della morte, che fu la sua battaglia, tacerà con lo stesso spirito ritroso che lo fa tacere delle bellezze contemplate nei giorni d’amore.
«In Italia, in cui per la nostra antichissima civiltà potremmo essere uomini completi, purtroppo queste sane concezioni non prevalgono. Sembra che da noi ci sia sempre qualcuno che di proposito si mette a disfare un lavoro ben fatto. Una guerra perduta è un fatto di per sé stesso così eloquente e scottante nella vita di un paese, che niente più di essa riesce a riportare a limiti più realistici le esuberanze esagerate dello spirito nazionale. Ma anche questa lezione rischia di essere perduta da noi. Perché ci sarà sempre qualcuno che si prenderà estrema cura di suscitare reazioni, e sconvolgere posizioni sentimentali, naturalmente avviate all’equilibrio. Così è avvenuto che un uomo politico sardo agli universitari cagliaritani osava dire che gli italiani dovevano essere grati allo stato maggiore, che aveva voluto perdere la guerra. Mentre l’attuale capo del governo più tardi affermava che la sola guerra che conta è quella combattuta dagli italiani dal 1943 al 1945.
«Quando in Italia si fanno affermazioni di questo genere, è giustificato meravigliarsi che la cronaca quotidiana segnali un tumulto di reduci? Quando tutta una generazione di giovani viene svuotata, violentemente con spirito fazioso, del solo contenuto ideale dei loro grigi anni, rappresentato dalla forza che viene dalla coscienza di aver ubbidito al proprio paese, è proprio strano che questi giovani si agitino ed acquistino un colore, che non è nell’ordine naturale delle cose?
«Potranno essere votate le più larghe provvidenze, potranno essere molti e assillanti problemi del lavoro, e questa massa di reduci delusi continuerà a rimanere una forza fredda ed ostile, fino a quando l’Italia non scioglierà un voto di riconoscenza e non risponderà al grido di mille e mille morti che urlano: perché mi hai ucciso?».
Alle elezioni per la Costituente
Alle elezioni del 2 giugno 1946 l’Unione Democratica Nazionale sfiorò, in Sardegna, il quorum (raccolse 33.336 voti, mentre il quoziente elettorale era fissato a 35.113), ed un ottimo successo personale, quasi pareggiandosi nel numero delle preferenze, raccolsero i due capilista: il liberale Francesco Cocco Ortu (7.856) e il demolaburista Giuseppe Sotgiu (7.756); più distanziati Raffaele Sanna Randaccio (4.541) e Pier Felice Stangoni (3.585), e più ancora, con gli altri, il generale Giuseppe Musinu (1.220). Al giovane Romagnino andarono appena 138 preferenze, ma non fu lui a chiudere la lista.
A preparare la pagina politica della vita di Antonio Romagnino, forse già dai tempi della ospitalità ottenuta ai due comunicati del MIRS fra le colonne di Rivoluzione Liberale, fu la crescente consuetudine con Francesco Cocco Ortu.
Per un nazionalismo umanitario
A dar retta alla tempistica rimasta documentata la “svolta” pare, dunque, essersi compiuta fra novembre e dicembre 1945. Presente, prima che testata qualunquista della piazza cagliaritana (ma con proiezioni extraurbane), avrebbe dovuto essere l’organo del movimento reducista e con questa missione avrebbe dovuto uscire già prima del congresso e dei turni elettorali – quello amministrativo e quello politico – del 1946, forse in coincidenza con il congresso del MIRS che era infine scivolato, settimana dopo settimana, all’aprile appunto del 1946.
Con tutta probabilità alcuni articoli erano già stati consegnati, per l’impaginazione, dai dirigenti ben prima che il periodico, superate le difficoltà tecniche che ne ritardarono l’uscita, potesse formalmente e compiutamente esprimere la voce del movimento. Anche Romagnino consegnò il suo articolo, il primo, dal titolo “Umanità”, uscito appunto sul numero 1 (gennaio 1946) della breve serie del periodico.
Il processo evolutivo (o involutivo) che caratterizzò queste fasi “promozionali” del MIRS rivelarono progressivamente la diversità delle opzioni-matrici, di rimando infine etico-culturale, fra i maggiori esponenti e, credibilmente, nella stessa militanza: il “nazionalismo” rivendicato come valore da Antonio Romagnino ancora nel passaggio fra 1945 e 1946 è, evidentemente, filtrato da una più radicale e convinta adesione al crocianesimo incontrato negli anni degli studi, mentre quello portato da altri risente, di tutta evidenza, dei limacciosi condizionamenti nostalgici e, perciò, sciovinisti e perfino imperialisti.
Da qui la formalizzazione del distanziamento.
Importa dunque cogliere nello scritto del Nostro quel passaggio decisivo dalle coordinate della sua formazione compiutasi interamente negli anni del regime ad un sistema di valori che del patriottismo corrotto dalla dittatura e piegato a suggestioni aggressive ed imperialiste conserva l’amore alla terra dei padri, rifuggendo ogni vile cascame e invece valorizzando, secondo un tendenziale mazzinianesimo, lo speculare patriottismo del possibile avversario: «Alla carità di Patria esso [il neonazionalismo democratico] aggiunge e lega tenacemente la carità umana. In questo senso più vasto il nazionalista vede e fa suo il dolore di altri uomini, la sofferenza di altri fratelli».
“Umanità” (Presente, n. 1 del gennaio 1946)
Una parola che oggi mette in guardia, che spesso fa bollare chi la respinge coraggiosamente nel campo della lotta politica col titolo di «una delle forze della reazione in agguato», è quella di “nazionalismo”.
Sembrerebbe che il mondo fosse diventato una compatta ed unita comunità a cui le nazioni risorgendo con il loro spirito diverso infliggerebbero colpi, minanti la sua stretta coesione e l’unità così sanguinosamente raggiunta. Ma certamente non è così. Il mondo è molto lontano dall’essere unito, e lo spirito nazionale, che non fu solamente un’ideologia del sec. XIX, non è ancor morto, anche se ammorbato, sterilito, vigilato ferocemente da chi, negando la Patria, sa di porre basi sicure per la realizzazione del proprio particolare piano politico.
Certo deve ammettersi che uno spirito di tal genere deve essere affinato e controllare perché forze insulse non lo tormentino fino a portarlo a forme esasperate, cioè ci si deve ritrovare altrettanto lontani sia dalla sua più recisa negazione sia d’ogni sua manifestazione sciovinistica.
Del nostro nazionalismo, che è il fondo che noi reduci accomuna al di sopra di ogni setta, di ogni fazione politica, vorremmo dire con la passione intatta che ci sorregge ancora, dopo i cento patimenti delle campagne dure e dei desolati campi di concentramento, se non fossimo consci di trovare parole meno degne di quelle che si affiorano al ritornare sempre fresco di un ricordo vivo dei giorni di attesa per un balzo ad una terra arsa, ma fremente d’amore, la Libia.
E la memoria vede il palazzo vichiano, nel cuore della Napoli in guerra, accorata preda dell’insidia nemica, accogliere nelle silenziose volte settecentesche la corsa fedele di tanti giovani d’Italia (e quanti, e quanti nel grigio verde, e nei pallidi colori africani, belli come cavalieri della morte), e da esso il primo filosofo e letterato d’Italia che pare in quel tempo scriveva “La Storia come pensiero e come azione”, la più severa condanna dei regimi totalitari nei giorni in cui mezza Europa era ai loro piedi. Benedetto Croce, ai giovani d’Italia, venuti a lui per una parola di verità, dire, bandendo ogni dubbio e fugando ogni incertezza, «Andate, andate. Ora è la guerra. La vostra guerra».
E quella parola viva si accompagnò costante nelle crude vicende africane ad una lettera, di cui ci venne sete in quelle indimenticabili giornate napoletane. Non era nel nostro zaino il “Dantino” di Giosuè Borsi, ma un libro di battaglia moderno, vicino alla nostra ragione, al nostro cuore. “Pagine sulla guerra” di Croce diede un significato alle nostre lotte, calmò i dissidi, superò le contraddizioni, e le rasserenanti visioni del filosofo, dettate per un’altra guerra, fecero più nostra quella guerra sfortunata, unendola all’altra, come la dolorante sorella, cui la sorte non arrise, volta al fortunato fratello. Ed i due conflitti si posero allora nella nostra mente e nel nostro cuore con indissolubili nessi, come due eventi necessari, come due tributi di sangue per i tanti errori del passato, per i sicuri errori dell’avvenire.
Questo fu Croce allora per noi, meno scolastico, meno vero, sicuramente falsato, ma certamente nella migliore delle forme con cui un profondo filosofo poteva parlare al cuore di un combattente.
Se ora lo citiamo, gli è perché questa sua parola, risuonata nei nostri animi nei momenti supremi della lotta, ci sembra abbia acquistato un valore umano che la pone al disopra del suo intrinseco valore speculativo.
C’era necessità di quella parola, c’era bisogno per appagarne il senso, di rinnovarci spiritualmente e rifarci tutto «per affrontare degnamente un fatto così serio e grave e prosaico o poetico anche, ma prosaicamente poetico, come la guerra».
Fra il rombante frastuono della glorificazione della forza da una parte e la serena coscienza del sacrifizio, tra uno spasmodico fremito ed una posizione della volontà che affonda nelle più pure forze della ragione, la scelta era già in noi, chiara, decisa, anche se talvolta fuorviata, ostacolata, violata dalle quotidiane selvagge manifestazioni di animalesche morbosità. C’era e Croce le dava autorità e fermezza. Tra un nazionalismo sensuale ed un nazionalismo spirituale, la nostra scelta si riaffermava precisa nelle sue parole, dette vent’anni prima, contro il nazionalismo deteriore di Barrés.
«Staccate dal concetto di umanità, la nazione e la ragione non significherebbero nulla, nulla di umano e perciò nulla che abbia pregio».
In questo senso si era nazionalisti allora, in questo senso si è nazionalisti oggi. Non abbiamo lasciato per strada nulla di ciò che allora era già nella nostra mente e nella nostra anima, e niente abbiamo acquistato che non purificasse e desse più forza alle nostre convinzioni.
E se oggi questo nazionalismo ritorna, non è per spirito di polemica con i moti negatori della Patria, che sono i nostri avversari, ma perché il suo ritorno porta con sé ciò da cui noi si disgiunse. Alla carità di Patria esso aggiunge e lega tenacemente, come allora, la carità umana. In questo senso più vasto il nazionalista vede e fa suo il dolore di altri uomini, la sofferenza di altri fratelli.
L’esilio delle nostre città, tagliate fuori dal corpo della madre comune, e le sventure dei nostri fratelli rinnegati dalla politica ufficiale, non si appellano più all’amore di Patria, ma toccano e fanno vibrare corde più sensibili, quelle dell’umanità, che non conosce confini, che supera le nazioni.
Trieste, Fiume, Pola e Zara, fratelli giulii e dalmati, se l’Italia tradita dagli italiani non vale a farvi nostri, varrà l’umanità, ed il senso vero che ne predicò Cristo, a stringervi di nuovo a noi?
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