1963, Fabio Maria Crivelli e L’Unione Sarda davanti al congresso socialista che promuove il centro-sinistra
di Gianfranco Murtas
Potrei sbagliarmi, ma credo che quello socialista del 1963 sia stato il solo congresso nazionale di partito che Fabio Maria Crivelli abbia seguito personalmente, come inviato, nei lunghi anni della sua direzione de L’Unione Sarda, dunque dal 1954 al 1976 (e di nuovo dal 1986 al 1988).
Affidata la redazione romana a Renzo Masotto, da lui uomo d’Agenzia (Agenzia Giornali Associati) – dopo la scomparsa di Vitale Cao che aveva assicurato il servizio al giornale fin dai tempi del regime – L’Unione riceveva le corrispondenze quotidiane sulla politica interna, quello che nel gergo delle redazioni si chiamava (e si chiama) il “pastone politico”. Ma stavolta, affiancandosi al suo ufficio, era lo stesso direttore che, avvertendo la portata storica dell’evento, aveva creduto utile vestire personalmente i panni del cronista di un dibattito che sarebbe durato diversi giorni ed avrebbe segnato incisivamente i fatti della politica nazionale, parlamentare e governativa.
E l’adesione socialista al patto di centro-sinistra, all’intesa di governo cioè con la Democrazia Cristiana e le altre formazioni della sinistra riformatrice (i repubblicani lamalfiani) e riformista (i socialdemocratici), segnò effettivamente una svolta non soltanto nella storia del movimento operaio e, specificamente, del Partito Socialista Italiano ma nella storia dell’Italia tout court: dell’Italia repubblicana e nella memoria stessa dell’Italia unita che nel 1892 aveva visto la nascita di quel partito in diversi momenti negatosi a una collaborazione con altre forze “borghesi” nella conduzione del Paese, per non sacrificare i suoi principi o i suoi dogmi classisti.
Associatosi al PCI nel Fronte Democratico Popolare alle prime elezioni parlamentari del 1948, - quelle in cui esso si presentava (abusivamente direi) con il volto di Garibaldi nel marchio – il Partito Socialista Italiano, reduce allora dalla scissione dell’ala socialdemocratica guidata da Giuseppe Saragat (presidente dell’Assemblea Costituente che, appunto in quell’inizio del 1947, svolgeva i suoi lavori a Montecitorio, mentre al governo era commessa la potestà legislativa ordinaria), subì un progressivo arretramento nei numeri e così nella rappresentanza proprio a vantaggio dei comunisti. Riuscì ad emanciparsi da una tale (masochista) sudditanza ideale e politica soltanto dopo le rivelazioni dei delitti staliniani denunciati da Kruscev al XX congresso del PCUS e, ancor più, dopo i fatti di Ungheria, approvati dal PCI e condannati dal PSI, nelle cui fila confluirono infatti numerosi militanti e intellettuali comunisti (a cominciare, nella dirigenza, da Antonio Giolitti) ribellatisi al conformismo filosovietico del loro partito.
Ad insinuarsi anche temporalmente in funzione di evidente rinforzo fra l’un episodio e l’altro fu, nell’estate di quello stesso cruciale 1956, l’incontro di Pralognan fra Nenni e Saragat che avviò il lento processo di effettiva “socialdemocratizzazione” del PSI compiutasi in primo luogo con l’affermazione di una tendenza autonomista (s’intende dei socialisti dai comunisti): una tendenza divenuta corrente maggioritaria e sostegno della segreteria Nenni. Giusto dieci anni dopo – nel 1966 cioè – l’abbraccio fra i due partiti, il PSI e il PSDI, si sarebbe fatto cosa concreta sul piano organizzativo (e formalmente “identitario”) anche se, purtroppo, debole e sfortunata perché capace di reggere soltanto mille giorni.
Fra quel 1956 della denuncia krusceviana e dell’invasione dei carri sovietici a Budapest – circostanze che entrambe avevano allontanato il PSI dal PCI – ed anche del colloquio di Pralognan – che riavvicinava il PSI al PSDI fratello separato e “innocente” – ed il 1966 della riunificazione, l’opzione socialista per il centro-sinistra, sancita da una delibera congressuale, si collocò quasi a mezza strada e costituì un atto di coraggio e, insieme, un atto di voluto e permanente equivoco. Tali e tante furono le riserve mentali della maggioranza “autonomista” che, pure, al patto governativo con DC, PSDI e PRI puntava dopo l’astensione assicurata al III governo Fanfani (monocolore) e l’appoggio esterno offerto al IV ministero presieduto dallo stesso Fanfani (DC-PSDI-PRI) e in prospettiva di un governo organico.
La questione azionista
L’osservatorio politico di Fabio Maria Crivelli, fermo e certo della sua indipendenza, non è neutrale. La faticosa e, per tanti versi, drammatica scelta socialista a favore dell’alleanza con le forze moderate della DC e quelle della democrazia laica è vista, positivamente, come un avanzamento del quadro politico complessivo dell’Italia, perché rappresenta una scelta di campo piuttosto netta anche e soprattutto nell’assunzione di responsabilità pubbliche e nel distacco dalle convenienze ideologiche e tattiche del PCI, ancora organicamente legato al comunismo internazionale a guida sovietica; è vista però anche nella sua intrinseca fragilità, sia per le dimensioni della opposizione espressasi al congresso (nell’ordine del 40 per cento, il che si tradurrà successivamente in una scissione, quella del PSIUP) sia per l’artificio degli accordi intervenuti fra i nenniani e quell’ala lombardiana che Crivelli legge come concretista o pragmatica al dunque (e perciò disponibile all’accordo con i nenniani puri per una successiva e complessiva intesa con gli altri partner) ma pure, e paradossalmente come dogmatica o dottrinaria nelle ribadite enunciazioni di principio. Quelle enunciazioni che si confondono con i pronunciamenti delle correnti di opposizione – i “carristi” di Lussu e i seguaci “moralisti” di Lelio Basso, oltre ai “pertiniani” – e, nell’onda lunga, perfino con le petizioni degli stessi comunisti con i quali gli uomini del PSI continuano a condividere tante responsabilità di direzione nel sindacato (la CGIL) così come in enti od organismi di varia natura sociale e culturale (ad iniziare dall’ARCI). Così, e con straordinaria evidenza, circa il neutralismo nel quale si vorrebbe affogare, con acrobazie dialettiche, l’atlantismo già respinto nel 1949, così anche circa quella pervasività riformatrice della quale si vorrebbe rivestire una programmazione economica coattiva, propensa alle nazionalizzazioni, agli espropri e alla punizione del settore privato.
Nella diligenza delle sue corrispondenze dal congresso sfugge a Crivelli – forse perché estranee alle sue predilezioni (e invece presenti nelle mie, tant’è che ne rilevo ora la significatività e anche… l’intriganza pur tutta intellettuale) – il protagonismo che, nella partita giocata da Nenni e dai suoi con/contro larga parte della dirigenza, assumono gli ex azionisti. Essi che pur, numericamente, avrebbero potuto o dovuto essere una minoranza perfino infima e che, invece, per lo spessore individuale e della “scuola” che era stata il Partito d’Azione fra il 1942 ed il 1947, assumono posizioni di preminenza tanto nella tessitura quanto nella rottura: si pensi al vice di Nenni, Francesco De Martino (destinato alla segreteria) cioè, per dire della maggioranza; si pensi a Riccardo Lombardi, uomo della maggioranza autonomista ma pure da essa distinto, con i suoi, facendosi portatore di un assertivo radicalismo dottrinario; si pensi a Vittorio Foa, leader della CGIL e politicamente vicino a Lombardi; si pensi a Emilio Lussu, il capo dei “carristi” e portatore di complessità ancora maggiori per le esperienze maturate anche nell’autonomismo sardista e nel PSd’A socialista (oltre che in Giustizia e Libertà e nel Pd’A).
Aggiungo questo, fra parentesi: si pensi anche a quell’Ugo La Malfa che era stato ministro del Bilancio (e, per la prima volta nella storia della Repubblica, della “programmazione economica”) nel IV ministero Fanfani: egli portò allora in Parlamento la famosa “nota aggiuntiva” al bilancio dello Stato (del 1962) con cui prospettava le linee generali di una innovativa politica di programmazione fondata su quella dei redditi e perciò con la compartecipazione/corresponsabilità delle forze sociali, datoriali e sindacali. Essa doveva costituire il quadro in cui inserire le famose “riforme di struttura” e un progressivo riequilibrio fra le aree industriali del nord e quelle agricole e ancora arretrate del meridione continentale e isolano. Quando in Sardegna s’avviava la politica di Rinascita, con ruolo centrale riconosciuto della Regione autonoma, e i repubblicani sostenevano i sardisti – quei sardisti (niente a che fare con i nazionalitari indipendentisti dello scriteriato dopo) – nella negoziazione della partnership con la Cassa per il Mezzogiorno. Ebbene, il riferimento qui – trattando della “svolta” socialista – era proprio all’azionista Ugo La Malfa che, con Fanfani e Moro in campo democristiano e Giuseppe Saragat in quello socialdemocratico, costituiva un socio d’oro, d’iniziativa e argomenti, della costituenda coalizione interpartitica.
I riverberi in Sardegna
Tale indubbia particolarità – entro qui nel fatto politico più che in quello puramente giornalistico – sembra a me un elemento di speciale interesse per i nessi che lo scenario nazionale aveva, in quel 1963 congressuale e anche prima e anche dopo, con quello regionale sardo cui ho accennato. Perché va considerato che se infine i socialisti consegneranno alla storia della Repubblica i propri ministri nel dicembre 1963 (I governo Moro), essi tarderanno quasi altri due anni a consegnare alla storia dell’Autonomia i propri assessori (e primo sarà Giuseppe Tocco, nell’agosto 1965, nell’ultima giunta di Efisio Corrias). Così proprio perché – anche se non soltanto per questo – l’ipoteca dei “carristi” lussiani, ostili alla svolta di centro-sinistra e fermi nella solidarietà con il PCI – sarà particolarmente rilevante nel socialismo isolano.
Merita in proposito ricordare, pur soltanto in estrema sintesi, che giusto alla vigilia del congresso nazionale dell’EUR e della fiducia promessa al quadripartito Moro, una delegazione socialista non ha concluso, a Cagliari, l’auspicato accordo con il presidente Corrias, risoltosi quindi a varare una giunta DC-PSDI-PSd’A, priva cioè del PSI. E soltanto un mese dopo – nel gennaio 1964 – alla scissione dichiarata dalla sinistra interna, ben cinque su sette consiglieri regionali del PSI escono dal partito dando corpo al gruppo del PSIUP, formazione politica a forte condizionamento lussiano che elegge a proprio segretario Carlo Sanna.
Dal punto di vista del partito lacerato (e più che dimidiato nella rappresentanza) la situazione si riequilibra al rinnovo consiliare del 1965, quando il PSI trova ristoro eleggendo cinque suoi esponenti ed il PSIUP soltanto uno (l’on. Armando Zucca). Prenderà corpo allora e solo allora, anche in Sardegna, il centro-sinistra organico (comprensivo dei sardisti in associazione dei repubblicani – a Roma Titino Melis è deputato iscritto al gruppo repubblicano, e i repubblicani ne hanno determinato l’elezione offrendogli i “resti” dei collegi continentali –, dato il patto nazionale fra PRI e PSd’A, e dopo che una ipotesi di alleanza monca dei sardisti non ha avuto la fiducia dell’Assemblea).
Si consideri poi che in quel bi-triennio intercorrente fra il congresso nazionale e la conseguente scissione psiuppina (dicembre 1963-gennaio 1964) e l’unificazione socialista/socialdemocratica (ottobre 1966), che avrebbe avuto, pur fra inevitabili difficoltà, momenti anche di entusiasmo nella militanza sarda, la politica isolana registrò – inizialmente senza il diretto contributo socialista, poi con la sua partecipazione – numerosi eventi di grande rilievo, al di là degli effetti nel lungo periodo: dagli investimenti per la supercentrale di Porto Vesme al passaggio della Carbosarda all’ENEL, dall’avvio della produzione della cartiera di Arbatax all’approvazione del primo piano esecutivo della Rinascita, dalla costituzione della SFIRS (la Finanziaria regionale) all’esproprio e pubblicizzazione degli stagni di Cabras, dal trasferimento in capo alla regione di importanti competenze in materia di turismo e alberghi nonché di biblioteche e musei alla inaugurazione dei primi stabilimenti tessili in Villacidro e della raffineria in Sarroch, ecc. Segnati da eventi della massima portata nazionale e internazionale (il pensiero va alla rimozione di Kruscev dalla segreteria generale del PCUS, alla morte di Togliatti e alle drammatiche dimissioni del presidente della Repubblica Antonio Segni), e, nel vasto arco dell’interesse pubblico, alla celebrazione delle olimpiadi, nonché, nel focus sardo, a una certa accelerazione degli episodi banditeschi in Barbagia ed alla marcia di Michele Columbu sindaco di Ollolai, alla cittadinanza onoraria concessa ad Arzachena al principe Karim per la trasformazione della costa gallurese… ai successi sportivi di Burruni campione del mondo e del Cagliari finalmente in A), quei mille giorni tutti sardi furono anche qualificati dalla politica contestativa della nuova giunta regionale (adesso a partecipazione socialista) presieduta da Paolo Dettori.
Fra indipendenza e neutralità categorie distinte
Alla nascita del Partito Socialista Unificato L’Unione Sarda (e con esso L’Informatore del lunedì) avrebbe dedicato largo spazio e Crivelli nuovi approfonditi commenti. E così sarebbe stato durante l’intero periodo delle due sperimentazioni: appunto quella del centro-sinistra moroteo e quella dell’unificazione socialista. Ricordo infine il titolo di un articolo pubblicato da un periodico sardo (che purtroppo non ho ritrovato, per cui vado qui soltanto con le approssimazioni della memoria): “Crivelli: sono socialista!”. Doveva essere ancora negli anni, gli ultimi o quasi, della sua direzione.
Qualcosa andrebbe spiegato al riguardo. In linea generale, certe affermazioni ingessate nella sintesi di un titolo, come in questo caso, non vanno mai ridotte a una dichiarazione di appartenenza, neppure ideale, cioè ad una corrente di pensiero, e meno che mai ad un partito politico. Nel caso specifico di Fabio Maria Crivelli – al quale, nonostante la frequentazione e l’amicizia, non ho mai chiesto quale partito votasse (dando per scontato ovviamente il suo liberalismo almeno fino alla metà degli anni ’60) – la sua indipendenza è fuori discussione. E s’aggiunga però che mai l’indipendenza di un intellettuale deve potersi identificare in una sorta di neutralità. Si può essere indipendenti dalle forze in campo, ma non neutrale davanti ai valori civili fondanti una società. Ed è indubbio che tutto il primo decennio di esperienza professionale sarda si sia consumato, nella riflessione di Crivelli – riflessione ben rivelata dai suoi editoriali – in una prossimità ad un centrismo democratico e riformatore nel quale entravano le grandi opzioni internazionali dell’Italia repubblicana – dall’atlantismo alla soluzione della “questione” triestina, ai patti dell’Europa nascente come MEC – e alcune scelte non meno nette nella politica interna: per l’iniziativa privata e contro i dogmatismi del Partito Comunista, contro certi ritorni nostalgici della destra populista monarco-missina ed a favore di una misurata e progressiva secolarizzazione della società (si ricordi il caso giudiziario del vescovo di Prato nel 1958), pur nel rispetto e perfino nell’omaggio alle migliori tradizioni religiose del territorio.
La stretta amicizia e la stima che unì per lunghi anni Crivelli all’on. Antonio Maxia, senz’altro l’esponente democristiano di maggior potere (e forse valore) tanto più nella parte centro-meridionale dell’Isola – egli fu l’uomo del Flumendosa prima che dei sottosegretariati del centro-sinistra e del ministero delle Poste – non portò il direttore de L’Unione Sarda a una “simpatia” complessiva per quel suo partito – la DC – assolutamente composito e dominante. Così come la cordialità e l’affezione morale verso Giovanni Battista Melis, la comprensione della generosità della sua causa non divennero mai prossimità neppure ideale al sardismo che pur mostrava allora una lealtà certa verso le istituzioni repubblicane, cioè verso la Repubblica “una e indivisibile”, secondo il dettato della costituzione.
La propensione verso il liberalismo progressista di Francesco Cocco Ortu e dunque le riserve verso talune politiche sostenute dalla sinistra non divennero neppure esse indulgenza verso un sistema di potere – quello democristiano e degli alleati di maggioranza – che, tanto a livello regionale quanto a livello delle più rilevanti amministrazioni locali (Cagliari in primis), cercava puntelli nella destra già qualunquista e sempre qualunquista dei monarchici (sia nazionali che popolari) e dei missini. L’avversione alla giunta Brotzu (regionale) ed a quella Palomba (cittadina) e la simpatia invece per gli esecutivi di Alfredo Corrias parlano chiaro.
Sotto questo profilo, dunque, la terzietà del giornale fu assicurata lungo tutti gli anni ’50, né fece condizionamento la partecipazione di Baccio Sorcinelli – dunque di uno degli azionisti del giornale – alla destra missina locale. Così come la distanza dalle posizioni monarco-missine non trascinò il giornale, nel 1960, ad una pregiudiziale condanna del governo Tambroni, della cui breve esperienza si tenne a marcare il contenuto più amministrativo che politico e la temporaneità, per deprecare poi gli sfiati di violenza contestativa o rivoltosa che portarono lutti in varie città nel nome dell’antifascismo.
L’osservatorio politico di una direzione
Ancora nei primi anni ’60 – seppure si seguiva con fiducia, da parte del giornale, il passaggio politico e legislativo della Rinascita, di per sé strettamente legato alla semina delle premesse del centro-sinistra nazionale e regionale (governi Fanfani a Roma, giunte di Efisio Corrias a Cagliari) – forti riserve sulla nuova stagione politica che andava affacciandosi nel paese non furono mai nascoste da L’Unione e dal suo direttore in particolare. A preoccupare era soprattutto certo massimalismo (forse parolaio più che fattuale) dei socialisti che, partendo dalla conquistata nazionalizzazione dell’energia elettrica, avvertivano di una prossima… “socialistizzazione” dell’Italia tutta, grazie ad una programmazione dirigista.
Tale diffidenza fu particolarmente evidente durante la campagna elettorale della primavera 1963, quando Crivelli non temette – appoggiando i moderati impauriti… dalla minaccia ideologica! – di associare al disegno sovietizzante uomini come Fanfani e Ugo La Malfa (temerariamente accusati di «dogmatismo facilone»): «essi hanno iniziato le nazionalizzazioni, la programmazione statalizzatrice, hanno promosso le regioni, la abolizione della proprietà privata in ogni campo» (cf. l’editoriale del 5 maggio 1963).
La chiamata alle urne era vista da Crivelli, in quella primavera 1963, come «una scelta fra una politica che mirava a trasformare l’Italia in un Paese dominato dalle pianificazioni con un’economia nazionalizzata e diretta a mortificare se non a sopprimere la libera iniziativa, un Paese guidato da una DC sempre più a sinistra e con un PSI in funzione di sprone continuo, e una politica che riparando in fretta ai guasti di quest’ultimo anno riporti il Paese nell’alveo di un progresso ordinato» (cf. 24 aprile 1963).
La storia, naturalmente, ha ridimensionato drasticamente quelle paure e anzi il loro stesso fondamento. Nonostante tale “sbandata” – tale a me, lamalfiano di formazione, essa apparve ed appare – è da dire che abbastanza presto, fuori dalla pressione elettorale (risoltasi allora a vantaggio dei moderati e dei liberali in particolare), il giornale prese atto di quanto misurato e gradualista fosse – passato il monocolore balneare di Leone – il governo moroteo con Nenni vicepresidente e Pieraccini ministro del Bilancio e della Programmazione.
Ed invero, come già accennato, le stesse cronache dal congresso dell’EUR rivelavano, con le preoccupazioni per il perdurante dottrinarismo presente nella dirigenza socialista, un certo… recupero di fiato per le divisioni interne al partito che evidentemente ne avrebbero indebolito l’ “aggressività”… rivoluzionaria ed avrebbero poi condotto a pensare – auspice Giuseppe Saragat eletto intanto capo dello Stato – alla unificazione socialdemocratica.
Mi preme accompagnare le presenti osservazioni con un suggerimento a chi volesse, un domani, approfondire il rapporto di Crivelli con il PSI e, direi, del giornale con la complessiva politica nazionale e regionale all’esordio del centro-sinistra: appare fonte senza dubbio di interessantissimi rimandi Sardegna oggi, periodico quindicinale (“di cultura, politica e attualità”) sorto, con la direzione di Franco Fiori, ad iniziativa dei socialisti vicini al prof. Sebastiano Dessanay – uno di quei comunisti passati al PSI dopo i fatti di Ungheria – e forte di un numero considerevole di collaboratori, fra cui mi è caro ricordare soprattutto Antonello Satta. Sardegna oggi, stampato da Fossataro con formato “elefante” uscì dal 1962 al 1965 (esaurendosi all’indomani delle elezioni regionali che rilanciarono il PSI a spese – in quanto alla rappresentanza – del PSIUP). Il periodico presenta numerosi articoli di documentata analisi (con approccio fortemente critico) dei rapporti della SEI – l’editrice de L’Unione Sarda – e dello stesso Crivelli con i protagonisti della scena pubblica, politica ed economica dell’Isola negli anni di avvio della Rinascita.
Sintesi dei giudizi
Crivelli presenta e chiosa l’evento dell’EUR, fra il 25 ed il 30 ottobre, con due corposi editoriali (“Un lungo viaggio” e “L’altalena continua”) e tra l’uno e l’altro colloca quattro lunghe corrispondenze di dettagliata cronaca dello svolgimento congressuale; interessante, dal punto di vista tutto interno al giornale – ne ho già accennato –, è che la terza corrispondenza è accolta non da L’Unione Sarda ma, per pure ragioni di calendario, da L’Informatore del lunedì, che (a direzione Franco Porru) formalmente è una testata autonoma dalla maggiore. Ecco così, in successione, “Nenni esorta i compagni di partito ad una scelta che non consente rinvii: aperto all’EUR il XXXV congresso del Partito Socialista Italiano”, “La sinistra minaccia la scissione e scatena la battaglia in aula: atmosfera arroventata nella seconda giornata del congresso socialista”, “Lombardi rettifica le tesi di Nenni e mette in discussione l’esito del Congresso: nuove incognite dopo la terza giornata all’EUR”, “Raggiunto l’accordo fra Nenni e Lombardi il congresso del PSI è praticamente concluso: terminato ieri sera il dibattito nell’aula dell’EUR”.
Riporto appresso – omaggio al direttore e all’amico ora che siamo alla vigilia del centenario della sua nascita, e alla cui memoria va il mio affettuoso rimpianto – tutti e sei gli articoli usciti a sua firma. Tratti da essi (o per meglio dire, dall’editoriale che apre la serie e da quello che la conclude) anticipo qui – perché forse efficace sintesi del giudizio del loro estensore – alcuni passaggi…
«Ogni fase del dibattito potrà e dovrà portare risposte ai molti quesiti insoluti. I socialisti italiani sono forse davvero al termine del loro lungo viaggio; ma in questa ultima loro tappa dovranno risolvere tutti insieme molti e drammatici quesiti, e solo con risposte definitive e non contraddittorie, potranno calmare le molte, legittime ansie di una vasta parte di democratici ancora riluttanti ed inquieti. Noi siamo qui per ascoltare queste risposte e riferirle. Senza ingannevoli e non giustificati ottimismi ma anche senza sterili ed altrettanto ingiustificati preconcetti»;
«Se, come sostengono molti autorevoli pensatori, la filosofia del nostro tempo non può essere che quella del problematicismo, si deve ammettere che il XXXV congresso del PSI, concluso ufficialmente stasera, si è intonato perfettamente a questa attualità metafisica.
«Dopo cinque giorni di dibattiti aspri, approfonditi, talvolta drammatici, il congresso socialista, al di là delle sue conclusioni formali, non solo ha lasciato aperti una serie di interrogativi fondamentali, ma ha, addirittura, con le sue stesse conclusioni, riproposto alla politica italiana altre sconcertati e contraddittorie proposizioni, altri problemi, altre inquietudini»;
«Il concluso congresso avvia alle trattative con Moro un partito carico di ipoteche e di pretese: all’altra parte lo attende una Democrazia Cristiana a sua volta gravata da naturali preoccupazioni e frenata da fortissime resistenze. Prevedere trattative laboriose e sospese al filo della massima incertezza è pronostico fin troppo facile. Ma è anche l’unico possibile».
Un lungo viaggio (editoriale, venerdì 25 ottobre 1963)
Più di mezzo secolo è passato da quel giorno di marzo del 1911 in cui l’on. Bissolati, «in giacchetta e cappello floscio», saliva le scale del Quirinale per essere ricevuto in udienza dal Re. Più di mezzo secolo da quell’evento che i giornali salutarono come storico: per la prima volta un socialista entrava nel palazzo reale e discuteva la possibilità di entrare nel governo.
In quel lontano giorno di marzo l’on. Giolitti poteva rallegrarsi con se stesso e ritenere ormai realizzato un progetto che gli sembrava, e non a torto, di capitale rilevanza. Si trattava, com’egli scrisse poi nelle sue memorie, di aprire una fase completamente nuova nella vita politica italiana, di chiamare un partito e la grande massa di cittadini che attorno a quel partito gravitava ad uscire dal cerchio di una sterile e minacciosa posizione protestataria per assumersi, alla vigilia dell’adozione del suffragio universale, la corresponsabilità del potere e contribuire ad un migliore avvenire dello stato democratico. Giolitti pensava, in quel giorno, di essere riuscito nell’impresa che otto anni prima, con Turati, non gli era riuscita; credeva che sotto la spinta degli eventi e per l’influenza degli uomini che capeggiavano allora il partito socialista a Milano e a Roma una concreta evoluzione si fosse operata nelle file del movimento operaio e che davanti alla democrazia italiana stesse per aprirsi un periodo di fecondo progresso basato sulla pace sociale. Bastarono poche ore per provocare il crollo delle sue speranze, e di quelle che l’on. Bissolati ed altri socialisti e democratici certamente condividevano. Essi nelle loro trattative segrete non avevano tenuto nel giusto conto la reazione violenza che il progetto avrebbe scatenato nell’ala sinistra dei socialisti, in quelli che erano i “carristi” dell’epoca e che fatalmente in una massa proletaria carica di rancori e di sofferenze riuscivano a penetrare con molta maggiore efficacia rispetto alle tesi più razionali ma troppo difficili dei capi ufficiali del partito.
Contro Bissolati i “carristi”, o socialrivoluzionari, come si chiamavano allora, scesero irrimediabilmente in campo con le più clamorose accuse di tradimento, di imborghesimento, di servilismo: il capo socialista fu attaccato da ogni parte con una violenza inaudita, e costretto non solo a troncar ogni trattativa ma addirittura a dichiarare di non aver mai pensato sul serio ad un’accettazione. Il più esagitato e anche il più efficace in questa campagna di rottura fu quello che proprio allora si andava rivelando come il capo della sinistra socialista, un romagnolo che scriveva prose di fuoco e che per anni interpretò, dal posto di direttore dell’Avanti, il ruolo di “carrista” numero uno. Qualche nostro giovane lettore poco al corrente di certi inverosimili fatalismi della storia italiana si stupirà leggendo che quel “carrista” del 1911 si chiamava Benito Mussolini, maestro elementare a Forlì.
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Tramontata in una marea di sarcasmi e di polemiche l’occasione del 1911, la speranza di Giolitti di portare il socialismo italiano nell’alveo di una democratica concessione dei problemi dello Strato tornò brevemente a ravvivarsi dieci anni più tardi. Ma si era già in un clima più drammatico, sotto l’assillo dell’urgenza non si trattava più di un tentativo dettato da una saggia concezione di avvenire politico ma di un rimedio in extremis per salvare la democrazia dal colpo fatale che l’ex carrista Mussolini si preparava a sferrare da posizioni ormai diametralmente opposte. Come tutti i tentativi tardivi non riuscì e per oltre vent’anni il problema di un incontro fra democrazia e socialismo in Italia non fu più posto perché non esistevano più né democrazia né socialismo. Quando, nel 1945, risorse lo stato democratico c’erano i problemi urgenti della ricostruzione e se i socialisti per due anni entrarono nei governi del CLN non si trattava di un realizzato incontro sulle basi sognate un giorno da Giolitti ma di puro stato di necessità, tanto è vero che nel 1948, ristabilita la normalità del sistema democratico, i socialisti tornavano subito alla loro antica posizione oppositrice, e quella volta in condizioni ancora più lontane e drammatiche, perché non più dominati dal loro stesso massimalismo ma dalla pressione esterna e vincolante di un fortissimo partito comunista. Per molti anni il viaggio del socialismo italiano verso il traguardo della democrazia sembrò interrotto e concluso per sempre. Saldamente uniti ai comunisti, insieme inginocchiati davanti alla statua di Stalin, i socialisti italiani respinsero le esperienze degli altri socialismi europei, e vagheggiarono la conquista del potere solo attraverso il metodo rivoluzionario. In quegli anni tutto il PSI poteva far sue le parole scritte nel 1912 da Mussolini, direttore dell’Avanti: «Siamo stanchi, o borghesi, di questa vostra civiltà che vive basandosi sopra un campo sterminato di vite che soccombono o sui campi di lavoro o sui campi di battaglia». Si era ancora, dal 1948 in poi, alla lotta di classe, al ripudio della democrazia come sistema oppressivo delle classi popolari, all’accettazione integrale del marxismo e della dittatura del proletariato. E se anche De Gasperi aveva in qualche momento ripensato all’antico sogno di Giolitti certo non trovò, negli anni del suo governo, mai un momento o un solo spiraglio che gli permettesse di affacciare un pur timido invito. Il PSI, subita la lacerazione di Palazzo Barberini, appariva ormai irrimediabilmente chiuso nel più massiccio involucro di uno spiegato massimalismo, zelante ausiliario di un partito comunista tutto schierato agli ordini ferrei degli staliniani.
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Ma il mondo, a volte lentamente, a volte con bruschi scossoni, continua a camminare. Gli eventi costringono anche i più pigri ad afferrare la realtà; e la buona semenza non marcisce mai del tutto. I fatti spiegati d’Ungheria, il crollo del mito staliniano, l’avvento di Kruscev, le nuove realtà economiche che anche in un paese arretrato come l’Italia hanno profondamente inciso nell’equilibrio sociale, tutto questo non poteva passare al di sopra di un partito socialista che aveva visto fra l le sue file, in anni lontani, uomini come Turati, come Treves, come Bissolati, come Prampolini. Il dilatarsi del concetto di borghesia, l’amara realtà di certe clamorose sconfessioni, il fallimento dei miti più inumani, tutto un lievito di nuove speranza, di nuovi concetti, l’affluire di giovani leve, la sensazione di un vuoto che va pure colmato, tutto questo ha indubbiamente agito e fermentato nelle file del socialismo italiano in questi ultimi tre o quattro anni. e siamo così alla storia di ieri, siamo alla ripresa di un lungo e storico viaggio, siamo alla drammatica svolta che ancora una volta, nel luglio di quest’anno, ha portato i socialisti sulla soglia della maggioranza democratica per arrestarsi all’ultimo minuto, quasi per il rinnovarsi di certi fatalismi storici, su quella soglia.
Su quella soglia sono ancora oggi, con la sensazione esatta che l’ultimo passo sarà compiuto subito o sarà rinviato forse per sempre.
Ancora una volta dall’altra parte c’è chi li attende con la stessa convinzione e la stessa speranza che animò cinquant’anni fa Giolitti. Moro, nei giorni di vigilia del decisivo congresso socialista, ha ripetuto quasi con identiche parole il concetto dello statista di Dronero: «Noi – ha detto il segretario della DC – in questo momento di tumultuosa crescita della società italiana ci siamo impegnati a favorire il passaggio di forze di protesta ma di ispirazione democratica su un piano di corresponsabilità con noi per l’ordinato sviluppo della società italiana». Un concetto antico e preciso che nessun democratico può rifiutare e al quale ancora una volta i socialisti son chiamati a dare finalmente una precisa risposta.
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Se oggi, alla vigilia di un congresso del PSI che da molte parti si considera di enorme, forse di capitale importanza, per le sorti politiche del nostro Paese, noi ci siamo soffermati più a considerare il passato, a delineare sommariamente la storia di una prolungata speranza e di un viaggio fatto di soste, di ripensamenti, di giri viziosi, non è per sfuggire ai problemi immanenti, alle prospettive a ai pronostici che il XXXV congresso del PSI pone e sollecita nella giornata di vigilia. Ma i partiti come gli individui non sono mai avulsi dal loro passato e ogni conquista, ogni passo in avanti, sono ottenuti, a prezzo di dure esperienze, di inevitabili errori. Se noi oggi ci limitassimo a prendere in esame la tematica contingente e guardassimo al congresso di domani con la semplice cognizione delle cifre precongressuali potremmo tranquillamente scrivere che il XXXV congresso del PSI ha un risultato scontato: vinceranno gli autonomisti, si affermerà la tesi che vuole i socialisti al governo, i carristi ripeteranno tutti i temi del loro massimalismo inconcludente ma alla fine prevarrà la ragione e il passo, il grande passo, sarà compiuto.
Ma è così? Tutto è proprio così semplice? La storia del passato, la lunga altalena di errori, di illusioni, di esperienze, è pronta ad avvertirci che le soluzioni feconde non si raggiungono a colpi di cifre di maggioranze formali, ma che ogni dibattito, nei momenti decisivi e drammatici, è aperto a tutti gli imponderabili, che ogni soluzione può scaturire dalle pieghe dell’imprevedibile e dell’occasionale. Ipotizzare, sulla base dei risultati precongressuali, una vittoria della maggioranza autonomista è facile ma anche inutile. Troppi punti contraddittori, oscuri, volutamente confusi sono visibili ad occhio nudo nelle tesi e nelle convinzioni che animano gli uomini raggruppati attorno ad una sola mozione. La tesi di Nenni, tanto per esemplificare, è la stessa di Lombardi? E Vecchietti e Basso si accontenteranno di una posizione di scontata minoranza o non tenteranno di scavare il sottile solco che esiste fra gli autonomisti nella speranza di arrivare a rovesciare le posizioni?
Ecco perché il congresso che si apre domani non conterà tanto per i risultati finali ma per come vi si arriverà. Ogni fase del dibattito potrà e dovrà portare risposte ai molti quesiti insoluti. I socialisti italiani sono forse davvero al termine del loro lungo viaggio; ma in questa ultima loro tappa dovranno risolvere tutti insieme molti e drammatici quesiti, e solo con risposte definitive e non contraddittorie, potranno calmare le molte, legittime ansie di una vasta parte di democratici ancora riluttanti ed inquieti.
Noi siamo qui per ascoltare queste risposte e riferirle. Senza ingannevoli e non giustificati ottimismi ma anche senza sterili ed altrettanto ingiustificati preconcetti.
Nenni esorta i compagni di partito ad una scelta che non consente rinvii: aperto all’EUR il XXXV congresso del Partito Socialista Italiano (sabato 26 ottobre 1963)
(In un discorso ricco di cautele ma anche di polemica serrata il vecchio leader ha affrontato i temi più scottanti dell’incontro con la democrazia – Viene un momento – ha detto il segretario del PSI – in cui le perplessità non sono che un alibi per sfuggire ad un preciso dovere – La politica estera e i rapporti con i comunisti – Il piano per la congiuntura economica)
«Viene un momento, e per noi è venuto, in cui le perplessità non sono che un alibi per sfuggire ad un preciso dovere». Pietro Nenni ha pronunciato questa frase con i suo solito vigore oratorio, a metà circa della lunga relazione con la quale si sono aperti, nel pomeriggio di oggi, i lavori del XXXV congresso socialista. Ed è stata questa frase che ha fatto scattare la platea dei congressisti in un lungo, convinto applauso.
Dei seicento delegati raccolto nel recinto, quelli che in quel momento non applaudivano erano ben pochi e isolati. Più tardi l’applauso così caloroso e quasi generale si è rinnovato, ed è stato quando il vecchio leader (divenuto proprio in questi giorni bisnonno, come qualcuno all’altoparlante ha annunciato alla fine della seduta) ha polemizzato con i comunisti, con un tono che voleva essere bonario e invece diveniva sferzante, sulla facilità con cui si possono ritorcere certe monotone accuse, così come oggi dimostra la polemica in corso fra Mosca e Pechino. E, infine, una calorosa e convinta ovazione finale ha raccolto il suo invito, in cui era mescolata una tentazione alla mozione degli affetti. A non ripetere certi vecchi errori, a non attendere il futuro per riconoscere la necessità di operare una scelta che va fatta oggi, che è valida e decisiva soltanto oggi.
In questi tre momenti, nell’assenso vasto e convinto che quei punti della lunga e abile fatica oratoria di Nenni hanno trovato, un consenso che andava oltre la forza numerica delle correnti in cui la platea era divisa, si è espresso quello che appare ormai l’umore predominante del congresso. E anche se la battaglia è appena incominciata, anche se domani magari altre e contrastanti manifestazioni potranno smentire in parte la sensazione predominante stasera. Il “sì” caloroso e spontaneo che ha caratterizzato proprio i tre momenti in cui Nenni ribadiva l’ineluttabilità e la logica di una scelta ormai non più differibile, sta qui a confermare tutte le previsioni della vigilia: la decisione degli autonomisti, di giungere finalmente a quello che è stato definito l’appuntamento storico, prevarrà con un notevole margine di maggioranza. A questo obiettivo Nenni ha completamente teso tutta la relazione, letta con una abilità oratoria che l’età non sembra avere scalfito.
Accolto da un lunghissimo applauso Nenni è salito sul podio alle 17 ed ha parlato, senza un attimo di sosta, fino alle 19,30. Il vecchio leader è entrato nel vivo della situazione immediatamente. «Siamo qui riuniti – ha iniziato – per decisioni che diverranno operative entro pochi giorni e che decideranno del progresso o del regretto del Paese».
Per prospettare nei suoi termini attuali la scelta alla quale il PSI è oggi chiamato, Nenni ha poi rifatto sommariamente la storia di quelle che qualcuno ha chiamato «le occasioni mancate», da quanto, cioè, per la prima volta è affiorata nel movimento socialista la polemica e la prospettiva di un incontro tra socialismo e democrazia, soffermandosi soprattutto sul congresso del 1921 e sulla malinconica scissione che seguì il crollo di tardive speranze. «Oggi – ha detto Nenni a conclusione della parte rievocativa – il problema che si pone al PSI è un problema di scelta politica e non di principi, anche se ha addentellati dottrinari dai quali i socialisti non possono prescindere». «La questione della collaborazione con forze democratiche – ha sottolineato Nenni – è stata risolta da tempo dai socialisti. La vita al socialismo è quella democratica, la vita cioè di una evoluzione della società in cui l’obiettivo che sta di fonte ai socialisti ed ai lavoratori è di vincere per saturazione, allargando costantemente la loro sfera di presenza e di influenza in ogni campo: politico, sindacale, culturale. In questo senso la via democratica al socialismo, se non è soltanto dettata da considerazioni tattica, comporta l’abbandono della teoria leninista del potere». «Definitiva – ha affermato Nenni – è ormai la nostra scelta in favore di una evoluzione che renda possibile la piena acquisizione della democrazia allo Stato e quella del socialismo alla democrazia».
Chiarita così con notevole precisione quella che possiamo definire l’evoluzione ideologica del PSI, Nenni ha tracciato un quadro della vita italiana così come si presenta oggi nei suoi termini economici e sociali. «Tutto un nuovo mondo è in movimento, un mondo in cui i lavoratori progrediscono sempre di più, in cui ogni giorno di più aumenta la loro partecipazione al controllo della vita produttiva del Paese; il fossato tra ceti medi e lavoratori si colma».
Addentrandosi nell’esame dei problemi politici del momento, il segretario del PSI si è concentrato su tre fattori: la fase di assestamento dell’economia, la crisi di congiuntura, l’inefficienza dello Stato. Egli ha osservato che la fase di assestamento è stata determinata da un processo produttivo che ha posto l’Italia tra i Paesi più progrediti dell’Occidente, ma che si è rivelato manchevole di un piano di priorità, assumendo quindi forme caotiche e discontinue. La mancanza di una politica di piano, gli squilibri economici e sociali, sono la causa di fondo – ha poi soggiunto il leader socialista – della attuale crisi congiunturale. Le cause immediate e soggettive sono più di ordine politico che economico. La destra ha condotto una campagna di disfattismo economico e di panico finanziario contro alcuni provvedimenti varati dal governo di centro-sinistra (nazionalizzazione dell'energia elettrica, cedolare d’acconto, ecc.) che avrebbero dovuto essere adottati molto tempo prima, come è avvenuto in quasi tutti i Paesi occidentali. Come uscire da questa crisi congiunturale? «Lo deciderà il congresso – ha affermato Nenni. Ma la prima cosa da fare è dare alla provocazione politica della destra una risposta in sede politica, scoraggiando definitivamente la sua avidità di egemonia di potere. Se il centro-sinistra ha nella crisi congiunturale una responsabilità, non è già quella delle cose fatte ed avviate nel 1962 ma di quelle non fatte e disfatte nel 1963, complice il vuoto politico che ha proceduto e seguito le elezioni di aprile.
Per quanto riguarda il terzo fattore, l’inefficienza di molti servizi dello Stato, divenuto una «grande e enorme macchina con un meccanismo farraginoso e arrugginito», non consente il controllo effettivo e diretto di ogni funzione delegata. Il Paese è esasperato da una serie di scandali ed è necessario adottare misure rigorose. Le inchieste sulla amministrazione dello Stato, sulla scuola, sul sistema tributario e su quello assistenziale confermano – ha detto Nenni – le critiche avanzate dai socialisti in questi settori.
Nenni ha poi dettagliatamente indicato i punti fondamentali attorno ai quali dovrà svolgersi la politica del centro-sinistra. E tra questi punti ha inserito lo scottante problema dell’ordinamento regionale, ribadendo la richiesta socialista, giustificata dalla necessità di adempiere il precetto costituzionale. Le Regioni, quindi, vanno fatte «all’in fluori della subordinazione a considerazioni e condizioni politiche che il partito non disconosce, ma che non precedono ma seguono l’adempimento dell’impegno costituzionale». E’ evidente che qui Nenni ha tentato di aggirare lo scoglio delle garanzie preventive richieste dalla Democrazia Cristiana: ha riconosciuto che possono avere la loro logica e la loro necessità ma le ha rinviate a dopo. Resta ora da vedere se i democristiani accetteranno l’inversione della soluzione. In quanto al programma economico, Nenni ha così puntualizzato i problemi e le soluzioni: «le trasformazioni economiche inerenti allo sviluppo tecnico industriale poi – ha continuato – richiedono una nuova politica. Se il centro-sinistra, e la presenza dei socialisti in esso, rimane la sola formula politica più rispondente ai rapporti di forza emersi dalla elezioni dell’aprile scorso, ciò è vero anche in relazione alle esigenze di progresso tecnico e scientifico della nazione». «Il centro-sinistra non può perciò rimanere sottoposto alle crisi di ristagno che si sono verificate alla fine del 1962 e del 1963 ad opera della Democrazia Cristiana. Sugli accordi programmatici, ampi o limitati che siano, non deve rimanere ombra di dubbio; sui tempi di priorità della esecuzione si deve essere in chiaro fin dal primo momento; la composizione del governo deve essere di per se medesima una garanzia che quanto à stato deciso sarà fatto». «Perché tutto sia chiaro fin dal primo momento, l’atto iniziale del nuovo governo dovrà essere contemporaneo alle misure decise per fronteggiare la situazione congiunturale e all’annuncio del programma di legislatura, un inventario della situazione attuale.
«Il centro-sinistra deve cioè essere in grado di dire al paese, ai lavoratori, ai nuovi ceti della scuola e della tecnica, agli operatori economici e ai risparmiatori come stanno le cose e quali abusi o privilegi saranno colpiti; quali sacrifici e per quanto tempo saranno richiesti per superare la congiuntura sfavorevole e rilanciare l’economia con criteri che costituiscano per tutti una garanzia di lavoro e di sicurezza in un primo tempo, di benessere nella fase successiva». Subito dopo Nenni è arrivato ad uno dei punti cruciali della sua relazione e dell’intera situazione. Affrontando il tema della politica estera, il leader socialista ha ancora una volta dimostrato la sua abilità dialettica ed ha anche qui aggirato l’ostacolo con una sorta di rovesciamento dell’argomentazione. «Per quanto riguarda la situazione internazionale, si è chiesto Nenni, essa corrisponde alle possibilità di evoluzione democratica della situazione interna?». E la risposta gli ha permesso di giungere all’affermazione che voleva fare. «Si – ha detto Nenni – la situazione internazionale è cambiata e questo permette al PSI di riconsiderare alcuni suoi atteggiamenti in materia di politica esterna, consente a noi di non rimettere (cioè di non mettere più) in discussione l’adesione italiana alla NATO e gli obblighi che ne derivano». «Tale adesione – ha aggiunto subito – non comporta, nella situazione che si è creata, il rischio, che abbiamo temuto in diverse circostanze di vedere il paese trascinato in una terza guerra mondiale, il cui spettro si è per lo meno allontanato». Il PSI dunque non ha rivisto la sua tenace opposizione alla politica atlantica e alla adesione italiana in conseguenza della sua evoluzione democratica. E’ la situazione estera che è cambiata e i socialisti accettano l’alleanza perché sono convinti che non ci sarà guerra e che i patti sottoscritti hanno un valore puramente nominale. L’altro punto cruciale era quello che riguardava i rapporti con i comunisti e Nenni ha dedicato ad esso la parte finale della sua relazione, alternando cautele piene di abilità dialettica a puntate polemiche di indubbia efficacia.
A questo punto egli doveva affrontare da un lato i suoi oppositori interni e dall’altro quelli esterni e, nello stesso tempo, preoccuparsi delle esigenze dei futuri alleati di governo. «Noi andiamo all’incontro di novembre – egli ha detto – con la coscienza della sua necessità obiettiva. Non per accettare o subire qualsiasi cosa venga proposta dai nostri interlocutori; neppure per imporre dalla “a” alla “z” i nostri punti di vista e le nostre proposte, ma per verificare se esiste di nuovo, come è esistito nel febbraio 1962, un comune terreno di accordo programmatico sui problemi indilazionabili, e la possibilità di un compromesso e di un provvisorio accantonamento sui punti controversi e se esista la volontà politica , venuta meno nel gennaio scorso di venire a capo di ogni sabotaggio del programma concordato». Nenni, respingendo le critiche dei comunisti, ha sottolineato che il PSI ha dato “l’appuntamento” alla Democrazia Cristiana per una politica comune fin dal 1955, con il congresso di Torino, che riconosceva nella Democrazia Cristiana un interlocutore valido in considerazione della presenza nel movimento cattolico di fermenti sociali ed egualitari e della presenza in esso di una larga base popolare democratica, antifascista. In antagonismo latente ed aperto con le gerarchie superiori.
«Mancherebbe di senso politico e di obiettività storica – egli ha detto – chi negasse che qualche cosa si è mossa in avanti». «Non si tratta – ha spiegato Nenni – di una alleanza generale politica per la quale non esistono le premesse ideologiche e la concorrenza dei fini ultimi; non si tratta di una amalgama di marxismo e di cristianesimo, di una mistura di socialismo e di sociologia cattolica. Si tratta di un accordo limitato nei suoi obiettivi economici, sociali e politici, ma di natura tale che se realizzato con la necessarie volontà politica, farà trovare il paese, di qui alla fine della legislatura, in una situazione di sicurezza democratica quale non ha ancora conosciuto e lo aiuterà a supere una fase comune a tutte le forze democratiche nell’organizzazione dello Stato moderno. Si tratta, ripeto, di un compromesso serio, impegnativo in cui ognuno dei contraenti gioca una carta grossa. E giacché l’esperienza del 1962 ci ha dimostrato che un appoggio esterno comporta responsabilità non minori della presenza (lo abbiamo visto alle elezioni del 28 aprile) così la corrente autonomista ha proposto, e la maggioranza del partito ha approvato, che il XXXV congresso autorizzi non soltanto l’appoggio esterno del PSI, secondo il limite posto dal XXXV congresso, ma autorizzi anche la partecipazione diretta alla maggioranza di governo, con la assunzione di una piena responsabilità, in modo da garantire l’adempimento degli impegni programmatici e di infrangere la resistenza opposta dai moderati».
Il leader socialista ha ricordato a questo punto le obiezioni rivolte dalla sinistra del PSI. «Nelle nostre discussioni interne – egli ha detto – la maggioranza si è vista opporre almeno quattro diverse tesi: la più radicale: che con la Democrazia Cristiana non c’è nulla da fare e che con essa vale soltanto l’attacco frontale; una seconda: che non contesta l’esigenza dell’incontro con la Democrazia Cristiana, ma alla condizione che vi partecipino i comunisti, in ciò ravvisando non soltanto un maggiore elemento di forza (come sarebbe ovvio) ma una garanzia per i lavoratori, come se noi non fossimo in grado di darla; una terza: che sembra abbandonare anche questa posizione per aggrapparsi alla questione della delimitazione della maggioranza in formazione; una quarta, infine, che fa questione “del come ed a quale condizione”, sollevando un problema che è presente nella coscienza di tutti e sulla quale divergenze possono sorgere ad ogni momento, e sono sorte anche tra gli autonomisti, senza intaccare nel suo fondo, la linea politica del partito». La risposta di Nenni è stata abbastanza ampia e solo nell’ultima parte piuttosto sfumata.
«Alla prima obiezione – egli ha affermato – hanno dato una risposta non uno ma quattro congressi; del partito, da Torino a Venezia, a Napoli ea Milano, e i primi due all’unanimità, anche se in tale unanimità c’erano non pochi elementi fittizi. La seconda propone una soluzione di cui non esistono né le premesse né le condizioni, premesse e condizioni che spetta ai comunisti creare, se lo possono e se lo vogliono, con il tempo che sarà loro necessario. Quello che il partito non può accettare è che una politica che viene giudicata necessaria, e in mancanza della quale si intravvede il ritorno offensivo della destra, non si faccia soltanto perché il partito comunista non vi partecipa o non può parteciparmi. Sulla delimitazione della maggioranza di centro-sinistra, credo che la corrente autonomista abbia raggiunto un elemento di sufficiente chiarezza quando ha detto nel suo documento precongressuale che “la maggioranza parlamentare di centro-sinistra sarà naturalmente formata ai quattro partito che hanno intrecciato il dialogo politico del centro-sinistra”; che la nuova maggioranza può sussistere soltanto se ognuno dei partiti che la compongono, osserverà lealmente gli impegni presi contrastando le forze esterne e vincendo le resistenze interne e vincendo le resistenze interne: e così stando le cose “la esclusione degli altri partiti ha il senso di una scelta democratica, del tutto normale in un sistema pluralistico, che assicuri non soltanto i diritti ma la utile funzione della opposizione”. Più decisamente critico è stato lo sviluppo del discorso nelle fasi successive.
«Quanto ai rapporti con i comunisti sul piano ideologico e politico – ho aggiunto Nenni – essi rimangono quali sono stati definiti negli ultimi anni. Il PSI non nega la presenza di fattori critici trai comunisti, non nega la consapevolezza che in molti di loro è avvertita dell’aridità o per lo meno, della inattualità delle forme e delle teorie del potere su cui hanno basato la rottura e la polemica con i socialisti. Tuttavia i comunisti sembrano essersi fermati agli aspetti marginali e tattici della crisi ideologica del comunismo, non ai problemi di fondo». «Nella polemica sullo statalismo sono rimasti alla superficie delle cose agli errori e ai delitti di Stalin: non si sono chiesti come mai colui che ci viene oggi presentano come un criminale abbia potuto dominare per trenta anni la Russia, abbia potuto assumere figura di semidio o di dio, abbia potuto essere presentato per decenni come il più autentico interprete del marxismo leninismo divenuto nel linguaggio dei comunisti, il marxismo-leninismo-stalinismo. Essi si fermano alla superficie delle cose perché scavando più a fondo si troverebbero, come noi ci siamo trovati, a tu per tu con il sistema e con la dottrina della terza internazionale e dovrebbero denunciarne per lo meno il superamento. I comunisti si sono fermati con timore reverenziale anche di fronte alla “mistificazione della democrazie popolari” che – ha detto Nenni – sembrava dovessero indicare, nel 1947 e nel 1948, una svolta politica nuova, ma si rivelarono invece “una variante tattica” nella dittatura del proletariato, cioè nella dittatura del partito comunista.
Nenni è così giunto alla conclusione del suo lungo discorso ed ha accentrato nelle frasi finali tutta la forza della sua persuasione, ravvivata dalla sapienza oratoria, fino a raggiungere il tono dell’appello pressante e ricco di suggestione. «Sono vecchio, compagni – ha detto – e questo sarebbe per me il momento di riposarmi. Se non l’ho fatto, se sono ancora qui a combattere e perché sento tutta l’urgenza e la gravità del momento». E infine: «Se dovessi, in una frase, dire che cosa mi ha più colpito nella mia lunga vita di combattente e di militante direi – ha sottolineato – che è il dramma delle possibilità sciupate, delle cose che si potevano fare in senso rivoluzionario o nell’ambito della vita democratica e non si sono fatte per una infinità di ragioni, ognuna delle quali era giusta in sé e per sé, ma che finirono sovente per diventare un alibi onde scartare le cose possibili, e ad esse sostituire la visione inebriante di cose più belle e più radicali, non impossibili. Non ripetiamo quegli errori, compagni, facciamo o cerchiamo di fare, per quanto sta in noi, quello che è oggi necessario e possibile. Sarà un contributo dato all’avanzamento democratico del paese e alla difesa e all’avanzamento dei lavoratori, sarà una trappa che ci accrediterà presso i certi sempre più vasti del popolo lavoratore, per raggiungere la meta della nostra vita: lavoratori al potere per la costruzione del socialismo».
Abbiamo detto al principio quale è stata la reazione del congresso al lungo discorso di Nenni. Abbiamo sottolineato come la relazione del segretario abbia rafforzato in tutta la convinzione che, ancora una volta, il vecchio leader romagnolo ha vinto una grande e decisiva battaglia.
Pertini, mentre Nenni scendeva dal podio tra le acclamazioni, ha esclamato: «Il congresso è sostanzialmente finito». Sentiremo, comunque, domani mattina, le relazioni di minoranza di Vecchietti e dello stesso Pertini. Stasera, nella grande aula dei congressi dell’EUR, addobbata da bandiere, sommersa da un mare di garofani rossi, si sono sentiti soltanto applausi. E l’atmosfera festosa ha trovato degna conclusione nella proiezione riservata ai seicento congressisti, ai quattrocento giornalisti, e ad un migliaio di invitati, del film di Monicelli “I compagni”, in cui le prime battaglie dei socialisti di fine secolo rivivono in una rievocazione densa di toni umani e toccanti. Domani, forse, l’atmosfera sarà meno patetica e distesa, ma, come ha detto anche Nenni, a ciascun giorno il proprio affanno.
La sinistra minaccia la scissione e scatena la battaglia in aula: atmosfera arroventata nella seconda giornata del congresso socialista (domenica 27 ottobre 1963)
(Vecchietti critica a fondo Nenni e respinge tutta la sua relazione – «Nessuno si illuda che noi piegheremo la testa» – Anche Pertini attacca l’operato del segretario del Partito – La replica di Pieraccini ai carristi dà il via ad una serie di violenti tumulti – Incidenti anche durante l’intervento di Libertini e mentre Longo porta il saluto del Partito Comunista – Oggi parlano Lombardi, Basso e Lussu)
Il clima del congresso socialista è oggi bruscamente cambiato. Dal tono festoso e disteso della seduta inaugurale si è fin da stamani passati ad una atmosfera carica di tensione, con accenni tempestosi e gravidi di minaccia, una atmosfera che è sfociata in tumulto, in zuffa, in invettiva. Un clima di battaglia che, al termine della seconda giornata di lavori, lascia un ampio margine di incertezza non sui risultati, che erano noti e scontati già prima dell’inizio, ma sulle sorti stesse del partito e delle sue prossime difficili mosse. La vittoria di Nenni e degli autonomisti è fuori dalla discussione e dal gioco stesso delle vicende congressuali, ma quello che stasera appare l’interrogativo predominante riguarda il prezzo che la maggioranza dovrà pagare per questa vittoria.
Vecchietti – il gelido, intransigente, dogmatico leader della sinistra – ha dato il via in mattinata all’offensiva contro Nenni e contro la determinazione della maggioranza. Egli è sceso in campo con una violenza critica che è andata al di là delle previsioni e che ha sorpreso molti conservatori. Si è poi saputo che durante la notte gli esponenti “carristi” avevano tenuto una drammatica seduta in cui gli estremisti, capeggiati da Libertini e Lussu, avevano imposto le loro tesi massimaliste inducendo così Vecchietti a rivedere il testo della sua relazione già pronta, aggravando le parti critiche e dissolvendo quasi del tutto i punti possibilisti che, sul piano tattico, avrebbero dovuto servire ad una pressione sui “lombardiani” per un tentativo di incontro e di mediazione. Così Vecchietti, salito alla tribuna, ha scelto fin dalla prime battute la strada della intransigenza, della negazione assoluta, adombrando nel finale una abbastanza palese minaccia scissionistica che ha scosso l’uditorio e creato quel clima di tensione nel quale il congresso è proseguito per tutto il giorno.
Il dissenso tra autonomisti e sinistra, nel discorso di Vecchietti, si è rivelato profondo, totale, incolmabile.
Il leader “carrista” ha respinto ogni parte della relazione nenniana: ha confutato la diagnosi della situazione sul piano interno ed estero, ha ridicolizzato la tesi del “meno peggio”, ha ironizzato sul fantoccio di un pericolo di destra, ha respinto in blocco le conclusioni, la gettato a più riprese in faccia agli autonomisti l’accusa di voler “socialdemocratizzare” il partito. Vecchietti, dopo aver più volte prospettato in termini drammatici quella che è la grande paura segreta dei dirigenti socialisti, il pericolo di distacco dalle masse, l’abbandono di vasti strati operai nelle mani dei comunisti, ha posto tre condizioni, irrinunciabili, ad un ingresso del partito socialista nel governo e ad una accettazione di questo fatto da parte della sua corrente. In politica estera: un nuovo indirizzo che faccia dell’Italia “una forza attiva di pace”, in politica interna: un insieme di misure dirette a mutare l’orientamento e la struttura degli investimenti pubblici e anche privati, una programmazione coercitiva che non può escludere altre nazionalizzazioni; e infine, un assoluto rifiuto ad ogni disimpegno dai comunisti.
In altre parole Vecchietti ha chiesto che il partito socialista entri nel governo solo a patto che la Democrazia Cristiana accetti integralmente le tesi massimalistiche del PSI, trasformi la struttura dello Stato in senso integralmente socialista e faccia suoi i postulati fondamentali della politica comunista.
«Se, per sciagura, la maggioranza respingesse queste condizioni – ha concluso Vecchietti – nessuno si illuda che piegheremo la testa a quella che è una palese e inequivocabile capitolazione senza ritorno, che segnerebbe la rottura irrimediabile del rapporto di fiducia tra i lavoratori ed il partito». Questa pesante conclusione di Vecchietti è stata accolta da una clamorosa ovazione dei congressisti di sinistra. La manifestazione si è prolungata per diversi minuti accompagnata da canti e da grida sparpagliate, ma indicative di «scissione, scissione».
Si è avuta addirittura l’impressione che ad acclamare fosse una netta maggioranza dei delegati e che si fosse così giunti ad una inopinata variazione dei rapporti di forza. Ma stava a contrastare questa impressione il ricordo degli applausi che avevano accolto ieri la relazione di Nenni e che delineavano nettamente il divario fra le forze in campo. La spiegazione si è avuta più tardi; i “carristi” avevano condotto una vera e propria operazione tattica introducendo nel recinto congressuale un folto numero di “invitati” aderenti alla loro corrente approfittando della momentanea assenza di molti autonomisti. Anche questa mossa contribuiva perciò a delineare il piano nettamente offensivo della sinistra e ad accendere il clima di tensione che sfociava nel pomeriggio in tutta una serie di incidenti.
Ma, prima di passare al pomeriggio, bisogna registrare anche l’intervento di Pertini, con il quale si erano aperti i lavori in mattinata. Il capo dell’altra corrente di minoranza, quella che si intitola all’unità del partito e che ha raccolto nella fase precongressuale soltanto una esile percentuale di voti («Pochi ma buoni») – ha detto il senatore socialista, ha anche lui attaccato Nenni a fondo dimostrando di badare non tanto ad un intento di mediazione che pure qualcuno gli attribuiva, quanto ad una azione di serrata critica nei confronti dell’attuale segretario del partito. Anche Pertini ha parlato di condizioni irrinunciabili ed ha respinto gran parte delle diagnosi fatte ieri da Nenni sull’attuale situazione politica.
Secondo Pertini i punti irrinunciabili per la trattativa di centro-sinistra sono i seguenti: 1) non fermarsi agli accordi della Camilluccia ma pretendere che le trattative si svolgano sulle decisioni dell’ultimo comitato centrale del PSI, cioè un programma di riforme «che facciano scomparire le strutture che oggi impediscono un serio progresso del Paese»; 2) attuazione regionale e risoluzione dei problemi concernenti i lavoratori; 3) in politica estera chiara ed esplicita affermazione che il PSI non può rinunciare al suo tradizionale neutralismo. «Una rinuncia in tal senso significa inserire i socialisti nella politica atlantica, significa fare una scelta politica ed ideologiche che sarebbe in stridente contrasto con la nostra dottrina»; 4) improponibile ogni richiesta di uscire dalla CGIL; 5) «Non ci si può chiedere di scendere sul terreno dell’anticomunismo in quanto sappiamo ormai per esperienza dove porta questa strada. Un governo di centro-sinistra con i socialisti non può prefiggersi, come vorrebbero i dirigenti della DC, l’isolamento di un partito operaio, bensì l’isolamento delle forze del privilegio».
Conclusa così l’illustrazione delle tre mozioni congressuali, nel pomeriggio si è iniziato il dibattito che prevede interventi limitati a quindici minuti, secondo una ripartizione globale proporzionata alle forze rappresentative delle tre correnti (dodici ore agli autonomisti, nove ore alla sinistra e un’ora e mezzo ai pertiniani).
Il previsto contrattacco dei nenniani è stato sferrato da Pieraccini, dopo che avevano parlato Guadalupi e Lizzadri. Il direttore dell’Avanti ha sottolineato tutte le contradizioni che scaturivano dal discorso del leader “carrista”; ha respinto decisamente l’accusa che il centro-sinistra sia una forma aggiornata e modernizzata di prosecuzione del centrismo; ha a sua volta giudicato totalmente sbagliata la diagnosi fatta da Vecchietti della situazione internazionale e ha smentito che la delimitazione della maggioranza prevista da Moro e accettata da Nenni significhi una discriminazione antidemocratica.
Pieraccini ha concluso respingendo fermamente l’accenno di scissione colto nel discorso di Vecchietti. «Noi – ha detto Pieraccini – non possiamo accettare un metodo per cui la minoranza si costruisce una immagine di comodo della politica della maggioranza e poi si arroga il diritto di decidere se piegare la testa oppure no. Il partito – ha detto Pieraccini – attraverso la libera consultazione precongressuale ha dato torto alla tesi della sinistra ed ora questa è tenuta in ogni caso alla disciplina, come in ogni caso la maggioranza è decisa a portare avanti la sua politica sempre pronta ad un leale e fraterno dialogo con i dissenzienti, ma senza timore della minaccia di chicchessia».
E’ stato allora che è scoppiato il primo violento tumulto. Mentre gli autonomisti, tutti in piedi, acclamavano le affermazioni del loro esponete, i “carristi” hanno cominciato a gridare invettive e la frase finale di Pieraccini è rimasta interrotta senza che egli potesse concludere per diversi minuti. Dallo scambio di invettive si è passati in vari settori alla zuffa. Gli incaricati dell’ordine hanno cercato di mettere pace ma senza riuscirvi. Per quasi un quarto d’ora, ai bordi della sala e nei corridoi, gruppi di delegati di opposte correnti sono venuti alle mani mentre il tumulto in aula cresceva ad onta dei ripetuti ed energici richiami del presidente di turno.
Un nuovo tumulto è scoppiato mezz’ora più tardi, durante l’intervento di Libertini, il quale ha ripetuto buona parte delle critiche di Vecchietti in tono più plateale. Più volte, lo scambio di invettive in sala e qualche tafferuglio hanno interrotto il suo discorso. Libertini ha concluso il suo intervento, anche esso di netta rottura, rivolgendosi alla borghesia che aspetta, a suo dire, il catturare il socialismo attraverso il centro-sinistra di Moro e Nenni, con questo grido finale: «No, non ci avrete né oggi né mai».
La serie degli incidenti si è rinnovata durante l’intervento del comunista Longo, salito alla tributa per portare il saluto ufficiale del suo partito al Congresso. Quando il senatore comunista, entrando nel merito del dibattito, ha accennato ad una «situazione di comodo» inventata da Nenni, gli autonomisti sono insorti gridando, subito contraddetti e qua e là affrontati dai compagni della sinistra. Longo ha potuto riprendere e concludere soltanto dopo dieci minuti.
Si è così conclusa questa seconda giornata, piena di tumultuosi episodi, in cui ancora una volta le due antiche anime del socialismo italiano sono riaffiorate con le loro eterne contraddizioni, le loro perplessità, le loro laceranti polemiche.
Quali sono le prospettive che si presentano per i prossimi giorni, nei quali è prevedibile il prolungarsi e l’acuirsi del clima rovente?
Una impressione che abbiamo racconto da molti osservatori al di sopra della mischia è che l’offensiva della sinistra più violenta del previsto, sia stata originata dalla impostazione che Nenni ha dato alla sua relazione, una impostazione che, seppure con qualche cautelosa contraddizione, ha posto il partito in termini drasticamente concreti ed indifferibili. Nenni ci ha detto stamani qualche esponente della sinistra, ha tirato troppo la corda dei “carristi” e degli stessi pertiniani.
Tuttavia che il congresso si concluda con una nuova scissione appare scarsamente probabile. Non bisogna dimenticare che oltre la parte appariscente (la rappresentazione che avviene in aula) c’è tutto un lavorio segreto che si svolge dietro le quinte, nelle numerose stanze dell’EUR in cui si radunano gruppetti delle varie correnti e dove si tratta in termini meno eccitati e spettacolari. Già oggi il vicesegretario De Martino ha avuto numerose stanze dell’EUR in cui si radunano gruppetti delle varie correnti e dove si tratta in termini meno eccitati e spettacolari. Già oggi il vicesegretario De Martino ha avuto numerosi incontri con i maggiori rappresentanti delle varie correnti e soprattutto con Lombardi.
Quest’ultimo viene considerato da molti come l’elemento risolutore e determinante della situazione, l’uomo che potrebbe operare una saldatura tra maggioranza e minoranza. A Lombardi i “carristi” guardano soprattutto come all’uomo capace di fermare Nenni sulla strada delle concessioni, nella illusione che il PSI possa entrare al governo senza cedere in nulla nei confronti degli altri partiti. Lombardi si è fino a questo momento mantenuto sfingeo; secondo alcuni sarebbe in fase di irritazione contro Nenni il quale, nelle trattative per la composizione del nuovo comitato centrale, tenterebbe di assicurarsi una netta maggioranza di fedeli.
Domani, comunque, Lombardi sarà alla tribuna e la situazione potrà chiarirsi. Parleranno domani anche Lussu e Basso; non è quindi difficile prevedere che all’EUR in contrasto col mite sole di questo ottobre romano farà piuttosto caldo.
Lombardi rettifica le tesi di Nenni e mette in discussione l’esito del Congresso: nuove incognite dopo la terza giornata all’EUR (L’Informatore del lunedì, lunedì 28 ottobre 1963)
(L’intervento del leader “gregoriano” riscuote l’approvazione della sinistra ma crea il pericolo di una frattura nella maggioranza – Ribaditi il neutralismo e una politica di programmazione rigida – L’aspro attacco di Lussu al segretario del partito provoca violenti tumulti in aula – Solo mercoledì si sapranno i risultati finali)
Al termine della sua terza giornata del congresso socialista lascia aperto un grosso interrogativo sul risultato finale.
L’atteso discorso di Riccardo Lombardi è andato, infatti, molto al di là delle previsioni e delle aspettative degli autonomisti perché il leader dei “gregoriani” (come vengono ormai chiamati i suoi seguaci) non si è limitato a gettare in auspicato ponte verso la sinistra in rivolta, ma ha finito col passare egli stesso il ponte, andando incontro a molte delle tesi “carriste” nella chiara intenzione di proporsi come vero e autentico leader della maggioranza. Il pericolo, paventato da molti dei fautori del centro-sinistra sulla nuova divisione in senso agli autonomisti è così divenuto oggi effettivo. Il volto scuro di Nenni al termine della seduta meridiana dimostrava chiaramente che la giornata domenicale non ha contribuito a quel passo in avanti verso la vittoria che con troppo ottimismo molti ritenevano già scontata.
Nel suo vigoroso discorso Lombardi ha in più punti rettificato le posizioni di Nenni. Tanto per cominciare ha affermato che il congresso non deve dare una risposta al problema se entrare nel governo in base a richieste già formulate ma deve solo autorizzare limiti di trattative. «Il cammino per la partecipazione al governo – ha detto – non si conclude con questo congresso, ma comincia all’indomani del congresso». Subito dopo Lombardi ha ancora rettificato la relazione nenniana smentendo il pericolo di una destra così come prospettata dal segretario del partito, e quindi la teoria del “meno peggio”, e affermando che invece si tratta ora di combattere un neocapitalismo efficiente ed abile, e l’unica maniera per combatterlo è quello di impadronirsi in qualche modo delle leve di comando per imprimere alla vita politica ed economica del paese un deciso corso in senso socialista.
«Siamo in un paese – ha detto Lombardi – che nel corso dell’immediato decennio, e più ancora nel corso dell’immediato quinquennio, maturerà e realizzerà in qualunque modo un processo di trasformazione profonda che altre società hanno realizzato in un secolo. Fra dieci anni la società italiana avrà una fisionomia per nulla rassomigliante a quella odierna. In questo tempo si sarà cristallizzato un modello che potrà essere modificato alla scadenza ultima solo con la violenza». Ed ha soggiunto: «La sinistra, ammorbidendo peraltro in questo congresso le sue posizioni, non contesta una politica economica di riforme di struttura, ma vi oppone una alternativa di unità operaia che politicamente si allontana molto nel tempo. Si tratta di vedere se possiamo rimandare a imprecisate scadenze , così distanti nel futuro, alcuni importanti propositi del PSI in forza dei quali si delinea un itinerario di sviluppo della lotta operaia, fatti salvi gli obiettivi a lunga scadenza prospettati dalla sinistra».
Sostanzialmente diversa è stata la risposta di Lombardi anche qui sui tre punti cruciali che dividono i nenniani dalla sinistra e sui quali Vecchietti aveva appunto chiesto precise garanzie sotto la minaccia di una scissione.
In materia di politica economica, pur ribadendo la necessità di alcune misure anticongiunturali, Lombardi ha riproposto il programma del passato “governo-ombra”, rivendicando al partito socialista il merito della nazionalizzazione elettrica che per la DC non era stata solo un “prezzo alto”, ma ha rappresentato la testimonianza di una volontà di rottura del sistema capitalistico che va continuata in altri settori e per lo meno in quello edilizio.
In tema di politica estera Lombardi è andato ancora di più incontro alle tesi della sinistra. Egli ha, infatti, chiarito che con l’intenzione manifestata da Nenni di non mettere in discussione il patto atlantico non si è inteso da parte degli autonomisti accettare un atlantismo, sia pure moderato. Respinta la proposta americana per la forza multilaterale e detto “no” alle basi nazionali per i missili “polari”. Lombardi ha finito con l’esaltare il neutralismo che egli ha definito una gloria del partito socialista, una gloria che il PSI «non è disposto a deporre sulla soglia di alcuni ministro».
Solo sul terzo punto, quello del disimpegno dal comunisti, Lombardi è stato piuttosto vago e se l’è sbrigata con questa sola frase: «Quando noi affermiamo che la maggioranza del governo è costituita dai quattro partiti abbiamo detto tutto e non c’è più nulla da aggiungere e da togliere».
Lombardi ha concluso il suo intervento, seguito con vivo interesse dai congressisti, con l’appello all’unità del partito. Collegandosi al discorso di Vecchietti ha detto: «Si tratta di qualcosa di più di una semplice convivenza pacifica: vi sono le condizioni per lavorare tutti e insieme e lo vogliamo fare, solo che non insistiamo, nel logorare il più e il meglio delle forze del partito in una contestazione ideologica di retroguardia. Dobbiamo organizzare un partito che a tutti i livelli operativi sia in grado di fare fronte ai compiti che il momento gli impone. Certo, se noi arriveremo su posizioni di interna debolezza al tentativo di collaborazione governativa, non sarà il caso e il fascismo ma qualcosa di più; sarà il trionfo del neo capitalismo a cui verranno a mancare contestazioni valide. Dobbiamo prospettarci un partito che al governo o alla opposizione con pari responsabilità sappia dire di “sì” mantenendo la propria forza e la propria dignità e sappia dire di “no” mantenendo il proprio prestigio davanti al paese e la propria capacità contrattuale».
Che l’intento di Lombardi di venire decisamente incontro alla sinistra anche a costo di rimettere in discussione la maggioranza degli autonomisti e silurare implicitamente Nenni avesse raggiunto lo scopo lo si è visto subito dopo, con l’intervento del sindacalista Foa, che ha espresso l’apprezzamento della sua corrente per il discorso del leader gregoriano e con una dichiarazione che il comunista Longo si è affrettato a rilanciare e in cui è detto: «Mi pare che il discorso del compagno Lombardi abbia avuto un tono notevolmente diverso da quello degli altri esponenti autonomisti, nel senso che offre possibilità di colloquio con la sinistra e di rafforzamento dell’unità del PSI che io mi ero permesso di augurare nel mio saluto al congresso».
E’ toccato al vice segretario del partito De Martino il difficile compito di riportare fiducia nelle file degli autonomisti scossi dall’intervento di Lombardi.
Salito alla tribuna dopo aver avuto lunghi colloqui con Nenni e Lombardi, De Martino ha tentato di conciliare in una unica tesi le posizioni dei due leader di maggioranza e nello stesso tempo di ribattere le critiche della sinistra senza tuttavia esasperare la polemica.
La parte sostanziale del suo intervento, contrastato in alcuni punti da interruzioni dei “carristi”, è stata questa: «l’attuale fase politica richiede al PSI scelte coraggiose e responsabili, alle quali non ci possiamo sottrarre. Abbiamo il dovere di non lasciarci sfuggire la possibilità di imprimere un nuovo corso all’economia del paese e, in definitiva, a tutta la vita politica italiana soltanto per una sfiducia preventiva nei confronti della Democrazia Cristiana. Se non ci assumeremo le nostre responsabilità apriremo la strada ad una soluzione senza alcun dubbio di destra, sia questa soluzione il fascismo o qualche altra cosa».
Replicando alle tesi della sinistra sui “cedimenti” della maggioranza, De Martino ha assicurato che il PSI non rinuncerà in alcun modo alla realizzazione delle riforme di struttura e proporrà una politica di programmazione che investa effettivamente il processo di accumulazione capitalistico.
«Niente nei nostri atteggiamenti – egli ha sottolineato – giustifica questo sospetto. Il documento economico della maggioranza esprime chiaramente le nostre posizioni: noi proponiamo misure anticongiunturali per oggi che non contrastano alle riforme da realizzare poi, ma anzi aprono loro la strada. Tutti i provvedimenti d’altro canto, come ha riconosciuto lo stesso Foa, non possono essere realizzati in un sol giorno ma debbono essere inseriti in un ciclo politico.
«Sapete bene, compagni – così ha concluso il vice segretario del partito – che per noi non esiste dubbio su quale parte della barricata militare. Quando abbiamo scelto il nostro posto sapevamo di collocarci in una parte della barricata uniti: e questa unità vi chiediamo ora al momento di superare la barricata per tentare un’azione d’attacco».
Le amarezze di questa giornata domenicale non sono finite per Nenni con il mezzo tradimento di Lombardi. In serata è sceso in campo anche Lussu il quale, dopo aver confermato la sua decisione di ritirarsi prossimamente dalla vita politica, ha ricordato a Nenni di avere la sua stessa età e lo ha invitato, con un elegante giro di parole, a imitarlo per non rovinare definitivamente il PSI. L’intervento dell’esponente sardo è stato un veemente attacco personale al leader romagnolo e alla sua azione di questi due ultimi anni. Un attacco scintillante di aspra ironia e di immagini che hanno mandato in visibilio i “carristi” e con il quale il vecchio combattente antifascista ha in una sorta di estremo omaggio alla propria coerenza di intransigente ribadito integralmente tutti i concetti tipici del massimalismo. E tutto ciò smentendo di esserlo ma, anzi, confermando di aver conosciuto nella sua lunga vita soltanto quattro massimalisti, il primo dei quali era lo stesso Pietro Nenni.
Particolarmente apprezzata è stata dall’uditorio di sinistra l’immagine lussiana di un gruppo autonomista che va in carovana verso il governo come un gruppo di beduini anelanti ad una oasi con alla testa Nenni e De Martino si barricano e fez, seguiti a una certa distanza da Ricardo Lombardi montato su un dromedario. Naturalmente l’aspra retorica di Lussu ha scatenato, come era prevedibile, un paio di clamorosi tumulti. Per oltre dieci minuti in vari punti della sala si sono avuti scontri tra delegati di diversa tendenza. Nelle tribune degli invitati si è acceso un violento pugilato a stento sedato dagli incaricati dell’ordine. Tra le acclamazioni dei “carristi” il parlamentare sardo ha concluso il suo discorso respingendo con veemenza ogni tentazione di centro-sinistra e ogni “aberrante” tentativo di distacco dai compagni comunisti.
Nel quadro della giornata congressuale l’intervento di Lussu ha costituito solo una nota di colore: la realtà della situazione è rappresentata dall’interrogativo che abbiamo premesso a questa nostra nota. La situazione si presenta stasera piena di incognite e qualcuno dei sostenitori più decisi del centro-sinistra ha affermato che si è fatto oggi un passo indietro. La vittoria della mozione autonomista non avrà infatti alcun valore determinante se tale vittoria sarà pesantemente condizionata dalle pretese di Lombardi. Il fatto che fino ad oggi non si sia ancora trovato un accordo tra nenniani e gregoriani sulla composizione del comitato centrale è una conferma di queste difficoltà.
Domani continueranno gli interventi nel dibattito e forse in serata si avrà la replica di Nenni. In questo caso martedì saranno presentate mozioni conclusive e nella nottata si inizieranno le votazioni. L’esito si conoscerà mercoledì, solo allora, solo quando si saprà l’esatta composizione del nuovo comitato centrale con la ripartizione dei posti tra nenniani e lombardiani, si potrà capire se Nenni ha avuto via libera per trattare con Moro o se, ancora una volta, in extremis, il socialismo italiano resterà bloccato davanti allo storico impedimento che ha già infilzato tante perle in quella collana di occasioni perdute di cui Nenni ha parlato in apertura di congresso.
Raggiunto l’accordo fra Nenni e Lombardi il congresso del PSI è praticamente concluso: terminato ieri sera il dibattito nell’aula dell’EUR (martedì 29 ottobre 1963)
(Oggi si avranno le votazioni sulle tre mozioni e per l’elezione del nuovo comitato centrale - Abile replica del segretario del partito alle serrate critiche della minoranza – Le basi sulle quali si è ricomposta la maggioranza autonomista – Gli interventi finali di Basso e Pertini)
Con le repliche di Pertini, Basso e Nenni si è chiuso stasera, a tarda ora, il dibattito al congresso socialista.
Cala così, in pratica, il sipario su questa tumultuosa e decisiva assise del PSI: domani i lavori del congresso proseguiranno per quella che è la parte meno appariscente, e che potremmo definire invisibile, ma non meno importante nei congressi di un partito quando si devono tirare le somme e definire la sintesi dei lavori stabilendone la conclusione concreta. Domattina i 300 delegati della maggioranza si riuniranno per approvare la mozione conclusiva, che è stata laboriosamente compilata oggi, e per scegliere i nomi dei 51 membri del nuovo Comitato Centrale. Nel pomeriggio si avranno, in sede di assemblea plenaria, le votazioni sulle tre mozioni risolutive, quella sullo statuto e quelle, veramente determinanti, per l’elezione dei 101 membri che comporranno il massimo organo del PSI. In realtà già oggi, quarta giornata del congresso, la parte più importante dei lavori si è svolta non in aula ma dietro le quinte, ed è stato qui, nel corso di una serie di colloqui, di riunioni dei maggiori esponenti, di discussioni ristrette ma animate, è che è avvenuto il fatto decisivo: la maggioranza autonomista, che il discorso di Lombardi aveva messo in condizioni di precarietà e che sembrava di nuovo come nella ormai famosa notte di San Gregorio, lacerata, è stata alla fine, soprattutto per gli sforzi di De Martino, ancora un volta ricucita. Lombardi e Nenni hanno ritrovato il necessario punto di incontro e la mozione sulla quale si voterà domani, e che in base al meccanismo congressuale si sa già che riscuoterà il voto dei 300 delegati su 600 rappresentanti, sarà appunto il documento che stabilirà la politica del PSI per l’immediato futuro.
E’ chiara l’importanza determinante di questo documento sul quale sarà appunta basatala condotta del PSI nelle prossime trattative con gli altri partiti per la formazione del nuovo governo.
Da quello che si è saputo stasera la mozione per quanto riguarda la politica economica si rifà al recente documento compilato da Lombardi e da Giolitti e quindi non si discosterà molto dalle tesi enunciate dal leader gregoriano nel suo discorso di ieri, salvo alcune sfumature imposte da Nenni. In particolare il documento sostiene la necessità di un programma avanzato di profonde riforme strutturali che rappresentino la premessa di una sostanziale svolta per il rinnovamento democratico
la politica estera, la risoluzione in via di principio si dichiara per il disarmo e contraria alla diffusione dell’armamento nucleare, sia esso in forma nazionale che in forma multilaterale, lasciando però aperta la possibilità di una evoluzione concreta dell’atteggiamento da assumere, da parte di un governo di centro-sinistra davanti alla eventualità che sia necessario realizzare un armamento multinazionale. Queste sono, naturalmente, solo indiscrezioni sommarie.
La mozione che sarà approvata e resa nota domani, è un documento di importanza decisiva e sarà quindi bene rinviare un giudizio su di essa dopo un attento esame dei singoli punti.
Mentre dietro le quinte avveniva il faticoso tentativo di ritrovare l’accordo tra lombardiani e nenniani, in aula è proseguito per tutta la giornata il dibattito. Ma si trattava ormai di una rappresentazione che aveva perso mordente. I delegati che salivano alla tribuna sapevano che i loro interventi avevano scarsa consistenza ai fini di una risultanza congressuale e, d’altra parte, i loro argomenti non potevano che costituire una più o meno brillante variazione sui temi già fissati dagli oratori precedenti nella rima obbligata della linea di corrente. Hanno fatto eccezione i discorsi di Valori per la sinistra, di Santi per i lombardiani e di Cattani per la maggioranza nenniana. Il primo ha avuto spunti di aspra critica ed ha messo in rilievo l’incertezza che obiettivamente dominava ancora il congresso, affermando che nella quarta giornata il dibattito era in realtà appena aperto e tutt’altro che concluso. Ma quando Santi, più tardi, è salito alla tribuna ed ha prospettato tesi lombardiane con toni decisamente attenuati, si è capito che l’accordo tra le due tendenze della maggioranza era stato raggiunto e che quindi la polemica diveniva soltanto una enunciazione di posizioni ormai cristallizzate.
Alle 18 si è così aperta la fase delle repliche da parte dei tre leaders delle mozioni in votazione. Pertini, il grande ma applauditissimo isolato del congresso, ha proseguito imperterrito la sua polemica contro Nenni ed ha definito la relazione del vecchio leader romagnolo «una ricerca del tempo perduto». In tono veemente ha poi difeso la memoria di Turati ed ha ricordato che il vecchio maestro del socialismo non accettò l’invito di Giolitti perché non voleva fare il gendarme della borghesia contro la classe operaia. Ha concluso con un nuovo patetico appello all’unità del partito, una unità alla quale, peraltro, il senatore socialista non ha molto contribuito con i suoi interventi tutti di attacco alla maggioranza.
Più lungo e ricco di toni appassionati e spesso elevati, è stato il discorso con il quale Lelio Basso ha svolto la replica per la sinistra. Egli ha riproposto le tre condizioni invalicabili per una adesione socialista al centro-sinistra ed ha mosso duri rimproveri a Nenni: per quello che egli ha definito «un vero e proprio indirizzo opportunistico ed ormai sbilanciato su posizioni socialdemocratiche». Ha definito la diagnosi di Nenni un errore di prospettiva storica, ed ha affermato che il compito dei socialisti non è quello di difendere la gracile società borghese ma di spingere in avanti la ruota della storia. L’esponente della sinistra ha più volte messo in rilievo la dualità esistente nella maggioranza, ma ha commesso un grave orrore con il respingere sia la tesi di Nenni che quella di Lombardi, aiutando così quella ricucitura tra gli autonomisti che significa la sconfitta congressuale della corrente “carrista”. Spinto dalla sua intransigenza, Basso ha a lungo insistito nell’affermazione che l’errore fondamentale di Nenni è di concepire il centro-sinistra come scelta valida, ma non iniziato il suo discorso polemizzando con il comunista Longo e ripetendo la sua critica alla sentenza con la quale avviene nel partito comunista italiano come in quello sovietico il processo revisionistico degli errori riconosciuti nel ventesimo congresso di Mosca, critica che proprio in questi giorni è stata ammessa come valida in un documento ufficiale del PCI. Non è importante – ha detto Nenni – aver riconosciuto e denunciato i delitti di Stalin, l’importante è stabilire le cause che hanno permesso questi delitti. E i compagni comunisti questo non lo hanno ancora capito. Subito dopo il leader romagnolo ha denunciato la pesante offensiva che il PCI conduce da tempo contro il PSI, ottenendo un caloroso applauso dalla maggioranza.
Nella replica alle accuse della sinistra circa i rapporti interni del partito, Nenni ha fatto sfoggio della sua consumata abilità dialettica: del resto tutto il suo intervento è stato sulla linea di una semplicistica ed a volte perfino troppo disinvolta elementarità. E’ arrivato perfino ad accusare la sinistra di non aver saputo muovere l’attacco con sufficiente pericolosità dicendosi sorpreso di dover replicare ad argomenti troppo facili mentre era preparato a risposte più affaticate!
Rivolgendosi alla corrente di sinistra, Nenni le ha rimproverato di non aver discusso in congresso il documento economico di Lombardi, come aveva annunciato di voler fare. «Noi invece – ha esclamato Nenni – usciremo domani sera di qui con un documento altrettanto chiaro su tutti i problemi quanto è stata chiara la posizione sulla quale ci siamo presentati al congresso». Sviluppando questo concetto il segretario del PSI ha quindi implicitamente risposto alla parte finale del discorso di Basso. «Se voi della minoranza – ha detto Nenni – avete vinto il congresso io sarei ora qui a dire le ragioni del mio rammarico per la vostra vittoria; ma anche a dirvi che come militante del partito ero a vostra disposizione per fare quello che era possibile fare nell’interesse della causa comune». Ed ancora: «Se c’è qualche cosa che nell’animo mio non potrà albergare (con dico perdonare) è il peccato di orgoglio, di chi crede di avere ragione e non sa attendere che il partito gli dia ragione».
Ricordati i precedenti storici del luglio 1922, del gennaio 1933 per la Germania e del 18 aprile 1948, Nenni ha detto che il PSI ha il dovere di operare perché non si creino più le condizioni per cui quei fatti si possano ripetere. Ha respinto quindi l’affermazione della sinistra che egli non abbia risposto alla richiesta di chiarimenti avanzata dalla sinistra stessa. La corrente autonomista ha risposto nel corso dei congressi sezionali e provinciali ed ha risposto nei documenti presentati alla valutazione del congresso; risponderà domani con il documento finale che verrà sottoposto alla votazione del congresso e che dirà il senso storico della linea politica che la corrente ha proposto al partito. Dirà il programma rispetto ai problemi di struttura e della situazione congiunturale; dirà il programma rispetto ai problemi di struttura e della situazione congiunturale; dirà come per la maggioranza la condizione pregiudiziale a tutto sia l’esistenza di una volontà politica di andare avanti su una linea politica determinata.
Nenni ha quindi affrontato il problema della delimitazione della maggioranza rilevando che esso era stato esposto in modo chiaro nei documenti congressuali. «Ma, come ha detto De Martino – ha aggiunto – qui è stato posto un falso problema: esso consiste nel contestare che oggi, nella realtà italiana e nella situazione determinata dal 28 aprile, esiste una maggioranza diversa da quella da noi sostenuta. Non si tratta di respingere voti che vengano in appoggio a questa politica. Se sul programma del governo si verificassero deficienze interne nei partiti che lo sostengono, tali che – per esempio – fosse necessario il ricorso ai voti liberali, la DC non potrebbe permettere che ugualmente si andassi avanti. Questo è il senso della delimitazione della maggioranza. Se un partito si trovasse di fronte ad una rivolta dei propri gruppi parlamentari, non gli rimarrebbe altro che prendere atto della situazione e andare al congresso, ma noi non ipotizziamo ostacoli di tale natura. Tutte le maggioranze, anche in caso di vittoria elettorale del PSI, sarebbero delimitate: quando una maggioranza non pur esistere all’attacco esterno o alla usura interna essa fatalmente non esiste più. Con ciò credo di aver dato una risposta soddisfacente e realistica al problema che era stato affacciato».
Passando ai temi di politica estera, Nenni ha affermato che il problema dell’armamento multilaterale va risolto, così come è detto nella relazione di maggioranza, in direzione diversa da quella seguita finora. Il problema è d evitare che una Germania, appena liberata dalla dittatura politica ed amministrativa di Adenauer, non sia spinta verso un accordo con la Francia, verso l’armamento francese (fatto in sé e per sé già grave) perché ciò segnerebbe il sovvertimento dell’attuale equilibrio. La soluzione del problema è quella indicata dal laburisti e speriamo presto, dall’azione di un futuro governo laburista.
La parte finale del discorso di Nenni è stata quella di un leader già certo della vittoria congressuale. Così egli ha potuto parlare delle prossime trattative per la formazione del governo, non più al condizionale ma al futuro. Ed ha detto che questa volta non ripeterà l’errore del giusto di quest’anno. «Andremo alle trattative con una delegazione – ha affermato – e in pochi giorni, anche per non esporre il Paese e i partiti ad una attesa che sarebbe demoralizzante. Accerteremo se l’accordo c’è o non c’è».
Nenni ha concluso riallacciandosi al ricordo citato da Basso nel suo discorso di un dibattito svoltosi alcuni anni addietro a Milano. «Allora, a Basso che ci dava appuntamento alla fine di una lunga strada, da percorrere in una quasi orgogliosa solitudine, ior risposti, a nome di tutto il partito, che il nostro compito non era quello di dare lontani appuntamenti, ma che avevamo forze bastanti per costruire, metro dopo metro, la vita che ci poteva condurre a una più vigorosa affermazione degli ideali socialisti e degli interessi dei lavorati. Questo passaggio del partito attraverso una esperienza con le forze democratiche che vogliono accettare con noi l’impegno della integrale costruzione del nostro paese è un tratto di strada che va compiuto con coraggio e con perseveranza, perché ci avvicina alla meta del PSI e a quella di tutti i lavoratori: lo accesso pieno e intero del lavoro alla direzione della società».
Una lunga ovazione ha accolto il discorso conclusivo del segretario del PSI: ma già al suo apparire sulla tribuna i delegati della maggioranza avevano organizzato una manifestazione di entusiasmo che ha ravvivato l’atmosfera un po’ sbiadita di quest’ultima giornata di dibattito. Anche Lelio Basso, poco prima, era stato però salutato con calorosi applausi della sinistra tutta in piedi.
Così, nello spazio di pochi minuti, la sala dell’EUR aveva offerto in chiara evidenza la divisione del PSI tra i 58 per cento della maggiorana ed il 40 per cento della minoranza. Una minoranza che non è certo rassegnata e che subito dopo il discorso di Nenni ha espresso i suoi proposito di rinnovata battaglia attraverso una dichiarazione di Vecchietti.
Ma Nenni non sembra spaventarsi davanti agli ostacoli. Egli, dicono tutti, è ormai deciso a marciare e marcerà. Resta da vedere, e questo lo si vedrà domani notte o mercoledì mattina, quando di conosceranno i risultati della votazione per il comitato centrale, fino a quale punto il condizionamento di Lombardi rallenterà questa marcia, appesantendo le difficoltà delle trattative con Moro. E’ questo ancora il margine di incertezza che esiste stanotte, mentre si spengono i lumi nel grande salone dei congressi dell’EUR.
E’ l’argomento che dominerà per tutta l’attività politica nazionale domani e nei giorni successivi.
L’altalena continua (editoriale, mercoledì 30 ottobre 1963)
Se, come sostengono molti autorevoli pensatori, la filosofia del nostro tempo non può essere che quella del problematicismo, si deve ammettere che il XXXV congresso del PSI, concluso ufficialmente stasera, si è intonato perfettamente a questa attualità metafisica.
Dopo cinque giorni di dibattiti aspri, approfonditi, talvolta drammatici, il congresso socialista, al di là delle sue conclusioni formali, non solo ha lasciato aperti una serie di interrogativi fondamentali, ma ha, addirittura, con le sue stesse conclusioni, riproposto alla politica italiana altre sconcertati e contraddittori proposizioni, altri problemi, altre inquietudini.
Fedeli ad una tradizione che è ormai quasi secolare, anche in questo congresso le due antiche anime del socialismo italiano, oggi ricoperte dai veli di una più moderna terminologia politica, si sono scontrate duramente, a fondo, senza ipocrisie e senza eccessive preoccupazioni di salvare la facciata del partito. E bisogna obiettivamente riconoscere che la sinistra sul piano di una logica marxista che concepisce il mondo diviso in classi eternamente in lotta per la detenzione del potere, ha dimostrato senz’altro maggiore forza persuasiva, pur essendo, in fondo, divisa o incerta o addirittura nullista nelle conclusioni, appunto perché incapace di distaccarsi, ad onta di tutti i tentativi di differenziazione o di interpretazione, dalla piattaforma obbligata del marxismo da cui partiva.
La destra che, a ragione, nel fondo delle cose, almeno sul piano della realtà, h vinto la sua battaglia, è tuttavia apparsa incerta non solo sugli obiettivi lontani che ha preferito ignorare, ma addirittura sui nodi di arrivare a quell’obiettivo vicino che, come ha detto chiaramente Nenni, costituisce il passo al quale il PSI non può oggi sottrarsi, se non vuole perdere una occasione storica. L’incertezza della destra, durante il dibattito ed alle sue conclusioni, è stata provocata soprattutto da questo: che al realismo di Nenni, spesso indebolito dalla difficoltà del vecchio leader di spogliarsi interamente di un passato ricco di contraddizioni e di errori, si è continuamente contrapposto, e talvolta sovrapposto, il dogmatismo indubbiamente più moderno ma espresso sterile e pericoloso, di Riccardo Lombardi, che troppo di sovente sembra dimenticare la realtà e i necessari compromessi insiti in una formula di coalizione quale quella che il PSI è appunto chiamato a esperimentare.
Così al termine del congresso, e mentre si preparano i difficili giorni delle trattive per la composizione del progettato governo Moro, abbiamo davanti a noi un partito socialista diviso tra il possibilismo di Nenni e il massimalismo dottrinario di Vecchietti o moralistico di Basso; in mezzo c’è l’attivismo o azionismo programmatico di Lombardi, il quale, mirando alla posizione di leader effettivo del partito, cerca di conciliare la sinistra e la destra offrendo alla prima il suo dogmatismo intransigente e alla destra una pratico bagaglio di dirigismo integrale da usarsi in questo prossimo centro-sinistra, che Nenni stesso considera solo la prima tappa di un viaggio verso maggiori conquiste.
Ed ecco, dunque, che, anche sul piano pratico, mentre la grande disputa ideologica all’interno appare destinata a continuare all’infinito, il PSI, al termine del congresso, offre una risposta tutt’altro che definita e probante e che in verità si presenta come una piattaforma assai fragile per il governo che Moro si appresta a costruire.
La composizione del comitato centrale ed il testo che ha riscosso la maggioranza di voti del cinquantotto per cento circa, sono i due elementi in cui le perplessità e le confusioni, scaturite dalla situazione che abbiamo delineato, trovano ampia conferma. Nenni ha potuto ottenere la sua vittoria congressuale pagando un alto presso a Lombardi; nel nuovo comitato centrale dei 59 seggi della maggioranza 15 sono andati ai “gregoriani” e ciò significa che, ogni volta che Lombardi vorrà fare prevalere le sue tesi, potrà minacciare di unire i voti dei suoi fedeli a quelli della sinistra per mettere in minoranza gli autonomisti.
In quanto al testo della mozione vittoriosa, e in cui sono contenute le condizioni alle quali il PSI dovrà attenersi nelle trattative con la Democrazia Cristiana, Nenni è riuscito, è vero, a fare prevalere molti dei suoi punti di vista, ma spesso ha dovuto giocare s’astuzia e di ambiguità nella formulazione del testo, cosicché il documento che ne risulta è anch’esso carico di contraddizioni e, in qualche parte, assolutamente inaccettabile, per chi non voglia giocarsi al tavolo di una contingenza politica, principi fondamentali e irrinunciabili di ogni vera democrazia. Tutte le enunciazioni in materia di politica economica, ad esempio, risentono fortemente di quella impostazione lombardiana che tanti allarmi ha già suscitato e che nel suo astrattismo sembra completamente dimenticare il momento gravissimo in cui si muove oggi l’economia del nostro Paese. La totale subordinazione dell’iniziativa privata alle finalità sociali propugnata nel documento, se non è ancora lo statalismo integrale chiesto dalle sinistre, è tuttavia un passo decisivo verso quella strada.
Anche in materia di politica estera l’accettazione dell’atlantismo è viziata dalla riaffermazione del principio neutralistico e dalla opposizione preconcetta ad attuazioni che dalla politica atlantica derivano. Per quanto riguarda i rapporti con i comunisti, punto cruciale dell’intera situazione, Nenni è riuscito a superare l’istintiva ribellione di una gran parte del partito, che questi legami sente con la forza di abitudini e sentimenti duri a morire, ma ha dovuto racchiudere la formula della delimitazione della maggiorana, suggerita da moro, in un involucro di parole bastanti a togliere ogni valore di differenziazione effettiva e programmatica. Così quel distacco del socialisti dal partito comunista, che la democrazia italiana si augurava e che per molti doveva essere uno degli obiettivi fondamentali di una pericolosa collaborazione con il PSI, è rimasto per strada.
In molte altre parti il documento degli autonomisti presenta, accanto a qualche punto positivo, ambiguità e sfumature preoccupanti, ma questo è un discorso sul quale si dovrà tornare spesso nei prossimi giorni. Quello che ci pare opportuno sottolinear stasera, mentre si spengono le ultime luci del palazzo dell’EUR in cui il congresso socialista ha vissuto cinque intense giornate, è che da questa vicenda di indubbia rilevanza politica escono, accanto a qualche indicazione positiva (il fatto stesso che la maggioranza socialista abbia finalmente rimosso certe sue pregiudiziali e antiche opposizioni ad ogni contatto con la democrazia e con i partiti non classisti che ne sono al centro è un fatto di innegabile importanza), anche molte ragioni di rinnovati dubbi e problemi che appaiono di assai difficile soluzione.
Il concluso congresso avvia alle trattative con Moro un partito carico di ipoteche e di pretese: all’altra parte lo attende una Democrazia Cristiana a sua volta gravata da naturali preoccupazioni e frenata da fortissime resistenze. Prevedere trattative laboriose e sospese al filo della massima incertezza è pronostico fin troppo facile. Ma è anche l’unico possibile.
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