2 giugno 1946 - 2021. L’Italia patria repubblicana: da Mazzini e Cattaneo a Parri, Lussu e La Malfa. E Titino Melis
di Gianfranco Murtas
Celebro la Repubblica italiana che viene da una storia complessa e contraddittoria, sofferta e, in talune stagioni – come nel ventennio di dittatura -, stracciata ed offesa. I suoi ordinamenti germinano nel Risorgimento liberale unitario e da quel 2 giugno, in superamento finalmente e del fascismo e della guerra, vanno agli studi e alle delibere della Costituente aprendo una nuova pagina di storia: quella della progressiva integrazione continentale – polmone di pace per il mondo, per la libera mobilità di tutti e lo sviluppo delle produzioni –, nonostante resistenze ed attentati, secondo il profetico sogno mazziniano della Giovane Europa. Gli apostoli della democrazia, da Giuseppe Mazzini e Carlo Cattaneo – per tanti versi e con intensità accosti alle sorti nostre di sardi – hanno seminato e faticato per noi. Così gli antifascisti come Cesare Pintus e Fancello e Siglienti e altri mille e diecimila o centomila perseguitati e resistenti. Così i deputati costituenti delle diverse correnti, e così i nostri Lussu e Mastino e gli azionisti e i repubblicani, minoranze sempre con la lanterna in mano per il loro e l’altrui passaggio. Le nostre ultime generazioni – confuse e diseducate dal nulla siderale, sul piano dei valori patriottici e sul piano del senso dello Stato, delle varie formazioni vocianti nelle piazze (e nelle istituzioni!) come truppa di dell’Utri e Berlusconi e Previti e degli inverecondi buu, nell’aula di Palazzo Madama, alla Levi Montalcini e al presidente Ciampi, come truppa della scombinata improvvisazione umorale grillina o teorica della bandiera scaduta a panno per il cesso e salmodiante attorno all’ampolla del dio Po – dovrebbero poter gustare la dignità dell’opera dei padri della patria, operai della democrazia. Senza retorica, soltanto con un recuperato o finalmente conquistato senso morale della storia.
Repubblica. Con lo stesso animo abbiamo combattuto, mettendola in primo piano, la battaglia per la Repubblica, individuando in essa la premessa essenziale per la creazione dello stato autonomistico. Abbiamo lottato fieramente contro corrente, contrastando la tradizione del feticismo servile verso i Savoia, la prevenzione morbosamente agitata dinanzi alla credulità femminile dello squassamento anarcoide di tutta la vita civile che la vittoria repubblicana avrebbe dovuto determinare: abbiamo portato sempre chiaro e forte il linguaggio della nostra coscienza, sacrificando decine di migliaia di voti, resistendo contro la propaganda dei Sacerdoti e delle organizzazioni religiose in pro' della Monarchia e contro il silenzio subdolo dei candidati della democrazia cristiana e, purtroppo, anche di candidati di altri Partiti, teoricamente repubblicani.
Il nostro Partito ha compiuto per intero il suo dovere: dovunque abbiamo avuto la maggioranza dei voti, ivi ha vinto la Repubblica; dovunque le forze reazionarie, che sostengono il passato e riprendono la tradizione ed i metodi delle vecchie cricche, hanno prevalso, la monarchia ha potuto raccogliere i suffragi determinati dalla corruttela, dall'oscurantismo, dalla sopraffazione.
Salutiamo la nascente Repubblica con animo commosso e forte: la libera bandiera della Patria, più cara per il travaglio sanguinoso da cui è risorta, sia segnacolo di amore tra i figli affratellati nelle conquiste di giustizia e libertà.
(Giovanni Battista Melis, circolare di convocazione dell’VIII congresso del PSd’A per l’aprile 1947)
Un referendum per la nuova Italia
Giuseppe Omarini, il direttore dell'Isola, "quotidiano fascista della Sardegna" stampato a Sassari, non ammaina la bandiera dopo il 25 luglio 1943, quando il giornale pur deve mutare la sua sottotestata in un più defilato "quotidiano politico della Sardegna". No, lui - e così i suoi redattori - non cambia casacca e piuttosto, della divisa che indossa, come direttore, dal 1940, opportunamente valorizza la trama filosabauda invece di quella fascista.
La monarchia per lui rappresenta il fattore di continuità storica, morale e costituzionale del Paese ancora immerso nel gorgo della guerra. «Gravi eventi sono maturati nel breve spazio di tre giorni: gravi eventi annunciati dall'augusta voce del Sovrano e dalla ferma voce del Soldato che Egli ha chiamato a collaborare, e di fronte al loro incalzare abbiamo per tre giorni serbato il silenzio. Un silenzio che non era di prudente attesa ma piuttosto di autodisciplina: davanti al nobile proclama del Re, all'appello del Maresciallo Badoglio, alla gravità dell'ora ci è parso che il più serio e responsabile commento fosse l'obbedienza... pure questa, che è la più sostanziale forma di partecipazione alla bisogna che il tempo impone, non può restare non confermata dalla parola», scrive nell'editoriale titolato "Italia", che esce il 28 luglio.
E aggiunge: «Mentre il nemico calpesta il nostro suolo, mentre crollano le nostre città sotto la più crudele offesa nemica, la Maestà del Re Imperatore [...] ha assunto il comando e la responsabilità; Egli ha chiamato a coadiuvarlo nel colossale compito un Soldato e nobilmente questo Soldato ha iniziato la sua opera chiamando la Milizia ad affiancare l'Esercito, mettendosi al di sopra di ogni dissenzione.
«Ebbene: nel nome del Sovrano, mentre la Patria traversa un'ora terribilmente decisiva la nostra strada, la strada di tutti non può essere che una sola: quella disciplina di cui [...] vuol prendere nel nostro cuore e sulla nostra bocca forma ed anima viva di atto di fede».
E più oltre: «Non solo oggi ma in ogni momento il Sovrano ed il nome Sabaudo sono stati per tutti gli Italiani l'incarnazione della Patria: della Patria che i Savoia hanno costruito traverso i secoli [...]. Re ed Esercito sono per noi tutti la realtà alla quale il pensiero si inchina: il Re supremo simbolo e volontà della Patria, l'Esercito che, presidio del popolo, deve essere sempre la meta cui si volge l'occhio. Noi vogliamo che sia salva la vitalità della Patria; dobbiamo salvare il nostro onore; la parola d'ordine è una sola: Italia!... Viva l'Italia, Viva il Re!».
Sono motivi, questi, che il direttor Omarini replica quasi ogni giorno, per una settimana di seguito. L'ultima delle sue rinnovazioni di fedeltà ai valori coltivati lungo tutta una vita è nell'articolo "Linea di condotta", che apre il giornale del 5 agosto. La monarchia (e con essa l'esercito) è, ai suoi occhi, l'istituzione più impegnata nello sforzo di salvare la Patria da un nemico potente. Scrive infatti: «quanto alla Monarchia non solo per noi ma per tutti, dagli albori del sorger dell'Italia a Nazione è stata ed è rimasta Italia al di sopra di ogni idea di governo e politica. Ogni italiano animato d'amor patrio vi si inchina dopo che anche il repubblicanesimo garibaldino le rese omaggio.
«In ogni tempo della nostra storia la Monarchia è stata il luogo ideale di consistenza delle necessità supreme della Patria, essa ha avocato a sé la responsabilità delle grandi decisioni al di sopra di tutto e di tutti. Essa è l'idea pura, della Patria che vive, in ogni idea patria vestita di concezione politica, la sua espressione in essenza». Un linguaggio involuto, ma coerente alla sostanza dell'assunto.
Il nemico è in casa; l'Italia, «nome perenne al di sopra di ogni eccezione», deve vivere: per questo «occorre difenderla raccogliendosi attorno a un Comando, ma un Comando così al di sopra di tutto ciò che è personale che ognuno possa subordinarvisi senza abdicare alla sua persona ed alla sua dignità». Fuor di metafora: «Quella difesa è l'Esercito, quel comando la Monarchia».
È - s'è detto - il "canto del cigno" di direttor Omarini, ora sostituito, per volontà del Comitato provinciale di concentrazione antifascista, da Arnaldo Satta-Branca, che manterrà sempre una sua gelosa autonomia dalle forze dell'eptarchia regionale e locale, ma assicurerà comunque un chiaro indirizzo repubblicano alla testata, in attesa della risurrezione della Nuova Sardegna...
La gerenza del quotidiano di Cagliari, invece, l'ha avuta fin dall'inizio, cioè dalla ripresa delle pubblicazioni, nel novembre 1943, il CLN la cui segreteria è affidata al socialista Jago Siotto, direttore anche del giornale. Così almeno fino al marzo 1944, quando cede e l'uno e l'altro ufficio (rispettivamente al suo compagno di partito Giuseppe Musio ed al gielle-azionista Cesare Pintus).
L'episodio che ha causato l'avvicendamento merita una rilettura proprio perché esso ha nel giudizio sulla monarchia - e quindi sul futuro istituzionale del Paese - il suo motivo scatenante. Con l'editoriale "Bari e Oristano" del 20 febbraio 1944, Siotto ha inteso chiosare i commenti di Giuseppe Musio e Mario Berlinguer ai due convegni dei CLN, rispettivamente del centro-sud liberato e della Sardegna. La censura militare, agli ordini dell'Alto Commissario, ha però colpito per ben cinque volte le considerazioni del direttore de L’Unione Sarda, che risponderà con un testo di rara nobiltà («... E insorgo e protesto e proclamo che non intendo ubbidire e che non obbedirò a pressioni e ad imposizioni, perché la libertà, e, se più Le piace - scrive al gen. Pinna—, le concrete libertà [ ... ] non possono essere, non sono, non saranno mai gratuite elargizioni di sovrani e di governi, ma dure conquiste di cittadini»).
Ma quali sono state le argomentazioni di direttor Siotto che hanno tanto disturbato l'ufficio della censura militare?
Dopo aver ricordato, che, secondo la mozione finale votata a Bari, «le condizioni attuali del Paese» non consentivano «la immediata soluzione della questione istituzionale» ed aver ribadito la «perfetta identità di pensiero tra gli antifascisti sardi e i congressisti di Bari», egli ha riconosciuto che, data la premessa, «nell'ipotesi dell'abdicazione di Vittorio Emanuele III [...] nessuna opposizione troverebbe il principe Umberto a diventare Re». «Ma - ha subito aggiunto - la posizione personale di Vittorio Emanuele III è stata dal Congresso nettamente separata da quella della monarchia». Il sovrano è stato infatti indicato quale «responsabile delle sciagure del Paese». Se, dunque, per le decisioni circa l'istituto monarchico si imponeva una sospensiva (esse competeranno «a tutti gli italiani, quando avranno riacquistato la libertà e l'indipendenza»), diverso era per l'abdicazione del re, ritenuta «una improrogabile necessità e - per l'articolista - un'esigenza storica».
Cosicché più si faceva stringente il j'accuse al monarca, più ritmavano i tagli della censura... Da qui la reazione del giornalista attraverso la formula dell'editoriale-lettera aperta ("Difendo la libertà"), uscita il 22 febbraio, e preannuncio delle dimissioni.
Il suo successore addolcirà l'impostazione politica del giornale, glissando sulla questione istituzionale e volgendo in senso piuttosto morale e sentimentale il furore ciellenista di Siotto: «dobbiamo ridare al nostro Paese una vita nuova che vigoreggi e s'ingagliardisca di un concorde ed incessante sforzo a tutti comune ed accetto, inspirato senza stanchezza ad un senso sempre presente di rettitudine e di bontà» (così nell'editoriale "All'opera" del 22 marzo).
Queste, nei giornali quotidiani di Sassari e di Cagliari, le remote premesse della svolta del giugno 1946.
Le premesse sarde della svolta istituzionale
Fra 1945 e 1946 - dai giorni e dalle settimane del secondo governo Bonomi all'esperienza del ministero Parri, all'indomani della liberazione del nord del Paese, fino alla presidenza De Gasperi, a capo di un esecutivo che finalmente può adempiere agli obblighi democratici della convocazione dei comizi amministrativi e politici - i partiti prendono tutti posizione anche in Sardegna, ed i loro giornali non avareggiano nel prospettarne gli indirizzi ideologici e programmatici. In tale contesto, l'opzione monarchica o repubblicana è - dove più dove meno - al centro delle riflessioni dei vari commentatori. Ad iniziare dal Solco sardista che, nel primo numero della sua nuova serie, il 4 marzo 1945, ospita un articolo di Salvatore Cottoni titolato "Perché siamo repubblicani".
Così, fra l'altro, si esprime il giovane dirigente del PSd'A di provenienza azionista: «Il Partito Sardo d'Azione consacra nel suo programma la pregiudiziale repubblicana e la considera premessa indispensabile per una radicale trasformazione della struttura politica-amministrativa dello Stato in senso autonomistico; viene abbandonato così quell'atteggiamento agnostico che il nostro partito ebbe al suo nascere nei confronti del problema istituzionale». E più oltre chiarisce che «solo risolvendo il problema istituzionale in maniera radicale e rivoluzionaria, abbattendo le consorterie militari ed il conservatorismo sociale e smobilitando le industrie parassitarie del settentrione saranno poste le basi della nuova repubblica federale italiana».
Pur nell'occasionalità che l'ha determinato, non è meno significativo il messaggio inviato da Luigi Battista Puggioni, direttore regionale del PSd'A, ad Emilio Lussu allorché il CLNAI, fra aprile e maggio 1945, sollecita le dimissioni del governo Bonomi al fine di allargare la guida politica del Paese alle forze democratiche del centro-nord: «Nella imminente revisione dell'indirizzo politico del Paese oggi interamente libero pregoti assumere la piena rappresentanza delle aspirazioni del nostro partito esprimendo la volontà del popolo sardo per la sua autonomia in uno stato federale e la sua profonda fede repubblicana sempre animata dal grande spirito di Giuseppe Garibaldi che dallo scoglio di Caprera vigila sui destini della rinascente Italia. Viva l'Italia libera e repubblicana! Viva la Sardegna autonoma!».
Se gli autonomisti del PSd'A, al pari delle altre sinistre, hanno fatto la loro scelta senza tentennamenti - altro sarà comunque, alla conta referendaria, l'effettivo allineamento dei singoli elettorati alle direttive dei rispettivi vertici politici - nel mondo cattolico anche isolano prevale, da subito, l'orientamento della non-scelta. Ognuno faccia come crede, l'importante sarà assicurare, nel voto politico, il suffragio alle liste democristiane, dalle quali soltanto è da attendersi l'impegno alla salvaguardia, nell'ordinamento in fieri, delle guarentigie religiose.
Chiaramente rivelatore di tale impostazione appare l'articolo "Monarchia o repubblica?" che Enrico Sailis pubblica sul Corriere di Sardegna del 30 settembre 1945. Egli scrive: «Il dilemma ormai esiste nella coscienza del popolo italiano. È perfettamente inutile indagare se un tal dilemma sia legittimo, morale e politico. Giuridicamente le istituzioni non sono eterne, e, comunque, di esse si può sempre chiedere se hanno soddisfatto, e se soddisfano attualmente alle esigenze di un normale e fecondo funzionamento del meccanismo istituzionale».
Anche sul piano strettamente giuridico - sostiene l'articolista, professore di diritto costituzionale all'Università, nonché membro della Consulta Regionale - «s'impone la ricerca della rispondenza del mezzo al fine. Nel caso specifico, la questione riguardante il mantenimento della monarchia o l'instaurazione della repubblica non ha soltanto carattere sociale, morale e politico, ma profonda significazione giuridica, posto che il diritto è un aspetto sostanziale della vita umana, a questa deve il diritto stesso adeguarsi, e di questa dev'essere, anzi, nient'altro che un'espressione sincera e decisa».
Oltre ogni esasperazione ideologica, è evidente come il problema istituzionale sia scaturito «dallo svolgersi e maturarsi degli eventi tragici che - scrive Sailis - noi viviamo». Da cui sorge, preliminare, l'interrogativo se questi siano da imputarsi agli uomini oppure alle istituzioni. È necessario rifare un po' di storia per recuperare i termini elementari ed essenziali del problema: «certo è che la questione della monarchia e repubblica fu decisamente posta fin dall'ottobre 1922. Stato d'assedio rientrato e chiamata di Mussolini a formare il Gabinetto costituiscono, con tutti gli annessi e connessi, elementi indistruttibili di valutazione costituzionale e di politica responsabilità. Il Re stesso, si può dire, pose al popolo e alla storia l'interrogativo istituzionale. Successivi avvenimenti scandirono e maggiormente imposero il quesito che oggi attende una soluzione serena, sincera, responsabile. Ma, ripetiamo, il dilemma prospettato e imposto dal "fatto" della rivoluzione fascista, riguarda soltanto la persona del Re e magari di suo figlio, od anche la stessa attuale organizzazione dell'organo supremo dello Stato?».
Dal punto di vista strettamente politico, la valutazione da compiersi - che però ancora una volta l'articolista propone al suo lettore ma da cui egli si astiene - tocca pressoché esclusivamente l'esistente, dunque la monarchia e non la repubblica (soltanto eventuale): «La monarchia, un re, una casa regnante si reggono soltanto quando sono per il popolo razionali e sentimentali, quando cioè soddisfano, del popolo, la ragione e il sentimento. Il sentimento non meno della ragione [...]. Una volta distrutti, o semplicemente allentati i rapporti sentimentali del popolo nei riguardi della monarchia o di quelli che la incarnano, ogni tergiversazione è inutile e dannosa. Il dilemma personale o istituzionale che sia, va risolto con i sistemi più idonei prescindendo persino dalla giustizia».
Ma in Italia ora «si chiamano a voce i responsabili» della tragedia in corso. Il dilemma, dunque, assume anche uno specifico aspetto morale: «Guai quando questo malessere invade la sfera dei rapporti fra Re e cittadini, fra istituzione e popolo! Non solo saggezza politica, ma anche necessità impone che il popolo, portatore di questo malessere, risolva esso stesso, nell'interesse comune, presente e futuro, l'assillante ed incombente dilemma. E lo risolva in qualsiasi modo. Purché liberamente e sinceramente!».
Di taglio parimenti agnostico, nella sostanza, è l'articolo di Francesco Cocco-Ortu "Costituente e referendum", apparso il 22 ottobre 1945 su Rivoluzione Liberale. Le riflessioni esposte solo alte o altissime, ma... non concludono. La coesistenza nelle sezioni del PLI di monarchici (in prevalenza, soprattutto nell'interno dell'Isola) e di repubblicani consiglia di evitare, forse ancor più che nella DC, una pronuncia troppo esplicita. L'affidamento di ogni decisione al popolo elettore convocato a democratico referendum esonera la dirigenza del partito dall'esplicitare imbarazzanti propensioni dei singoli... «Il Partito Liberale ancora una volta è onestamente se stesso», conclude, il leader sardo del PLI, argomentando ai "bordi del campo".
I liberali dopo i sardisti e i democristiani
Non granché più esplicito circa la non-scelta liberale, ma certamente espressivo dell'humus culturale e degli schemi mentali affermatisi nel liberalismo italiano e sardo, è l'articolo "Questa sinistra" che lo stesso Cocco-Ortu pubblica, sempre sul settimanale che dirige, il 28 aprile 1946, e cioè all'indomani del congresso nazionale del PLI: «Il Partito Liberale Italiano non si è mai diviso su questioni sostanziali [ ... ] tra due correnti da catalogare sotto le ormai rituali etichette di "destra" e di "sinistra" [...]. Il dissenso fu invece, e può dirsi dalla costituzione del Partito, tra una esigua minoranza e la maggioranza su due questioni: la questione istituzionale e la politica del CLN.
«Su la questione istituzionale una minoranza esigua pretendeva che il Partito si dichiarasse senz'altro per la repubblica, mentre la maggioranza (comprendente monarchici e repubblicani) sosteneva essere il problema base quello della scelta tra lo stato liberale e lo stato totalitario e che, di fronte a questo bivio fondamentale, quello della forma istituzionale fosse secondario e che a un italiano, alla fine della esperienza dittatoriale fascista, non fosse tanto da domandarsi se fosse monarchico o repubblicano quanto se fosse ancora per lo stato totalitario o per la democrazia liberale, realizzabile ugualmente con il capo dello stato ereditario o con il capo dello stato elettivo, secondo l'esempio delle grandi democrazie anglosassoni».
Il PLI - per il suo leader isolano - «resta quello che era: Partito della libertà senza aprioristiche fobie e aprioristiche filie in alcun campo, intransigente portatore di una istanza di democrazia e di emancipazione umana attraverso le libertà democratiche ed uno spregiudicato ma meditato riformismo».
Ad evidenziare lo stretto, inscindibile nesso fra democrazia e repubblica sono, alla vigilia del voto referendario, oltre ai sardisti (o all'area sardista-azionista, in qualche modo includente pure il PRI, lo storico partito della repubblica), le forze della sinistra di classe, tanto quella socialista quanto quella comunista.
Così i socialisti ed i comunisti
Nel supplemento elettorale di Sardegna Socialista, che esce ad Iglesias il 10 maggio ("Verso una costituente democratica e repubblicana") colpisce il richiamo insistente al magistero mazziniano: «Per quasi un secolo la Nazione fu organizzata dallo Statuto, elargito da un re e non conquistato dal popolo; divenuto ormai anacronistico e calpestato da quella stessa monarchia che l'avrebbe dovuto fedelmente osservare e validamente difendere. Noi oggi ci ricolleghiamo alle ideologie dei precursori del nostro Risorgimento e alle istruzioni dettate nel 1831 da Giuseppe Mazzini per gli affratellati nella Giovine Italia. Egli allora scriveva: "La Giovine Italia è repubblicana, perché teoricamente tutti gli uomini di una Nazione sono chiamati, per la legge di Dio e dell'Umanità, ad essere liberi, uguali, e fratelli; e la istituzione repubblicana è la sola che assicuri questo avvenire, perché la sovranità risiede essenzialmente nella Nazione, perché dovunque il privilegio è costituito a sommo dell'edificio sociale, vizia l'uguaglianza dei cittadini, tende a diramarsi per le membra, e minaccia la libertà del paese, perché dovunque la sovranità è riconosciuta esistente in più poteri distinti, è aperta una via alle usurpazioni..."».
Ancora l'Apostolo repubblicano: «"Nessuna rivoluzione politica può farsi legittima e riuscire a buon porto se non modifichi gli ordini sociali, e non inizii alla vita nazionale una classe di uomini fino a quel giorno diseredati: dove nol faccia, crea irrevocabilmente la necessità di una nuova rivoluzione dopo un lungo intervallo di tempo e una sorgente di perenni contese civili in quell'intervallo". Le due riforme, politica e sociale - conclude mazzinianamente il giornale socialista -, sono quindi concatenate e ciascuna di esse deve coesistere coll'altra».
Ma se alla repubblica i socialisti arrivano attraverso la riscoperta mazziniana, altra è la strada seguita dal PCI: quella dell"ecumenismo" sociale che apparenta, sullo stesso fronte del lavoro, le masse cattoliche e quelle socialcomuniste.
Così, nell'articolo "I lavoratori cattolici voteranno per la repubblica", che a firma di Girolamo Sotgiu esce, il 2 maggio, sul Lavoratore, la scelta repubblicana che la DC ha operato nel suo recente congresso nazionale (ma che sarà presto, di fatto, svuotata di contenuti) lascia sperare in «eventuali orientamenti futuri», cioè in convergenze e collaborazioni fra l'area cattolica e quella di classe.
Oltre «il denominatore comune del confessionalismo», infatti, non è credibile che la militanza e il più largo elettorato democristiano, costituiti da «lavoratori e grossi industriali, braccianti agricoli, piccoli proprietari terrieri e grossi feudatari pastori e armentari», non consentano alla parte più avanzata del partito, stanca della «retorica anticomunista», di lottare, appunto con le sinistre, «su un terreno di riforme e di rinnovamento [...] che dall'abolizione della Monarchia può andare sino alla liquidazione del latifondo».
Così come per i socialisti versione mazziniana, pertanto, anche per il PCI questione politico-istituzionale e questione sociale si saldano intimamente.
Approssimandosi ulteriormente la conta referendaria, è forse dal fronte sardista - da quello cioè che, apparentemente, si sarebbe ritento il meno coinvolto nella strategia delle istituzioni romane - che l'istanza repubblicana incontra maggiori consensi e una più decisa spinta anche propagandistica: «la coscienza nazionale e popolare - questo fattore psicologico e collettivo che crea la storia - s'è già pronunziata per la repubblica. Il 2 giugno, senza proroghe, consacrerà questo fatto decisivo per il popolo italiano», scrive Il Solco nel suo editoriale (anonimo ma certamente attribuibile al concerto, all'idem sentire dei fratelli Melis) del 2 maggio, titolato appunto, semplicemente, "La Repubblica".
Non c’è sardismo senza sentire repubblicano
L'auspicio è di un largo scarto numerico fra i fautori delle due tendenze: «la trasformazione istituzionale dello Stato non si può fare saldamente con una lieve maggioranza: una grande maggioranza è necessaria, affinché i cittadini messi in minoranza accettino il fatto compiuto e riconoscano come legittima, di pieno incontrastato diritto, la sovrana volontà della Nazione».
Il PSd'A ritiene la repubblica «la sola forma istituzionale che potrà far risorgere il Paese»; da sempre esso - scrive l'editorialista - «denunziando l'assolutismo monarchico travestito in abito liberale, corruttore della democrazia e arbitro della vita dello Stato [...], poneva nella repubblica l'avvenire della Sardegna e di tutta l'Italia. Era un piccolo partito animato da profonde esigenze di rinnovamento, annunziatore di civiltà e di vita moderna, portatore di libertà, ben più di taluno fra i grandi partiti, che nella stessa sua grossezza rivelava allora immobilità e decadenza. Noi sentimmo di essere stati e di essere oggi fedeli alle nostre origini».
E più oltre, con specifico riferimento all'istanza autonomistica alla base dell'esperienza storica del sardismo: «La repubblica non sarà tutta la nostra casa nuova, ma costituirà le fondamenta di essa. Senza fondamenta non c'è casa, senza repubblica non c'è possibilità alcuna di vita nuova [...]. Una repubblica democratica in cui la libertà sia mezzo e fine; in cui sia consentito, nell'ambito della legge liberamente voluta dalla maggioranza, emancipare il lavoro da ogni oppressione e liberare la società dall'incubo del bisogno; in cui non possano sussistere le strutture di ingiustizie e di tirannide organizzate, delle quali l'amministrazione centralizzata costituisce una delle più intollerabili vessazioni, uno dei più dannosi impedimenti di ricostruzione».
Soltanto pochi giorni più tardi i Quattro Mori emanano il loro "appello al popolo sardo" (cf. Il Solco del 23 maggio), nel quale, ancora una volta, appaiono l'uno come interfaccia dell'altro gli ideali repubblicani, autonomistici e democratici: «solo nella Repubblica è la libertà», «solo nella Repubblica è possibile l'Autonomia».
L’appello al re di maggio
Intanto, diffuso dalle forze politiche della sinistra socialcomunista e repubblicana, passa di mano in mano, anche in Sardegna, il seguente appello ad Umberto Il, re da appena pochi giorni:
Maestà,
Tra re e popolo v'è un patto sacro: il vostro genitore lo giurò.
In nome di quel patto il popolo italiano nel lontano '14 difese la sua libertà ed i principi della costituzione, giurata da vostro padre. Per questo sono morti seicentomila italiani; per questo seicentomila italiani hanno fatto olocausto della loro vita e... Trieste fu liberata.
Non vogliamo recriminare la infame politica liberticida del vostro genitore. Non vogliamo rinvangare i fasti e i nefasti della vostra Casa, da Carlo Alberto a Vittorio Emanuele III. Vogliamo semplicemente parlarvi con cuore alla mano, nella speranza che comprendiate qual è la vostra vera posizione.
Sire,
Anche voi, come tutti noi, siete figlio di questa povera Italia martoriata. Nessuno meglio di voi, quindi, può comprenderci. Non vogliamo umiliare nessuno, vogliamo semplicemente da italiani a italiano, per amore fraterno, per carità di Patria, che anche il più testardo ragioni e comprenda.
Non siamo, Sire, per rimproverare a voi e al vostro genitore le nostre città massacrate, i nostri focolari distrutti, i nostri fratelli morti nel fiore degli anni, al solo scopo di combattere per una causa mostruosa che doveva, in definitiva, dare altre due corone ad un imbelle pazzo senile e molte catene in più, al popolo Italiano. Siamo per gettare le basi d' una ricostruzione, dopo l'apocalittica distruzione materiale e morale, voluta dal re d'Italia complice di Mussolini.
Per questo vi diciamo: vostro padre giurò alla Costituzione ma permise nel suo sogno di demente che questa venisse strappata in faccia al popolo Italiano. Questo forse è stato sempre il sogno della vostra Casa dopo che Carlo Alberto fu costretto suo malgrado, e nonostante il massacro dei patrioti torinesi dell'820, a concederla.
Questo sperava, forse, di realizzare nella sua follia quell'uomo che di re non ebbe altro che il nome; ma al quale mancarono il cervello e la spina dorsale.
Per poter fare questo ha permesso all'avventuriero Mussolini di sospendere sulla testa di ogni cittadino la spada di Damocle; per questo ha permesso che il criminale di Predappio atterrisse un popolo libero con la sua guarnigione nera di trecentomila sicari; per questo in suo nome, ed in soli quattro anni (tanto per dire un particolare), ne furono distribuiti settemila in prigione a dimostrazione che i Savoia avallavano l'affermazione del loro manutengolo: «La libertà è un cadavere putrefatto».
Tutto questo per realizzare un tirannico sogno, a costo di trascinare il paese alla rovina attraverso un letargo politico fra i più umilianti creata ad arte per poter assassinare Matteotti e Gramsci, schiaffeggiare Toscanini, estorcere confessioni dai prigionieri, con la tortura.
Sire,
Quando un re viene meno al patto col popolo, compie il più turpe dei tradimenti, e per questo deve perdere la corona per sé e per i suoi successori, poiché anche la sua razza è macchiata d'infamia, e il suo nome coprirebbe di fango il buon nome del popolo!
Sire,
Vostro padre ha tradito e per questo voi non siete il nostro re, ma un intruso e la vostra famiglia non è gradita fra le nostre!
Anche voi se avete un briciolo di comprendonio, e se possedete ancora un atomo di onestà ne dovete convenire!
Vostro padre ha realizzato l'ultima fuga, sappiate che lo accompagnano la maledizione di tutte le madri italiane e il grido di giustizia di tutti gli innocenti morti per sua colpa!
E voi che fate? del resto è risaputo che non siete una candida colomba!
Ricordate i bei tempi delle varie visite al duce, al covo, alla casa del fabbro di Predappio?
Ed infine non siete stato voi ad affermare che la guerra non era stata voluta da vostro padre, ma bensì dal popolo italiano?
Sire,
È il popolo che vi parla! Quel popolo che costretto fu a finanziare suo malgrado una guerra, a farla contro volontà e a subirne le conseguenze disastrose. Questo popolo ha innato in sé il senso del perdono; ma non sa dimenticare, perché non è un popolo di imbecilli. Vi dice:
Andate, andate via con tutti i vostri prima che sia troppo tardi!
Perché attendete il resoconto d'un referendum che non potrà essere altro se non contrario alla vostra famiglia e a voi?
Allontanatevi Sire, è nell'interesse non solo nostro ma anche loro, portate via quegli aguzzini mangia pane a tradimento di alcuni generali e colonnelli, che hanno preparato e voluta a tutti i costi la rovina del popolo italiano.
Viva la Repubblica! Viva l'Italia Libera!
Fuori i Tiranni! Morte al Fascismo!
La Monarchia vi promette oggi come ieri: Guerra e Carestia!
La Repubblica democratica vi offre: Lavoro, Libertà e Pane!
Umberto e la Vandea sarda
La prima ondata - scrive nel suo editoriale firmato "Remember" il settimanale qualunquista di Cagliari ("giornale indipendente" nella sottotestata) il 26 maggio 1946 - «è stato l'avvento al potere del CLN: la marcia su Roma dell'antifascismo. Se voi voterete per la Repubblica voi avrete la "seconda ondata": il 3 gennaio dell'antifascismo.
«"La repubblica sarà socialista e non sarà!", ha gridato Nenni [...], è il vecchio socialismo massimalista, strettamente legato al comunismo bolscevico, tendente alla fusione. Quale costituzione avevano elaborato in Francia le sinistre? Una costituzione in cui la maggioranza alla Camera era padrona assoluta del paese, una maggioranza che nominava i ministri o dinanzi a cui i ministri erano responsabili. La libertà di stampa sottomessa all'arbitrio del Governo. Limitazione gravi al concetto di proprietà. Nessuna garanzia per le minoranze; nessun potere, al di sopra della unica Camera sovrana, che potesse equilibrarne l'azione di Governo. Via libera al bolscevismo.
«Se questa costituzione hanno elaborato le sinistre francesi che pure dovevano sottoporsi al referendum popolare, quale costituzione mai verrà elaborata in Italia dove il governo del CLN è riuscito a fare a meno di questo incomodo? [ ... ]. Il popolo italiano non potrà che tacere sotto il bavaglio che la legge elettorale del Governo del Comitato Liberazione Nazionale gli ha applicato. Non dirà né Sì né No. E forse, la votazione del 2 giugno sarà l'ultimo atto compiuto in libertà dal popolo italiano.
«Soltanto un potere legale che sovrasti alla Costituente potrà salvarci da questo pericolo: la Monarchia. Solo essa potrà dare prestigio alle minoranze, potrà proteggerle, potrà impedire ad una maggioranza parlamentare di impadronirsi del paese. Oggi la Monarchia non ci appare come una forza reazionaria ma come presidio supremo dell'ordine e della libertà. Soltanto la Monarchia potrà sbarrare la strada alla "seconda ondata". Votate per la Repubblica e avrete il "terrore alla Marat" che Nenni invocava. Votate per la Repubblica e riavrete un regime di persecuzioni, di violenze, di ricatti, un Governo dei CLN peggiorato, se questo è possibile. Votate per la Repubblica e non avrete l'amnistia che il Sovrano ha voluto elargire e che il Governo non ancora sazio di seminare odio tra gli italiani ha ridicolizzato e minimizzato. Votate per la Repubblica e avrete la "seconda ondata". E veramente allora la votazione del 2 giugno sarà l'ultimo atto compiuto in libertà dal popolo italiano».
Presente, il settimanale di Italo Mereu "editore e direttore responsabile" che, dopo essersi affacciato all'edicola cagliaritana alla vigilia delle amministrative di primavera, ha scelto di appoggiare la campagna elettorale del professore-avvocato Maurino Angioni, s'è schierato apertamente, ha dichiarato dove sta e dove vuole rimanere.
Il suo editoriale impaginato dilato a una vignetta che ritrae Mario Berlinguer, l'azionista vice Alto Commissario per l'epurazione fra 1944 e 1945, nelle vesti di boia, con tanto di corda per l'impiccando di turno ed il fumetto «Noi vogliamo un'Italia libera e democratica», esce alla vigilia del voto doppio referendario-politico ed all'indomani, anche, della visita di Umberto Il in Sardegna.
Sua Maestà è giunto a Cagliari, di prima mattina, sabato 18 maggio. È l'ottava visita che ha inteso rendere al capoluogo sardo che a lungo aveva ospitato i suoi antenati negli anni più caldi dell'imperialismo napoleonico. Le precedenti sono state quelle del 1921, del 1925, del 1934, del 1938, del 1939, del 1942, del 1943.
Egli ha assunto il titolo di re da appena nove giorni, da quando cioè suo padre Vittorio Emanuele III ha firmato l'atto di abdicazione ritirandosi in Egitto. In precedenza, e per qualcosa come due anni, ha assolto alle funzioni vicarie di Luogotenente generale del Regno.
Viene - ha detto la Real Casa - per toccare con mano la drammatica situazione che da mesi e mesi ha colpito l'Isola infestata da miliardi di cavallette. In realtà - hanno ribattuto gli scettici, suoi oppositori, e fra essi i sardisti del Solco - per un giro «in cerca di voti e di casa» come «capo del partito monarchico».
Certo, non sarebbe corretto legger tutto in chiave strumentale, nei comportamenti del sovrano; evidente è, però, che il suo interesse si è volto alle aree sociali cattoliche, prevalenti nel meridione e nelle isole, ed ai grandi elettori - per status più che per espressa volontà - del principio e dell'istituto monarchico. Di qui, per esempio, l'incontro con vari ecclesiastici e con lo stesso arcivescovo primate, Ernesto Maria Piovella...
D'altra parte non è stato che un replay, un ennesimo replay di tante altre visite già compiute o in programma per tutta l'Italia - da Napoli a Torino, dalla Sicilia e dalla Calabria a Genova o Milano o Venezia, ecc. -, a pochi giorni dal voto referendario.
Dall'aeroscalo di Elmas alla Prefettura di Castello, a Bonaria. Sono i primi appuntamenti del nuovo giro cagliaritano di Umberto. Al santuario mercedario s'è inchinato a baciare il piede della miracolosa statua della Vergine. Lo hanno riconosciuto in molti, tutti hanno apprezzato il suo gesto di devozione mariana. Con tutti s'è intrattenuto brevemente, ma con cordialità e sorridente. «Piace vedere umile chi è molto in alto; piace vedere raccogliersi in atto religioso chi si appresta ad un grave cimento», annoterà il neocommendatore della Corona d'Italia per sovrano motu proprio Giovanni Dolia, sul primo numero (uscito il 25 maggio 1946) del giornale che ha fondato e che dirige scrivendolo quasi tutto lui, Domani.
Poi l'hanno accompagnato per cantieri. A Cagliari già dal 1943 - e in mezzo ci sono i diciotto mesi della sindacatura Pintus - fervono i lavori di ricostruzione dopo i disastri bellici, gravi specialmente nei rioni del centro più duramente colpiti dalle fortezze volanti degli alleati, e che in parte Umberto aveva visto, in un'atmosfera assolutamente spettrale, in occasione della sua precedente visita, nel marzo di quello stesso 1943. Ora il sentimento è diverso: le piaghe non sono sanate, ma c'è la speranza concreta della rinascita sociale e materiale. Un ragazzino s'è avvicinato al re, per confidargli di esser nato lo stesso giorno in cui ha visto la luce Vittorio Emanuele IV e ne ha ricevuto una affettuosa carezza...
Nella tarda mattinata egli è partito in direzione dell'alto Campidano e del Marghine-Planargia: è infatti nella zona fra Oristano e Macomer che s'è fissato l'epicentro dell'infestione delle cavallette. Anche qui, riferisce qualche reporter, è stato accolto con «calorose dimostrazioni di affetto e di entusiasmo», e c'è chi aggiunge che la sua camicia.., è finita in brandelli. Lui ha risposto non soltanto con un "grazie" che non conta niente, ma distribuendo soccorsi in denaro alle famiglie dei contadini più duramente offesi dal flagello. Ha quindi proseguito alla volta di Alghero (dove s'è rifugiato nella villa dell'antico cerimoniere conte Luigi di Sant'Elia, a Las Tronas, e dove, si dice, abbia incontrato segretamente Antonio Segni) e del capoluogo turritano.
«Il re passò a Sassari in fretta, come tutte le cose belle della vita. Ma fece in tempo a scambiar quattro chiacchiere coi suoi grandi elettori. A stare a quanto dicono i monarchici, emozionante è stato il suo colloquio con il candidato Antonio Era. Antonio Era sta alla monarchia, come Michele Saba alla repubblica», annoterà con elegante ironia Riscossa, nelle sue "Cronache elettorali" del 27 maggio.
Nel pomeriggio s'è rimesso in viaggio alla volta di nuovo di Cagliari. Saranno state quasi le 20 quando s'è affacciato dal balcone del primo piano dell'austero palazzo abitato dall'Alto Commissario, il gen. Pietro Pinna —un monarchico deluso e di simpatie moderatamente autonomiste – per salutare le molte migliaia di cagliaritani spontaneamente convenuti nell'ampia piazza del Carmine per acclamarlo.
In contemporanea, bisogna dirlo, i partiti repubblicani hanno organizzato in piazza Costituzione un comizio-contro. Sì, forse più che "per" la repubblica tutti gli oratori si sono pronunciati... "contro" la monarchia. Per esempio Raffaele Meloni, seguace di Mazzini fin dall'adolescenza, ha impegnato il meglio delle sue risorse dialettiche per apostrofare la Casa regnante di intollerante parassitismo a spese del bilancio statale. (E ribattendo all'esponente del PRI, il suo collega avvocato ma fiero avversario politico Giovanni Dolia obietterà che gli otto miliardi circa dell'appannaggio complessivo riconosciuto per legge al regio Quirinale non sono che la "provocazione etica" cui tutti i giorni il re deve sottoporsi, interrogandosi sulla piena corrispondenza simbolica fra lo sfarzo che il pingue assegno consente e la dignità dei suoi comportamenti istituzionali...).
Nella tarda serata di sabato 11 maggio - ad appena ventiquattr'ore cioè dall'attesa abdicazione di Vittorio Emanuele III - c'era stata un'altra grande manifestazione repubblicana ai piedi del Bastione. L'avviso affisso alle cantonate per informare e convocare i cittadini aveva fatto pesante riferimento al sovrano «complice del fascismo» che abbandonava l'Italia «nella vana speranza di eludere il verdetto della Nazione e di ostacolarne la decisa volontà di ordinata ricostruzione».
Col democristiano Cesare Dall'Olio, il comunista Giovanni Lay ed il socialista Jago Siotto avevano preso la parola anche l'ex sindaco sardista-azionista Cesare Pintus ed il repubblicano Raffaele Meloni. Assente, ma per qualche disguido, il rappresentante demolaburista. Il PDL, ad ogni modo, s'era affrettato ad emanare un comunicato per ribadire la sua fede repubblicana, anzi la sua «immutata ed assoluta pregiudiziale repubblicana, nella diretta discendenza, attraverso il radicalismo di Bertani e Cavallotti, dall'ideale mazzianiano».
In piazza del Carmine, un accenno appena di contestazione si è profilato quando, non si sa come (ma qualcuno ne incolperà Jago Siotto), è circolato fra la folla un volantino con il testo del telegramma inviato il fatidico 10 giugno 1940 dall'allora Principe di Piemonte al Duce, definito «infaticabile artefice del destino della Patria».
Nelle sede dell'Alto Commissariato Umberto ha incontrato tutte le maggiori autorità civili, militari, religiose ed accademiche dell'Isola, amministratori ed esponenti di tutti gli ordini professionali, ecc. In tutti ha trovato cordialità, con pochi, sembra, un effettivo feeling. Fra gli altri, notate le presenze del magnifico rettore, il "rosso" prof. Puxeddu, del leader liberale Francesco Cocco-Ortu, del sindaco della città Luigi Crespellani, in verità alquanto defilato. (Da parte monarchica, insieme con l'addebito del mancato ricevimento in municipio, gli si attribuirà il "merito" di aver rinunciato a diffondere, dopo il 2 giugno, un manifesto di augurale saluto alla neonata repubblica: il risultato ampiamente filo-monarchico del voto cagliaritano e la stessa scelta, palesemente a favore di Casa Savoia, del prevalente elettorato democristiano, d'altra parte, consigliavano altro...).
Ha pernottato in città. L'indomani mattina, dopo la messa all'alba, sempre in aereo, Umberto ha lasciato Cagliari diretto a Napoli.
Se una singolarità ha avuto questo soggiorno flash nell'Isola, essa va ricercata nella contemporaneità del viaggio elettorale di De Gasperi: unica la meta - la Sardegna tutt'intera - ed unico il calendario, anche se va detto che.., l'orologio no, quello è stato diverso. Tutto è stato preparato perché sua maestà ed il presidente del Consiglio stessero l'uno al capo opposto di quello al momento visitato dall'altro... Le regole della politica sono talvolta cento volte più forti di quelle del protocollo.
«Degli intrighi di Roma, siamo tutti al corrente - è il commento infastidito del Solco sardista del 23 maggio -. La cricca monarchica prevede fin d'ora una schiacciante votazione repubblicana nel Nord d'Italia e anche nel centro; ed è assai probabile pensi a fare del Mezzogiorno e delle Isole una specie di Vandea».
Ultimo commento, questo però di segno opposto. Il giornale di Italo Mereu, che nello stesso numero pubblica anche un articolo sul «provvedimento di amnistia politica e amministrativa voluta da Re Umberto», dà un certo risalto grafico all'avvenimento, riservandosi di fornire più ampie cronache in uno "speciale" che però non sembra essere mai uscito.
Ma quel che più appare interessante è la sua bordata contro il direttore del PSd'A Giovanni Battista Melis, che in quanto presidente del CLN provinciale di Cagliari e, per la carica, editore "politico" de L’Unione Sarda, avrebbe impedito al giornale di pubblicare la foto del sovrano (e di De Gasperi, appunto perché in Sardegna per ragioni di partito e non di governo). «Ancora una volta - è il commento del foglio qualunquista, sotto il titolo "Più disonesti di così si muore" - la faziosità imbecille dei "liberatori" dimostra che ha mille ragioni chi dice che son cambiati i suonatori ma la musica è la stessa. Se i giornalisti fascisti erano servi perché obbedivano a un padrone, i giornalisti antifascisti sono sei volte più servi perché obbediscono a sei padroni che leticano tra loro come le baldracche di una casa di tolleranza. Siamo sotto le elezioni: i cittadini onesti riflettano e imparino».
Riflessioni a consuntivo
Si vota domenica 2 e, fino a mezzogiorno, lunedì 3 giugno. La maggioranza degli italiani - per l'esattezza il 54,3 per cento - si pronuncia per il cambio di regime; non così - al pari di pressoché tutto il meridione continentale - la Sardegna dove il risultato è di 321.345 voti, pari al 60,9 per cento, alla monarchia e di 206.192, pari al 39,1 per cento, alla repubblica.
L'intera prima pagina di Riscossa del 10 giugno saluta, con sobria compostezza, l'esito nazionale (non regionale) delle urne. Editoriale, spalla, corsivi, tutto è giustamente dedicato alla storica svolta. Il taglio centrale è firmato nientemeno che da... Giuseppe Mazzini, un nome che, a buon diritto, ritorna. Titolo: "La Patria è una come la vita".
La prosa dell'Apostolo genovese, pur riflesso dei suoi tempi, è asciutta, ma soprattutto i suoi argomenti sono di estrema modernità: «Non ci sono cinque Italie, quattro Italie, tre Italie. Non v'è che una Italia. La Patria è una come la vita. La Patria è la vita del popolo. Dio ve la diede, gli uomini non possono a modo loro rifarla...
«In verità, colui che nega l'Unità della Patria non intende le parole di Dio né quelle degli uomini [...]. Qualunque tra voi sorge a libertà sappia che ei sorge per tutti. Incarni ciascuno in sé i dolori, le speranze, le memorie, il palpito d'avvenire di quanti respirano l'alito che si ricambia dalle Alpi al Mare e dal Mare all'Alpi. Fra l'Alpi e il Mare non son che fratelli».
Non è la prima volta che il verbo mazziniano s'affaccia dalle pagine della rivista sassarese. Fin dai primi numeri, come a dar ideale seguito alle edizioni dattiloscritte e clandestine di Avanti Sardegna!, curate fra gli altri da Michele Saba e Mario Berlinguer, Riscossa ha raccolto e diffuso il monito e l'auspicio del profeta repubblicano per un'Italia nuova. «Mazzini oggi è ancora vivo anche perché la sua voce espresse un'idea universale: ed il suo insegnamento avrà eco finché un cuore di italiano continuerà a battere. Ma esso sarà accolto ancora con cuore generoso specialmente dai sardi…», si legge in un fondino del 12 marzo 1945, poche settimane prima della liberazione dell'Italia dai burgundi e della sconfitta dei collaborazionisti di Salò.
Nello stesso numero del 10 giugno compare, a firma di Mario Azzena – anch’egli repubblicano fin dalla gioventù (e sarà assessore tecnico di area sardista, data la prossimità ideale, nella seconda giunta Crespellani dal 1951) –, un bel commento al risultato referendario e, insieme, a quello elettorale-politico. Titolo: "La volontà del popolo sia la legge suprema". Questa, in estrema sintesi, l'opinione dell'articolista: «La lotta elettorale è stata estremamente appassionata ...j, i partiti hanno condotto tutti una campagna propagandistica gagliarda ed intensa [...]. Il popolo italiano ha inteso in tutta la sua ampiezza la importanza del gioco democratico [...].
«Il sentimento repubblicano in Italia è veramente profondo, se è riuscita ad affermarsi una maggioranza repubblicana, nonostante la diffusione delle paure più fosche, e le minacce dei più catastrofici e immaginari pericoli, e nonostante che la democrazia cristiana, che pure ha riportato un così grande successo nella lotta per la costituente, dopo avere nel suo recente congresso nazionale affermato a grandissima maggioranza la tendenza repubblicana, si sia all'ultima ora convertita alla propaganda monarchica, per cui si è diffusa nel popolo religioso la convinzione della identità di interessi fra la monarchia e la religione.
«L'esito delle elezioni per la costituente ha dissipato uno dei più diffusi e terribili timori, usato ed abusato dalla propaganda monarchica e cioè che la nuova repubblica sarebbe stata la repubblica di Togliatti e quella di Nenni, e invece non sarà né di Togliatti né di Nenni e neppure quella di De Gasperi, ma sarà semplicemente la Repubblica Italiana democratica, nella quale si incontreranno in gara perenne e nel costante tentativo di superarsi, tutte le correnti politiche che hanno fondamento e seguito nel paese [...].
«Primo elemento di tranquillità e di ordine è il rispetto verso i nuovi poteri dello stato che, non impersonati in un sovrano, si concretano nella volontà del popolo, e negli istituti e negli organi che consentono l'esercizio del potere da parte degli eletti del popolo [...]. Ufficiali e soldati di tutte le armi e di tutti i gradi sono al servizio del paese, a salvaguardia dei diritti e del lavoro del paese, e perciò meritano, oggi come sempre, tutta la considerazione ed il rispetto di tutti i cittadini, e per conseguenza da parte di ufficiali e soldati e forze di polizia è doveroso un accresciuto sentimento del dovere...».
È trasparente, nelle considerazioni e negli auspici finali di Azzena, il timore di un "lealismo debole" verso la repubblica, da parte dell'esercito da sempre schierato, istituzionalmente, con la monarchia...
Ma nel dibattito politico e della stampa entra anche un altro tema: il modesto scarto numerico fra le due opzioni e, ad esso collegato, il sospetto di brogli nello scrutinio nazionale. A rendere esplicite le sue riserve in proposito è, per primo, Francesco Cocco-Ortu, nell'articolo "L'ora che volge", su Rivoluzione Liberale del 16 giugno.
Egli insiste sul dubbio che pare inficiare la regolarità dello spoglio e, di conseguenza, sulla necessità che il Ministero proceda «con la massima cautela e con la massima ponderazione». Il governo - scrive Cocco-Ortu - «non deve dimenticare che alle spalle della causa monarchica, dichiarata perdente dalla prima e non definitiva pubblicazione dei risultati del referendum vi erano ben 11 milioni di votanti; non doveva dimenticare che il distacco tra repubblicani e monarchici era relativamente modesto (e tale che i monarchici si sentivano autorizzati a pensare che i voti dei cittadini della Venezia Giulia e delle terre africane e dei prigionieri avrebbero potuto colmare ed anche superare il dislivello), non doveva soprattutto dimenticare la pericolosissima distribuzione geografica della maggioranza monarchica e repubblicana».
Prima della proclamazione "politica" del risultato - con tanto di «dichiarazioni di ministri non autorizzati», di «allusioni a forze popolari proprio da parte del tutore dell'ordine pubblico, il ministro degli Interni», di messa «in movimento [del]le Camere del Lavoro» ecc. - si sarebbe dovuto attendere la pronuncia della Suprema Corte di Cassazione.
«La Repubblica era sicura?», domanda retoricamente l'esponente liberale. «E allora sarebbe dovuto essere interesse di tutti i suoi fautori dar la sensazione al paese, sovrattutto ai fautori della tesi avversa che essa nasceva dalla legalità e dalla chiarezza; era sovrattutto necessario nell'interesse della pacificazione e della concordia di tutti gli Italiani togliere ogni motivo a risentimenti e recriminazioni».
È intuibile dove batta il cuore di Cocco-Ortu, esponente di un liberalismo moderno ed aperto, ma anche nipote di un ministro del re (che ebbe peraltro il coraggio, nel 1922, ottuagenario, di opporsi al sovrano che cedeva a Mussolini). Egli ricorda che «la Corona aveva più volte ripetuto che si sarebbe lealmente piegata alla volontà popolare liberamente espressa e tutto il comportamento del Re - aggiunge Cocco-Ortu - era tale da far ritenere che così sarebbe stato. Essa chiedeva soltanto di attendere per trasmettere i poteri che la Giustizia, indipendente e sovrana, dicesse la sua parola serena e definitiva».
Conclusione: il proclama di Umberto in partenza per l'esilio è, sostanzialmente, una «protesta contro il comportamento del Governo e contro quanto potrà derivarne» e fors'anche il preannuncio - al di là delle volontà - di una difficoltà crescente nel rapporto politico dell'Italia repubblicana, in cui invece sarebbe auspicabile che gli antichi avversari si ritrovassero insieme «innanzitutto italiani democratici e liberi».
Sono singolarmente in controtendenza con le argomentazioni, pur di evidente buon senso ed onestà intellettuale, del rappresentante del PLI quelle espresse da un monarchico dichiarato come il cattolicissimo Casimiro De Magistris, che ne scrive sul Corriere di Sardegna del 23 giugno ("Poche parole ai cattolici monarchici"): «nessun dubbio è possibile sulla soluzione repubblicana. I brogli elettorali di cui si comincia troppo a parlare sono certamente possibili; ma sono rilievi di dettaglio, formidabili in buona o in cattiva fede quanto si vuole e mai sicuramente controllabili».
De Magistris manifesta il suo spirito democratico, rispettoso della volontà della maggioranza dei suoi connazionali, e rivela anche un approccio pragmatico alla questione: estraneo ad ogni dogma o pregiudiziale etica, il referendum istituzionale si nutre di valutazioni esclusivamente politiche e di opportunità storiche. Restano salvi soltanto i «supremi principi della carità, concretamente formulati, in materia di rapporti fra individuo e stato, nella massima dell'oboedite prepositis vestris».
Don Casimiro dopo l’avv. Ciccio Cocco-Ortu
Egli spiega che nella causa monarchica molti, fra cui lui stesso, prima ancora della sentimentale devozione alla Dinastia, hanno collocato i valori dell'ordine e della legalità incarnati appunto dalla casa regnante. E aggiunge: «chi vedeva in essa un più sicuro presidio di libertà e indipendenza nazionale rispetto ai governi di parte legati a determinate correnti nazionali ed internazionali che possono affermarsi in regime repubblicano senza il controllo di un capo dello Stato estraneo per definizione - come lo dovrebbe essere il monarca costituzionale - ad ogni fazione; chi vedeva sullo Scudo Crociato dei Savoia il simbolo della saldezza e della indistruttibilità dei supremi postulati della nostra civiltà cristiana, può benissimo conservare questi suoi convincimenti. Chi si sente legato alla Casa Savoia da tradizioni di famiglia che toccano le corde più sensibili del sentimento umano e da nostalgici ricordi che nulla può cancellare, può benissimo - deve anzi - conservare questi sentimenti d'affetto e di devozione. Ma tali convincimenti e sentimenti siano contenuti nella misura consentita dal dovere e dalla necessità di non urtare i convincimenti e i sentimenti dell'altra più numerosa schiera di concittadini ai quali ha arriso il trionfo dell'idea repubblicana: questo è spirito democratico, in linguaggio politico; è spirito di prudenza e di carità in linguaggio cristiano».
Riconosciuto che «il risentimento di molti dei repubblicani è il frutto di una dolorosa esperienza di ingiustizie, di miserie e di lutti avvenuti sotto il regime monarchico», avanza infine la più sorprendente e "laica" delle riflessioni, riferita agli effettivi interessi del popolo italiano: «chi può davvero dire con sicurezza dogmatica che essi sarebbero stati tutelati meglio dalla Monarchia di quanto non lo potranno essere con la Repubblica?».
E se pure sia vero che nei regimi repubblicani quali il mondo moderno ha conosciuto talvolta si sono facilmente affermate correnti estremiste «che sostengono le riforme più assurde e le impongono con sanguinose rivolte [...], proprio per questo - sostiene De Magistris - è necessaria la moderazione dei cattolici: che non diano l'impressione di volersi opporre ad ogni rinnovamento sociale [...]; vigilino al contempo ed intervengano energicamente perché, insinuate nelle sembianze delle riforme sociali, non debbano prevalere le diaboliche velleità distruttrici della Chiesa Cattolica». Infatti - conclude - «la sola riforma veramente basilare ed efficace» è «quella della coscienza dei singoli»: «La pace - è parola di Dio che non inganna - è solo per gli uomini di buona volontà che intendono rispettare integralmente la Sua legge. E la legge suona così: ama il Signore tuo Dio e il prossimo come te stesso».
È tutto all'insegna del rimpianto per la sconfitta subita, epperò anche della consapevolezza dell'esigenza di un urgente e progressivo riassorbimento delle migliori idealità monarchiche all'interno dell'ordinamento repubblicano, l'articolo "Il Regno d'Italia è finito!" che Giovanni Dolia pubblica, il 25 giugno, sul suo personalissimo Domani.
I monarchici speravano nel referendum ben più dei repubblicani, che infatti lo temevano, ricorda Dolia; il risultato - dando torto alle illusioni dei primi ed alle paure dei secondi - ha dimostrato che il Paese è, di fatto, diviso a metà, il che non promette bene: «i trapassi da uno ad altro regime non debbono essere compiuti se non quando siano reclamati dalla stragrande maggioranza del popolo, per modo che, una volta compiuti, raccolgano la quasi universalità dei consensi e diano così inizio a periodi di concorde e pacifica convivenza».
Seconda complicazione: poiché «l'attaccamento alle Dinastie ha un fondamento in grande prevalenza sentimentale», e poiché «lottare contro il sentimento è difficile, ma soprattutto è pericoloso», il "riassorbimento" sarà cosa veramente da sudarsi.
Lodevole è stato il dignitoso contegno di Umberto Il, cui non ha corrisposto - ad avviso dell'esponente monarchico-qualunquista - lo stile del governo quale s'è espresso nella risposta al sovrano, un parlare piuttosto «grossolano ed astioso». «Ma se si vorrà conquistare alla Repubblica la massa dei monarchici, i signori repubblicani - avverte Dolia - dovranno rinunciare alla denigrazione del Re e dovranno, nei suoi confronti, tenere un linguaggio che non sia più quello così mortificante dei passati comizi». Né si creda «che il giudizio dato nei comizi su Vittorio Emanuele III e su Umberto sia un giudizio inappellabile» o si pretenda «che la storia sia stata scritta una volta per sempre dagli uomini di parte che hanno guidato nella lotta testé chiusa la arroventata campagna contro la Monarchia. La vera storia potrà essere scritta solo domani».
E sulla divisione del voto fra nord e sud? «Quei del Nord, che il due giugno deposero nelle urne voti contrari alla Monarchia erano stati, per la maggior parte, coloro che avevano elevato sugli scudi Mussolini ed avevano costituito il grosso delle masse oceaniche, che a lui avevano osannato nelle grandi luminose piazze delle nostre città [...]. Si dice, a svalutare l'affermazione monarchica dell'Italia Meridionale, che abbiano un peso ben diverso i voti del Nord da quelli del Sud, perché provenienti i primi dalla parte più civile e più cosciente dell'Italia: ma senza dire che il Nord è la parte più ricca del territorio italiano ed ha solamente i privilegi che gli derivano dalla prosperità economica, se anche fosse vero ch'esso rappresenti la parte intellettualmente più colta e matura, gli potrebbe essere obiettato che, appunto perché tale, non avrebbe dovuto macchiarsi della colpa di avere espresso dal suo seno il fascismo e di averlo imposto alla restante Italia».
La divisione politica dell'Italia origina da una più profonda divisione culturale ed economica delle popolazioni e dei territori. Merito indubbio di Casa Savoia - per il direttore del periodico monarchico - è stato quello di aver salvaguardato, in tale situazione, l'unità sostanziale della Patria, ciò che sarà invece compito estremamente difficile per la neonata Repubblica, «perché alle ragioni di attrito già esistenti, altra se n'è aggiunta, di carattere sentimentale, capace di rendere più tesi e meno conciliativi i rapporti»; «tenere l'unità non è possibile senza rendere accettevole la Repubblica con una politica di verace conciliazione».
I monarchici - assicura infine Dolia - «intendono dare il loro leale contributo alla vita della Repubblica e saranno ben lieti se potranno essere mantenute le promesse lanciate al popolo d'Italia dai vincitori di oggi»; essi, soltanto, «attendono di non essere respinti dalla Repubblica» e «confidano di trovare nel nuovo ambiente quel senso di fraternità e quella comprensione, che sono elementi indispensabili di coesione e di unità».
Speculare a questo è, nelle premesse, il commento che, pressoché negli stessi giorni, il 22 giugno firma sul Lavoratore comunista Luigi Pirastu. Non i meriti della preservazione dell'unità della Patria, ma la colpa storica di aver compiuto o tollerato quella dualità fra nord ricco e sud povero: questo vede, nel plurisecolare regno dei Savoia, l'esponente del PCI. «La monarchia - scrive – lascia alla Repubblica come triste eredità la questione meridionale, che si concretizza nelle condizioni di inferiorità di questa regione nei confronti del resto del paese, nella miseria delle plebi, nel loro analfabetismo, nella loro arretratezza politica e civile. Ma è doloroso pensare che il popolo del Mezzogiorno ha votato nella sua grande maggioranza per la monarchia, per quell'istituto cioè che non ha fatto nulla per risolvere la questione meridionale, ma che ha anzi la maggiore responsabilità delle condizioni in cui oggi si trova questa parte dell'Italia».
Secondo una chiave di lettura marxiana, egli ricostruisce alcuni capitoli non secondari della storia d'Italia, rinvenendo l'origine delle sperequazioni fra classi sociali ed aree geografiche nel «governo accentratore e burocratico che spense ogni senso di autonomia locale e tutto amministrò da Roma» non meno che nell'alleanza fra i grandi capitalisti del settentrione e i latifondisti del meridione. Insomma, nei concreti comportamenti di ceti - la burocrazia ministeriale magari appoggiata dall'esercito, gli industriali e i finanzieri, i proprietari terrieri - tradizionalmente legati alla casa regnante.
Compito essenziale della Repubblica sarà pertanto - per Pirastu - l'unificazione effettiva dell'Italia, attraverso l'emancipazione civile ed economica delle regioni del sud, comprese le isole. «La difesa della Repubblica è tutta qui, nelle riforme sociali che devono essere immediatamente attuate [...] per dare la terra ai contadini eliminando la grande proprietà assenteista e concedendo dignità di vita e di lavoro\ai braccianti, ai mezzadri, ai piccoli e medi proprietari».
Conta e dispersione dei legittimisti
Alla Costituente, la lista dell'Uomo Qualunque - la sola a presentare nel suo seno, ufficialmente, candidati di una formazione monarchica (il Partito Democratico Italiano, con Brescianino, Era e Zolezzi) - ha raccolto nell'Isola la bellezza di quasi 66.000 suffragi.
Il ricordo dell'ultima visita di Umberto di Savoia nella loro città resterà nella memoria dei cagliaritani più devotamente legati alla Dinastia. Numericamente assai di meno di quei trentanovemila che nel capoluogo (e dei trecentoventunomila, se si guarda al dato regionale) che hanno scelto, il 2 giugno 1946, la monarchia, essi vedranno, con alterni umori ed impegni, il comporsi e lo scomporsi delle formazioni che, in qualche modo, vorranno mantenere alta la bandiera del legittimismo.
Già un mese dopo il referendum, al congresso nazionale dell'Unione Monarchica Italia si affronteranno tendenze opposte, quella portatrice dell'istanza fondativa di un partito e quella tradizionale apartitica.
Intanto una dopo l'altra andranno disfacendosi le tre formazioni che hanno partecipato - non in Sardegna però -, alla campagna per la Costituente nel cosiddetto Blocco Nazionale delle Libertà: il Partito Democratico Italiano di Falcone Lucifero (ministro della Real Casa) ed Enzo Selvaggi - risultato della unificazione, avvenuta nel giugno 1944, di una decina di centri, partiti, movimenti, associazioni, alleanze, concentrazioni, unioni variamente denominate - si fonde col PLI; il Centro Democratico del gen. Bencivenga confluisce nel Fronte dell'Uomo Qualunque; la Concentrazione Democratica Liberale del sen. Bergamini aderisce (senza però il suo leader) all'appena costituito Partito Nazionale Monarchico, voluto dall'ala "politica" dell'UMI, marcatamente di destra e d'impronta laica e liberale, guidata da Alfredo Covelli. Altri gruppi - segnatamente quello di tendenza socialista e quello di spiccato orientamento cristiano (ma ostile alla DC) - originano rispettivamente il Partito Nazionale del Lavoro ed il Partito Nazionale Cristiano, destinati a vita breve.
In Sardegna saranno circa in diecimila, alle elezioni politiche per il primo parlamento repubblicano, il 18 aprile 1948, a suffragare il PNM e per quasi i due terzi si tratterà di cagliaritani. Nel 1949, all'esordio del- l'Autonomia regionale, però, i suffragi complessivi sestuplicheranno come per miracolo, raggiungendo a livello regionale la percentuale addirittura dell'11,6.
Più in là nel tempo - nel 1957, per la precisione - si presenterà sulla scena anche il Partito Monarchico Popolare che, sommando i suoi 60.000 voti ai quasi 39.000 del PNM, farà credere a molti che la Vandea - sì, la Vandea del legittimismo savoiardo - sia la Sardegna...
Focus monarco-qualunquista e la Costituente
«Elettori, votate per la Costituente la lista che riterrete migliore. Nelle liste che lo consentono, date la preferenza ai candidati dichiaratamente monarchici. Nei comizi elettorali di Cagliari hanno parlato a favore della Monarchia i candidati Francesco Cocco-Ortu, Antonio Era, Raffaele Sanna-Randaccio, Mauro Angioni». È l'appello che, nel suo numero d'esordio, Domani ha lanciato nella non segreta speranza di una doppia vittoria nella doppia urna...
Avvocato e pubblicista prolifico, tra i fondatori, nel 1944, della Democrazia Cristiana di Cagliari, del cui comitato cittadino è stato addirittura il segretario, Dolia si è mostrato sempre uomo moderato e misurato, e di moderazione e misura ha dato, ad esempio, ampia dimostrazione nel corso di una polemica, svoltasi su L’Unione Sarda fra dicembre 1944 e gennaio 1945, nientemeno che contro Emilio Lussu. Oggetto della contesa: il ruolo del Comitato di Liberazione Nazionale e, soprattutto, la sua rappresentatività, in una fase di persistente vacanza elettorale, nonché la soluzione data alla crisi del primo governo Bonomi con la formazione del secondo guidato dallo stesso esponente demolaburista (e senza la partecipazione, però, degli azionisti).
Dell'Uomo Qualunque e delle sue licenze antidemocratiche (degenerazione della polemica antipartitocratica), egli non sarà, comunque, mai un militante perinde ac cadaver. E, in fondo, neppure per la monarchia - della quale è stato sempre ed ancora è, ideologicamente, suddito fedele - alzerebbe mai barricate.
Nell'editoriale di presentazione del suo periodico, il 25 maggio, ha scritto: «Noi, che abbiamo combattuto e combatteremo per lui [Umberto Il], siamo convinti che la monarchia sia necessaria pel nostro paese [ ... ]. La sua soccombenza ci sarebbe grandemente incresciosa: tuttavia, decisi come siamo a riconoscere lealmente il giudizio del popolo, in qualunque senso sarà, così come il Re ha giurato di volerlo riconoscere, attendiamo serenamente quel giudizio...».
Bene il referendum, così così la Costituente… A Sassari ritorna Mazzini, a Cagliari è afflizione
Il giornale di Giovanni Dolia è, fra i tanti dell'edicola riaffollata nel 1946, quello che - quasi per dovere d'ufficio (naturalmente in chiave di polemica) - fornisce anche qualche supplementare notizia circa le cose interne ai nemici giurati: i repubblicani.
L'esatto opposto, sul piano dottrinario, del qualunquismo monarchico è, infatti, il repubblicanesimo dei mazziniani sardi, la cui organizzazione non sfonda mai i limiti dell'estrema minoranza, e non sa cioè pareggiare la fede e la veemenza dei suoi tribuni. Primi fra tutti Michele Saba e, a Cagliari, Raffaele Meloni.
Paradossale è stata l'assenza della lista del PRI alle elezioni per la Costituente. Un infortunio tecnico - l'insufficienza delle firme dei presentatori - ne ha provocato il rigetto da parte della Cancelleria della Corte d'Appello.
In aprile s'era diffusa la voce che la lista fosse quasi fatta. Dovevano farne parte Armando Businco, preside di facoltà all'università di Bologna (repubblicano in gioventù, quindi repubblicano-sardista, negli anni della guerra partigiana gielle-azionista), Battista Bardanzellu (avvocato olbiese, a Roma amministratore della Voce Repubblicana), Alberto Mibelli (industriale pure di Olbia), gli avvocati Stefano Saba (di Sassari), Antonio Dettori (di Bosa), Agostino Senes (di Oristano), Raffaele Meloni (di Cagliari); ed ancora - di provenienza continentale - addirittura Randolfo Pacciardi, segretario nazionale del partito, Ugo Della Seta, professore all'ateneo della capitale e numero due del Grande Oriente d'Italia, e fors'anche Oliviero Zuccarini, esponente dell'ala federalistà del PRI, e Cipriano Facchinetti, leader storico dell'Edera prefascista...
Si saprà che Michele Saba aveva trasmesso la lista all'amico Meloni – in gioventù (o in precoce maturità!) sindaco di San Gavino Monreale –, per il deposito in cancelleria; che ad una prima verifica è risultato insufficiente il numero delle firme dei presentatori previsto dalla legge in 500; che, su insistenza dello stesso Meloni, il controllo è stato ripetuto e che la deficienza di sette od otto sottoscrizioni è stata confermata.
L'avv. Meloni - annoterà, con una punta d'ironia l'avversario monarchico nel numero postelettorale del suo giornale (datato 25 giugno) - «riportò a casa quell'aborto di lista, della quale, se di feto giunto a termine e non di aborto si fosse trattato, contava di essere il fortunato padrino. Insomma, i repubblicani storici in Sardegna non sono riusciti a metter su quelle poche centinaia di firme che erano indispensabili per legge a dare la persuasione che avessero un certo credito tra gli elettori».
Dolia nega l'esistenza di un effettivo radicamento di «sentimento repubblicano» nell'Isola e riporta la matrice dell'ostilità fieramente antimonarchica dei mazziniani sardi ad un odio bisecolare mirato, più che all'istituto, alla Casa Savoia.
Assumendosi tutte le responsabilità per l'incidente della Corte d'Appello e quasi a volersi infliggere una pena risarcitoria, Saba rinuncia ad un posto nella lista repubblicana del Collegio unico nazionale, che, dati i risultati, avrebbe significato un seggio sicuro a Montecitorio.
Non si risparmia, comunque, nel lavoro propagandistico a favore della repubblica e per la lista sardista - la più prossima, ideologicamente, per la comune fonte mazziniana-cattaneana -, scrivendo articoli e corsivi a più non posso su Riscossa e parlando alla Frumentaria ed in piazza d'Armi a Sassari, alla Porta Terra di Alghero, a Bonorva, a Pozzomaggiore, ad Olbia, a La Maddalena...
S’è visto: nonostante il voto sardo, l'Italia repubblicana sopravanza quella legittimista. Appena appresi i risultati delle urne, la sezione sassarese del PRI si riunisce in festosa seduta, al termine della quale emette un documento con cui rinnova all'Amministrazione civica l'invito al ripristino del busto di Mazzini, che negli anni del regime era stato rimosso dal suo sito. I militanti si offrono, con spirito volontaristico, per i lavori necessari, da compiersi sotto la direzione dell'Ufficio tecnico comunale.
Così, infatti, avviene. Mercoledì 12 giugno la statua è provvisoriamente sistemata nella scalinata del Palazzo della Provincia, in piazza Italia, onorata da alcune orazioni pro republica, fra gli altri del sindaco democristiano Mura e del mazziniano-frumentario Mario Azzeria.
Feste ovunque, nel nord Sardegna, che pure ha visto il grosso successo monarchico, corteo con musica e bandiere, onoranze garibaldine e conclusivo comizio di Michelino Chessa e Gavino Ballero, della sezione repubblicana, ad Alghero. Rapido pellegrinaggio dei maddalenini a Caprera, con accompagnamento di bandiere con l'edera repubblicana e di inni e canti garibaldini e mameliani, e discorso di Giacomo Origoni alla presenza di Clelia Garibaldi. Altri comizi ad Ittiri, Tempio Pausania, Olbia... A San Simplicio monsignor Cimino celebra una messa propiziatoria.
Non altrettanto può dirsi del Cagliaritano e, specialmente, del capoluogo. Qui (peraltro come a Sassari) la causa monarchica ha raccolto più del doppio dei voti dati alla repubblica; ma qui, a differenza che nel Sassarese, il risultato delle urne ha demotivato, fin quasi ad annichilirli, i militanti del PRI.
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