A palazzo Sanjust offeso il busto storico di Giovanni Bovio
di Gianfranco Murtas
Un imbecille, nella solenne e austera casa massonica di piazza Indipendenza, caricatura, postando in internet foto scempie, nientemeno che Giovanni Bovio, là presente con un busto antico di 115 anni, un busto passato per gli sfregi dei fascisti che lo sequestrarono nel 1925, all’atto della perquisizione della sede di via Barcellona da parte dei questurini dopo l’attentato romano a Mussolini il duce. Un busto che duplicava l’originale in marmo bianco collocato nello square delle Reali nel 1905 – prima del completamento del palazzo municipale – e abbattuto, pare anch’esso per le “bravate” dei fascisti locali, prima della seconda guerra mondiale. Un busto rimasto per quarantacinque anni segregato nel buio dei magazzini comunali e finalmente liberato, per galanteria del sindaco De Magistris, da un massone che… ci credeva davvero, un massone di illustre militanza mazziniana quale fu l’avv. Luciano Marrazzi, e da un giornalista di salda cultura storica come Bruno Josto Anedda, lo scopritore materiale dell’inedito e monumentale diario politico di Giorgio Asproni.
Fu portato allora quel busto, opera dell’artista cagliaritano (e allievo a Roma addirittura di Ettore Ferrari, prossimo gran maestro della Massoneria) Pippo Boero, allora giovane – ma all’attivo aveva già l’erma bronzea di Giuseppe Verdi (1901) –, nella sede repubblicana di via Sonnino. Avvenne nel 1970: lì lo trovammo noi ragazzi della Federazione Giovanile Repubblicana, Franco Cossu e Roberto Dessì e Pier Giorgio Cadeddu ed altri, e anch’io nel gennaio 1971, e lì scoprimmo, dell’intellettuale e del politico effigiato con quei tratti tutti ancora risorgimentali, la statura morale e culturale assolutamente gigantesca.
Passando di sede in sede – da via Sonnino a via Mattei, a via Cocco Ortu, fino alla mesta rimozione d’ogni insegna, nei rimescolamenti delle insegne e soprattutto delle identità ideali dei partiti confluiti nella cosiddetta “seconda repubblica” – ebbi l’onere e l’onore di custodire nel mio studio quel prezioso duplicato in gesso pesante, lo donai e ridonai poi, nel tempo, ai soggetti associativi o istituzionali che mi parvero legittimati, e infine ottenni che dall’ultimo custode esso fosse portato a palazzo Sanjust, sanando un vulnus antico. In un inventario delle suppellettili anche d’arte presenti nella sede massonica di via Barcellona – un documento datato 31 dicembre 1910 e conservato nel mio Archivio storico generale della Massoneria sarda – , il busto di Bovio era inserito anch’esso fra i beni distribuiti nei locali della segreteria e dei passi perduti saccheggiati dai pagani della dittatura nel brutto giorno…
Il 15 dicembre 2008 quel busto fu accolto finalmente nella sede della Massoneria giustinianea cagliaritana. Io presentai alla Fratellanza liberomuratoria e alla città l’opera del Boero e le sue vicissitudini, ma soprattutto presentai il personaggio, l’intellettuale e il politico e il dignitario massone (che – lo dico tra parentesi – troviamo coprotagonista anche in uno dei romanzi di Giorgio Todde nella saga di Efisio Marini).
Filosofo del diritto, professore universitario (di storia del diritto, all’ateneo di Napoli), autore di saggi filosofici e testi drammaturgici (come il San Paolo o il Cristo alla festa di Purim e altro ancora), per lunghi anni grande oratore del Grande Oriente d’Italia e oratore ufficiale a Campo de Fiori quando si trattò di scoprire, nel giugno 1889 – presente una delegazione cagliaritana (che tornando in città lanciò l’idea della loggia da intitolarsi a Sigismondo Arquer, l’altra vittima eccellente del rogo dell’Inquisizione) –, il monumento a Giordano Bruno: ecco Bovio.
Continuatore di Mazzini e il più autorevole leader del repubblicanesimo italiano dopo la scomparsa dell’Apostolo dell’unità, deputato al Parlamento dal 1876 e fino alla morte intervenuta nel 1903: civilmente pianto anche a Cagliari da dove, tante e tante volte, erano partite alla sua volta, i messaggi dei nostri giovani studenti ed operai impediti di onorare Mazzini o Cavallotti o Garibaldi nelle date solenni loro riservate all’interno del calendario patriottico, negli spazi del Monumentale o nella via Manno. Bisognava protestare con il ministro dell’Interno per l’abuso illiberale di qualche delegato di polizia che zittiva chi parlava male del governo o deponeva corone di fiori assestate con nastri rossi.
Da Cagliari gli era venuto ripetutamente anche l’invito a celebrare con una degna epigrafe la sepoltura di alcuni grandi della democrazia sarda: così fu, al Monumentale, per Vincenzo Brusco Onnis, così fu per Giovanni Battista Tuveri, così sarebbe stato anche, all’università, nel 1902, per Efisio Marini.
Nipote di massone e figlio di carbonaro, iniziato alla massoneria nella loggia della sua Trani intitolata all’isola di Caprera! fu celebrato sapiente uomo giusto dalla sezione repubblicana, dai socialisti e radicali anche, e appunto dalla loggia Sigismondo Arquer allora, quando s’involò, ancora allogata a palazzo Vivanet. Sono messaggi e sono cronache di cui detti conto – ora sono passati più di trent’anni – nel mio libro L’edera sui bastioni, in cui a Bovio dedicai un intero corposo capitolo, e così negli altri studi sulla storia della Libera Muratoria sarda. «La loggia massonica Sigismondo Arquer immersa nel più profondo dolore per lutto che colpisce la Famiglia massonica, la Scienza, la Patria. Vi prega gradire, nell’ora triste, attestazione proprio cordoglio, simpatia per voi fedele compagna dell’illustre fratello», si telegrafò alla vedova. E così al Venerabile della loggia napoletana distinta come Losanna, la preghiera di rappresentare i cagliaritani nel triste congedo pubblico.
Nel libro descrittivo dei repubblicani cagliaritani nell’età di Bacaredda aprii il capitolo dedicatogli – trenta pagine piene – con un estratto della lettera datata 29 gennaio 1896 che Giovanni Bovio consegnò al figlio Corso con le istruzioni sul suo prossimo funerale («senza preti e senza seguito o pompa… sul carro comune… Non voglio discorsi necrologici… Voglio una fossa comune…») e, da un dispaccio della Stefani, con la cronaca di quel funerale che divenne inevitabilmente di popolo, a Napoli: «senza pompa per volontà del defunto… imponenti per il larghissimo concorso dei cittadini… Il feretro era portato a spalla da studenti e amici… Il corteo percorse il rettifilo e la via Garibaldi affollatissima, e si sciolse nella piazza Carlo III. Lungo il percorso i negozi erano chiusi. Piovve».
Ho rifatto varie volte la storia di quel monumento, delle attività del comitato promotore, della commissione a Boero, del dibattito consiliare – ancora nel palazzo di Città, a Castello, intervenuti il sindaco Picinelli e Macis e Vivanet e Dionigi Scano, e anche Sanjust e l’assessore Giovanni Marcello... E ancora ho riferito della cerimonia di scoprimento del busto che era esito di una gran questua popolare, nel pomeriggio di domenica 28 maggio 1905, anniversario della caduta della Comune parigina: della laica processione che partì da palazzo Valdès per raggiungere, attraverso la via Manno e Stampace di mezzo – piazza Yenne, corso Vittorio Emanuele e via Sassari –, lo square, dei mille partecipanti e degli orfeonisti nella loro sobria divisa, dei soci delle leghe di mestiere e della Pedagogica, degli studenti di tutte le scuole e facoltà, delle società sportive, del Touring club, delle bandiere e dei labari, dell’Inno di Garibaldi intonato nel percorso, dei fasci di fiori dei ragazzi del circolo Universitario e della Corda Fratres, dell’Unione studentesca anticlericale e delle fratellanze repubblicane di Iglesias e Guspini… del discorso dell’avv. Salvatore Diaz («Sgombri l’Attila dei venti il suolo italico e il robusto tronco della quercia tocchi i cieli della gloria. L’avvenire sarà opera dei giovani») e del professor Picinelli che, a nome del Comune, accolse in dono il manufatto: «Le classi colte onorano in Bovio lo scienziato, le classi popolari l’amico, tutti poi l’anima nobile…».
Non tutto scorse liscio, bisogna dire, quella mezza sera: ché non mancarono i dissidenti, quei progressisti che avvertirono come il sindaco successore di Bacaredda non fosse, per qualche sua debolezza clericale, l’uomo giusto a quell’ufficio, in quel momento tanto solenne, tanto pieno di gloria patria e senza cadute nella bolsa retorica… monarcoide. Poi comunque tutto finì al suono della Marsigliese: il corteo dei democratici risalì la città e nella via Manno salutò la memoria di Cavallotti – materializzandola nel palazzo Onnis dal quale egli aveva parlato ai cagliaritani nel 1891 – e un po’ più su, di fronte al consolato austriaco, rovesciando le bandiere e gridando «viva Trento e Trieste italiane».
Non avrebbe mai immaginato, Bovio, che un imbecille, postando tante irriverenti fotografie nell’web, lo spupazzasse, oggi a Cagliari, come si trattasse di un manichino da gioco.
Fra dieci o cento anni, quando si farà la storia di palazzo Sanjust e dei suoi abitanti, che nomi si faranno di quelli che, per dignità e senso personale e istituzionale di responsabilità, avranno non soltanto biasimato l’indecenza, ma corretto e chiesto scusa profondissima, con impegno d’onore che mai più si sarebbe ripetuto l’oltraggio?
11 Lug 2020
Purtroppo va aggiunta un'ulteriore vergogna all'infamia: l'imbecille spiritato non è un "grembiulino" qualunque, ma un maestro venerabile in carica, che per primo dovrebbe, il condizionale in questo caso è scempio, difendere l'onore dell'Ordine al quale appartiene. Ma che, nell'ignominioso silenzio dell'oriente cagliaritano, invece, infanga.
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