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Gianfranco Murtas

A San Giuliano Milanese da Rita Angelino, la decana dei Magnini lombardo-sardi e sardo-lombardi. Nella sua casa tanta Cagliari bacareddiana

di Gianfranco Murtas

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C’è una mite, dolce e colta signora a San Giuliano Milanese – 38mila abitanti a una decina di chilometri da Milano – che ha molta Sardegna nel cuore. Ce l’ha nel suo vissuto affettivo e nella memoria familiare coltivata lungo l’intera sua esistenza. Ora si approssima ai 97 anni d’età e – protetta da una Madonnina custodita in una edicola del giardino di casa e anche dalla sua cara santa “degli impossibili” – sarà ancora e ancora la grande matriarca, la maggiore autorità morale della grande famiglia che al cognome Magnini si riporta in risalita da diversi canali e che da Travedona partì, con gran parte dei suoi componenti, alla volta della Sardegna all’indomani della unità d’Italia. Vennero i Magnini da noi, puntando su Iglesias – la mineraria Iglesias, meta di capitalisti nazionali e stranieri, tecnici ed operai di galleria – dove applicarono da subito le proprie competenze professionali edili. Soprattutto edili, che però non chiusero il cerchio, adattandosi essi, in futuro ancora ad Iglesias ma pure oltre Iglesias, magari in Ogliastra quasi Baronia, anche ad altre incombenze nei servizi (locande e alberghi compresi) e nei commerci, perfino nell’industria… e nell’industria premiata in un’Expo!

La casa della signora Rita Angelino (di nonna paterna Magnini), a San Giuliano Milanese, è bella ed accogliente e racconta certo molto della Lombardia milanese sviluppatasi nei primi decenni del Novecento – buona agricoltura e rigogliosa zootecnia – ma racconta anche della Sardegna vissuta, da bambini e ragazzi, da suo padre Fedele così come da suo zio Erasmo, ma anche dagli altri distribuiti nei diversi affetti, e tanto più da quelli della generazione precedente, quella dei pionieri, fra cui era appunto sua nonna Maria – Marietta – Magnini sposatasi a Cagliari, nella grande chiesa di Sant’Anna – nel quartiere trecentesco di Stampace evocato da Fazio degli Uberti nel suo Dittamondo – con l’ing. Giovanni Angelino, in forza al genio civile del capoluogo allora soltanto provinciale. Entrambi riposano oggi nel nostro monumentale di Bonaria.




Bisognerà dirne, ma poi tutto è e sarà un omaggio ideale a questa signora di tratto squisito, che a fine 2013 mi telefonò apposta per confidarmi il suo sentimento di vicinanza ai sardi colpiti dalle terribili alluvioni di quell’autunno, con i morti di Olbia e d’altrove. La Sardegna lei l’aveva ricevuta da bambina con le sue mitologie, le immagini cruente e quelle meravigliose d’ambiente naturale e d’ambiente sociale nello strano mix dei racconti di suo padre soprattutto, ma poi anche degli altri presenti di quegli intrecci familiari. Ché ormai, quaranta e cinquant’anni dopo la loro discesa nell’Isola, diversi dei protagonisti con mogli e figli e magari nipoti avevano deciso di tornare nella terra avita, lasciando qui soltanto un ceppo radicatosi ormai troppo per essere divelto in Iglesias e ancora oggi, infatti, attivo nella vita sociale della città. Generazione dopo generazione s’era spezzato poi il ponte fra i diversi rami familiari… così per qualche decennio, ma ora con la buona volontà e la mente morale dei cugini di sangue sardo – o anche sardo – le relazioni si sono ripristinate. E, così materializzate, mi pare bello pensarle oggi specialmente – scrivo nel capodanno 2022 – orientate a dare omaggio a Rita Angelino. Che oltretutto fu compagna di vita libera e felice di un altro sardo il quale da ragazzo, mago della matematica, aveva frequentato il nostro liceo classico Dettori. Che era allora nello stabilimento già gesuitico a poche decine di metri dalle case Magnini e Angelino… fra le via Baylle e Sant’Eulalia e le scalette di Santa Teresa. Che storie!



Si possono raccontare in breve le storie, anzi si può rifare la storia delle storie, che peraltro nelle scorse settimane abbiamo ricevuto – in redazione a Giornalia.com – direttamente da Erminio Magnini che ne riferiva ai tanti che lo interrogavano, nella pace del non tempo e del non luogo… (cf. 14 e 25 maggio, 14 e 28 giugno 2021). Ci penso: un non tempo ed un non luogo che però rivelano una memoria del tempo e dei luoghi e mostrano perfino una specie di nostalgia del tempo e dei luoghi… per noi Cagliari e la Sardegna, per noi il lungo e complesso passaggio fra Ottocento e Novecento, il mondo nostro che era quello stesso di Grazia Deledda e Sebastiano Satta, di Francesco Ciusa e suor Giuseppina Nicoli, di Ottone Bacaredda e Francesco Cocco Ortu…

Guidati dal papà Stefano Giuseppe (nato a Travedona, presso Varese, quasi alla vigilia della definitiva disfatta di Napoleone), cinque o forse sei o forse sette Magnini varcano il Tirreno raggiungendo la Sardegna. Doveva essere il 1862. Il maggiore – Pietro venticinquenne – era reduce dalle benemerenze di guerra, della guerra che aveva portato la Lombardia (e dunque anche Varese) al regno di Sardegna prossimo a divenire d’Italia e ricco anche delle regioni padane e subpadane così come delle terre già dei Borbone. Con Pietro erano Natale, Filippo Galeazzo, Francesco, Atanasio Crescenzio, Carlo. Qualcuno dei più giovani era dovuto risalire in continente per sbrigare certi doveri dell’età – la coscrizione militare era obbligatoria – e riprendere dopo le attività di lavoro in Iglesias. Forse a far compagnia alla madre, Angela Cantoreggi, era rimasta soltanto Giuditta – ancora adolescente al tempo di quella massiva trasmigrazione – mentre la più piccola di casa, Maria detta Marietta, classe 1855, pare fosse della partita sarda già dall’inizio o quasi.

Furono Pietro e Galeazzo i leader naturali della bella schiera, al rientro paterno in Lombardia. Natale – sottoscrittore per le famiglie di Monti e Tognetti, giustiziati con la ghigliottina da Pio IX nel 1868 – e Francesco ed anche Crescenzio collaboravano con loro, tanto più a Monteponi. Carlo s’era orientato verso certi commerci e poi avrebbe impiantato, proprio ad Iglesias, una conceria a vapore, mentre suo figlio Piero – il giovane massone della loggia Ugolino – si sarebbe fatto notare come uno dei pionieri del ciclismo sardo (e con lui il cugino Erminio cagliaritano: storia dei futuri anni ’90). I più fecero famiglia: Pietro aveva già la sua Marietta Giacometti, con lui convivente, mentre Galeazzo sposò una giovane nobile sarda di nome Battistina Meloni, donna tutto cuore ma anche ottima amministratrice; così Carlo, che impalmò una Annetta Nespola di Isili (una cui sorella aveva sposato a sua volta un Devoto ed un’altra sorella un Valizzone ispettore delle tasse, ecc.); Francesco fece famiglia con una conterranea ma ebbe figli a Iglesias uno dopo l’altro (Dante, Attilio, Mariangela); idem Crescenzio (il cui primogenito nacque a Baunei, dove lui curava gli interessi aziendali del fratello Pietro costruttore)… La piccola, appunto Marietta Magnini, cresciuta, ma pure ancora giovanissima, minorenne se non quindicenne forse sedici o diciassettenne, non era mancata all’appello e, come già ricordato, aveva sposato – o l’avrebbe fatto di lì a poco – a Cagliari, con dispensa del vicario generale, il suo ingegner Angelino, già direttore di miniera in sud America…

Questo il quadro. E in breve: Pietro e Galeazzo decisero ad un certo punto di lasciare Iglesias e trasferirsi a Cagliari. Qui presero la gestione della esattoria e implementarono in misura cospicua la loro liquidità, permettendosi così, dato l’alto livello delle cauzioni, di concorrere agli appalti pubblici l’uno per la costruzione della Orientale sarda, che doveva tagliare l’Ogliastra collegandola con il capoluogo e il Campidano, l’altro per l’ingrandimento del porto di Cagliari. Grandi successi e grandi tragedie. Nel 1876 Pietro fu assassinato, insieme con il suo giovane collaboratore De Negri, ad Urzulei, da una banda di aggressori che cercavano il suo denaro – quello che portava per pagare gli operai del cantiere –, l’altro ebbe un infarto nel 1885, mentre era risalito a Travedona per alcune incombenze familiari o d’affari, lasciando a Cagliari la moglie incinta della sua quarta e tre figli ancora bambini o ragazzi, due dei quali drammaticamente sfortunati anch’essi a loro volta.

Nello stesso 1899 in cui morì Mario, sedicenne – terzo figlio di Galeazzo e Battistina Meloni –, scomparve anche l’ingegner Angelino. A questi seguì, appena tre anni dopo, proprio la moglie, Marietta Magnini, poco più che quarantenne, lasciando soli i due figli Fedele e Carlo Erasmo, entrambi studenti del Dettori (e Fedele compagno di classe dello sfortunato cugino Mario Magnini). Certamente all’inizio entrambi accuditi dai parenti di Cagliari, tutto si concluse con il trasferimento dei ragazzi in continente, rispettivamente dagli zii di Travedona – dove avevano la casa di famiglia – e dai congiunti di Casale Monferrato. Fedele in Lombardia per studiare Medicina e poi Veterinaria, Erasmo – dopo il biennio di ingegneria frequentato a Cagliari – il Politecnico di Torino dove si laureò occupandosi quindi di costruzioni ferroviarie, così anche in Africa, fra Eritrea ed Etiopia negli anni della dittatura…

Ecco qui in breve brevissimo la storia complessa e affascinante, sì anche dolorosa ma certo rivelatrice di molti talenti all’opera. I cui reperti documentari sono naturalmente oggi dispersi fra le varie discendenze. Ma di certo la signora Rita Angelino ha il più, curato con un sovrappiù di religiosità. Dico il più anche esposto all’ammirazione degli occasionali visitatori: fotografie, lettere, diplomi della Corda Fratres e della Libera Muratoria, sciarpe e labari, libretti universitari e quant’altro fra riproduzioni e quadri incorniciati… Un tesoro domestico che la signora custodisce come un patrimonio morale di prim’ordine – felicemente assistita in questo dal giovane pronipote avv. Andrea Alberto Belloli, bella intelligenza e robusta cultura umanistica, soprattutto anima trasparente e generosa che ho avuto l’onore di conoscere e frequentare a mia volta nelle sue ripetute discese a Cagliari.

La raccontò la sua storia familiare, la signora Angelino, mischiandola a quella del borgo diventato città, San Giuliano Milanese, ai cui fondamenti sociali aveva partecipato quel pezzo di Sardegna portato da suo padre veterinario.

Interrogata nel 2009 da Maurizio Loddo (cognome di derivazione sarda anche questo!) e Elisa Soffientini offerse con nitidezza la sua testimonianza che poi l’inserto foresta nascosta – foglio del progetto ideato da Matteo Balduzzi, Daniele Cologna e Stefano Laffi teso a creare un “grande album di famiglia della città di San Giuliano Milanese” e promosso dal quotidiano il Cittadino e dalla Gazzetta del Sud Milano – ha stampato come “museo temporaneo” o “museo-container itinerante” e postato, almeno per larghe sintesi, e con bella grafica e anche corredo fotografico, in internet (ultimo aggiornamento dicembre 2020).

Omaggio ideale sardo-lombardo o lombardo-sardo (non fa differenza) a Rita Angelino è dunque la ripresa, come piattaforma cagliaritana Giornalia.com, di questi suoi testi confidenziali, bellissimi. E se qualche passaggio non è perfetto – perché questo è il destino dei ricordi talvolta passati da questo a quello – non è certo alterato il quadro generale né è ferita l’atmosfera…


I ricordi personali, i racconti dei grandi: la Sardegna

«Il dottor Fedele Angelino era mio papà e ha comperato questo terreno per costruire la casa, prima della guerra, perché ha vinto il concorso come veterinario comunale ed aveva l’obbligo di residenza. Era l’unico veterinario in un paese con tantissimi agricoltori, perché questa era una zona agricola, dove c’era tantissimo bestiame, quattro o cinquemila capi. E faceva la spola da Milano a Melegnano, e oltre. Allora ha preso questo terreno dal Comune, ma qui non esisteva niente, assolutamente niente. Il primo alloggio che gli aveva dato il Comune era in piazza, vicino al Comune… Poi gli hanno offerto questo terreno, su via della Costituzione, che era del Comune stesso, e allora l’ha preso e ha costruito un po’ di fretta, perché aveva bisogno di questa sistemazione… Mangiavamo magari fuori d’estate. All’altezza delle scuole, c’erano le rane, perché c’erano le risaie e io, bambina, sentivo gracidare dappertutto. Al di là di quel muro lì, c’era un cimitero. Queste case attorno son venute dopo. Quando questa è stata fabbricata era l’ultima casa del paese... C’era il muro di cinta del primo cimitero di San Giuliano, che era di tre metri di altezza, e poi non c’era più niente.

«Mio padre non è nativo di Cagliari, ma solo per una combinazione. È nato nel varesotto perché i suoi genitori avevano una villa lì, però abitavano a Cagliari. D’estate venivano qualche volta qui: per pura combinazione lui è nato in anticipo, e quindi è nato nel varesotto. Il fratello, l’unico fratello che ha avuto è nato a Cagliari. Ha deciso di venire qui a Milano perché i suoi genitori sono morti molto presto. Mio nonno – Giovanni Angelino – era ingegnere, e ha costruito – andiamo indietro di più di cent’anni – il porto di Cagliari. La nonna Magnini aveva anche lei i fratelli ingegneri… Nella via principale di Cagliari, via Roma, ci sono i palazzi Magnini, lui ha abitato lì. Erano stati costruiti da mio nonno e da mia nonna. Quando si sono sposati mio nonno aveva trentasei anni e mia nonna sedici, una bella differenza di età. Poi mio nonno, in seguito, ha avuto questa occasione, retribuita molto bene, di andare in Brasile, a lavorare in una cava di diamanti dove lui, come ingegnere, doveva seguire i lavori. È stato in questa cava per molto tempo: ha subito anche assalti da parte di banditi! In Brasile, dove non c’erano le cure che ci sono adesso, si è preso la febbre gialla, che gli ha lesionato il fegato, ed è morto giovane. Poi anche la nonna improvvisamente è morta…

«Allora mio papà e suo fratello non avevano più ragione di stare là, a Cagliari. Mio padre è venuto a Milano a studiare, è stato là fino a ventun anni compiuti. Suo fratello, l’unico che aveva, era ingegnere e si è laureato a Torino. Dopo è andato in Africa e ha fatto tutte le ferrovie di Eritrea. C’è stato ventitré anni consecutivamente. È tornato dall’Africa quando è scoppiata l’ultima guerra. E siccome era l’ingegnere che aveva fatto più anni in Africa e aveva anche ottenuto meriti speciali, è andato a lavorare al ministero a Roma, il ministero dell’Africa Orientale Italiana... È stato molto a contatto con De Gasperi, perché erano in ufficio insieme.

«Mio papà invece ha fatto tre anni di medicina umana, però non gli piaceva, preferiva fare veterinaria: e questa era una zona migliore per la veterinaria. Quando c’erano interventi da fare chiamavano lui, per esempio le castrazioni dei cavalli. Perché i cavalli sono tutti castrati, non sono mai interi. Mi ricordo che, in tempo di guerra, anche mio cognato, che aveva appunto lo stabilimento a Rogoredo, quando veniva fuori a trovarci usava anche lui un calessino, come mio papà, perché non si potevano adoperare le automobili. Mio cognato aveva preso una cavalla che era uno scarto di San Siro, quindi era abituata a correre. Se sentiva un cavallo al trotto partiva ed era difficile tenerla. Ma mio cognato era molto robusto, faceva il tratto da Milano a Rogoredo con questa cavalla. Se un cavallo intero sentiva una cavallina, chi lo teneva più? Ecco perché tutti i cavalli erano castrati… Si compravano nelle fiere: c’era il mercato del bestiame a Melegnano in altri paesi. Tutti gli agricoltori andavano a Milano e se li scambiavano tra di loro.

«Mio papà era anche chirurgo, e non tutti i veterinari avevano fatto chirurgia. C’erano dei veterinari dopo Melegnano, che erano bravi veterinari, ma non erano chirurghi. Quindi tutti si rivolgevano a lui, per forza. Il cavallo da sterilizzare era pericoloso, perché ora li sterilizzano e via, ma allora no: ed era pericolosissimo. Infatti lui aveva un aiuto, perché bisognava buttare i cavalli a terra in una determinata maniera, su un letto di paglia... Poi legavano le zampe con le “balze”, e quindi mio papà operava…

«Le cascine erano belle: a Zivido c’era una bella cascina, di cui era proprietario un marchese. Io lo conoscevo molto bene il marchese Brivio, perbacco, perché veniva sempre qui da mio papà per i certificati di transumanza, perché lui aveva molti animali… A Milano, tutte le vie del centro sono del marchese Brivio: ovviamente ora dei figli e dei nipoti. E la chiesetta che c’è lì, quella di Zivido, è la loro cappella di famiglia… Lui aveva fatto fare anche un bassorilievo della battaglia dei Giganti, la battaglia di Marignano a Zivido. C’erano delle bellissime cascine che io conoscevo tutte, perché poi ero amica dei figli degli agricoltori. Conoscevo bene tutti gli agricoltori e ci ritrovavamo sempre. Facevamo feste da ballo: in cascina c’erano degli agricoltori che ci tenevano molto. Questo dopo la guerra ma anche all’inizio, quando non c’erano ancora i bombardamenti. Tutti i figli degli agricoltori o hanno studiato con me, o li conoscevo molto bene, perché eravamo quasi tutti della stessa età. Facevano delle belle feste il pomeriggio, la domenica e i giorni festivi, e siccome loro avevano poi abbondanza di uova e di burro, magari facevano delle torte e ci invitavano. Il figlio di un agricoltore qui suonava bene il piano e allora ci intrattenevamo così, per passare il pomeriggio: qualche ballo, qualche divertimento così… Tutti conoscenti di mio papà. Lui non conosceva né giorno né notte, e non faceva pausa nemmeno a Natale, con tutti gli animali da curare…

«Noi non abbiamo mai chiuso la porta. Mai, neanche il cancello: era aperto, così i contadini potevano entrare a chiamare mio papà. Chi ha mai chiuso la porta di sera? La chiudevamo per il vento, per il temporale, ma così, non certo a chiave. Adesso ci sono tante belle cose: si va sulla luna! È tutto migliorato, però non c’è quella tranquillità che c’era una volta. Il meglio e il peggio. Adesso c’è tutto. Manca forse un po’ la tranquillità.

Nel tempo di guerra e dopo

«Prima della fine della guerra, nel 1944 circa, queste due case – questa del 1925, quella del 1933 – sono state requisite dai tedeschi perché qui si era insediato il comando tedesco delle SS: qui c’era il comando e lì la mensa… o viceversa, non ricordo… Avevano chiuso tutto coi reticolati, perché qui non si poteva più mettere piede. Noi in ventiquattr’ore abbiamo dovuto sbaraccare e cedere i locali vuoti, perché loro dovevano venire a risiedere in casa nostra. Poi, finita la guerra, abbiamo ripreso tutto. Ma ci hanno fatto danni a non finire. Qui di sotto avevano messo dei carri armati, là avevano seppellito fusti di benzina e tutto quello che poteva servire a loro… Dopo sono sorte le case qui, ma era proprio campagna…

«Io mi ricordo che da ragazzina avevo una gattina, e ho dovuto chiedere permesso a questi militari – insomma, le SS erano proprio dei bei giovanotti – e mi avevano dato il permesso, attraversando questi reticolati, squallidi, brutti… Chissà cosa credevano che venivo a fare, perché erano tutti armati…, mentre io venivo a dare da mangiare al mio gatto, che poi non ho trovato più… Noi siamo andati a stare nella villettina del dottor Maderno, sulla strada per andare al GS...

«La vita in tempo di guerra di certo non era bella. Poi avendo qui i tedeschi… Quelli che stavano in cascina vivevano abbastanza bene, perché avevano sempre il burro, un po’ di farina, il pollo, o qualche altra cosa da mangiare. Anch’io non posso dire di aver sofferto la fame, perché con tutti gli agricoltori che avevano farina, latte, e tutto quanto, qualche cosa a mio papà lo davano sempre. Perché poi mio papà era anche una persona molto, molto ben voluta, perché era molto buono e cercava di aiutare tutti… Si è passata la vita così: tutte le sere c’era l’aereo che passava e mitragliava, bombardamenti ne abbiamo avuti, in quel cortile qui vicino è pure morta una ragazza, che è stata mitragliata. La sera alle cinque o alle sei cominciava a passare questo aereo e mitragliava… Alla sera il coprifuoco, chi usciva erano tutti i tedeschi che giravano qui in paese… Tutte le notti c’erano dei bombardamenti a Milano, però qui noi stavamo in casa con tutto chiuso, tutto buio, solo con una candela e poi tutte le finestre oscurate, prima che la casa fosse occupata dai tedeschi… ci alzavamo anche tre, quattro, cinque volte e andavamo in cantina. La nostra salvezza era la cantina: se arrivava una bomba la cantina ci salvava. Due o tre volte per notte suonava questa sirena e tu sapevi che ti dovevi rifugiare… Mio papà aveva fatto puntellare la cantina, tanto per darci quel senso di sicurezza, che poi la sicurezza era relativa… Tanta gente veniva da noi in cantina, perché loro la cantina non l’avevano e la nostra era abbastanza protetta…

«Quando è finita la guerra ci sono stati i partigiani e anche loro non si sono comportati bene, potevano evitare alcune cose che hanno fatto. Quando c’è la guerra c’è il buono e il cattivo dappertutto: mi ricordo che anche qui c’era un soldato, quello che mi aveva fatto entrare per il gatto, Guglielmo, che si vedeva che capiva la situazione. È stato lui a esser stato fucilato dai nostri. Io non posso dire se han fatto bene o se han fatto male, ma a me quel soldato non aveva fatto niente, era stato umano con me. Noi li vedevamo come intrusi, ma cosa si poteva fare di fronte a loro che comandavano? C’era poco da fare. C’erano dei soprusi, sì: ci han mandato via di casa in ventiquattr’ore… Eravamo impotenti. Dopo la guerra il cambiamento si è visto subito: la tranquillità di non avere più la preoccupazione delle bombe sulla testa! Finita la guerra c’era l’ottimismo, le cose si vedevano sotto un’altra luce.

Un cagliaritano nella sua vita

«Io volevo fare le magistrali, però in tempo di guerra era difficile anche andare a Milano e spostarsi, così mi sono fermata. Poi le mie sorelle si sono sposate molto giovani e io sono rimasta in casa, un po’ attaccata alla famiglia. Dopo ho avuto anch’io un amore. Mi sarei pure dovuta sposare, giovane anch’io. Per questo i miei studi si sono interrotti. Era un ingegnere di Milano, tra l’altro. Poi le cose non sono andate, non era il mio tipo, non era quello che desideravo. Ma la mia vita l’ho passata con un uomo con cui non mi sono mai sposata. Ho convissuto per più di venti, venticinque anni, e lo rifarei ancora in questo momento. Era un uomo che aveva vent’anni più di me, però era più giovane di me. Era un professore di chimica e di altre materie scientifiche all’Università di Milano. Siamo stati insieme fino a pochi anni fa e io, se dovessi rinascere, rifarei la stessa vita, perché sono stata felice. Ho avuto un uomo che mi ha dato tutta la felicità di questo mondo. Io lo dico a tutte le ragazze: se trovate l’uomo giusto non guardate l’età. Ma deve essere l’uomo giusto, l’uomo che vi dà tutto, e io ho avuto tutto…

«Si chiamava Platone di cognome, pensa un po’ che cognome importante! Non vivevamo qua. Lui abitava a Milano e stavamo insieme, non stavamo insieme… non era una convivenza di tutto il giorno e di tutti i giorni. Ci vedevamo sempre, abbiamo fatto anche tanti viaggi. Parigi era la nostra meta: andavamo a bere il caffè a Parigi. Poi sorprese bellissime, nel fine settimana andavamo a Venezia. Più in treno che in macchina, in macchina poco. Ci sono stata moltissime volte, la conosco bene Parigi: Notre Dame era la mia meta. Andavamo sempre a cena a Montmartre. Andavamo sempre in posti molto belli perché a lui piaceva magari fare due viaggi all’anno, però sempre in posti molto belli. L’ho conosciuto a Milano, per combinazione. È una combinazione, il destino che ci ha portati insieme… Era un bel sardo di Cagliari. Era un professore molto esigente coi suoi studenti, ma non carogna. Ha scritto anche molti libri. Chimica, scienze, matematica: tutte cose che a me non piacevano.

«Lui ogni tanto mi diceva: “senti, ma se domani andiamo a Parigi?”. Andava, prenotava e di punto in bianco partivamo. O a Venezia, siamo stati in Olanda. La cosa che mi è rimasta molto impressa, che racconto sempre anche alle mie nipoti, è che ho passato l’ultimo dell’anno ad una festa indescrivibile a Vienna, nel palazzo degli imperatori asburgici. Perché c’era questa festa sontuosissima e appunto sono andata con lui a passare l’ultimo dell’anno a Vienna. È stata una cosa bellissima, un ricordo bello. Ho questi ricordi che per me sono molto importanti; io ci rivivo con questi ricordi, perché mi hanno lasciato molto».


Fonte: Gianfranco Murtas
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