Alla Collina di s’Otta in Serdiana, oltre le sbarre morali e materiali
di Gianfranco Murtas
È uscito, per i tipi di Chiarelettere, Reverse, Chi sbaglia paga, con un doppio distico in copertina – una bella copertina verde speranza –, come a meglio sintetizzarne il senso e il riferimento: Certezza della pena e della rieducazione, La voce dei detenuti e l’esperienza di un carcere alternativo. Autore Sergio Abis, prefazione di Gherardo Colombo. Il riflettore è sul mondo delle carceri minorili e sulla proposta alternativa offerta al sistema repressivo/rieducativo da La Collina, la comunità realizzata in agro di Serdiana, ora è già quasi un quarto di secolo, da don Ettore Cannavera con un bel numero di amici e collaboratori tutti indistintamente di gran valore, gente di passione civile oltreché di sentimento umanitario, gente che ha messo e mette a frutto una bella vocazione alla cosiddetta “cittadinanza attiva” declinata in quel senso partecipativo che è mille volte di più che non il volontariato della mezz’ora alla settimana, perché è un fatto di testa e di coscienza, non di agenda.
Non mi tocca entrare in argomento, questa volta. Soltanto vorrei segnalare che l’opera di Abis – un professionista di bel talento e vita piena (con glorie e scivolate, come è di chi vive le pienezze) – ha ricevuto una interessante recensione addirittura da L’Osservatore Romano, dove ne ha scritto, lo scorso 18 settembre, Silvia Gusmano, docente di lettere alle scuole pubbliche e giornalista.
In Sardegna ho visto quanto ne ha scritto don Tonino Cabizzosu, storico della Chiesa (per 35 anni ha insegnato in Facoltà teologica a Cagliari, ed ora dirige il settore Beni culturali nella diocesi di Ozieri). Le sue riflessioni sul libro di Abis sono uscite in diversi giornali diocesani dell’Isola, da L’Arborense a Voce del Logudoro, da Sulcis-Iglesiente oggi a Libertà.
Qui di seguito riporto il testo della Gusmano, nella ripresa dal giornale della Santa Sede.
Do testimonianza della impresa dalle molte valenze che lo spirito sociale ed ecclesiale ad un tempo, essenzialmente pedagogico – nelle tre dimensioni associate –, ha donato alla Sardegna nel passaggio di secolo e di millennio. Ho potuto seguire dal primo giorno – proprio dal primo giorno e perfino dalle fasi preparatorie – la grande e bella e provvidenziale fatica di Cannavera presbitero e professore, anima progettuale, misto di indipendenza intellettuale e di tensione comunionale giocati in una infinità di situazioni difficili e scomode. La storia sociale della Sardegna racconterà alle future generazioni del suo contributo peculiare, come racconterà la virtù progettuale e innovatrice di altri uomini di Chiesa come Salvatore Morittu e Angelo Pittau, amici entrati, da quaranta e più anni, nella mia vita – e con loro tanti altri con cui la frequentazione è stata meno intensa ma che sempre ho ammirato all’opera. Nella logica del “noi”, dell’ “io” responsabile non orgoglioso o narcisista, ma dell’ “io” assorbito o esaltato nel “noi”.
Fra cronaca e testimonianza per la Collina
(da Partenia in Callari, edizione 1997, ripreso in Costruendo fraternità. Ettore Cannavera prete da cinquant’anni. A Partenia, Cagliari, EDIUNI, 2018)
Ha compiuto un anno la comunità "di vita" fondata dà don Ettore Cannavera - I primi consuntivi di un'esperienza nuova e necessaria - Le prossime mete: la casa comunitaria, le coltivazioni delle erbe officina!! - I budget dell'autosufficienza - «Le parole d'ordine del nostro programma: autogestione, autonomia, vita semplice, austera, che ama il silenzio, che è pratica, che è attenta al debole, che è volta all'accoglienza, alla solidarietà e alla condivisione».
«L'idea di questa comunità di accoglienza con la caratteristica anche agricola è nata dal gruppo dei volontari, riuniti nell'associazione "Cooperazione e Confronto", che con me lavorano ormai da anni nelle comunità minorili e nell'IPM di Quartucciu. A questo gruppo si sono affiancati altri amici che recentemente hanno dato vita all'associazione "Oltre le sbarre".
«La nostra presenza in carcere ci ha portato a interrogarci sul dopo-carcere, su dove finiscono i, ragazzi quando scontano la pena, qual è la loro condizione di vita, e soprattutto quali sono le opportunità che noi diamo loro per reinserirsi in modo positivo nella società.
«Abbiamo anche riflettuto sulla situazione in cui si vengono a trovare i ragazzi che, al compimento del loro ventunesimo compleanno, debbono lasciare Quartucciu per trasferirsi nei carceri per adulti e completare la loro detenzione. Quando ciò accade abbiamo visto che, purtroppo, si vanifica quel lavoro, pur minimo, che si è compiuto nel carcere minorile per il recupero del soggetto. È ovvio, infatti, che quando un ragazzo entra in una compagnia di adulti, dove sono presenti personalità molto più forti della sua, egli è destinato a soccombere. Lo si vedrà presto assumere completamente, in tutto e per tutto, la cultura, il comportamento degli altri...».
Sacerdote e pedagogista-psicologo, professore di filosofia alle superiori e da quasi quattro anni anche cappellano (per sua scelta non retribuito) all'IPM, Ettore Cannavera spiega i perché della sua nuova comunità "di vita" denominata "La Collina". Sa benissimo che per i giovani, detenuti il futuro è pressoché sempre scuro.
«Proprio per questo - sostiene - ci è sembrato assolutamente necessario impegnarci per offrire al ragazzo recluso nel carcere minorile e che, una volta liberato, rischia la recidiva, o che, non avendo completato la sua pena, deve passare, in ragione dell'età, al carcere per adulti, alcune possibilità di reinserimento sociale. In alcuni casi, appunto, anche perché possa usufruire delle misure alternative alla detenzione, previste dall'ordinamento penale minorile.
«Così è nata l'idea di questa comunità di accoglienza, dove non ci sarà alcuna forma di assistenza, non ci sarà alcun adulto da considerare "operatore" con lo specifico compito di seguire il ragazzo. No, sarà una comunità autogestita, una comunità "di vita", in cui ciascuno degli adulti presenti, che partecipano perché intendono condividere queste esperienze, ed i ragazzi che ci saranno affidati dal Tribunale o che sceglieranno liberamente, nel dopo-carcere, di stare con noi, tutti dovranno organizzarsi perché ciascuno diventi sempre più responsabile della propria vita in un'ottica di autonomia».
Quando e dove avete iniziato?
«Abbiamo iniziato nell'ottobre del 1995, in una casa messaci a disposizione da una famiglia di amici, soci della nostra stessa associazione. Qui abbiamo potuto iniziare subito una convivenza. Ho cominciato prima con Antonio soltanto, poi si è aggiunto Giancarlo. Sono due ragazzi che, compiendo il ventunesimo anno di età, rischiavano di passare dal carcere minorile, in cui erano reclusi, a quello per gli adulti. Dovevano infatti scontare ancora una parte della pena. Invece, il Tribunale ha inteso utilizzare quanto la legge prevede come possibilità, in questi casi, e cioè la liberazione condizionale, che si trasforma in una situazione di libertà vigilata.
«Entrambi, Antonio e Giancarlo, sono stati inviati qui alla "Collina" dal magistrato di Sorveglianza, non potendo ancora rientrare in famiglia... L'alternativa al carcere, trascorsa parte della pena, poteva essere esclusivamente questa forma di affidamento, anche se il termine, trattandosi di maggiorenni, non è esatto. La dico meglio: loro sono liberi, vigilati, al magistrato interessa stabilire chi è in grado di controllare questa libertà, di vigilarla. C'è una parte di vigilanza che compete alle forze dell'ordine, ai carabinieri e alla polizia, per esempio l'andare a firmare, una volta alla settimana, in caserma; e c'è una parte che compete a me personalmente. Mi riferisco al dovere di far rispettare le altre prescrizioni, quali gli orari di rientro in comunità, gli spostamenti entro un ambito circoscritta (sostanzialmente quello tra la casa e la scuola o il posto di lavoro), la non frequentazione di persone pregiudicate o di locali a rischio... Ne rispondo io, sono tenuto a tenere informato il Tribunale di ogni anomalia, però in quel caso a pagarne le conseguenze sarebbe il ragazzo, la mia è una responsabilità non giuridica ma morale, diciamola così. Sono maggiorenni entrambi, per questo ne rispondono in proprio.
«Con noi ci sono alcuni volontari, una ventina, che vanno e vengono, offrendo alla comunità un contributo notevole, e ai ragazzi in particolare offrono un contesto di reinserimento sociale, di accoglienza, di valorizzazione delle loro capacità, delle loro potenzialità, in vista di un graduale reinserimento nello stesso loro ambiente d'origine, famiglia e paese... entrambi vengono dal centro dell'isola».
C'è già oggi una ripresa di rapporto con le rispettive famiglie, da parte dei ragazzi?
«Sì, questo contatto noi lo caldeggiamo, ma deve essere sempre un contatto "vigilato", come se fosse direttamente il Tribunale a controllarlo, perché in questa fase è come se i ragazzi fossero ancora in carcere, per cui è necessario chiedere l'autorizzazione a visitare i familiari nei loro rispettivi paesi... Comunque posso dire che il contatto con la famiglia, da parte dei ragazzi, è senz'altro incoraggiato e facilitato. Noi li accogliamo, i familiari, da noi, quando gradiscono venire, perché l'ottica nostra è quella di aiutare questi ragazzi a rendersi completamente autonomi, e tale autonomia dovrà realizzarsi anche attraverso il reinserimento nel contesto sociale di provenienza».
Un futuro da costruire
E chi decidesse, a fine pena, di non lasciare la comunità, di non tornare a casa propria, nel proprio paese?
«Se i ragazzi decidessero di proseguire una esperienza di vita con noi, liberamente, nella fase successiva a questa condizione "vigilata", avrebbero la possibilità di farlo, proprio nel quadro dell'iniziativa comunitaria che stiamo allestendo è rafforzando, anche con la nuova casa che ha appena iniziato a sorgere. Ciò sia sul punto di vista occupativo, lavorativo, che da quello puramente alloggiativo. Noi proponiamo uno stile di vita, uno stile, dei valori di riferimento umani, spirituali, sociali, imperniati sul reciproco rispetto fra le persone, sull'attenzione dell'uno per l'altro, sul l'accoglienza, sull'accettazione dell'altrui diversità».
Questo esigerebbe una diversificazione delle realtà umane compresenti, non pensi?
«Certamente. Ecco perché noi non vorremmo solo una comunità per detenuti, ex detenuti e ragazzi con provvedimenti giudiziari, ma preferiremmo allargarci a persone portatrici di altre problematiche —si pensi all'AIDS, si pensi alla malattia mentale — purché il soggetto, il ragazzo, il comunitario (non lo chiamerei, allora, ]`ospite») sia in grado di gestirsi la propria vita, non abbia bisogno di un operatore per essere seguito come può esserlo, per esempio, un tossicodipendente al quale serve una comunità terapeutica - cosa che non siamo e non abbiamo in programma di diventare -, o un minore incapace di un minimo di autosufficienza».
Insomma, svantaggiati ma non dipendenti?
«Comunque tutto avviene, deve avvenire in un contesto di sostegno reciproco, in un contesto nel quale ci si può già fidare, si può riconoscere un'autonomia adeguata per il lavoro, la vita ordinaria.
«A distanza ormai di un anno, e mezzo circa dacché abbiamo cominciato, qualche piccolo consuntivo possiamo accennarlo: i ragazzi hanno risposto in maniera adeguata, rispettando le prescrizioni e le regole della comunità. Bisogna considerare che la misura di cui hanno beneficiato è molto delicata: se dovessero venire meno alle prescrizioni sugli orari, sugli spostamenti, sulle frequentazioni, ecc., prima ancora che commettessero un ipotetico reato, perderebbero la loro libertà che, seppure vigilata, è sempre libertà, è sempre maggiore possibilità di autogestirsi il tempo, gli interessi. Si, la situazione sta andando bene. Uno dei due ragazzi, Antonio, ha ripreso gli studi. Frequenta la quarta ragioneria con buoni risultati; l'altro, Giancarlo, ha lavorato per un anno circa - lavori saltuari, nel settore agricolo - ed ormai da quattro o cinque mesi è stato assunto dalla EcoSerdiana, che si trova a pochissimi chilometri dalla nostra comunità. È un lavoro abbastanza garantito, e lui si è inserito benissimo, è molto stimato sia dal suo principale che dai suoi colleghi».
I ragazzi possono frequentare loro coetanei fuori dai confini della casa?
«Certamente, purché io ne sia informato. E questo avviene regolarmente, compatibilmente con gli impegni di studio e di lavoro. C'è stata questa apertura alle relazioni, è una cosa molto importante', anche dal punto di vista educativo. Cioè, il reinserimento sociale passa anche attraverso questi rapporti con ragazzi della loro età, di questi paesi tra Serdiana, Dolianova, Soleminis... Escono con altri ragazzi, vanno alla pizzeria e al cinematografo, si possono muovere... Vedo che hanno rapporti molto sereni e di amicizia con altre persone che possono arricchirli umanamente. Possiamo dire che ormai stanno vivendo la loro vita di ventuno-ventiduenni come gli altri loro coetanei. Così andrà avanti, speriamo; sino al fine pena, poi decideranno. Potrebbero tornare in famiglia».
Ecco, dicevamo della ripresa dei rapporti con quelli di casa. Che cadenza hanno oggi?
«Le visite dei familiari sono periodiche, la domenica, a settimane alterne, essi vengono a trovarci, stanno con noi l'intera giornata, stiamo a tavola tutti insieme. Poi ci sono, naturalmente, le feste, il Natale, la Pasqua... Ma anche adesso, se c'è una vacanza scolastica di qualche giorno, capita che Antonio, che è lo studente, chieda il permesso al Tribunale, e vada a casa dai suoi. Tutt'altra cosa rispetto agli anni del carcere...».
Insomma, consuntivo ok, possiamo dire, guardando all'esperienza di questo anno e mezzo. Ora comincia però la fase due della comunità "La Collina". È così?
«La fase sperimentale, iniziale, d'avvio, è andata bene e sta per concludersi. Abbiamo il dovere di darle un seguito coerente, secondo i nostri programmi originari. E infatti, proprio nei giorni scorsi abbiamo messo la prima pietra della nuova casa, della nostra casa, perché - come ho detto - dove siamo adesso siamo ospiti.
«Il sogno sarebbe di avere la costruzione finita, almeno la parte necessaria a viverci, già entro il 1997. Speriamo di farcela. Noi puntiamo ad avere sette od otto ragazzi con noi, del carcere e del dopo-carcere. Naturalmente dovremmo essere in grado di offrire loro una possibilità lavorativa concreta, se essi non dovessero trovarla fuori, come pure sarebbe auspicabile. Noi abbiamo avviato un progetto di agricoltura biologica, che potrebbe occupare un gruppo di almeno cinque o sei ragazzi. Tutto questo, ripeto, in una logica di comunità "aperta". Voglio dire che qualcuno di questi cinque o sei ragazzi impegnati nel lavoro agricolo della nostra azienda-cooperativa potrebbero essere ragazzi "qualsiasi" dei paesi qui attorno, i quali intendessero compiere una esperienza di vita comunitaria con noi, condividere il nostro stile di vita, realizzando, per la parte che compete loro, quell'autogestione alla quale mi sono riferito prima».
È un punto assolutamente qualificante, caratterizzante della vostra comunità questo dell'autosufficienza...
«È così, vogliamo vivere del nostro lavoro, non vogliamo nessuna convenzione, forse non ce ne sarebbero neppure le condizioni di legge... Non vogliamo contributi pubblici, accettiamo quelli di chi, in qualche modo, condivide il nostro progetto. Contiamo di promuovere una cooperativa giovanile cui partecipino i nostri ragazzi, una cooperativa agricola orientata alle produzioni biologiche, alla coltivazione e lavorazione di erbe aromatiche, di erbe officinali, per cui si intravvede già un mercato. A Soleminis, vicinissima alla nostra sede, che è proprio alla confluenza dei comuni di Dolianova, Serdiana e Soleminis, c'è da più di dieci anni una cooperativa, o una comunità-cooperativa, che è specializzata proprio in agricoltura biologica. È una comunità che comprende persone disabili e non, e producono e vendono, esportano anche all'estero. Noi potremmo inserirci in questo canale».
L'utopia che è possibile
Una scommessa per una società alternativa?
«Non è impossibile, è difficile ma non difficilissimo, bisogna essere convinti delle proprie idee. Le "parole d'ordine" del nostro programma sono la nostra filosofia di vita: autogestione, autonomia, vita semplice, austera, che ama il silenzio, che è pratica, che è attenta al debole, che è volta all'accoglienza, alla solidarietà e alla condivisione. Lavoriamo per sviluppare questa tensione alla solidarietà e alla condivisione proprio in quei ragazzi che hanno sofferto il disagio e le conseguenze del disagio. Sono loro forse che hanno una innata attenzione al debole, ad accogliere coloro che vivono ora i propri momenti di difficoltà».
L'esclusione dell'ente pubblico da questo progetto però non può essere dogmatica. Non è meglio operare per il suo coinvolgimento in operazioni innovative come questa della "Collina"?
«La Regione, la Provincia o il Comune entrano, o almeno noi stiamo chiedendo loro di entrare nel merito della nostra iniziativa per favorire il suo ampliamento almeno nelle strutture fisiche di base. Mi spiego: se noi riusciremo, nei prossimi sei-otto mesi, a completare il nostro impianto casa-campi (con la casa anche un luogo di studio, una biblioteca, e un luogo di meditazione e di preghiera, una cappellina) non potremo però accogliere che un massimo di sette-otto-nove persone; se però la richiesta fosse maggiore? Considera che proprio in questi primi mesi del 1997 abbiamo avuto almeno una quindicina di richieste da ragazzi che sono in carcere o che sono fuori, ex detenuti, ma senza lavoro e forse senza bussola, senza famiglia e senza ambiente umano accogliente, sociale, i quali ci hanno chiesto di partecipare, di essere accolti. Perché dire "no"? Ma non potremmo, non possiamo dire di "sì" non abbiamo le risorse. E allora l'ente pubblico io credo debba entrare proprio a questo punto. Deve poter creare le condizioni per ampliare il nostro progetto, deve poter integrare il proprio intervento, tutto orientato al lavoro, al reinserimento sociale dei ragazzi tramite il lavoro, coordinandolo con quel che abbiamo fatto noi. L'ente pubblico, quale esso sia, potrebbe acquistare altri terreni vicini; magari adiacenti, così da consentirci di allargare l'azienda, conservando naturalmente la proprietà dell'immobile, del fondo - a noi non interessa la proprietà, ma l'uso -, offrendoci la concreta possibilità di sfruttare i terreni. Penso anche a tanti terreni incolti, abbandonati dalla proprietà».
Sarebbe una gran cosa anche un intervento di affiancamento a termine, cioè per un tempo definito, per la fase iniziate della produzione. Ci avete pensato?
«Noi sappiamo che all'inizio la produttività è bassa. Io credo che esistano delle concrete opportunità, ci sono dei segnali favorevoli. È un qualcosa che si muove, e sposa due aspetti dell'unico problema sociale: una riformulazione della risposta "detenzione" data a un ragazzo che delinque, una iniziativa nuova per favorire il lavoro giovanile, anche in chiave deterrente del disagio e della criminalità. Mi pare chiaro, ed è ormai nella consapevolezza di tutti, anche e doverosamente delle istituzioni, che rispondere col carcere e soltanto col carcere a chi somma in sé motivi di disagio personale e familiare, magari di tossicodipendenza ed esperienze nella microcriminalità, significa cronicizza re questo stato...
«L'indirizzo generale sia della magistratura minorile che del Ministero di Grazia e giustizia è quello di allargare la gamma delle misure cosiddette alternative cui ammettere i ragazzi, perché queste misure quasi sempre, se non proprio sempre in assoluto, hanno in sé una forza rieducativa del ragazzo riconosciuto colpevole di un reato: dalla liberazione condizionale alla messa alla prova, dal lavoro all'esterno all'affidamento sociale... Solo che oggi, concretamente, le possibilità di inserimento lavorativo di un ragazzo che provenga dal carcere sono veramente poche. Per questo noi siamo impegnati col progetto della "Collina". Speriamo di avere, nell'arco di due anni, almeno tre gruppi, tre nuclei di lavoro, magari uno di ragazze. Lo ripeto, tutto nella logica comunitaria, ma non nell'appiattimento, anzi nella valorizzazione delle diversità. Non per niente la nostra associazione si chiama "Cooperazione e Confronto"».
Un obiettivo: chiudere i carceri minorili, è l'ora del patto educativo
Avviare una "scuola per genitori" promuovere incontri di auto e mutuo aiuto tra genitori, tra genitori e scuola, migliorare la cultura pedagogica degli operatori sociali - La risorsa del volontariato
Si sa che la mancanza di strutture alternative al carcere costringe i giudici a tenere in cella, anche prima del processo; i minori che potrebbero, invece, essere assegnati altrove. Ma come si vive al di là delle sbarre, dentro il fortilizio? E che considerazioni suscita in un prete come te, insegnante di adolescenti oltretutto, e operatore sociale, la detenzione minorile?
«La situazione nel carcere minorile è, tutto sommato, abbastanza tranquilla, nel senso che si riesce ad evitare i conflitti, violenze, però sempre più ci convinciamo che il carcere non aiuta il ragazzo. Può esserci qualche rara eccezione, ma non serve a ragazzi che non hanno dentro di sé una capacità di analisi del contesto in cui vivono, di rendersi 'autonomi rispetto ad un contesto che li vuole sempre più conformare alla mentalità del carcere. E la mentalità della diffidenza, dell'ostilità, quella del rapporto tra banditi e carabinieri, cioè tra ragazzi e tutti gli adulti - dagli agenti agli educatori - con strumentalizzazioni, senza sincerità e autenticità. In carcere questo salto di qualità, in positivo, è difficilissimo, nonostante i nostri sforzi perché quando un ragazzo 'osasse, tentasse questo, verrebbe subito ringoiato, fagocitato dagli altri, perché diventi "un vero detenuto". E un vero detenuto non può permettersi di dire le cose come stanno, di riferire il proprio disagio, le proprie sofferenze, il detenuto deve essere uno "duro", uno che si vive la carcerazione con dignità, senza pieghe di debolezza. E purtroppo dopo due o tre giorni tutti i ragazzi entrano in questo ruolo, quindi diventano anche aggressivi, proprio per far vedere, attraverso questa maschera di durezza, una identità che fa comodo, perché nasconde la loro fragilità, la paura per la sofferenza che invece stanno vivendo. E questo è dato da un insieme di fattori, ad iniziare dalla struttura stessa del carcere e poi dal rapporto tra ragazzi ed agenti, tra ragazzi e tutto il personale che non permette loro di essere autentici, perché l'adulto che sta nel carcere deve essere sempre strumentalizzato in vista di poter ottenere da lui qualcosa, qualche piccolo beneficio, un permesso premio, una 'maggiore attenzione. Una volta che si entra - anche se i primi tre giorni si cerca di far capire al ragazzo come deve comportarsi con gli altri - di fatto si viene presi dal gruppo, è il gruppo che insegna come stare in carcere, come si deve essere detenuti».
C'è stato quest'anno una forte dibattito, è apparso anche sui giornali nazionali come Repubblica, sul futuro dei carceri minori/i: teniamo o no aperti i carceri minori/i? hanno senso i carceri minori/i?
«È una grossa questione. Sono intervenuti anche il' direttore dell'Ufficio centrale per la giustizia minorile, magistrati, parlamentari. C'è stato un grosso schieramento per dire che il carcere minorile non ha senso, non può rispondere al dettato costituzionale della rieducazione. Però ci sono anche grosse resistenze alla chiusura perché non abbiamo altre risposte, che sarebbero quelle delle misure alternative, bisognerebbe mettere su strutture che, in fondo, sarebbero le comunità, o qualsiasi altra struttura dove il ragazzo possa convivere con degli adulti in un rapporto di autenticità. Allora il carcere potrebbe essere sostituito... gradualmente, coinvolgere tutti i ragazzi che potrebbero beneficiare di questa misura alternativa. Così fino a quando nel carcere non resteranno che quei quattro o cinque casi più difficili per i quali si imposterà un carcere diverso, perché così si può cominciare ad avviare una modifica di clima e del tipo di relazione che c'è oggi in carcere. Ma con un carcere che oscilla tra 20 o 30, la media attuale da noi, questo non è possibile perché la preoccupazione maggiore è la custodia, la vigilanza, evitare conflitti, le risse e la violenza».
Siccome oggi è ancora un'utopia la chiusura de/carcere, alcune cose si possono però modificare in meglio, soltanto applicando le norme penitenziarie che ci sono. Questo è competenza delle direzioni di stabilimento. A Quartucciu come va?
«Tutta la politica dei permessi, dell'ingresso delle persone esterne, del volontariato, delle attività varie, la legge la permette ma non la impone, se un direttore non si vuole prendere la responsabilità, non fa niente, tiene tutti in cella, gli dà da mangiare... No, a Quartucciu è l'esatto, contrario.
«Una volta che il ragazzo è in carcere è il direttore che ne risponde, se il ragazzo è ancora in misura cautelare, cioè non è stato ancora processato, non è passato definitivo, allora c'è ancora il magistrato che può porre dei limiti nel contatto con gli altri detenuti. Una volta che è definitivo, cioè giudicato e condannato, della sua vita nel carcere risponde il direttore in base alla norma penitenziaria del '75. L'applicazione della norma, per esempio, sui volontari, sulla partecipazione del mondo esterno che entra in carcere, è diversissima in Italia. Non mi riferisco soltanto ai minorili lo devo dire che il carcere di Buoncammino, da questo punto di vista, forse e il peggiore tra quelli che conosco».
Le altre due comunità ipotizzate non partirebbero, dunque, da una vostra iniziativa, voi dareste...
«Noi abbiamo già dato 12.000 mq al Comune di Serdiana, in donazione, noi associazione, con una condizione: che si costruisca una comunità che accolga ragazzi in misura alternativa al carcere, che noi siamo disposti anche a gestire, senza oneri finanziari né per il Comune, né per la Regione, né per il Ministero. Anche lì nell'ottica dell'autogestione. Stiamo pensando che potrebbe essere un educatore professionale, un obiettore di coscienza, un adulto che faccia la scelta che ho fatto io di vivere lì, l'importante è che i ragazzi siano nell'ottica dell'autogestione: lavorare fuori o nell'ambiente agricolo interno.
«Vista l'esperienza noi stiamo spingendo perché sia lo Stato, siano gli enti pubblici a costruire comunità-cooperative sul nostro stesso genere, anche dal punto di vista pedagogico. C'è un nuovo modo di rispondere ai ragazzi, di non essere più assistiti, l'assistenza non paga: diamo loro l'opportunità di vivere del loro lavoro. Siccome nessuno dei ragazzi è in grado di procurarsi un lavoro, né di avere una casa, noi dobbiamo rispondere a queste due esigenze: alloggio e lavoro: creare loro un contesto diverso dal carcere che li responsabilizzi, che dia loro l'opportunità di un reale riscatto».
La testimonianza del primo ragazzo accolto alla "Collina"
Ha 24 anni, adesso, Antonio, ne aveva sette di meno quando è entrato in ce/Io a Quartucciu. Un adolescente che ha vissuto un triste episodio di cronaca violenta sanzionato dal Tribunale con una condanna a 7 anni e mezzo di reclusione. Dopo tre anni, però, egli ha meritato, da parte dello stesso Tribunale, un provvedimento di fiducia quale è stato la libertà condizionale che gli ha consentito così di essere il primo socio giovane della "Collina" di don Cannavera e dei suoi amici di "Cooperazione e Confronto". Nella nuova (ma ancora provvisoria) casa fra Serdiana, Dolianova e Soleminis è entrato il 27 novembre 1995. Nel frattempo ha concluso gli studi, già iniziati negli anni del carcere, presso l'Istituto Tecnico Commerciale, si è maturato e s'è quindi iscritto presso la facoltà di Economia Aziendale dell'ateneo cagliaritano. E così continua a studiare, dividendo il suo tempo fra i libri universitari, il part time presso un magazzino dell'lperPan, e le necessità della casa (non soltanto quelle materiali, ma anche quelle d'ordine "morale" che gli competono come "fratello maggiore" del gruppetto che oggi vive in comunità).
Antonio Zinzula, un capolavoro. Oristanese di San Vero Milis, carattere riflessivo e metodico, ha tracciato la sua strada. Il fine pena è previsto per il 7 luglio 1999. Questa la sua testimonianza.
«Era l'aria della libertà»
Dopo una lunga attesa, mi chiamarono nell'ufficio del Comandante dell'l.P.M. Quasi spaventato mi diressi da lui che, una volta entrato, mi annunciò che la mia domanda per la liberazione condizionale era stata accettata. Ciò significava che sarei potuto uscire dal carcere.
In quel momento trattenni le lacrime, ero felice; non capivo bene cosa mi stesse succedendo, preparai tutte le mie cose di fretta ed insieme ad Ettore ci dirigemmo verso la Comunità: ero il primo ragazzo che veniva accolto.
Una volta arrivato, con entusiasmo scaricai le valigie, ma allo stesso tempo mi sentivo stranamente frastornato. Era l'aria della libertà. Da quel momento iniziò per me un nuovo tipo di vita, riuscii subito ad instaurare ed a mantenere un ottimo rapporto con Ettore, basato sulla fiducia e sulla stima. Infatti vedevo (e vedo) in lui la figura paterna che mi è mancata dall'età di nove anni; egli rappresenta per me una guida costante cui fare riferimento. Mi ha sempre seguito nella mia crescita culturale e spirituale dimostrandomi sempre la sua piena disponibilità: il giorno in cui ho sostenuto l'esame di maturità – tappa importante della mia vita - Ettore ha messo da parte i suoi impegni per starmi vicino ed incoraggiarmi!
Gli anni trascorsi in Comunità mi hanno insegnato molte cose tra cui conoscere nuove realtà, confrontarmi con gli altri, acquisire autonomia e capacità critiche, mi hanno aiutato inoltre a far emergere parti della mia personalità fino ad allora sommerse, a pormi degli obiettivi, a credere nelle mie possibilità, a guardare il mondo con occhi positivi. Nell'esperienza arida del carcere non c'è posto per tutto ciò, infatti la detenzione reprime l'entusiasmo che c'è in ogni ragazzo. In carcere sei chiuso, non ti puoi confrontare, dipendi dal sistema, cioè non sei autonomo, non hai la possibilità di migliorarti come persona.
La vita in Comunità, essendo una convivenza tra persone diverse per tipo di mentalità e di esperienze vissute, non è semplice; inoltre ognuno di noi deve reimparare a gestire ed organizzare il proprio tempo. Tutti hanno le proprie responsabilità e i propri compiti da portare avanti per una convivenza serena. Durante questa esperienza comunitaria sento di essere cresciuto e maturato non solo fisicamente ma anche culturalmente e moralmente, questo grazie anche alla presenza costante di persone vicine alla Comunità, le quali col loro esempio di vita mi hanno insegnato che le persone sono tali solo in mezzo ad altre persone. Tra queste ce n'è una in particolare che è quella con cui ho condiviso e continuo a vivere intensamente ogni momento di felicità e di amarezza.
Per quanto riguarda il mio futuro, essendo ormai giunto a pochi mesi dal fine pena, sentendomi riscattato ed avendo conquistato la mia dignità di uomo libero, mi piacerebbe continuare a mantenere buoni rapporti con la Comunità, per mettere la mia esperienza a disposizione di persone che come me hanno vissuto un tipo di realtà che comporta tanta sofferenza, e inoltre per continuare il cammino intrapreso da persone che io stimo e ammiro per quello che fanno e che sono.
Perdita della libertà e inizio della rimonta
(da La responsabilità come scelta. Antonio Zinzula, la Comunità di vita La Collina, Cagliari, Kalb, 2002)
Sono milledieci i giorni trascorsi da Antonio all'Istituto Penale Minorile di Quartucciu. All'inizio egli crede di non doversi assumere responsabilità dirette circa il delitto consumato in paese e per il quale, un certo giorno, i carabinieri sono venuti a prelevarlo da casa sua. Sa che, tecnicamente, ad esso non ha preso parte. È la verità, ma non tutta la verità. Perché in più occasioni egli, perso nella confusione dell'età e messosi alla sequela di malfidati, ha mancato di lealtà verso quel parente anziano che avrebbe meritato riguardo almeno per i suoi anni. Caricarsi una colpa come quella di concorso in un omicidio esige poi la capacità di elaborare il proprio vissuto, le premesse e le ragioni, e le conseguenze di fatto e morali, di quanto è accaduto. E Antonio adolescente diciottenne avrà bisogno, giustamente, del suo tempo. Nella reclusione s'avvierà il suo percorso di ravvedimento, e dunque l'elaborazione - che si farà via via più profonda - dell'evento di cui è stato protagonista negativo.
Dal 20 febbraio 1993 - quando ha da un mese soltanto compiuto la sua maggiore età (ma era minorenne al momento del delitto) - al 27 novembre 1995 Antonio compie la sua amara, per certi versi certamente drammatica esperienza detentiva. Rispetto ad altri istituti di pena diffusi un po' nell'intero Paese, Quartucciu è ancora un carcere vigilato - per quanto si possa o si riesca - da agenti capaci di "attenzione" alle caratteristiche proprie di quella giovane popolazione reclusa, un carcere curato nel compito che la Costituzione repubblicana assegna all'ordinamento punitivo, che considera eminentemente volto alla rieducazione e riabilitazione sociale del reo. Tanto più quando si tratta di minori.
Può contare, il carcere di Quartucciu, su un direttore che è fra i migliori d'Italia, Sandro Marilotti. Certamente egli è un funzionario che, prima che burocrate, si sente cittadino impegnato, proprio in virtù della sua funzione amministrativa, a servire lo Stato nell'adempimento chiaro e coerente delle sue leggi. Che nel settore penale - specie in quello minorile - sono leggi, appunto, più ancora decisamente indirizzate al reinserimento del condannato, attraverso il progressivo recupero del suo senso di responsabilità personale e civica.
I collaboratori immediati di Marilotti sono tutti all'altezza: così lo staff degli educatori, così, in generale, gli operatori di varia professionalità (psicologi, assistenti sociali, ecc.). Un gruppo che sa aprirsi, con intelligenza e sensibilità, all'offerta collaborativa che viene da fuori, dal volontariato promosso dal 1993 dal nuovo cappellano don Ettore Cannavera, psicologo e pedagogista collaudato in un decennio di esperienze, fra comunità e case-famiglia per minorenni con problemi giudiziari o familiari.
Funziona. I volontari hanno una presenza settimanale organizzata: la domenica per la messa "dialogata" in cappella - un approccio liturgico originalissimo ed efficacissimo -, in un altro giorno per le attività di studia o ricreative. Il rapporto con il personale del carcere, soprattutto quello dell'area educativa - Giuseppe Zoccheddu e Nicola Goddi in particolare (sono oggi, rispettivamente, direttore e vice dell'IPM di Quartucciu) -, è positivo. Si collabora utilmente. I ragazzi si sentono spronati a fare, a studiare, a impegnarsi, a confrontarsi, a scoprire pian piano le vere dimensioni del mondo. E tutti i suoi colori.
L'altra fortuna dell'Istituto Penale Minorile di Quartucciu porta il nome del magistrato di Sorveglianza nonché presidente del Tribunale dei minorenni: il dottor Gian Luigi Ferrero. Che nella sua funzione giurisdizionale reca quella qualità che il profeta dell'Antico Testamento chiama, icasticamente (ed è raffigurazione valida per ogni tempo), "cuor di carne". Per la sua parte - che è parte decisiva -, egli concorre con altri "cuori di carne ", ad iniziare da Marilotti, a fornire ad Antonio l'opportunità di maturare umanamente nel solo modo possibile: imparando ad assumersi la responsabilità di sé e, dunque, verso gli altri. A viso aperto, senza furbizie e scorciatoie.
Certamente è stato anche il "comune sentire" fra i giudici, gli operatori e lo stesso difensore di Antonio - l'abile avv. Luisella Fanni -, ciascuno nel rispetto delle proprie attribuzioni, a dare l'atteso risultato.
Fra gli altri - il legale, gli educatori, il giudice - che recano la propria testimonianza sulla fase di vita di Antonio trascorsa a Quartucciu è Antonello Mascia: compagno di detenzione per alcuni mesi all'IPM - per i primi centocinquanta giorni dei milledieci passati "oltre le sbarre"
Antonello è colui che accoglie, in fraternità, un Antonio ancora scosso dall'evento dell'arresto (oltre che dalle conseguenze del fattaccio), un Antonio che avverte il peso di un isolamento cui lo costringe il maggior aggregato dei ragazzi della sezione fra loro legati dalla comune provenienza quartese e, dunque, da una precedente mutua conoscenza. Che è osa che conta, in una realtà carceraria. Antonello sarà a sua volta accolto da Antonio in comunità, alla Collina, giusto tre anni più tardi (gennaio 1998). E l'occasione di fare fraternità si replicherà a... schemi rovesciati.
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