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Gianfranco Murtas

Antifascismo e sardoAzionismo nelle esplorazioni di Armando Serri, con gli amici del gruppo nato FGR ed apertosi a regionalisti ed europeisti, contro leghismo padano ed indipendentismo nuragico

di Gianfranco Murtas

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Del gruppo dei giovani amici che riuscii a coinvolgere, nei primissimi anni ’90, intorno allo scavo documentario delle vicende del sardoAzionismo Armando Serri, con i suoi venticinque anni era… l’anziano, il più esperto perché precoce nelle attività di lavoro – allora documentarista istruttore (poi addetto alla Biblioteca) del Consiglio regionale della Sardegna. Figlio di professori di gran prestigio morale e intellettuale come Marcella Mocci e Giuseppe Serri, aveva già da liceale avviato le sue traversate politiche con il gusto delle posizioni di minoranza, quelle sempre più libere dai dogmatismi e dai condizionamenti degli interessi costituiti. E certamente la minoranza che s’ispirava ai profeti del risorgimento nazionale – a Mazzini e Cattaneo – e si riconosceva negli indirizzi governativi ed istituzionali di uomini come Giovanni Spadolini (successore di Ugo La Malfa) lo aveva attratto all’interno di una sensibilità democratica, di un progressismo autonomista ed europeista ad un tempo: con l’ammirazione per uomini carismatici come Emilio Lussu, un’ammirazione che evidentemente sorpassava i limiti della militanza e guardava invece alla testimonianza di vita, a Lussu non perseguitato dal fascismo, ma a Lussu persecutore del fascismo!

Fu attento e curioso, interessato e intensamente coinvolto, sul piano ideale, Armando, quando gli presentai, nel 1989, le carte dell’archivio Pintus in cui c’era tanto Lussu, e che mi erano venute dalla casa di un sodale del fondatore, con i Rosselli e Francesco Fausto Nitti, di Giustizia e Libertà, e sodale però anche – e con quanta partecipazione! – di Pintus stesso reduce dalla galera e sorvegliato speciale, sempre e ancora escluso dalla riammissione all’albo professionale… Mi riferisco ad Antonino Lussu che, insieme con l’avv. Mario Pino, aveva accolto Cesare Pintus nel proprio studio legale-commerciale alla fine del 1935, togliendolo per quanto possibile da una precarietà di vita assoluta.

Erano carte importanti e inedite quelle pervenute dalla casa del dottor Lussu per provvidenziale intervento del nipote di questi, di Massimiliano Rais allora ventenne. E Armando, figlio di storico e di storica, intuì da subito l’importanza di quei documenti e la necessità che, allargando noi il giro con altri giovani amici militanti o prossimi alle idealità che erano state di Giustizia e Libertà, ma con esse anche del variegato movimento democratico, repubblicano e sardista (del sardismo di un tempo! non certo di quello gregario del becero leghismo d’oggi), liberale e radicale, si portasse in emersione il tanto di inedito, di ancora sconosciuto, per riequilibrare nella conoscenza generale la trama di un antifascismo che non era soltanto e neppure in assoluto prevalente comunista, o marxista dottrinario. Senza nulla togliere, evidentemente, a quella parte che purtroppo da sé offuscava i propri meriti con l’obbedienza a Stalin il (sanguinario) dittatore russo.

Dunque con Armando Serri avemmo con noi – ne ho riferito altre volte – Massimiliano Rais e Vito Biolchini, Elio Masala e Maurizio Battelli, e altri dieci in prevalenza della Federazione Giovanile Repubblicana. E pubblicammo tutti insieme una bella serie di volumi per qualcosa come quattromila pagine. Richiamando sia pure in velocità i partecipanti all’impresa – stretti poi anche in altre attività, con me in televisione (emittente Sardegna Uno, settimanale “Zibaldone”, 1991), fra di loro anche nell’associazione Ipogeo e quindi nel programma di Monumenti Aperti – ho dunque ricordato di Armando Serri le riconoscibili benemerenze di lungo trascinamento: iniziatore e apostolo del “tempo lento” e cultore dell’ “archeoastronomia” in combinazione con le cose dell’ufficio in Consiglio regionale e presenze nel volontariato culturale nonché nella libera muratoria giustinianea più sensibile all’attualizzazione delle memorie storiche, ma nel pieno rispetto della loro originalità. Aggiungerei: portatore di una singolare generosità partecipativa anche in campo sociale, mai distinguendo artificiosamente i campi né degli oblatori né dei riceventi, e dunque secondo una gradevole modalità ecumenica che molto lo onora.

Alle imprese di cui sono stato promotore io – dico di quelle di studio ed editoriali – Armando Serri ha contribuito con immediatezza di… cartelle dattiloscritte due volte. Due volte relativamente alla collana “Documenti e Testimonianze” sul sardoAzionismo. Ed una terza quando, nel 1995, volli dar riconoscimento, con una pubblicazione ancora collettanea, a Giovanni Spadolini, scomparso l’anno precedente. E con lui anche a Bruno Visentini, il presidente del Partito Repubblicano Italiano, questi al pari di Ugo La Malfa proveniente dal Partito d’Azione e, al pari di La Malfa (e di Lussu) distintosi nelle fatiche dell’antifascismo politico. Ma di questo specifica impresa editoriale vorrei dire un’altra volta.




In occasione della presentazione del volume Storia del “Cavaliere senza macchia e senza paura”. Appunti autobiografici di Giovanni Battista Melis, da me curato nel 1996, Armando Serri fu fra i recensori insieme con Salvatore Cubeddu, Tito Orrù, Vindice Ribichesu e il suo e mio sodale (e amico) Vito Biolchini. Mi importò molto, allora, nella scelta delle personalità chiamate ad illustrare al pubblico il valore dell’opera, associare ai “professori-professionisti” due giovani, appunto come Serri e Biolchini, che ben avrebbero potuto stabilire qualche parallelo fra la militanza repubblicana e sardista di Melis – o del Melis venti-venticinquenne negli anni del brutale esordio della dittatura – e quella di una generazione che, sei o sette decenni dopo, negli anni fra ’80 e ’90, aveva da dare e da prendere a/da una democrazia collaudata ma pur largamente ancora deficitaria e bisognosa di interventi riformatori o rigeneratori.

I due articoli a firma di Armando Serri usciti nei volumi da me curati e qui riproposti sono:

«Giustizia per il delitto Fois»

(in Cesare Pintus e l’Azionismo lussiano, 1990)

«Il Pd’A cagliaritano: in via Angioy, quel 12 dicembre 1943...»

(in Sardismo e Azionismo negli anni del CLN, 1990)




Armando Serri: «Giustizia per il delitto Fois»

Nel 1922 Portoscuso è una cittadina dedita quasi esclusivamente alla pesca e al traffico marittimo. Una sera di dicembre una cinquantina di fascisti armati fanno la loro comparsa sulle banchine del porto.

Prima insulti, poi botte, spari: quel giorno rimangono sulla banchina i corpi senza vita di Luigi e Salvatore Fois, capi della Federazione Battellieri, una organizzazione politica e sindacale che non aveva voluto aderire ai Sindacati Fascisti.

Salvatore, che secondo una versione era accorso in aiuto del fratello, è "premiato" per questo supremo atto di generosità con un ultimo colpo di pistola che interrompe la sua agonia. Picchiata e umiliata l'intera famiglia, alla quale viene negato persino lo sfogo del pianto sui cadaveri dei loro cari, il manipolo di fascisti, guidato da De Filippi, capo degli squadristi di Iglesias, abbandona Portoscuso per festeggiare "degnamente" il successo dell'operazione.

Negli stessi giorni viene devastata e incendiata a Cagliari la tipografia de Il Solco, il giornale sardista, che è costretto ad interrompere le pubblicazioni, e arriva in Sardegna il Generale Asclepia Gandolfo, nominato da Mussolini Prefetto di Cagliari per l'esigenza di ristabilire la legalità - apparente - in una provincia che rischia di divenire ingovernabile.

In Sardegna infatti la penetrazione del movimento fascista appare, in questi anni, in ritardo rispetto alle altre regioni d'Italia, per l'anomalia tutta sarda costituita dal PSd'Az, che raccoglie quelle istanze degli ex-combattenti che in altre regioni hanno avuto sfogo nel Partito Fascista. Nel Cagliaritano alle iniziali effervescenze dei fascisti locali sono proprio i sardisti, con altri partiti democratici, i primi a mobilitarsi e ad organizzarsi per opporsi anche con le armi, quando necessario, alle scorribande e alle prepotenze manganellesche degli squadristi.

Ed il verdetto con il quale la Corte d'Assise di Cagliari nel 1924 condannerà al carcere tutti gli imputati per i fatti di Portoscuso, dimostrerà il ritardo dell'opinione pubblica e della Magistratura isolana nell'uniformarsi ai criteri della "giustizia" fascista.

Particolare è il clima nel quale si svolge il processo. I parenti di Fois sono riusciti ad ottenere che il magistrato dia corso all'azione penale grazie ad un dissidio tra i dirigenti dei fasci isolani. I fascisti hanno poi tentato di condizionarne l'esito con minacce e manifestazioni di solidarietà verso gli imputati, scortati ogni mattina dal carcere al Tribunale dal corteo degli squadristi in armi; nell'opinione pubblica è invece diffusa la speranza di vedere condannato, insieme agli imputati, il sistema dell'odio e delle violenze.

Un verdetto di condanna invocato, tra gli avvocati di parte civile, anche da Emilio Lussu, che ricorderà nel suo Marcia su Roma e dintorni l'eccidio dei fratelli Fois e il suo coraggioso contributo per un giudizio severo da parte della Giuria Popolare. Che emetterà un verdetto nel quale - riferisce Cesare Pintus, nella sua corrispondenza alla Voce Repubblicana - la cosciente responsabilità del cittadino si accoppia ad un senso squisitamente giuridico di analisi e di graduazione.

Giudizio di condanna che acquista per Pintus il valore di simbolo di civile protesta, di solenne risposta del popolo sardo, di affermazione di valori universali: l'intangibilità della vita umana, la tolleranza e il rispetto per le opinioni altrui, alle quali si possono contrapporre solo altre idee, mai la violenza.

Gli avvenimenti successivi rimanderanno l'affermazione di questi principi, e intanto la pacificazione, la fratellanza tra gli uomini, la ragione, fanno posto alla sconfitta della Giustizia. Nel 1925 provvedimenti eccezionali porranno fuori legge i partiti ed i movimenti non fascisti; nel novembre del 1926, il Guardasigilli Rocco, in quest'occasione più Ministro di "Grazia" che di "Giustizia", ottiene la grazia ai condannati per l'omicidio di Portoscuso, considerando il verdetto di condanna un «errore giudiziario».

Contemporaneamente entra in carcere Emilio Lussu per il "caso Porrà". È iniziato il tranquillo ventennio di paura, triste premessa alla grande tragedia della seconda Guerra Mondiale.




La corrispondenza di Cesare Pintus a La Voce Repubblicana: “L' epilogo del processo di Portoscuso - I liberi giurati di Sardegna bollano un triennale sistema di delitti e di violenze” (29 agosto 1924)

Cagliari, 26.

Come già abbiamo annunziato, ha avuto termine alla nostra Corte d'Assise il processo per i fatti di Porto Scuso. Tutta l'isola ha seguito appassionatamente il lungo dibattimento, e ne ha atteso con ansia il verdetto riparatore. I giurati sardi hanno detto la loro umana parola di giustizia, ed il verdetto che acquista valore di simbolo di civile protesta è l'anima stessa della Sardegna che s'erge vindice di tanti lutti e porta al di là del mare il tremendo monito a tutti i violenti.

Quindici giorni or sono gli stessi giurati condannavano a dieci anni di galera il fascista Carta, che il 26 dicembre del 1922 esplose un colpo di rivoltella contro il sardista Cesare Frongia, uccidendolo. Ieri un verdetto più severo ha dato l'ultimo colpo al triste sistema di violenze, che si è abbattuto, con rabbia di fazione, sulla nostra terra. Il 29 dicembre 1922, sulla banchina di Porto Vesme due onesti lavoratori, i fratelli Salvatore e Luigi Fois, venivano assassinati dai fascisti di Gonnesa: per questo delitto furono rinviati a giudizio i fascisti: Scameroni Leonardo, De Filippi Giuseppe, Zuddas Ernesto, Zuddas Felice e Corrias Severo.

Episodi di inaudita ferocia son balzati dalla lunga istruttoria: i fascisti partirono da Gonnesa per una delle solite spedizioni punitive, per colpire cioè la Federazione battellieri di Porto Scuso, rea di non volere entrare nei Sindacati fascisti; giunti sulla banchina di Porto Vesme, proprio nell'ora in cui i battellieri, sospeso il duro quotidiano lavoro, si concedevano un po' di riposo, chiamano il Fois Luigi e lo trascinano con pugni e nerbate; alle grida disperate di soccorso accorre il fratello Salvatore, armato di roncola, e ne vibra un colpo al capo della squadra fascista: lo Scameroni; i fascisti sparano e i due battellieri si abbattono crivellati di colpi. Il generoso inutile intervento di Salvatore Fois vien premiato dalla viltà maramaldesca dello Scameroni che esplode sul disgraziato rantolante l'ultimo colpo della sua pistola.

Questi, in sintesi, i fatti: una lunga teoria di testimoni ha sfilato alle udienze, raccontando tra le lacrime, il baccanale fascista che seguì l'eccidio di Porto Scuso, le violenze usate sulla famiglia degli uccisi, l'umiliazione della purga inflitta ad un fratello superstite, il giorno dopo la strage. E la sorella degli uccisi, Paolina Fois, poté rievocare con parola appassionata ed efficace tutta la tragedia che si abbatté, negli ultimi giorni del- 1922 su Porto Scuso, quando a lei errante pel paese in cerca dei fratelli, furono chiuse tutte le porte, e fu proibito con raffinatezza di belve, a lei ed ai vecchi genitori, di piangere attorno al focolare spento, quando fu vietato con minacce e con insulti che la famiglia accompagnasse le salme adorate al cimitero, e il fratello Pasquale errava per la campagna, cercato a morte da quelle iene, non ancora sazie di sangue. Tutti i testimoni han ricostruito l'ambiente saturo di violenze: bastonate, purghe, minaccie. E un mormorio di disapprovazione e di condanna ha accolto le deposizioni dei testi Sagheddu e Ottelli, capi riconosciuti in quell'epoca dell'illegalismo fascista dell'Iglesiente, e oggi entrambi consoli della Milizia Nazionale. E un sorriso di disgusto ha accolto il primo di questi, quando alle precise domande della Parte civile, rispose di aver perduto in viaggio un foglio sul quale aveva scritto i nomi di taluni che avrebbero potuto portare un po' di luce nella causa; ed il secondo quando disse che la spedizione fascista era andata a Porto Scuso per fare opera di civiltà e di pace.

Gli imputati per tutto il dibattimento tennero un contegno indifferente e negarono di avere sparato. I difensori (tanto per non andare d'accordo con gli imputati) ammisero che questi avessero sparato. Ma per difendersi da ipotetici spari da parte dei battellieri i quali avevano aggredito i fascisti, niente meno, con i remi dei battelli, alti sei metri e 25 centimetri. Ma i testimoni hanno schiacciato gli imputati e le tesi della difesa: gli spari dei battellieri son rimasti nel regno del... condizionale, e nella mente di un ragazzo, certo Giacomino, non meglio identificato, e che non comparì al dibattimento; e la convinzione precisa, assoluta, della colpevolezza di alcuni degli imputati si radicò nell'animo dei giurati e di tutti coloro che hanno assistito alle udienze del tormentoso processo. Sole figure scialbe nella gabbia dei giudicabili il Corrias e lo Zuddas Felice.

Il collegio di difesa sostenne per tutti gli imputati la legittima difesa, e pose subordinate le questioni dell'eccesso di difesa e dell'omicidio in rissa. La Parte civile e la Pubblica Accusa confutarono brillantemente le tesi difensive, e chiesero la condanna del De Filippi per duplice omicidio volontario, e quella degli altri imputati pel solo omicidio di Salvatore Fois. I giurati, con un verdetto nel quale la cosciente responsabilità del cittadino si accoppia a un senso squisitamente giuridico di analisi e di graduazione, hanno ritenuto colpevole il De Filippi di duplice omicidio volontario in persona dei fratelli Salvatore e Luigi Fois, lo Scameroni e lo Zuddas Ernesto responsabili dell'omicidio in persona di Salvatore Fois, il Corrias Severo responsabile di avere partecipato alla rissa, e non doversi condannare lo Zuddas Felice per non avere partecipato al fatto. In base a tale verdetto, il presidente della Corte cav. uff. Dessy, ha emanata la seguente sentenza: Scameroni Leonardo, condannato alla pena di anni 15 e mesi 1 di reclusione, Zuddas Ernesto ad anni 15 e mesi i di reclusione, De Filippi ad anni 22 e mesi 6 di reclusione. Corrias Severo assolto per il decreto di amnistia 23 ottobre 1923. Zuddas Felice, assolto per non avere partecipato al fatto.

La notizia del severo verdetto dei nostri giurati, sparsasi in un baleno in Cagliari, ha destato enorme impressione. La cittadinanza l'ha accolta con un senso di pacata serenità, ed ha veduto in esso la condanna inesorabile di tutto un sistema di violenze e odio che la guerra ha lasciato in triste retaggio alla Patria nostra.

La cittadinanza ha constatato che il verdetto di condanna di sabato ha piena rispondenza in tutti gli strati sociali, e fa ancora credere, che nel rovinoso naufragio di tutti gli umani sentimenti, una cosa sola si è salvata e resiste, implacabile ed onesta: la Giustizia.

Il verdetto di sabato vuol dire a tutti gli italiani che le idee vanno combattute con le idee, e che santo è il fecondo contrasto di esse, per il cammino delle umane civiltà; ma che nessuno ha il diritto di imporle con la violenza, con le minacce, con l'assassinio.

II verdetto di sabato dice a tutti coloro i quali credono ancora nella restaurazione morale e spirituale dell'Italia, che la vita umana è intangibile e sacra, che nessuno ha il diritto di toglierla all'avversario, anche se questi professi un'idea sia pure eterodossa ed aberrante, che è ora di finirla con questo triste giuoco che ha per posta la vita, e che si dimentichi il passato, e si ritorni finalmente fratelli.


Armando Serri: «Il Pd’A cagliaritano: in via Angioy, quel 12 dicembre 1943... »

A Cagliari, l'iniziativa azionista si concretizza, o forse semplicemente si formalizza, la mattina del 12 dicembre 1943.

A mezza mattina, in via Angioy 14, nei locali messi a disposizione dal fratelli Fadda, sardisti, viene redatto il verbale di costituzione della Sezione cittadina. «Su iniziativa dei Sigg. Pintus Avv. Cesare e Lussu Dott. Antonio», come recita il documento manoscritto dallo stesso Lussu, sono riunite, oltre i promotori, altre undici persone.

È un momento di fermento ideale e politico, con i partiti che cercano di riorganizzarsi, con movimenti che nascono; di ricostituzione del tessuto democratico, di riformazione delle coscienze politiche anestetizzate dalla repressione fascista, e in questo contesto la presenza azionista in diverse realtà svolge un ruolo di aggregazione e rivitalizzazione sociale e politica.

Può essere utile scorrere i nomi dei protagonisti per tentare di definire i vari itinerari che conducono a questo traguardo; per comprendere le motivazioni che li spingono ad assecondare il disegno lussiano, quella mattina in via Angioy e alle successive riunioni che si terranno nel villino, a fianco dello stabilimento de L'Unione Sarda in viale Regina Elena, requisito ad un privato, che fungeva anche da abitazione di Antonino Lussu, amministratore per conto del CLN del quotidiano defascistizzato. Con Lussu amministratore e con Cesarino Pintus, redattore-capo e primo collaboratore di Jago Siotto, il direttore socialista, L' Unione Sarda è "democraticamente ipotecata" dagli azionisti.

Non a caso molti degli aderenti alla Sezione appaiono collegati anche professionalmente all'Unione; altri sono affettivamente vicini a Lussu e Pintus. Elemento comune l'antifascismo, da alcuni vissuto con coerenza, pagando con le persecuzioni e il carcere, in altri mediato dalla necessità di sopravvivere negli anni della dittatura e della guerra.

Di alcuni è stato possibile raccogliere la testimonianza e ricomporre i ricordi, ricostruire le vicende personali e politiche, rilevare le tracce che hanno lasciato del proprio impegno e della propria passione. Dei più conosciamo soltanto qualche notizia biografica.

Nel 1943-44 Raffaele Puddu, che sarà poi eletto segretario della Sezione, è circa 35enne; ragioniere all'AGIP, negli uffici della Scafa, è stato sottotenente in guerra ed ha avuto un passato di giocatore nelle giovanili del Cagliari Calcio. Il padre Enrico (il cui fratello era stato ucciso a revolverate alla schiena da un fascista), mazziere al Comune, è stato alfiere dell'avanguardia antifascista sardista.

Suo coetaneo è Vincenzo Ponti: cagliaritano, nato giusto nella settimana dei moti del maggio 1906; è, in questo periodo, dirigente amministrativo della SANAC di viale Trieste, una fabbrica di mattoni refrattari presso la quale vengono depositate le bobine di carta destinate all'Unione Sarda.

Della stessa classe è anche Mario Cocco, atleta amsicorino, conosciuto in città per la eccezionale resistenza nel nuoto che gli ha consentito di coprire più volte la traversata tra il Poetto e il porto.

Anziano è invece Vincenzo Coco; sardista prefascista, è fra i proprietari della SEPRAL, fabbrica e distributrice di prodotti dolciari con sede in via Sonnino e negozi nei pressi della chiesa del Carmine.

E ancora Giuseppe Ortu, commerciante, originario di Quartu Sant' Elena, uno degli impresari che inizieranno a costruire la via Dante.

Tra quelli che hanno pagato duramente negli anni del regime il proprio antifascismo è Giovanni Pirisi: ex-carabiniere, sardista, già proprietario di una falegnameria in via Nuoro, bruciata dagli squadristi proprio nei giorni in cui identica sorte era toccata alla tipografia del giornale cattolico Corriere di Sardegna (1926). Il 18 novembre 1930 era stato arrestato con gli altri del "gruppo sardo" collegato a Giustizia e Libertà. I coniugi Pirisi poi - è Cesare Pintus a rivelarlo in uno dei verbali degli interrogatori cui viene sottoposto (e che scoprono solo quello che... è già noto) - avevano accompagnato il futuro sindaco di Cagliari nel viaggio a Sassari durante il quale avvenne l'incidente d'auto il cui resoconto, contenuto in una lettera compromettente di Pintus indirizzata a Emilio Lussu per il tramite di Fancello, aveva permesso alla polizia di risalire al nome dell'autore dello scritto e di effettuare la retata.

C'è poi Policarpo Ressa che nel 1943 è poco meno che trentenne; il padre, socialista cattolico di origine barese, è capo-guardia al carcere di Cagliari ed amico di Jago Siotto. Antifascista nell'anima, Ressa è persona di fiducia e amico di Antonino Lussu; è proprio questi ad offrirgli lavoro come autista alla nuova Unione Sarda, ed a coinvolgerlo nell'esperienza politica che gli presenta come incentrata su un programma socialista.

Scavando nella sua memoria emergono piccoli episodi che sintetizzano il clima nel quale matura, nel 1943, il tentativo azionista: il mito di Emilio Lussu respirato in famiglia sin dall'adolescenza, l'immagine di questo giovane avvocato che usciva dalla propria casa per recarsi in Tribunale, col grande fiocco e il cappello nero, il famoso episodio della morte di Battista Porrà, le riunioni degli antifascisti alla farmacia Saluz. O ancora, nel novembre 1935, il rientro a Cagliari di Pintus, ormai malato di TBC, liberato dal carcere di Civitavecchia; il gruppo di amici che lo attendono sulla banchina del porto, il piroscafo Garibaldi con i motori "indietro tutta" per la manovra di ancoraggio, che sputa dalle sue due grandi ciminiere una fumata nera oscurante il cielo. Il gruppo lo preleva con l'assistenza di un medico, e lo carica in macchina per portarlo all'ospedale. È un Pintus gravemente malato, con un grande fazzoletto bianco intriso dal sangue che perde nelle continue convulsioni di tosse.

Personaggio curioso è Tito Melis, impiegato alla Montecatini di Cagliari. Nato a Ballao, figlio di un proprietario terriero che è tra i maggiorenti del paese, è descritto in una lettera a firma di Flavio Cardia indirizzata a Pintus ed in un'altra inviata al Comando delle Forze Alleate della Sardegna, come fascista della prim'ora, «pasciuto nel fascio». È poi documentato il colpo di mano che gli permette con l'aiuto di altri fascisti e del Comandante la stazione dei Carabinieri, di formare e presiedere il Comitato comunale di concentrazione antifascista, e, con ordinanza di autorizzazione del Prefetto, la Giunta comunale, ignorando l'accordo raggiunto nel paese tra i rappresentanti degli altri partiti. Risultati ottenuti - a giudizio dello scrivente - grazie alla conoscenza con Cesare Pintus, in quel momento segretario del Comitato Provinciale, e «suo protettore». E ancora è raccontato della gazzarra (ingiurie, urli e fischi) organizzata contro Emilio Lussu, oratore nel 1924 a Ballao, con la partecipazione di chi s'è prestato per la promessa di una damigiana di vino...

Ancora è il nome di Mario Pino: avvocato di origine sassarese, collega nello studio legale-commerciale di Pintus e Antonino Lussu, in via Roma, commissario prefettizio del paese di quest'ultimo, Villasalto, nel 1943-44.

Avvocato è anche Beniamino Piras; classe 1915, ha dunque 28 anni quando partecipa all'assemblea di via Angioy. È coinvolto, in quella che oggi ricorda come una brevissima esperienza politica, dall'amicizia con Antonino Lussu: un rapporto ereditato dal fratello Edmondo, compagno di scuola di questi sino al diploma di ragioniere. Proprio Edmondo Piras, nonostante non sia di sentimenti antifascisti, si reca più volte a visitarlo quando questi è detenuto nel braccio politico di Regina Coeli, ove è finito nel quadro della "retata Pintus". Piras sarà poi, dal giugno del 1944, assessore effettivo (alle Finanze ed al Personale) della prima Giunta provinciale ciellenista, presieduta dal conte Serra, vecchio esponente del Partito Popolare (l’altro assessore azionista è Enrico Nonnoi, incaricato degli Istituti di istituzione).

Dell'avvocato Piras giovane studioso intellettualmente e politicamente impegnato, è interessante rileggere un articolo, scritto con Efisio Zanda-Loy, inserito in un dibattito sull'autonomia regionale che, sulle pagine dell'Unione Sarda della fine del 1943, ha visto l'intervento di personaggi di diverso orientamento politico e ideale: il mazziniano Pintus, i socialisti Musio e Corsi, il democristiano Venturino Castaldi, il comunista Frongia, e altri, tra i quali, appunto, gli "indipendenti" Piras e Zanda-Loy. Dibattito sulla necessità, non da tutti in egual misura riconosciuta, dell'autonomia regionale e sui limiti entro i quali poteva configurarsi e realizzarsi un sistema autonomistico funzionale alla soluzione dei gravi problemi della Sardegna.

L'articolo - interessantissimo - si apre con l'incoraggiamento ai giovani a vincere l'apatia verso la quale il fascismo ha spinto le coscienze, ad immergersi in un dibattito e ancora prima in un clima politico denso di incognite e di interrogativi, ma carico di grandi speranze, a superare la timidezza quando si abbiano a proporre contributi di analisi sui grandi temi che agitano l'opinione pubblica, a far emergere con chiarezza le proprie riflessioni: in una parola a sentirsi coinvolti e a non subire condizionamenti intellettualmente fuorvianti in un momento in cui ognuno si deve sentire responsabile delle sorti del Paese.

Scontate le insufficienze di un ordinamento statuale accentratore e burocratico, lento e impacciato, lontano dai bisogni del popolo, incapace di individuare le necessità particolari di singole regioni o gruppi di regioni, si pone il problema di delimitare il campo in cui rivendicare l'auspicata autonomia per la Sardegna; in questo senso si risponde a precedenti interventi di Pintus e dell'on. Corsi, al primo rimproverando l'eccessiva estensione, al secondo la riduttività delle rispettive concezioni autonomistiche. I due giovani pubblicisti definiscono la propria idea: parziale autonomia in campo finanziario (senza negare allo Stato la funzione di coordinare e perequare i flussi di entrata e la redistribuzione delle risorse in chiave solidaristica); autonomia amministrativa sui problemi locali di sanità, (di igiene, di opere pubbliche, di assistenza, etc.). Essi individuano poi il superamento della condizione di arretratezza economica dell'isola nella «più completa libertà di regolamentazione e di esecuzione di tutto quanto concerne la forma di partecipazione del singolo ai mezzi di produzione e la organizzazione dei mezzi stessi nel campo agrario, minerario, industriale e commerciale» mentre escludono l'estensione del principio autonomistico nel campo giuridico, culturale e sociale (propugnata invece da Pintus); l'intensificarsi dei traffici, degli scambi e dei rapporti tra le diverse regioni e tra gli stati, le relazioni economiche e politiche saranno agevolate - scrivono Piras e Zanda-Loy - quanto più uniforme sarà la legislazione e la regolamentazione di quelle materie che delle relazioni costituiscono l'oggetto e il contenuto.

L' educazione e l'istruzione dei cittadini devono rientrare tra i compiti fondamentali dello Stato, e da esso devono essere gelosamente custoditi. Creare in questa materia compartimenti stagni, rigide delimitazioni tra le regioni, non avrebbe altro esito che quello di ritardare lo sviluppo di regioni come la Sardegna che devono anzi vedere nell'infittirsi dei confronti e degli scambi culturali un fattore di crescita economica e sociale.

(Ancora di Beniamino Piras sono due lettere del novembre 1943 indirizzate ad Antonino Lussu e conservate nell'archivio di questi. Valgono a dar conto anch'esse del clima del momento. Una informa dell'approvazione che la nuova Unione Sarda riscuote tra i suoi colleghi Ufficiali dell'Aeronautica, l'altra chiede di frenare le esuberanze di Efisio Liggi, segretario azionista di Samassi, dove gli iscritti sono ben 221).

Ad Elmas l'attività del PId'A, o comunque del gruppo di giovani che lo costituiranno formalmente, inizia tra la fine di settembre e l'ottobre 1943, come appare chiaro dal primo documento che è stato possibile prendere in esame; il 16 dicembre 1943 infatti la «Sezione del Partito Italiano d'Azione - Giustizia e Libertà» comunica che «funziona ad Elmas la segreteria di detto Partito con i seguenti rappresentanti: Mameli Giuseppe (operaio) e Marullo Franco (operaio)».




Obbedendo alle sollecitazioni di Cesare Pintus perché la Sezione venga ufficializzata, domenica 15 gennaio 1944 si riuniscono Mameli Giuseppe, Marullo Franco, Frau Francesco, Mereu Ruffino, Mattana Esterino, Picciau Sebastiano e Antonio, Pintus Silvio, Della Rocca Italo, Pibiri Andrea, Aru Giovanni; quasi tutti tra i venti ed i trent'anni, qualcuno trentenne, agricoltori, muratori, uno barbiere, alcuni ancora militari. Viene votato un ordine del giorno che prevede la nomina, nel Comitato comunale di concentrazione antifascista, in rappresentanza della Sezione, di Pinotto (Giuseppe) Mameli e come supplente del Marullo.

Pinotto Mameli, appena ventenne, sarà poi anche segretario dei Comitato: «il più giovane dell'Italia liberata» gli rivelerà Cesarino Pintus in una telefonata da Salerno. Un Pintus ch'egli ricorda per l'onestà cristallina, la grande bontà, la serietà e la pulizia morale, per l'impegno infaticabile nel CLN prima, e come sindaco di Cagliari poi. Un Pintus convinto che non esita ad intercedere presso il ministero competente per salvare dall'epurazione un funzionario del Ministero dell'Agricoltura, ex squadrista: «Un padre di famiglia» per lui, «con prole numerosa, che non può permettersi di trovarsi da un giorno all'altro disoccupato».

Per quel gruppo di giovani entusiasti guidati da Pinotto Mameli il problema degli arredi della sede è facilmente risolto: in una decina si recano negli oliveti alle porte del paese appena abbandonati dai tedeschi, che li avevano occupati per accasermarsi; tenaglie, martello e chiodi e in un paio di ore si è pronti ad ospitare le quotidiane riunione dedicate a discutere sui gravissimi problemi che gli abitanti del paese e tutti i sardi devono affrontare: i razionamenti alimentari, la diffusissima disoccupazione, la solidarietà da organizzare per rispondere alle necessità della gente. E insieme la rivitalizzazione del dibattito politico, la sensibilizzazione delle coscienze per rimettere in moto la vita politica del paese. L'esigenza è anche quella di offrire momenti di aggregazione, di socialità, di promuovere lo sport, di favorire l'incontro e lo scambio. Ecco nascere ad Elmas la Associazione "Giovane Sardegna", di cui Pinotto Mameli è fondatore e in seguito, con la crescita dell'organizzazione, segretario regionale. Strettissimi saranno i contatti tra Associazione e Sezione azionista: in comune c'è la fede antifascista ed il mito di Emilio Lussu.

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Ad Assemini il verbale firmato da Domenico Scalco, inviato alla Segreteria del PId'A di Cagliari, comunica che il 22 dicembre 1943 si è provveduto alla costituzione della «Sezione Antifascista» ed alla nomina come segretario dello stesso Scalco e come supplente di Marras Fedele.

Oltre all'approvazione delle nomine e delle adesioni al gruppo, si chiede di conoscere il programma del partito «al fine per meglio svolgere la nostra propaganda». Nello scorrere l'elenco ancora una volta appare evidente che l'elemento aggregante, oltre all'amicizia e alle parentele tra i diversi aderenti, è il puro e semplice sentimento democratico, vissuto da socialisti, da sardisti o da antifascisti tout court.

Domenico Scalco, il promotore dell'esperienza asseminese, diventerà il primo sindaco di una giunta a base pluripartitica nominata dal Prefetto nell'estate del 1944. 50enne, è allora dipendente dell'azienda agricola del Conte Cecconi, che conta ben 200 dipendenti. Altri militanti: Fedele Marras, agricoltore all'incirca trentenne; di poco più grande è Fedele Nioi, artigiano che produce stoviglie in ceramica che affida, perché le porti soprattutto nel Sulcis col suo cavallo e col carretto, a Giuseppe Cogoni (il cui nome compare anch'esso nell'elenco), grande conoscitore e domatore di cavalli, e amico di Scalco.

E ancora Giovanni Arba, piccolo agricoltore, proprietario di un giogo di buoi; Costantino Melis, socialista, muratore, poi barbiere e infine sacrista: abilissimo e apprezzato suonatore di campane, sino a tre contemporaneamente, con le quali riesce a riprodurre melodie della musica tradizionale sarda. E Giovanni Mascia, classe 1900, sorvegliante alle Saline di Macchiareddu.

Un altro personaggio che non compare nell'elenco degli aderenti al PId'A ma è sicuramente legato in qualche modo all'azionismo lussiano è Luigi Murtas: Luisu Panara, questo il soprannome, era stato l'attendente ed era amico di Emilio Lussu. C'è chi lo ricorda: ogni volta che il "capitano" giungeva ad Assemini per qualche comizio, lo attendeva devotamente ai piedi del palco per dirigersi assieme, alla fine, alla festa che lui stesso faceva preparare in onore dell'ospite, destinata sempre a concludersi in una grande mangiata... campidanese.


Fonte: Gianfranco Murtas
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