Antonangelo Liori, distanze e prossimità. Fratello d’umanità, compagno di percorsi nella sardità militante.
E Alziator e Zizi e Giglio… con lui
di Gianfranco Murtas
Non possono essere le distanze circa le preferenze di partito, o circa il giudizio su questa o quella questione, o e neppure circa le modalità generali d’approccio o di conduzione d’una qualsiasi impresa nel nostro fare sociale, ad impedire sintonie di pura umanità fra le persone. E infatti, nonostante tutto, dico nonostante le distanze, io ho nutrito sempre grande stima e anche vera ammirazione dei quintali di umanità di Antonangelo Liori, intellettuale di largo ed eclettico raggio della nostra Sardegna contemporanea, giornalista prodige (non solo per la precocità nel mestiere imbroccato sui banchi di scuola) e prolifico ed originale saggista, interprete di tante sedimentazioni sapienziali sarde da lui correttamente riportate, e sempre con una penna d’oro, entro le ampie matrici delle analisi antropologiche che cavalcano i calendari ed i territori.
La rilettura recentissima di un suo libro – Personaggi, luoghi e cerimonie della Sardegna tradizionale, titolo neppure degli ultimi tempi – e quella, come in parallelo, del nuoresissimo Santi di creta di Bachisio Zizi, mi hanno suscitato il desiderio di accostarmi per testimonianza, e come invero rapsodicamente m’è già occorso di fare ogni volta con pieno gusto, ancor più che alla sua vasta (e dotta) produzione, alla sua personalità discussa sì, tanto spesso esposta sul fronte degli azzardi, ma non di meno passionale e generosa nella sua rotonda veracità.
Sessantenne da pochi mesi ma, ai miei occhi, giovane in permanenza (e come l’ho conosciuto nelle stanze de L’Unione Sardaa Terrapieno), d’intelligenza pirotecnica e di curiosità indagatrici inarrestabili, Antonangelo lo ammiro anche perché l’ho scoperto capace di intimamente relazionarsi con gli ultimi fra i più umili – come anche sapeva fare, e ci insegnava a fare, il nostro Francesco Alziator, l’amico degli arsellai di Santa Gilla – tanto quanto con i grandi decisori negli uffici delle banche, delle industrie o delle diocesi, perfino dei tribunali. E con le cadenze del suo orgoglio desulese che è valso e vale una religione. Lui capace di amministrare (e condividere perfino!) la poca minestra riservatagli nelle avverse contingenze, eppure sempre verticale e combattivo nelle sfide in scorrimento, quelle meritevoli – secondo la sua coscienza – di essere lanciate o quelle meritevoli d’essere raccolte, a seconda dei casi. Le sue vicende personali, quelle che stanno dietro i paraventi professionali, ne hanno rivelato e ancora ne rivelano, e direi ne confermano, quello spessore umano che in me ha suscitato sempre e oggi più che mai suscita una certissima e santa prossimità che viaggia per i codici segreti del cuore e chiede di essere rubricata, a saldo d’un debito mio ma senza altre pubbliche esplicitazioni, nel campo delle relazioni sociali.
Non scrivo di lui oggi per biografarlo – non ve n’è necessità – ma per il mio bisogno di associarlo a quel novero largo di germogli barbaricini che hanno riempito la mia vita, prestandosi la sua geniale partecipazione come singolarissima e irripetibile tessera di un mosaico nel quale ho specchiato le mie vocazioni ed esperienze di vita. E dunque… senza più spendere parole e soltanto per rinnovare un’affinità sentimentale di cui ci insegnavano l’arte narrativa il padre Morittu e quanti altri padri nostri nelle comunità –, mi è sembrato bello richiamare due brevi testi giornalistici di Antonangelo, trovando in essi il complemento giustificatore della mia testimonianza. Gli articoli usciti su L’Unione Sarda, l’uno del 1987 l’altro del 1989, in cui egli s’è occupato, la prima volta, del mio amico e maestro Bachisio Zizi, del quale è prossimo il centenario della nascita orunese, a proposito di Santi di creta - romanzo di alto profilo e per questo perseguitato anche nelle aule di giustizia! –, la seconda volta di me stesso, a riguardo del mio “mattone” Cagliari 1889.
Riassociandomi idealmente, proprio per virtù di penna di Antonangelo Liori, al mio Bachisio Zizi con cui condivisi quarant’anni di collaborazioni e confidenze, mi riporto a quando – ancora per il tramite redazionale di Antonangelo – con lo scrittore de Il pontedi Marreri, Erthole, Greggi d’ira ecc. potei (con molti altri) pubblicamente schierarmi in un’impari lotta contro il pregiudizio. E fu poco tempo dopo che con l’allora giovanissimo cronista (e prossimo direttore) de L’Unione Sardaancora m’incontrai, progettando un lavoro comune, purtroppo poi non protetto dalle circostanze. E ancora però, quella volta, del mio amico e collega d’impresa colsi il rigoglio dell’empatia, sempre e sempre rigodendolo nelle lunghe traversate in auto fin su a Sassari, dove avevamo appuntamento con un’altra personalità d’indistruttibile merito: Mario Giglio.
Vivo la perennità di questa amicizia, nella salute e nella malattia. E mi fa bene, proponendo il modello a chiunque altro sentisse in sé l’aridità delle (supposte o vere) primazie e necessitasse invece dell’inclusione, questa sì autentica e feconda, nella fraternità.
Il best seller sardo finisce davanti al giudice (1° novembre 1987)
Uno scrittore nuorese finirà martedì mattina davanti al Tribunale civile di Cagliari: ce lo hanno portato due fratelli che hanno identificato i propri genitori nei personaggi di un suo romanzo. Bachisio Zizi, alto dirigente bancario con la follia della letteratura, è accusato di aver violato con la sua ultima opera Santi di creta la linea di confine che separa la finzione narrativa dalla realtà. L’autore si trincera dietro il più assoluto riserbo. « Posso solo dire che il Primo Tribunale è la coscienza: ed io mi sento già assolto » , afferma: « Ritengo che la letteratura prenda sempre spunto dalla realtà. Ma, per fare un esempio tratto dalla mia professione di bancario, ritengo che il prodotto finito, cioè il romanzo, sia profondamente diverso dalla materia originaria: l’intervento dello scrittore sui fatti è il valore aggiunto » . Santi di creta non è solo la storia di una famiglia di imprenditori barbaricini (gli Are-Senes nel romanzo, i Guiso Gallisai-Lostia secondo l’accusa) che decade lentamente, ma la storia di una città, di un mondo che si sgretola a poco a poco: come la creta, appunto. L’opera si inserisce nella grande tradizione della narrativa nuorese: di Grazia Deledda, Salvatore Cambosu e Salvatore Satta. Anche quegli scrittori ebbero contrasti con i concittadini che si ritennero diffamati da capolavori della narrativa quali Elias Portolu, Canne al vento, Il giorno del giudizio.
« E’ un annoso problema » , spiega il critico letterario Giovanni Mameli: « che io ricordi, in Italia solo Pasolini venne denunciato per un simile fatto: un tale che si identificava in un personaggio di un suo romanzo, lo querelò per diffamazione. La sentenza diede ragione allo scrittore per una semplice ragione: quasi sempre i personaggi letterari hanno qualche aggancio con figure reali, perché la fantasia assoluta è impossibile nella pratica narrativa. Si sono ispirati a storie realmente accadute Proust, Musil, lo stesso Manzoni. Ma i familiari della monaca di Monza non avrebbero di certo potuto sporgergli querela, perché denunziare uno scrittore di romanzi per le sue opere significherebbe bloccare in assoluto l’attività letteraria, che è una trasfigurazione della realtà » .
Dello stesso avviso è il critico letterario e docente universitario Giovanna Cedrina: « Da che mondo è mondo, c’è sempre stato un problema di demarcazione tra storia reale e fantasia. Con Zizi si ripetono le vicende di Grazia Deledda a Nuoro e di Pirandello con la stessa Deledda, della quale descrisse la situazione familiare in un celebre libro: Giustino Roncella nato Boggiolo. Nel caso specifico del romanzo Santi di creta non capisco perché qualcuno si debba indignare: nel romanzo gli Are-Senes sono ricoperti di un alone mitico. Ma soprattutto non bisogna dimenticare che la letteratura è solo un mondo di carta » .
Provocatoriamente, l’antropologo e scrittore Giulio Angioni ritiene che questo processo sia un fatto positivo: « Così finalmente si parla di cose serie, e non solo di Pippo Baudo. Per il resto ritengo che non ci sia niente di serio nel sentirsi offesi da un romanzo » .
Il processo che si celebrerà martedì apre il campo ad una serie di affascinanti problemi. E cioè, se il romanzo possa essere inquisito perché descrive o dà un’interpretazione della realtà. Se possa essere incriminata la finzione narrativa, l’opera d’ingegno, il gioco poetico. Se Manzoni potesse o meno ricostruire la vicenda della monaca di Monza. Se Dante avesse il diritto di descrivere la figura del Conte Ugolino e se i Della Gherardesca avessero il diritto d’indignarsi.
I precedenti in Italia sono ben pochi. In Sardegna (nonostante le polemiche su Deledda, Cambosu e Salvatore Satta) nessuno ha mai citato in giudizio uno scrittore perché si sentiva diffamato da un romanzo. I Lostia di Nuoro sono i primi. La questione che si prospetterà davanti al Tribunale civile di Cagliari lascia perplessi. Perché c’è in gioco un mondo di carta, delicato e difficile, che si chiama letteratura.
Così era Cagliari quando uscì “L’Unione Sarda” (30 dicembre 1989)
Il primo numero de L’Unione Sarda uscì dalla tipografia cento anni fa. Ma il giornale non nacque per caso: fu il frutto di una serie di circostanze economiche, politiche e sociali. Il 1889 fu un anno importantissimo per la Sardegna e soprattutto per Cagliari. Il vento della belle époque trasformò la città, che ancora città non era ma piuttosto « un paesone dimesso, con strade impraticabili, dissestate e buie » . Era la Cagliari di un sindaco mitico, Ottone Bacaredda; era la Cagliari che amministrò importanti battesimi: dal Collegio dei ragionieri al Banco di Napoli, dalla Scuola di viticoltura ed enologia (poi Istituto agrario) alla Scuola d’arti e mestieri (futuro Industriale).
Di queste e di altre cose parla l’ultimo libro di Gianfranco Murtas dal titolo Cagliari 1889: chiesa, politica e società all’esordio dell’Unione Sarda pubblicato dall’editrice Alternos. Si tratta di un bel racconto lungo 540 pagine, ricche di notizie, informazioni e curiosità su uno dei periodi più importanti per la città. La Sardegna viveva come sospesa « fra la sua antica e strutturale depressione socio-economica e le nuove iniziative che via via sono state intraprese per dotarla di servizi che i tempi affermano come necessari » .
Gianfranco Murtas ha passato al setaccio archivi e biblioteche e ha trovato ciò che cercava: la radiografia di una città nell’anno della transizione. Una transizione ben delineata dalla nascita del più importante quotidiano dell’isola, L’Unione Sarda, fondato per combattere una moltitudine di piccoli quotidiani che rappresentavano altrettanti partiti politici. Come settimanale, L’Unione esce per la prima volta con la dicitura “numero di saggio”, domenica 6 ottobre, cioè all’indomani di un diluvio che tanti lutti provocò a Cagliari e nell’hinterland. L’articolo di fondo spiega i propositi del giornale: « Noi veniamo a pigliar posto nelle file del giornalismo sardo in momenti difficili per le lotte rese acerbe da angosce profonde, nei quali l’interesse personale, l’amore del quieto vivere consiglierebbero a tenerci alla invidiabile parte degli spettatori » . Sono dieci numeri in tutto (fra il 6 ottobre e l’8 dicembre) quelli della stagione dell’Unione settimanale. La buona accoglienza riservata dal pubblico alla nuova testata induce i proprietari a trasformare l’Unione in quotidiano.
In breve tempo,L’Unione divenne il quotidiano dei sardi. Di una Sardegna offuscata da lutti e sofferenze, dal ricatto delle multinazionali che gestivano le miniere, da sfruttamento e miseria. L’agricoltura pagava per la guerra doganale che vedeva in lotta Francia e Italia (alla Sardegna fu bloccata la fonte più importante delle esportazioni: la vendita del bestiame bovino a Marsiglia). L’edilizia non tirava. La struttura pubblica non funzionava. Gli abitanti, in tutta l’Isola, erano 680mila (37mila a Cagliari) e la crescita demografica era lentissima. Iniziava l’epopea dell’emigrazione: partivano in migliaia a cercare fortuna in nord Africa, Francia, Usa, Argentina, Brasile. Pochi sarebbero tornati. La popolazione era falcidiata dalla malaria e dalla tubercolosi, le malattie infettive si diffondevano tra gli uomini e anche nel bestiame. E L’Unione Sarda fu testimone attiva di questi drammi.
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