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Gianfranco Murtas

Bacaredda e la vertenza con Efisio Marini circa la sepoltura di Pietro Martini, trentadue anni dopo la morte del grande storico sardo

di Gianfranco Murtas

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Era giovane o giovanissimo – diciottenne – in Calabria con la famiglia, fra la precedente residenza sassarese e il ritorno, almeno per gli anni dell’università, a Cagliari, Ottone Bacaredda nel 1866: nell’anno che registrò in città la morte improvvisa di Pietro Martini e la pietrificazione del suo cadavere ad opera di Efisio Marini, allora medico giovane ma già molto ben conosciuto, amato-odiato per le sue sperimentazioni scientifiche osservate e misurate da troppi con le invidie di paese.

Sarebbe passata una trentina d’anni e il giovane liceale, divenuto intanto avvocato e professore di fama e, dalla fine del 1889, anche sindaco della sua città natale, di Martini e di Marini, dei quali forse non aveva avuto grande nozione allora, dovette occuparsi con i suoi colleghi di giunta e Consiglio. Non fu un’esperienza gratificante. Fu invece sfiancante emotivamente e dolorosa sul piano amministrativo. Tanto che, a quasi centotrent’anni di distanza dagli eventi – che dovevano compiersi nel lustro fra il 1894 ed il 1898 – ogni obiettiva valutazione storica non potrebbe prescindere dalla considerazione di quel tanto di sofferenza personale che si sparse, salata, sulle posizioni e decisioni che furono opposte, fra Bacaredda a Cagliari e Marini a Napoli. Bacaredda per notificare al pietrificatore ormai da un trentennio inseritosi pienamente nella società napoletana, la volontà del Municipio di dar definitiva sepoltura in un loculo chiuso di prima classe alle spoglie del grande storico sardo; Marini per obiettare che il “suo” Martini doveva essere non chiuso ma tenuto visibile alla cittadinanza, pietrificato come lui l’aveva reso e il Comune, semmai, doveva collocare in una cassa con oblò, come s’era deciso tanto tempo prima e per cui s’erano raccolte settecento lire poi perdute nel crac bancario…


Fu un contrasto molto duro, affidato alle lettere private che ebbero però presto ribalta pubblica; ognuno aveva ragione, o aveva le proprie ragioni: Bacaredda fu indubbiamente prudente e paziente, e attese ben cinque anni dalla iniziale delibera di giunta confortata dalla decisione del Consiglio prima di dar esecuzione a quanto stabilito; Marini difese fatica e gloria rifiutandosi di presenziare alla invenzione della salma – la quarta, o forse la quinta, della serie da documentarsi in apposito verbale e da compiersi alla presenza di molti e qualificati testimoni – ed a una tumulazione che, appunto, annullava del suo senso il lavoro da lui compiuto nel lontano febbraio 1866…

 Per procedere con il flashback

Bisogna rifare la storia di questa vicenda conclusasi male, e bisogna partire allora dalla notizia che in città colpì molti anche perché giunta inaspettata…

Se n’era andato, all’età già vecchia di 66 anni, nel 1866 (essendo della classe 1800) Pietro Martini, il celebrato “presidente” della Biblioteca governativa di Cagliari ospitata nella trionfale sala settecentesca dell’Università, ed autore di molti libri di storia sarda. Se n’era andato nella tarda serata di sabato 17 febbraio – la data di calendario che era stata ipotecata, o lo sarebbe presto stata, tanto più a Cagliari ma anche a Sassari e altrove in Sardegna, dal soverchiante mito di Giordano Bruno (magari associato a quello di Sigismondo Arquer) –, pochi mesi prima che la terza guerra d’Indipendenza, portando il Veneto e Venezia al Regno di Vittorio Emanuele II, marcasse nelle consapevolezze civili di tutti la bellezza di una unità territoriale della nazione ormai quasi completa: Roma e il Lazio sarebbero venuti fra quattro anni, Trento e Trieste avrebbero ancora pazientato il loro turno, ma ormai il disegno era chiaro e già ben definito. E Pietro Martini, che pur era uomo di sardità profonda e… gran sacerdote pontificante le celebri carte d’Arborea, lui disciplinato funzionario fedele alla Casa regnante (anche con il giornalismo – con L’Indicatore sardo che aveva promosso con i suoi fratelli Antonio e Michele – prima e molto prima dello Statuto albertino) ne avrebbe goduto giusto da sardo-italiano.

Il Corriere di Sardegna, che però non era codino ma, al contrario, liberale e perfino aperto alla democrazia, pianse quel lutto e per quasi una intera settimana aprì la sua prima pagina dolendosi per la grave perdita: «Pietro Martini non è più! Ecco un’altra vita che manca… ecco un’altra intelligenza che tramonta. Noi ci decimiamo giorno per giorno d’ingegni pazienti e operosi […]. Ed ora – non ancor riposato in calma lo spirito – la mente geme sotto il peso di mille dolorose eppur care memorie…».


Il necrologio era sincero, così come quell’altro pubblicato ed affisso ai muri delle strade ad iniziativa di alcuni giovani: «Concittadini! una perdita irreparabile… Non è quindi mestieri che s’invitino i concittadini di quell’egregio ad accorrere alla sua ultima dimora. Portiamo tutti colà il nostro affetto e le nostre lagrime. E’ debito onorare gl’illustri defunti!».

Dolore certo, ma dolore misto a sorpresa. Era di poche settimane avanti la pubblicazione della sua seconda dispensa dell’appendice alla Raccolta delle Pergamene dei Codici e fogli Cartacei d’Arborea, gloria e… inciampo clamoroso del grande storico. Tutto valeva ad integrare la Storia di Sardegna del Manno, a meglio esplorare lo stato dell’Isola al tempo dei romani (dopo che dei cartaginesi)… Nuove aggiunte si annunciavano: due nuovi codici cartacei «ridotti a buona lettura dal paleografo Pillitu, e da lui tradotti in lingua italiana», come aveva riferito la Gazzetta Popolare del 30 gennaio. Altra gloria per Pietro Martini! Ma poi ecco la notizia tremenda e improvvisa della sua morte.



Il necrologio della Gazzetta Popolare siglato G.T. – forse Giuseppe Turco – in prima pagina del numero di martedì 20 febbraio, fece il paio con quello del Corriere: «Senza esservi preparate una perdita irreparabile hanno fatto testé la scienza e la patria. L’illustre storico e letterato, il patriota coscienzioso ed onesto, il cittadino per eccellenza zelante delle cose patrie è mancato. Pietro Martini è morto nella sera di sabbato, di morte quasi subitanea, per apoplessia nervosa».

E più oltre: «egli non lascia largo patrimonio che d’esempio e di affetti. Egli è modello a quanti credono che la scienza e la fede nel suo successo sono qualche cosa d’importante pei destini d’un popolo e per l’umanità.

«In questi ultimi anni della sua travagliata esistenza non ebbe che un intento solo, grande per il proposito, efficace per gli effetti: dimostrare colla storia che la Sardegna era Italia, che la terra detta dei barbari era civile allorché i civili erano barbari. E come sia riuscito nell’arduo compito non è a dire nello stretto limite che ci siamo imposti in quest’annunzio».

Qualche particolare sulla triste circostanza ora al commento, anzi al compianto, la Gazzetta Popolare l’avrebbe reso noto qualche settimana più tardi, il 28 marzo per la precisione, pubblicando nell’Appendice della sua prima pagina, con l’estratto dagli Atti della R. Accademia delle scienze di Torino, un testo-testimonianza dovuto alla penna di Carlo Baudi di Vesme e titolato “Cenni biografici del Commendatore Pietro Martini”.

Avrebbe riferito il conte Baudi, giurista, deputato-senatore e mille altre cose, e anche già azionista e direttore della Mineraria Monteponi, come il giorno stesso della sua morte il Martini gli avesse scritto: «Ormai la mia mente è stanca, e non vedo il momento di potermi riposare. I 66 anni mi pesano assai sulle spalle. Meno male che sono vicino a liberarmi dal peso quadriennale».

Scritto la mattina, quel messaggio fu recapitato al destinatario la sera, quasi in contemporanea alla morte sopravvenuta verso le ore 21.

E si sarebbe saputo meglio: cinque ore di malore, poi l’ultimo respiro fra le braccia del fratello e di quegli amici che avevano preso l’abitudine di passare la fine giornata con lui, nella sua casa di Castello, a mezza strada fra il Viceregio e la trecentesca torre di San Pancrazio.


I funerali furono funerali di popolo: «Fin dalle prime ore pomeridiane i balconi e le finestre delle vie per cui dovea passare il funebre convoglio erano coperte di neri drappi. La popolazione, composta ad un contegno di solenne mestizia, si versava per ogni via, dirigendosi colà d’onde dovea partire per l’ultima dimora la salma dell’uomo compianto».

Dalla contrada Santa Lucia (oggi è la via Martini) e giù per la via Dritta (oggi è la via Lamarmora), «preceduto dalla banda nazionale e da parecchi plotoni di questa milizia» il corteo mosse alla volta del camposanto di Bonaria che ancora era, per il grosso, tutto concentrato nella originaria vasta area in quattro campi destinati alle inumazioni e fiancheggiati dalle prime cappelle delle maggiori famiglie dell’aristocrazia cagliaritana così come di alcune confraternite (nello stesso 1866, in quella della Congregazione del SS. Sacramento nella Marina, sarebbero state accolte le spoglie del combattivo arcivescovo Emanuele Marongiu Nurra).

In quel mezzo pomeriggio di lunedì 19 nessuno era mancato all’appuntamento doveroso: le scuole e gli alunni del Convitto nazionale con bandiera d’istituto, le società Operaia e di Mutuo Soccorso pure esse con la bandiera sociale variamente decorata ed i membri del Comitato eleonoriano con il vessillo arborense e l’immagine della giudicessa sul campo bianco… e quanti altri poi, professori dell’università, del liceo-ginnasio e d’ogni altra scuola, magistrati, autorità, un numero imponente di bimbi e ragazzi ospiti delle Opere pie, segnatamente – ad aprire il lungo corteo – quelli dell’Ospizio Carlo Felice di Villanova attivo di lato alla chiesa antica di San Lucifero, lo stato maggiore della Guardia Nazionale con un distaccamento della stessa e la banda della legione invece a chiudere... Di seguito decine e decine di cittadini qualsiasi, intervenuti chi per condivisione patria del lutto dichiarato chi per una conoscenza di varia natura con il defunto.


Nel mezzo il feretro portato a spalla da quattro studenti e coperto da un manto i cui lembi erano tenuti dai quattro presidi delle facoltà universitarie, quelli di Giurisprudenza, Lettere e filosofia, Medicina e Scienze naturali e matematiche.

Dall’alto dei bastioni sopra la Porta dei leoni e sulla via degli Argentari (poi via Mazzini) moltissime persone seguivano quel flusso che, imboccato su Stradoni (poi viale Umberto, poi viale Regina Margherita), s’indirizzò verso il viale San Bartolomeo (stradone Bonaria) fino al camposanto già affollato da chi attendeva l’arrivo del feretro. La cerimonia, laica e religiosa ad un tempo, ai piedi della breve gradinata dell’oratorio.


Qui presero la parola, uno dopo l’altro, il professor Giuseppe Regaldi – tanto benemerito nelle funzioni eleonoriane del 1865 (quelle del Civico in cui emersero soprattutto i contributi degli Artieri della loggia massonica Vittoria, da Scano e Mossa ad Arboit e Tanda, da Vivanet ad Uda) e di dopo ancora –, l’avvocato Antonio Giuseppe Satta Musio – magistrato in carriera, già deputato subalpino e presidente del Comitato eleonoriano –, un giovane ignoto ai più e di nome Bartolomeo Gatti (un sottotenente continentale fattosi cagliaritano per aspirazione) che improvvisò allora un carme di metrica classica. Concluse il giovane (trentenne) professor Filippo Vivanet – matematico ed umanista insieme, secondo la miglior scuola, destinato a gran futuro – membro attivo anche lui della loggia Vittoria, che ebbe espressioni di alata tenerezza verso il defunto, con ciò intercettando il sentimento di tutti. («O Sardegna, augusta Niobe del mare, copri adunque il misero capo di nera gramaglia, poiché la sventura unica in ogni tempo, tua fedelissima amica, ha picchiato in questo malaugurato dì alla tua porta e ti tolse uno dei migliori tuoi figli»).


Già nella sua edizione di mercoledì 21, e poi nei giorni seguenti, il Corriere di Sardegna riportò i testi dei discorsi scritti, cominciando con quello di Satta Musio (uno degli editori del giornale) che così si concludeva: «Salve, dunque, anima forte e generosa. I nostri sospiri, quelli delle generazioni venture t’accompagneranno quaggiù nella memoria della tua bella esistenza».

Avrebbe pubblicato, il Corriere, anche quel discorso che ragioni di tempo impedirono al giovane studente Angelo Falconi – figlio del celebre e benemerito professor Giovanni – di tenere davanti alla bara e ai tanti intorno ad essa: «O Pietro Martini accetta l’ultimo vale, che per bocca mia ti mandano affitti e commossi gli studenti tutti di questo patrio Ateneo…».

Sullo stesso piano e portando gli stessi argomenti anche l’Avvisatore Sardo, terzo quotidiano dell’edicola cagliaritana: «Alla patria sola Egli dedicava l’operosità inesausta del suo ingegno, il domestico censo, le tranquillità, tutta la sua vita; e per essa soltanto sofferse molto, sperando nell’avvenire giorni men tristi, e preparandoli con le dotte fatiche.

«Quali fossero le sue aspirazioni ciascuno conosce, ché Egli a nessuno celava. La terra natale era per lui più oggetto di culto e di venerazione che di affetto. E mentre dai molti era posta facilmente in non cale, o rinnegata per turpe andazzo di tempi, o sacrificata per interesse, o infine, fatta bersaglio alle calunnie di stranieri e nostrani, non rado irrisori d’ogni nostra gloria, Egli con virtù unica e con invitto coraggio bandiva al mondo i gesti dei trapassati, rendeva nota all’Europa civile questa parte, pur troppo dimenticata della terra…

«Pietro Martini accoppiava alla rara dottrina, la modestia più rara ancora. Bassa invidia non deturpava il suo carattere nobile, eguale, d’una lealtà antica… Due affetti si alternavano nel suo cuore – la famiglia, ormai ridotta a un solo e amatissimo fratello e a pochi amici, e la sua terra natale. A questa consacrava i vasti concepimenti dell’anima grande, i frutti del suo ingegno, una vita intiera di lavoro, di disagi, di meditazioni e di dolori…

«Gentile di modi, accoglieva egualmente chiunque il ricercasse d’un consiglio. Consultato spesso dai dotti nostrani e stranieri, i quali in molto pregio ne avevano la profonda dottrina e gl’ingegno arguto, fu agli uni e agli altri di sovvegno nelle loro ricerche. Sincero patriotta, abborriva dagli estremi, immaturi e perciò stesso dannosi divisamenti…»

E dopo ancora: «Immenso è il lutto della Sardegna… Pure il cielo fu a Lui così amorosamente benigno da consentirgli che prima di lasciare la sua mortale dimora godesse del frutto delle sue illustri fatiche, e vedesse il più grande monumento storico della Sardegna, per lui or ora portato a compimento, riconosciuto, a confusione dei miserabili detrattori, da tutta la dotta Europa.

«Oramai la storia accoglierà nelle sue tavole imperiture il nome di Pietro Martini…».


Il Comune di Cagliari lanciò una sottoscrizione nazionale con l’intento di erigere un monumento al «grande scienziato e letterato», «instancabile ed accurato scrittore di Storia patria», costituendo un’apposita commissione promotrice d’una decina di membri: con il consigliere comunale Giuseppe Valle anche il deputato Francesco Salaris – professore di diritto e anche lui in forza alla loggia Vittoria (la loggia tutta convinta della veridicità delle carte d’Arborea come anche testimoniato dalle sue “letture pubbliche” del 1866 e 1867: Delle Nazionalità, Della Patria…) –, l’architetto professor Gaetano Cima, il già citato Antonio Giuseppe Satta Musio vice presidente del Tribunale, il cav. Lorenzo Rossi capoLegione della Guardia Nazionale, il professor Giuseppe Todde economista ed avvocato nonché prossimo rettore dell’Università, il cav. Giuseppe Palomba segretario generale della Camera di Commercio ed il negoziante Gaetano Rossi Doria, anch’egli esponente di spicco dell’ente camerale.

Altri membri – Angelo Carcassi, il rettore can. Giovanni Spano, monsignor Demontis del Capitolo metropolitano, l’avv. Sanna Sanna direttore della Gazzetta Popolare, l’avv. Gavino Scano preside di Giurisprudenza e leader di molti altri uffici, il professor Francesco Ignazio Putzu, il presidente della Camera di Commercio e Paolo Chessa direttore della succursale della Banca Nazionale, con Francesco Cocco Ortu (giovane allora di 24 anni) segretario – si aggiunsero nei giorni seguenti, ritenendosi opportuno, da parte del sindaco Roberti di San Tommaso, coinvolgere tutti i ceti economici e professionali delle città. Per parte loro, Todde e Palomba stesero una bozza d’appello da inviare alle amministrazioni provinciali e comunali di tutt’Italia per una adesione al progetto.


Venne presto quell’appello e, con esso, un proclama. «Se i forti e gagliardi intelletti hanno il privilegio della divinazione, a Pietro Martini spetta il supremo vanto di aver distrutto le dense caligini che il tempo aveva accumulato sopra molte delle glorie sarde. Fermò egli infatti la sua penetrante attenzione, fissò il suo sguardo scrutatore nei primi periodi della storia del popolo sardo… raramente si inganna chi aggiusta piena fede al progresso indefinito delle Nazioni. Le ritrovate pergamene di Arborea ne sono una prova. Le virtù di un popolo non si spengon per mutamento di dominazioni, o per tristizia di tempi, o per impotente gelosia di avidi regnanti, ed allora, quando giacciono nel mistero in cui rimangono per secoli avvolte, ivi si ritemprano per comparire nuovamente nel mondo giovanile e più belle e più grandi. Le gloriose geste dei tempi di Roma si rinnovano infatti nella classica epoca di Eleonora d’Arborea. E’ il germe degli antichi eroi che ripullula. E’ la tradizione del valore, delle virtù, dell’ingegno che perdurando sempre negli istinti e nelle nobili aspirazioni del popolo sardo, nuovamente si rivela nella grande Legislatrice, nella nobile Eroina, negli esimi artisti, nella gentile favella, e nel canto dei suoi vivaci poeti. Glorie queste che non solo hanno un grande interesse per la Sardegna, ma tengono rapporti colla storia Nazionale, e valgono a spargere molta luce, massime sul grande periodo del medioEvo in Italia.

«Eternare le memorie di uno storico così valente, di un cittadino benemerito, di un Italiano così dotto, fu il primo pensiero del Municipio di Cagliari innalzandogli un degno monumento…».

Efisio Marini in campo e l’idea del Pantheon

E l’inumazione, o la tumulazione, della salma? Prima d’ogni altro adempimento, appena concluso il rito funebre, gli amici del defunto consegnarono la cassa con il cadavere al professor Efisio Marini incaricandolo di procedere alla «conservazione a fresco» delle spoglie ivi raccolte. Immediato fu allora l’intervento del giovane medico e naturalista.


Riferendo la circostanza, il Corriere di Sardegna, in una sua nota uscita nell’edizione del 25 febbraio, precisò: «Poiché occorre parlare della invenzione del Marini, siamo in grado di informare i nostri lettori che il mese scorso si è aperta in Genova la cassa contenente il cadavere di gentil signora, che il Marini preparava a fresco in Cagliari, e già da un anno, e che fu quindi trasportata a quella città; si riconobbe il cadavere nella freschezza primitiva e affatto inalterata. Questo fatto non abbisogna di commenti ad onore del Marini, al quale raccomandiamo di perseverare, malgrado gl’invidi e i malevoli, nella sua opera, che seppe già applicare ad altro oggetto di grande utilità, cioè alla industria per la concia delle pelli».

Satta Musio propose di chiedere al Comune di «destinare un locale in cui sia collocato il corpo del Martini dopo essere stato pietrificato, e serva d’un Pantheon a quelli che si resero benemeriti e illustrarono la patria».

La discussione, in seno al Comitato promotore, si fece larga ed approfondita. Si valutò se a tanto ostasse la legge sui cimiteri, e si osservò come la legge vietasse il seppellimento nelle chiese per ragioni igieniche («ragioni che – rilevò Satta Musio – non potrebbero più sussistere trattandosi d’un cadavere conservato in modo da non andar soggetto a corruzione»). E trattandosi di una semplice proposta che poi sarebbe toccato al Comune di esaminare, nel caso assumendosi in proprio la responsabilità della cosa, tutti aderirono.

Di più: perché non si obbiettasse di parzialità non comprensibili, si concordò – secondo il suggerimento del presidente massone dell’Eleonoriano – che al Comune si chiedesse l’allestimento di un vero e proprio Pantheon ospitale verso tutti «gli altri grandi cittadini segnalatisi per opere o scritti utili alla patria».

Il prof. Cima, da parte sua e molto più modestamente, chiese fosse collocata sulla facciata della casa di Pietro Martini una lapide di onore. Tutti d’accordo, e tutti d’accordo anche stavolta di estendere il riguardo «agli altri cittadini che onorarono il nostro paese».

Tutta l’edicola cagliaritana, ancora a marzo, insistette, pressoché quotidianamente, a dar conto di quanto andava compiendosi per celebrare il perduto Pietro Martini. La Gazzetta Popolare riprodusse anche, a tutta prima pagina – era il 9 marzo –, il testo integrale dell'appello divulgato dalla Commissione promotrice del monumento e spedito in tutt’Italia.

Si tratta di un documento importante, perché nei cenni biografici dell’antico presidente della Biblioteca governativa, e tanto più nei riferimenti ai suoi meriti certificativi delle pergamene d’Arborea, si trasferiva in esso quella ideologia che era ormai nella pelle di pressoché tutta l’intellettualità sarda. Lo svarione del Martini, in altre parole, era lo stesso in cui tutti incorsero in quei decenni mediani del XIX secolo sardo: ci si sarebbe resi conto tardi, nel 1872, alla pronuncia dell’Accademia delle Scienze di Berlino, che s’era scambiata la speranza, la levità d’un sogno, per documento storico inoppugnabile… e che Pillitu e chi altri con lui e dietro di lui? avevano imbrogliato. Ma intanto, incassata quella delusione, si sarebbe stati confortati, a compensazione, dalla resistente conservazione lapidea del corpo lavorato da Efisio Marini.

«L’illustre nostro storico Pietro Martini non è più! Vittima di violento morbo…», questo l’incipit del manifesto (più sopra anticipato) che s’allarga alla elencazione dei meriti riconosciuti: «… a Pietro Martini spetta il supremo vanto di aver distrutto le dense caligini che il tempo aveva accumulato sopra molte delle glorie sarde. Fermò egli infatti la sua penetrante attenzione, fissò il suo sguardo scrutatore nei primi periodi della Storia del popolo sardo, e si convinse che la virtù di questa terra, la quale pur ebbe nei prischi tempi la sua gloria, che vide inaffiate le sue zolle dal sangue di Asdrubale, che osservò i suoi figli morti combattendo or contro Manlio or contro Carvilio, che ammirò gli atti eroici d’Iosto e d’Amsicora squarciatisi il seno prima di curvare il collo al giogo straniero, distrutte sotto i ruderi della fiaccata oltracotanza cartaginese, e della crollata grandezza di Roma.

«E ben si oppose, ché radamente s’inganna chi aggiusta piena fede al progresso indefinito delle Nazioni. La ritrovate pergamene d’Arborea ne sono una prova… E’ il germe degli antichi eroi che ripullula. E’ la tradizione del valore, delle virtù, dell’ingegno che perdurando sempre negli istinti e nelle nobili aspirazioni del popolo sardo, nuovamente si rivela nella grande Legislatrice…

«La Sardegna, anzi la nostra Città, che possedé il Martini, e fu continua spettatrice delle sue nobili fatiche, vi avrebbe da sola provveduto [ad innalzargli un degno monumento]; ma dessa che, quando ne ebbe invito dalle Provincie sorelle, concorse ad onorare i loro illustri figli, convinta ch’erano glorie della Nazione, non potrebbe tralasciare l’invito alle altre provincie per concorrere ad onorare questa altra gloria italiana.

«Più che l’offerta è il voto e il generale consenso che si richiede…».

Firmarono tutti i diciassette membri della Commissione, compresi naturalmente il sindaco Roberti ed il segretario Cocco Ortu.

La Società degli Operai si unì tempestivamente e il 13 marzo il suo consiglio d’amministrazione diffuse un invito ai propri soci perché contribuissero alle spese di un monumento che onorasse «uno dei più instancabili operaj del Pensiero», ricordando come «il lutto degli uomini grandi, in qualunque parte di questa Italia essi nascano, è lutto comune, e debito sacro il culto della loro memoria».

Il monumento dunque. Fra i primi a sottoscrivere furono gli ufficiali del 38° Reggimento di fanteria che versarono 60 lire accompagnando l’offerta con un messaggio a firma del maggiore E. Della Casa: «penso che quest’Uomo non doveva solo essere un illustre scienziato, un profondo storico, doveva anche essere un Uomo onesto, di quello stampo che è necessario se ne conservi e se ne propaghi la specie».

Ma intanto, col passare delle settimane e dei mesi le cronache o gli aggiornamenti circa il possibile monumento e magari il possibile Pantheon si mischiarono ancora tanto alle testimonianze sulle virtù del perduto presidente della Governativa quanto alla perizia chimica di Efisio Marini “preparatore” o “conservatore”.

Il prof. Regaldi tenne nella mattinata di domenica 15 aprile, nell’aula magna dell’Ateneo, la sua ultima lezione del corso di letteratura italiana e storia, trattando appunto della vita e delle opere di Pietro Martini. Un successo per il concorso del pubblico palesemente interessato oltreché per la bravura dell’oratore. (Il suo testo fu poi dato alle stampe e diffuso in città).

Un’altra degna celebrazione venne ai primi di maggio in occasione della consegna dei diplomi ai neolaureati. Fu allora il prof. Giovanni Masnata che, dando onore allo scomparso, profetò il “miracolo” scientifico del Marini: «Del Martini non ci rimane più altro che la memoria. Sì, ma tal memoria sarà sempre impressa nel cuore dei giovani sardi, tanto più dopoché l’invenzione di un altro sardo, del Marini, poté farci avere di lui dinanzi agli occhi anche il cadavere incorrotto».


Nel suo numero del 19 aprile l’Avvisatore Sardo – che più volte era sembrato nutrire riserve sul ritrovato scientifico e quasi magico del medico e naturalista di via Sant'Eulalia –, informò di aver ricevuto da Marini copia della lettera del professor Sapey di Parigi, che riferiva come «i suoi preparati si conservano tuttora in buono stato».

Il giornale si disse felice di tanto riconoscimento e di considerare il cagliaritano come il «novello Segato», assicurando di non nutrire «alcun astio» verso di lui ed anzi di augurarsi «che il nostro amico e concittadino si rilevi dalle accuse che gli si volgono incessantemente, e riesca da questa lotta con piena vittoria, perché l’onore suo è gloria del paese». (Giusto una settimana prima la stessa testata aveva lamentato la pubblicazione da parte di Marini di un brano della lettera del professor Sapey estrapolato… a bella scelta dal destinatario: cioè «avesse scelto a preferenze quello che tratta sullo stato de’ suoi preparati come il solo che veramente valga a distrurre quanto in contrario si conteneva nella medesima. Speriamo che il dottor Marini, volendo riabilitarsi in faccia all'opinione pubblica, non ci niegherà questo favore…»).

La testimonianza del Regaldi, la storia di una fotografia

La primissima testimonianza dell’avvenuta pietrificazione fu del professor Regaldi che ne riferì a conclusione del cennato suo discorso tenuto all’Università il 15 aprile: «Nel mattino del 9 di questo mese il Marini cortesemente mi accompagnò al cimitero, e quivi nella chiesuola adorna di corone funerarie, rotti quattro suggelli ad una porta, m’introdusse nella guardata stanza, ove in due casse, una di zinco e l’altra di legno, stava chiuso il lagrimato cadavere. Il buon dottore le aperse, ed io vidi la salma dell’uomo che rimpiangiamo, conservata come se allora allora la morte ne avesse bandito lo spirito. Un senso d’orrore e di pietà mi vinse appena mi apparvero le sue guancie squallide, chiusi gli occhi, chiuse le labbra e immobilmente gelida l’ampia fronte da cui rivelossi tanta parte di Dio nel sublime intelletto.

«Nell’autunno del 1841 in Palermo io avea baciato la destra al cadavere del poeta Giovanni Meli naturalmente disseccato; così con ossequio ed affetto profondo strinsi e baciai la destra del Martini che più volte amorevolmente avea stretto la mia.

«Oh che terribile cosa e stupenda rivederlo morto e posseduto dall’arte misteriosa che tenta vincere le leggi della natura!

«Percosso dalla morte il Martini nella suggellata stanza del cimitero rimane diserto, come arpa meravigliosa di cui siansi infrante le corde poich’ebbero imparadisato l’anime colle melodie del Mozart e del Rossini.

«Sia conservato l’armonico strumento, che rapsodo di Geova significò alla terra altissimi concetti. Sia conservato il corpo del sardo Muratori in cospicuo luogo della città, Panteon destinato agli uomini più celebrati dell’Isola…».

E poi ci sarebbe da dire della prima ricognizione “collettiva” e del documento che ne fece prova nello stesso 1866.

La mattina del 17 giugno – era una domenica – accompagnato da Lay Rodriguez (il fotografo con lo studio fra la piazza Jenne e l’antica via di San Francesco di Stampace), il dottor Marini fece convegno con vari amici, fra i quali erano i Randaccio-Cixi, cugini e nipoti dello scomparso, Antonio Timon ed anche Felice Uda – Fratello dello stesso Marini nella loggia Vittoria attiva ormai da sei anni in città. Ci si vide al camposanto e, come già ad aprile davanti a Regaldi, il “preparatore” procedette all’apertura della cassa, o delle casse, dando corso all’operazione che era stata ben programmata nelle sue sequenze. Estratto dal suo provvisorio e precario ambiente il cadavere fu collocato su un piano a mo’ di seggiolone, di fronte all’ingresso dell’oratorio, e così fotografato. Si presentava allora, quel cadavere, come di «pasta molle, duttile, elastica, arrendevole al tatto, quasi l’anima l’avesse allora abbandonata». Trattando, con rispetto e venerazione, quel corpo, Marini sembrò allora un vero e proprio modellatore, come avesse a che fare con la creta da vivificare portandola, nella conquistata o ristabilita fisionomia umana, come a «fittizia animazione d’un amichevole colloquio».

Così ne scrisse poi il buon Uda sul Corriere dell’11 settembre: «Pietro Martini quattro mesi dopo la sua morte era tuttavia – e ci piace qui constatarlo – come il primo giorno in cui spirò; il volto calmo e sereno, la fronte agghiacciata, corrugata nell’ultimo pensiero, pallide le labbra, quasi ancor sorridente».

Di quell’evento tenuto riservato qualcosa si sarebbe saputo. Del perché di quella verifica da documentare con una foto (funzionavano le lastre al collodio umido) e della parte avuta da qualcuno dei presenti… a cominciare magari da Lay Rodriguez, per niente interessato allo “scoop” o allo sfruttamento venale della sua arte, e da Antonio Timon l’industriale tipografico che, amico del Martini, di lui avrebbe voluto avere il ritratto del volto, dare a sé, insomma, «il conforto di possederne in immagine le troppo care sembianze».

Rialzate le palpebre per scoprire gli occhi, così venne infatti fotografato Martini: spalle un po’ ricurve e coperte da un mantello nero, nelle mani una logora pergamena allusiva alle carte d’Arborea ancora credute prova provata del riscatto sardo in risalita dall’alto medioevo antegiudicale… Il sole delle dieci mattutine di quel giorno di giugno pareva quasi accarezzare di roseo il viso smunto del povero defunto…


Se ne parlò in giro ma lo scatto non fu subito diffuso. Se ne parlò quindi non decelerando, da parte dei dubbiosi, i soliti proclami più o meno supponenti ed invidiosi, tanto da indurre infine a farla finita ed a mostrare, da parte di chi poteva, la prova del buon fatto. Senza che neppure questo placasse il chiacchiericcio e convertisse le riserve. La foto fu esposta nella vetrina nel negozio Rabatti, nella via Università, di fronte al Teatro Civico, e diverse copie furono vendute agli interessati (tanto in formato gabinetto quanto come carta da visita). Le polemiche in circolazione investirono ora la effettiva somiglianza del Martini morto col Martini vivo ora la natura stessa dell’immagine mostrata che per qualcuno era reale e per qualcun altro era da considerarsi una pura e semplice riproduzione della materia cadaverica.

Avrebbero dovuto dire della terza guerra d’indipendenza, in autunno, o quasi autunno, i giornali, anche i giornali sardi… e invece lo spazio principale della loro foliazione lo dedicarono, tanto più fra il 14 e il 18 settembre dell’A.D. 1866, al corpo pietrificato di Pietro Martini: pietrificato e restituito poi alla sua naturale mollezza ed al suo naturale colorito.

Nel 1867 – quando anche un buon pittore locale, Antonio Caboni, recuperando alcuni bozzetti risalenti a pochi anni addietro, si diede a completare un bel ritratto dello scomparso così come commissionatogli dal fratello superstite – si ritenne opportuno, dallo stesso “preparatore”, riportare il suo Martini dallo stato di freschezza naturale a quello coriaceo (trattandosi di procedimenti reciprocamente reversibili). Così tanto da considerarlo pronto ad una prossima ostensione all’interno di un apposito monumento ancora però tutto da costruire.

Seguirono a tale intervento tre invenzioni, rispettivamente il 13 ottobre 1868, l’11 settembre 1871 e il 18 dicembre 1882. Venne apposta da Napoli, dove s’era intanto trasferito con la sua famiglia, tutte e tre le volte Marini e partecipò alla delicata ricognizione delle onorate spoglie che, nel tempo, andarono diventando ovviamente reperti sempre più… storici e quasi archeologici: due anni, cinque anni, sedici anni… Presente ogni volta il sindaco in carica (inizialmente ancora Roberti di San Tommaso, in ultimo Salvatore Marcello) e l’autorità sanitaria, i testimoni e naturalmente il notaio che stese e firmò il verbale in doppia copia, una per il “preparatore” e l’altra per il Municipio. Il Corriere di Sardegna, infine anche L’Avvenire di Sardegna ne pubblicarono tempestivamente il testo.

Dovettero essere occasioni in fondo grate, per Marini, i ritorni a Cagliari: non soltanto per l’operazione-Martini, ma anche per fatti familiari (invero più dolorosi che lieti) e, nel 1868 – l’anno stesso del trasferimento in Campania – anche per ricevere dalla Società degli Operai il diploma di socio onorario…


Nel 1871 decise, lo stesso Marini, di fare definitiva consegna di quelle spoglie a lui affidate, a suo tempo, dalla famiglia, all’Amministrazione comunale, secondando così il desiderio espresso dall’erede e notificato al sindaco Roberti. Ciò avvenne essendo egli, alla firma dell’atto formale, rappresentato dal fratello Salvatore – colui che più spesso lo aiutava nella faticosa immersione dei cadaveri nei bagni salati (quel Salvatore che la biografia familiare avrebbe detto, un giorno, essere il… nonno materno di Francesco Alziator) – e dall’amico fotografo Lay Rodriguez.

Ancora nel 1882, come detto, una ispezione alla presenza di diversi «ragguardevoli cittadini», sindaco Marcello incluso, e nuova conferma dell’ottimo stato di conservazione del prezioso reperto: «si è riconosciuto il cadavere integro e benissimo conservato allo stato coriaceo, con cui era stato preparato, e riconoscibile ricordando tutti gli astanti i suoi caratteristici lineamenti». Era stato L’Avvenire di Sardegna a promuovere, o quanto meno a proporre a Marini di misurarsi ancora con la sua “produzione”. Da varie parti si riteneva opportuno procedere con la esumazione del cadavere e l’accertamento dello stato attuale di questo doveva considerarsi propedeutico alla futura sistemazione.

Erano giorni importanti sulla scena nazionale, quelli nei quali nel cimitero di Cagliari si andava ad eseguire operazioni che per il più, ed ai più, sarebbero sembrate strane, avveniristiche e diaboliche quasi… Victor Hugo aveva lanciato il suo appello per la grazia da concedere a Guglielmo Oberdank, patriota triestino ventiquattrenne destinato alla impiccagione dalla malagiustizia austriaca. Guglielmo non si salvò e da allora la minoranza repubblicana di Cagliari prese a celebrarne la memoria insieme con gli irredenti che eran riusciti a trovare residenza in Sardegna. Per parte loro, ancora negli stessi giorni, gli studenti universitari costituitisi in comitato s’eran dati, dopo che a commissionare una lapide commemorativa di Giuseppe Garibaldi scomparso a giugno, ad organizzare un pellegrinaggio a Caprera…

Che nomi per la democrazia repubblicana! Oberdank, Garibaldi… Di quella stagione del Risorgimento e del postRisorgimento dell’Italia bella erano coprotagonisti anche Pietro Martini ed Efisio Marini (che del Generale aveva anche pietrificato il sangue perso ad Aspromonte donandolo in una teca al Comune di Cagliari!), e tutti gli altri con loro, Lay Rodriguez e Timon e Uda, e gli amministratori civici e i medici ed i notai volta a volta convocati per asseverare una conquista della scienza ed il merito di un profeta sconosciuto od umiliato in patria…

Forse fu quella l’ultima volta, o una delle ultime, che Marini tornò nella sua città. Avanzando con l’età, non essendosi risparmiato lungo una vita difficile e tutta conquistata faticando, passando per il più pesante lutto domestico – la scomparsa di Giuseppina nel 1879 – e per quegli altri nella casa di via Sant’Eulalia, passando così anche per i travagli dei figli – di Ercole (Enrico nei Quinque libri) Vittore Ignazio soprattutto (che neppure si sarebbe evitato, un giorno, la prova del suicidio) – e donandosi alla sfiancante assistenza dei colerosi del 1884, neppure avendo nella misura attesa e meritata i riconoscimenti universitari e, con essi, la stabilità di una posizione accademica… certo l’amore per la sua Cagliari non si spense, ma pur tuttavia non fu più tale da indurlo all’esplicito perdono di alcuno.

Interessante, riferito al 1894 ed a Pietro Martini, quanto scrisse Francesco Corona nella sua Guida di Cagliari appena licenziata dalla tipografia: «Fu deliberato dal Consiglio comunale, or sono vent’anni, l’erezione di una statua e si spesero parecchie migliaia di lire in bozzetti, che credo si conservino ancora nella segreteria civica. A quando un monumento allo storico cagliaritano?».

E ancora: «Il corpo del Martini fu pietrificato dal prof. Efisio Marini, e credo esista in una stanzetta del camposanto, presso alla cappella. Dicono che sia ben riuscito, ma pochissimi l’hanno potuto vedere».

Al 1894 risale la delibera di giunta passata poi al Consiglio per la decisione finale circa il trasloco delle spoglie di Pietro Martini in un loculo definitivo, e di prima classe, presso una parete detta di San Bardilio, quella stessa che iniziava (e così è ancora oggi) con la lapide studentesca in onore di Giuseppe Garibaldi e che, nel suo sviluppo, vedeva o avrebbe visto tante altre sepolture… di riguardo cittadino, come quella del Venerabile Maestro Cesare Sbragia e dell’ex sindaco (anche lui imprigionato, come Marini stesso, nell’irrisione sconcia dei Goccius de is framassonis) Emanuele Ravot.

Nel febbraio 1895 la pronuncia consiliare e la comunicazione inviata dal Gabinetto del sindaco Bacaredda a Napoli. A marzo la risposta di Marini: no no no. Tutto si sospese allora.

Ad agosto dello stesso 1895 un bell’articolo di Raffaele De Cesare uscì sul Corriere di Napoli. Titolo: “Un medico sardo a Napoli”. Un bellissimo resoconto dell’incontro, rinnovato dopo tanti anni dacché – era il 1878 – De Cesare e Marini condivisero a Parigi l’esperienza dell’Expo: un incontro rinnovato, stavolta nella casa-museo sita «in una delle traverse del Rettifilo»: un vero e proprio gabinetto anatomico degno dell’università.

Lunghe descrizioni, lunghi richiami di esperienze scientifiche i cui risultati avevano raggiunto tutte le capitali europee… «Marini conserva i cadaveri allo stato di freschezza e colorito naturale. Egli ridona ai corpi il volume e la forma naturale; di guisa che in un braccio, in una mano, le vene e i muscoli, i tendini, i nervi, le arterie ripigliano intieramente l’aspetto e la trasparenza, che hanno qualche ora dopo la morte; anche quando furono malamente imbalsamati, perché, pur troppo, in questo genere di professione i guastamestieri abbondano, da per tutto. Fra i cadaveri da lui conservati allo stato fresco c’è quello di Cairoli, e per cui Donna Elena scrisse al Marini un’affettuosa lettera; e ci son quelli della giovane duchessa di Bagnoli, morta sei anni fa; dell’ex deputato Villani, della signorina Belliazzi, del signor Ricolo e di altri. Non è soltanto un grande conforto umano il poter conservare le care persone morte, quali furono vive; ma le preparazioni del Marini rispondono a veri bisogni sociali per la giustizia e lo stato civile, per l’anatomia normale e la patologia, poiché sui cadaveri così preparati si possono scuoprire e allacciare arterie, come fece il Nélaton; e inoltre rappresentano un perfezionamento assoluto sulla imbalsamazione comune…

«Marini è modesto. Egli non appartiene al glorioso tempo che corre; non batte la gran cassa, e rifugge dalla ciarlataneria. Ha avuto onori da tutta l’Europa intelligente; Napoleone III lo nominò cavaliere della legion d’onore quando, nel 1867, all’altra Esposizione mondiale, egli presentò il frammento di braccio di una mummia egiziana di forse cinquemila anni, al quale frammento egli aveva ridato, se non il colore, l’elasticità e l’apparenza umana…».

Marini, ovvero il genio nella modestia. Nei primi giorni del 1897 gli fu commissionata la preparazione conservativa del cadavere del cardinale arcivescovo di Napoli Guglielmo Sanfelice d’Acquavella benedettino… e fu nuova gloria…


Il contenzioso fra Marini ed il sindaco (o fra il sindaco e Marini?)

Ecco di seguito, come presentato da L’Unione Sarda, lo scambio di lettere che nel lustro 1894-1898 si svolse fra il palazzo di Città e la residenza napoletana di Efisio Marini. (Il sostegno offerto dal giornale alle posizioni del medico “preparatore” cagliaritano contro la decisione comunale potrebbe collocarsi nella ostilità generale de L’Unione alla sindacatura Bacaredda che durò fino al 1906).


La salma di Pietro Martini (2 settembre 1895)

All’illustre preparatore prof. Efisio Marini, il cui museo dei cadaveri preparati attira a Napoli l’attenzione degli scienziati del mondo intero, era stata affidata anche la preparazione della salma dell’illustre Pietro Martini, salma che collocata in una apposita cassa era stata tenuta fino al marzo dell’anno corrente nella stanza di deposito del Cimitero.

In quel mese stesso il sindaco di Cagliari indirizzava al prof. Marini, che pare avesse in animo di rigalare il suo museo alla città nostra, la seguente lettera, colla quale lo si avvertiva che, per volere dell’erede ed esecutore testamentario la salma del Martini sarebbe stata collocata in un colombario del Cimitero.

«Municipio di Cagliari

Gabinetto del Sindaco

N. 1460

«Addì 28.2.1895

«Questo Consiglio comunale, ad istanza dell’erede ed esecutore testamentario di Pietro Martini, deliberava di collocare i resti dell’illustre storico in un colombario del civico Cimitero, rimuovendoli dalla stanza di deposito, dove da anni trovansi custoditi.

«Prima di dare esecuzione a tale deliberato, stimo mio dovere di renderne edotta la S.V,, che tanto si è interessata alla conservazione della salma dell’illustre concittadino.

«Gradisca, egregio signore, i sensi della mia particolare considerazione

«Il sindaco

(firmato) O. Bacaredda

«Ill.mo Sig. prof. cav. Efisio Marini

Napoli».

Il prof. Marini rispose colla seguente lettera [del 14 aprile]:

«Ill.mo Sig. Sindaco,

«Ringrazio sentitamente la S.V., Ill.ma del gentile avviso della deliberazione di codesto onorevole Consiglio comunale, per il collocamento dei resti dell’illustre storico Pietro Martini in un colombario del civico Cimitero; ma non posso nasconder un certo senso di dispiacere per la presa deliberazione.

«A mio parere, l’istanza dell’erede ed esecutore testamentario non risponde ai giusti e patriottici desideri del popolo sardo, che, se non erro, apriva anni fa la sottoscrizione per un monumento; ed un troppo modesto ed oscuro colombaio, che sottraesse alla vista del pubblico quella salma veneranda, potrebbe attirarci le censure degli altri italiani, che hanno sempre pronto il disprezzo e l’insulto per la nostra isola sfortunata. Non vorrei si credesse, che io faccia delle lagnanze perché la città natale, cui opinava di affidare il mio piccolo museo, tenga in poco conto la conservazione di quel cadavere, la quale segna il punto di partenza delle mie scoperte sui diversi sistemi; mi muove soltanto a parlare così un intenso amore per il paese.

«Sicuro intanto che vorrà favorevolmente interpretare queste considerazioni, Le rinnovo i più vivi ringraziamenti, per la cortese partecipazione e mi dichiaro con ossequio

«Suo dev.mo Efisio Marini

«Napoli, marzo 1895

«Al sig. Sindaco del Municipio

di Cagliari».

Le considerazioni esposte in questa lettera dall’illustre uomo, dalle quali logicamente si deduce la conseguenza che era inutile preparare il cadavere per confinarlo poscia in un colombario, sottraendolo alla vista del pubblico, sono perfettamente rispondenti al nostro giudizio in proposito.

Siccome però alla lettera del cav. Marini non fu peranco risposto, è da credere che si sia abbandonata l’idea espressa nella lettera indirizzatagli dal sindaco.

Traslazione della salma di Pietro Martini (16 gennaio 1898)

La Giunta municipale di Cagliari, in omaggio a recente deliberazione del Consiglio, ha stabilito di procedersi nel giorno 30 del corrente mese alla traslazione della salma dell’illustre storico cav. Pietro Martini, dalla camera di deposito ove giace da ben 32 anni, in un colombario di prima classe del civico cimitero.

La salma di Pietro Martini (26 gennaio 1898)

Dal prof. Efisio Marini, che preparò la salma dell’illustre storico Pietro Martini è stata diretta al sindaco di Cagliari la lettera seguente:

«Onorevole Signor Sindaco

«Seriamente malato, non potei rispondere alla prima lettera della S.V. Duolmi di dover rifiutare ad assistere – personalmente o per via di rappresentante – a quanto la Giunta comunale della città di Cagliari ha deliberato fare del cadavere del compianto storico sardo.

«Intervenendo mi parrebbe di approvare – sia pure implicitamente – una deliberazione presa senza chiedere l’avviso di chi credeva avere col suo disinteresse meritato almeno un atto di deferente cortesia – tanto più se – come la stima altissima che ho per l’erede del Martini – me lo fa credere – nemmeno lui fu consultato – ché certo ricordando i larghi benefici ricevuti e l’alto onore di esserne il successore – non avrebbe mancato di provvedere con decoro per il collocamento del cadavere, posto che le disgraziate catastrofi bancarie hanno travolti nel baratro i fondi raccolti pel monumento. Intendo che il nostro municipio non voglia lasciare senza frutto il locale – che ora si qualifica per poco decoroso – e intendo ancora che nel colombaio si voglia racchiudere quest’ultimo molesto ricordo degli avvenimenti del 1887 – ma dopo tutto non posso persuadermi – che così dovesse finire il cadavere di un tanto uomo. Povero paese in cui i vivi si lacerano – e questo è il rispetto per la memoria di quelli che lo onorano.

«Efisio Marini».

Sappiamo che il sindaco ha tosto risposto a questa lettera.

Per la salma di Pietro Martini (27 gennaio 1898)

Ecco la lettera del Sindaco di Cagliari al prof. Marini:

«Sig. prof. cav. Efisio Marini

Napoli

«Cagliari, 25 gennaio 98

«V.S. è in errore quando scrive che la traslazione della salma di Pietro Martini dallo stambugio, dove si trova da ben trentadue anni confinata, ad un colombario di 1.a classe in questo Cimitero, possa avvenire ad insaputa dell’erede ed esecutore testamentario dell’insigne storico. Fu appunto in seguito ad instanza dello stesso erede ed esecutore testamentario, che il Consiglio comunale (il Consiglio e non la Giunta, come V.S. erroneamente crede), in seduta del 31 agosto 1894, deliberava conformemente; riservandosi di provvedere a tempo opportuno perché più degne onoranze fossero rese all’illustre trapassato. Di tale deliberazione fu fatta edotta la S.V con lettera in data 1° marzo 1894, n. 1460, per un ben dovuto riguardo a chi altra volta si era tanto interessato alla conservazione della preziosa salma.

«Non è che questo Municipio, come V.S. scrive, voglia lasciare senza frutto il misero locale ove da tanto tempo quelle spoglie riposano; fu invece un sentimento di profondo rispetto per l’illustre morto e di alto decoro cittadino che mosse questo Consiglio a secondare le reiterate instanze dell’erede di Pietro Martini; poiché era, in verità, indecoroso che i resti di tanto uomo rimanessero ulteriormente confinati in luogo male adatto, entro un cassone purchessia, senza un segno visibile che lo ricordasse ai concittadini.

«Quel deposito, d’altronde, era stato effettuato d’accordo con V.S. per agevolare i definitivi lavori di pietrificazione del cadavere, in via tutt’affatto provvisoria; e non è a credersi che tale provvisorietà dovesse divenire secolare. Ciò che lascerebbe per avventura supporre il fatto che, dal marzo 1895 ad oggi, se V.S. ha trovato il modo di manifestare replicatamente il dispiacere di non veder sorgere il monumento a Pietro Martini, si astenne dal comunicare qualunque disegno o desiderio in ordine ad ulteriori lavori di conservazione della salma; ed anzi sdegnò, come tuttora sdegna, di voler presenziare alla constatazione delle condizioni presenti della salma medesima.

«Della sottoscrizione pubblica, aperta per erigere un monumento a Pietro Martini, non rimangono in seguito al fallimento della Cassa di risparmio, dove il ricavo di quella fu depositato, che lire 189,11, percentuale a tutt’oggi conseguita; né il momento pare opportuno per rinnovare la prova. Ma questo Municipio non abbandona il proposito di pagare intero il debito proprio verso quell’illustre.

«Così dunque non finisce il suo cadavere, come V.S. mostra di credere. Il suo cadavere va a trovare, invece, più decoroso e meno precario collocamento. Ciò che può forse dimostrare che, se nel nostro paese i vivi talora si lacerano, questo Municipio sa rispettare la memoria di coloro che lo onorano. Può essere questione del modo più o meno fastoso onde tale rispetto si manifesta; ma dire che sia mancar di rispetto ad un cittadino illustre il sottrarne la salma all’oscurità più che trentennale di un umido stambugio, per collocarla in uno dei loculi più distinti del civico Cimitero, è asserzione troppo leggera, e che non troverà, io spero, eco nella cittadinanza.

«Il Sindaco

Bacaredda».

La salma di Pietro Martini (14 febbraio 1898)

Stamane, alle 11, ha avuto luogo la cerimonia della traslazione della salma di Pietro Martini dalla stanza di deposito ove trovavasi da lunghi anni, nel colombaio all’uopo assegnato provvisoriamente, in attesa di collocamento adeguato all’importanza dell’uomo.

Quantunque alla cerimonia non si sia data alcuna solennità, pur vi intervennero, col sindaco comm. Bacaredda, i membri della Giunta, numerosi consiglieri, i rappresentanti i giornali cittadini e alcuni dei signori che assistettero alla constatazione dello stato della salma nel 1882.

L’ora tarda in cui ha terminato la cerimonia non ci consente di dilungarci.

Daremo domani dettagliate notizie. Diciamo soltanto ora, che tutto era stato disposto perché la cerimonia si compiesse nella forma più decorosa e nobile.

La salma di Pietro Martini (15 febbraio 1898)

Completiamo le notizie date ieri solo brevemente per l’ora tarda e la ristrettezza dello spazio, intorno alla traslazione della salma di Pietro Martini.

L’illustre storico moriva in Cagliari il 17 febbraio 1866 e il 19 dello stesso mese la salma, preparata dal prof. Efisio Marini col processo speciale, di cui a tutti è ignoto il segreto, veniva composta in una cassa e custodita nel cimitero civico.

Solo nel 1882, sindaco il cav. Salvatore Macello, a richiesta del preparatore prof. Marini si procedeva alla constatazione della salma.

Abbiamo sott’occhio il verbale dell’operazione allora eseguitasi, e lo riproduciamo integralmente:

«A richiesta del prof. medico cav. Efisio Marini, che fece instanza di addivenire ad una ispezione occulare del cadavere del comm. Pietro Martini, deceduto in questa città nel 17 febbraio 1866 e dallo stesso richiedente preparato col sistema coriaceo;

«sonosi recati nel gabinetto ove trovasi depositato lo stesso cadavere, oltre il richiedente, il sindaco di questo municipio cav. avv. Salvatore Marcello, coll’intervento dei signori medico chirurgo Raffaele Aresu, avv. cav. Giov. Agostino Sanna Piga, avv. Giuseppe Orrù, beneficiato cav. Ignazio Agus, direttore del Cimitero, Pietro Auda custode del medesimo, Mansueto Cao e Perisi Giuseppe, guardie municipali e l’infrascritto segretario assunto Raffaele Corona, impiegato di questo municipio;

«si è anzitutto proceduto alla verifica dello stato apparente della cassa in legno contenente lo stesso cadavere e fatta attenta ispezione dei sigilli apposti alle due serrature chiuse dalle rispettive chiavi, si riconobbero perfettamente intatti e si rilevò che non vennero infranti in alcuna parte.

«Procedutosi al dissigillamento e all’apertura della cassa, coll’intervento di tutti gli astanti, si è riconosciuto il cadavere integro e benissimo conservato allo stato coriaceo, con cui era stato preparato, e riconoscibile, ricordando tutti gli astanti i suoi caratteristici lineamenti.

«Dopo tale verifica, ricoperto di una tela bianca, si chiuse nuovamente la cassa a doppia serratura, ritirando una delle chiavi lo stesso prof. Marini, e l’altra il sindaco, apponendo sopra ciascuna delle serrature due sigilli inceralacca con due nastri rossi a filetti bianchi e grigi con l’impronta di due iniziali, G.M. ed entrambi nei lati interni e G. solamente nei due lati esterni.

«Del che si è redatto il presente processo verbale, che, dietro lettura datane, venne approvato e ratificato da tutti i presenti e dai medesimi sottoscritto in doppio originale, dei quali uno venne consegno al ripetuto prof. Marini e l’altro ritirato dallo stesso sindaco.

«Dott. Efisio Marini, Salvatore Marcello sindaco, Dott. Raffaele Aresu, Sanna Piga Giov. Agostino, Giuseppe Orrù, Ignazio Agus, segno di + di Pietro Auda, Cao Mansueto, Perisi Giuseppe, Raffaele Corona segretario assunto».

Ed ecco il verbale della cerimonia d’ieri:

«In esecuzione del deliberato del Consiglio comunale in data 31 agosto 1894 debitamente approvata nel 18 settembre dello stesso anno;

«Sono intervenuti in questo civico cimitero il Sindaco commend. prof. Ottone Bacaredda; il cav. uff. prof. Filippo Vivanet, rappresentante l’erede del Martini; cav. prof. Rafaele Aresu; dottor Angelo Dettori, capitano medico nel 10° fanteria; il dottore Luigi Brotzu, uff. sanitario municipale; l’assessore delegato cav. Giov. Battista Zara; cav. avv. Emilio Sanna Doneddu; avv. Ranieri Ugo; reverendo cav. Ignazio Agus, direttore del cimitero; avv. Don Enrico Sanjust, direttore del giornale La Sardegna Cattolica; avv. Marcello Vinelli, direttore del giornale l’Unione Sarda; sig. Salvatore Atzori, custode del Cimitero, sigg. Antonio Noli e Cao Mansueto, testimoni richiesti; nonché l’infrascritto segretario assunto sig. Raffaele Corona, impiegato municipale.

«Si è innanzi tutto proceduto alla lettura del verbale d’ispezione del cadavere di Pietro Martini, in data 18 Dicembre 1882, e quindi si è constatato che nella camera di deposito, a mezzogiorno della Cappella del Cimitero, su due infissi di legno stava collocata una cassa all’altezza di due metri e 50 dal suolo. Trasportata detta cassa a cura dei pompieri municipali sopra un tavolo, fu riconosciuta intatta nei sigilli e nella chiusura. Aperta, sotto un drappo di tela bianca, fu ritrovato un cadavere in stato coriaceo, ancora molto bene conservato, salvo in alcune sue parti, e nel quale i sigg. prof. Aresu, cav. Rev. Agus., il sig. Cao Mansueto ed il signor Raffaele Corona, di cui nel verbale d’ispezione di cui è cenno nel 18 dicembre 1882, come presenti all’atto, riconobbero la salma di Pietro Martini e la stessa cioè che sotto quella data ed alla presenza del prof., cav. Efisio Marini venne ispezionata, chiusa e collocata nella sovra detta camera di deposito.

«La stessa salma avvolta in un lenzuolo e ricoperta dello stesso drappo di tela ritrovato nella primitiva cassa fu composta in un’altra cassa di legno noce portante una targhetta in ottone colla scritta – Pietro Martini – e munita di una apertura a cristallo, che permette la visione della testa del cadavere. Nella stessa cassa furono collocate diligentemente tre boccette di vetro avvolte in carta colle scritte: A.B. l’una; B.S. l’altra, e la terza senza scritta di sorta, nonché un pennellino di setola bianca ed un piccolo bicchiere di vetro bianco. Alcuni residui sotto forma di terriccio esistenti ed attaccati al fondo della prima cassa, furono del pari diligentemente raccolti in un piccolo vaso di vetro avvolto in corda colla scritta indicativa.

«Il tutto, depositato nella cassa di noce di cui sopra, venne la medesima ermeticamente chiusa a viti d’ottone ed a braccio dei pompieri municipali trasportata, seguita dai presenti al loculo n. 7 serie 11, ordine 4 di questo civico Cimitero e murato in presenza dei sottoscritti il loculo medesimo.

«Di tutto si è redatto il presente processo verbale firmato nell’originale dai testimoni sovraindicati e del quale si rilascia copia al rappresentante dell’erede ed esecutore testamentario del comm. Pietro Martini, prof. cav. uff. Filippo Vivanet».

La cassa in noce con sagome elegantemente lavorate e branche e maniglie di ottone e nichel, è lavoro pregevolissimo del sig. Enrico Campagnola [recte Campagnolo].


Efisio Marini e la salma di Pietro Martini (19 febbraio 1898)

Il prof. Efisio Marini ci invia con preghiera di pubblicazione la lettera seguente da lui inviata al sindaco di Cagliari [datata 19 gennaio]:

«Ill.mo signor Sindaco

della città di Cagliari

«Mi sento proprio obbligato a renderle sentite grazie per il diploma di leggerezza rilasciatomi dalla S.V. con tanta cortesia. E’ per me un vero conforto ricevere in cambio di sacrosante verità, questo attestato del sindaco, che con tanto plauso, persino dei più umili fra i suoi amministrati, rappresenta la mia povera città natale. E a mostrare che proprio c’è qualcuno che quel diploma ha meritato, mi permetta che faccia un po’ di paragone tra le affermazioni così ponderate della S.V. e i fatti come risultato da documenti firmatissimi degl’illustri predecessori di lei.

«Nella sua lettera la S.V. asserisce che il deposito del cadavere nel luogo in cui ora si trova era stato effettuato, d’accordo con me “per agevolare i definitivi lavori di pietrificazione del cadavere, in via tutt’affatto provvisoria”; che io mi astenni “dal comunicare qualunque disegno o desiderio in ordine ad ulteriori lavori di conservazione della salma”; che io sdegnai, e tuttora sdegno di “voler presenziare alla constatazione delle condizioni presenti della salma medesima”. E la S.V. ha proprio ragione. Forse qualcuno, leggero come me, potrebbe tradurre quelle frasi rivestite di mal celato eufemismo in questo altro alquanto crudette: e cioè, che io me ne andai in continente abbandonando a mezzo la preparazione del cadavere, che mi son sempre rifiutato di assistere, o far assistere qualche mio rappresentante, all’accertamento dello stato veramente deplorevole, cui le mie ubbie sui sistemi di conservazione avevano ridotto il cadavere di colui che Giuseppe Regaldi chiamava il Muratori della Sardegna. E forse questo maligno soggiungerebbe con me: povero paese in cui i vivi si lacerano!

«Pietro Martini lasciava il posto nel mondo al suo erede il 17 febbraio 1866. Il 9 aprile successivo Giuseppe Regaldi ne visitava la salma, e nel suo discorso sul Martini (p. 19) dichiara di averla vista conservata “come se allora la morte ne avesse bandito lo spirito”. Il 17 giugno poi il cadavere “preparato a freschezza, colorito, flessibilità, volume naturali” fu fotografato nel cimitero dal sig. Agostino Lai Rodriguez, in presenza di molti amici fra cui notavansi i Randaccio-Cixi parenti ma non eredi del Martini, e chiunque ha visto e vede quella fotografia si forma subito un’idea delle mie ubbie preparatrici. Nel Corriere di Sardegna dello stesso anno (11 settembre n. 212) il mio buon amico Felice Uda così scriveva: “Pietro Martini quattro mesi dopo la sua morte era tuttavia – e ci piace qui constatarlo – come il primo giorno in cui spirò; il volto calmo e sereno, la fronte agghiacciata, corrugata nell’ultimo pensiero, pallide le labbra, quasi ancor sorridente”. Dopo l’anno passai il cadavere del Martini allo stato coriaceo – riducibile in qualunque tempo allo stato di freschezza naturale – e con ciò il mio compito era finito. Vengon qui tre verbali (13 ottobre 1868, 11 settembre 1871, 18 dicembre 1882) sottoscritti da predecessori della S.V. – dal Marchese Roberti i primi due; dall’avv. Salvatore Marcello l’ultimo – verbali che sono (o dovrebbero essere) nell’Archivio di Cagliari, ma di cui conservo l’originale in doppio e che ad ogni modo furono subito riprodotti dai giornali locali (Corriere di Sardegna, Avvenire di Sardegna). Col secondo verbale, a richiesta di quel degno gentiluomo che fu il Marchese Roberti, io faceva la definitiva consegna al Municipio di Cagliari. Il Sindaco mi avvertiva allora, che l’erede del Martini desiderava che il Comune prendesse in consegna la salma ed io ottemperassi tosto al desiderio facendomi rappresentare da mio fratello Salvatore e dal sig. Agostino Lai Rodriguez. Dal verbale la S.V. rileverà che all’atto erano presenti molti cospicui cittadini e che il Municipio aveva chiamato per accertare lo stato della salma i professori Tomaso Fadda e Vincenzo Salis. E il verbale attesta che “il cadavere trovai in istato coriaceo”. Tornato per miei affari in Sardegna nel 1882 si fece un’altra visita al cadavere. Ed io che sdegno, e pour cause, di assistere all’accertamento delle condizioni presenti della salma, proprio ille ego, presi l’iniziativa della cosa. Infatti il verbale comincia con queste parole: “A richiesta del professore medico cav. Efisio Marini, che fece istanza di addivenire ad un’ispezione oculare del cadavere del comm. Pietro Martini, deceduto in questa città nel 17 febbraio 1866 e dallo stesso richiedente preparato allo stato coriaceo ed alla presenza di ragguardevoli cittadini “si è riconosciuto il cadavere integro e benissimo conservato allo stato coriaceo, con cui era stato preparto, e riconoscibile, ricordando tutti gli astanti i suoi caratteristi lineamenti”. E dopo tutto ciò mi permetta di chiederle, perché proprio ne ho il diritto, anzi il dovere, a tutela del mio decoro: come ha potuto la S.V. affermare cose così completamente contrarie al vero, smentite da pubblici documenti?

«Ed ora non voglio, ripeto, consacrare colla presenza mia, quasi colla mia complicità, un atto che mi ripugna. Il municipio ha avuto in consegna il cadavere. Fu proprio l’erede, che, come mi scrisse il marchese Roberti, faceva istanza per tale consegna. Mai più avrei immaginato che questa insistenza fosse venuta dall’erede, quando persino quel “cassone purchessia” in cui fu racchiusa la salma, secondo ella scrive, fu dovuto provvedere dal municipio, come se si trattasse dell’ultimo fra gli elettori della S.V. Ill. Come, lo dico francamente, non intendo questa supina rassegnazione al volere dell’erede per parte del municipio, che dovrebbe esser geloso del sacro deposito. Io non ritengo che lo stato attuale delle cose dovesse essere definitivo, né che la provvisorietà, com’ella dice, dovesse divenire secolare. Ma mi pare uno strano modo di cangiare una provvisorietà in un’altra, che viceversa è quanto vi può essere di più definitivo. Preparato il cadavere del Martini, ne veniva per conseguenza, che esso dovesse essere in tale posizione da potere in qualunque momento essere visibile. Se era per cacciarlo in un colombaio, la preparazione era inutile. Il Martini, per quanto io ricordo, era in una stanza a fianco alla cappella del Cimitero. Il Vivanet a p. 81 del suo bel libro su Pietro Martini, nella nota 16 così scrive:

«“Finché non avrà stanza migliore, esso (cadavere) resterà depositato nel luogo dipinto con sì vivi colori dall’illustre poeta e letterato Regaldi”.

«Io non so se questo sia proprio quello stesso locale, che Ella, letterato esimio, qualifica per stambugio. Ma sia pure! Il colombaio, anche se di primissima classe, non parmi quella stanza migliore a cui allude il Vivanet. A fianco del Martini le famiglie che hanno quei non molti quattrini necessari possono collocare il buono e il cattivo ladrone. A fianco a un’illustrazione paesana non vi può essere nessuno che si procuri un posto pagando. Martini nel cassone purchessia e in uno stambugio, è solo: nessuno pagando può avere un simile stambugio. Io non pretendo che si faccia un famedio per coloro che hanno illustrato la patria nelle scienze o nel Consiglio comunale, che si tenga la salma del Martini come il municipio di Milano tiene la salma del Manzoni. Maiora nos vocant! Ma, con poca spesa, se proprio è vero che lo stambugio non si vuol far fruttare diversamente, si può provvedere alla conservazione decorosa del cadavere del Martini e in modo da rispondere allo scopo per cui fu conservato. Non occorre il fasto per mostrar la reverente venerazione pei morti. Basta la cassa di metallo sormontata da un cristallo ovale, che mi si riferisce si sia recentemente preparata da cotesto municipio, purché naturalmente sia custodita da un’altra cassa di legno. A questo modo è conservata la salma del Manzoni e così sono pur conservate le molte che io ho preparate. Quanto all’umile stambugio, esso è né più né meno che l’arcata a destra attigua alla chiesa, bene illuminata dalla volta alta; decentemente ripulita può essere adatta a custodire la salma. Nel centro si può fare una base in legno o in muratura e collocarvi sopra la cassa. Così togliendo il coperchio di legno, in ogni occasione, e specialmente per la commemorazione dei morti, si può dar agio ai nostri concittadini di rammentare le fattezze dell’illustre uomo. Poco aggiungendo alle 139 lire salvate dal naufragio bancario di può combinare tutto. E quando a Pietro Martini si sia, pur provvisoriamente, un posto non condiviso da altri, io non esito a pormi a disposizione per tutte quelle indicazioni che possono giovare e non sdegnerò di accertare e fare accertare da chiunque le condizioni presenti del cadavere.

«Non tema, no, illustre sig. commendatore: quando sul serio si vorrà onorare una delle nostre vere glorie, Efisio Marini non si tirerà indietro. Capisco che potrà parere superbia quella di non accettare il modo di vedere del Consiglio comunale sul mondo di onorare Pietro Martini: ma spero che le ragioni da me addotte sieno tali da far scomparire questa parvenza, e proprio troveranno nella cittadinanza intelligente quell’eco che la S.V. spera non risponda alla mia voce. E questa mia è l’ultima e definitiva parola sull’incresciosa questione.

«Napoli, 15 febb. 1898

«Efisio Marini».

Per la salma di Pietro Martini (23 febbraio 1898)

(Lettera aperta al dott. cav. Efisio Marini)

«Illustre Professore,

«All’ultima epistola di V.S. – trascurato quanto può esservi di fatuo e di ozioso – ho pur qualche cosa da rispondere.

«In questo Municipio non esiste verun documento che attesti come i lavori di preparazione della salma di Pietro Martini avessero avuto da parte di V.S. l’ultimo tocco, né vi ha traccia dell’asserita consegna della salma al Comune, richiedente o assenziente l’erede ed esecutore testamentario. Non poteva quindi la Giunta riferirsi a precedenti ad essa affatto sconosciuti; e quanto io affermai, e che V.S. qualifica “contrario al vero o smentito da pubblici documenti” è quanto solo potevo affermare sulla fede dei reperti dell’Archivio comunale.

«Se quei “pubblici documenti” di cui V.S. si fa forte, erano e sono in poter suo, Ella non aveva che una sola cosa a fare: darmene comunicazione od avviso, non appena la mia lettera del 1° marzo 1895 n. 1460, la informava della deliberazione di questo Consiglio comunale, che, secondando il desiderio dell’erede di Pietro Martini, disponeva la traslazione della salma dalla camera di deposito in un colombario di 1.a classe del Cimitero.

«“Prima di dare esecuzione a tale deliberato, (io scriveva, allora, a V.S.) stimo mio dovere di renderne edotta la S.V., che tanto si è interessata alla conservazione della salma dell’illustre concittadino”. Dal che risultava evidente, o io prendo abbaglio, l’intenzione della Giunta di procedere in tutto accordo con V.S.

«Ma ecco che cosa V.S. mi rispondeva, da Napoli, sotto la data del 14 aprile stesso anno: “Ringrazio sentitamente la S.V.Ill.ma del gentile avviso; ma non posso nascondere un certo senso di dispiacere… A mio parere l’instanza dell’erede ed esecutore testamentario non risponde ai giusti e patriottici desideri del popolo sardo, che, se non erro, apriva anni fa la sottoscrizione per un monumento; ed un troppo modesto ed oscuro colombario che sottraesse alla vista del pubblico quella salma veneranda, potrebbe attirarci le censure degli altri italiani che hanno sempre pronto il disprezzo e l’insulto per la nostra isola sfortunata.

«“Non vorrei si credesse ch’io faccia delle lagnanze perché la città natale, cui opinava affidare il mio piccolo museo, tenga in poco conto la conservazione di quel cadavere, la quale segna il punto di partenza delle mie scoperte sui diversi sistemi: mi muove soltanto a parlare così un intenso amore per il paese.

«“Sicuro intanto che vorrà favorevolmente interpretare queste considerazioni, rinnovo i più sentiti ringraziamenti per la cortes partecipazione e mi dichiaro con ossequio

«“Suo Dev.mo Efisio Marini”.

«Da questa lettera emerge una grande preoccupazione per il monumento da erigersi a Pietro Martini, un grande amore per il paese e per il popolo sardo, e, mi permetta anche di constatarlo oggi, un certo urbano riguardo verso questo Municipio e verso chi lo rappresenta; ma non un accenno vi è fatto a quei “pubblici documenti” in nome dei quali V.S. ora si scalmana; non una parola vi è detta che potesse dar adito a questo Consiglio comunale di rinvenire onestamente sulla propria deliberazione, o a questa Giunta di soprassedere alla esecuzione della medesima.

«E pure questa Giunta ci soprassedette, impressionata dal “senso di dispiacere” ond’era invaso l’animo di V.S.; e lusingata dalla speranza che, ad agevolare un compito resosi d’un tratto così difficile, lumi e consigli e proposte le fossero benignamente largiti da chi, avendo dato opera alla conservazione della venerata salma, era di tutti il più interessato a non veder frustrato o compromesso il proprio lavoro. Ma fu vana l’attesa – per oltre due anni e mezzo! D’altronde, si rinnovavano le sollecitazioni perché il desiderio dell’erede di Pietro Martini e il deliberato del Consiglio avessero il loro compimento. Fu allora che con lettera del 15 dicembre 1897 n. 11335, V.S. veniva nuovamente invitata a presenziare la traslazione della salma, che avrebbe avuto luogo quarantacinque giorni dopo.

«Ma neanche questa volta V.S. credette opportuno sbottonarsi. Anzi, per fare una cosa nuova, si provò a fare, come si suo dire, l’indiano. Ci volle una seconda lettera, raccomandata e con ricevuta di ritorno, perché le si rompesse l’alto sonno nella testa. E allora (forse cominciavamo a divenir seccanti) al “senso di dolore” sottentrò nell’animo di V.S. un impeto d’ira; ed eccola a indirizzarmi (quantum mutatus ab illo!) quella biliosa intemerata del 19 gennaio corrente anno: nella quale, affettando l’ignorare le intenzioni dell’erede (che pure le erano note fin dal marzo del 1895), declamando contro il povero paese nemico dei vivi e dei morti (quasi ad emulare quegli altri italiani che, a detta di V.S. hanno sempre pronto il disprezzo o l’insulto per l’isola sfortunata), si arrovella su quell’idea fissa del mancato monumento; fino ad evocare e ad aizzarmi contro lo spettro dei pasticci bancari del 1887 – come se in questi pasticci io abbia anche solo intinto un dito!

«Ma, di grazia, illustre professore, che cosa può importare a V.S. più che a qualunque altro cagliaritano, che un monumento si elevi o prima o poi, o non si elevi affatto, ad onorare Pietro Martini? Perché tanto fracasso, oggi, in pro di un monumento, pel quale non si raccolsero, a bei tempi, più di lire settecento; e che potrebbe anche divenir superfluo il giorno (e non è lontano) in cui sarà realizzato il proposito dell’Amministrazione civica di raccogliere in un decoroso Famedio i resti di tutti i concittadini preclari?

«Una cosa sola, io penso, a V.S. più che a tutti doveva stare a cuore: ed era di poter constatare la buona conservazione della salma da V.S. trentadue anni addietro preparata, e dimostrare come dallo stato coriaceo si potesse la medesima ridurre tuttavia a freschezza naturale, nel che, se io non prendo equivoco, consiste appunto il segreto del processo operativo da V.S. scoperto.

«Sul quale, come è facile intendere, io non ho competenza a pronunziarmi; ma nella serietà del quale, e per l’interesse della scienza, e per l’onore del paese, e (mi creda, lealmente) per la stessa fortuna di V.S. sono dispostissimo a ciecamente fidare. Ma chi non vede che se, in quest’occasione, V.S. si fosse prestata a praticare il meraviglioso esperimento di conferire a una mummia la plasticità di un essere appena uscito di vita; se, dopo trentadue anni, si fossero potuti rinnovare, dinanzi al cadavere di Martini, gli entusiasmi di Giuseppe Regaldi e di Felice Uda, di che è parola nella lettera di V.S., alla quale rispondo; chi non vede, io dico, che in questa occasione V.S. avrebbe assicurato alla sua scoperta il crisma del più strepitoso successo? chi non vede che, in un sol tratto, V.S., avrebbe potuto coronare nel modo più degno e più invidiabile la sua lunga e travagliata vita di studioso?

«Ma è precisamente questo che V.S. contro il suo stesso interesse, ha disdegnato di fare, senza una ragione al mondo; e, ciò che è peggio, pubblicando sui giornali dell’isola, quella lettera petulante del 19 gennaio, che aveva l’aria di voler essere la provocazione di un attaccabrighe.

«Ora V.S. viene a dirci che la preparazione del cadavere di Martini fu fatta per metterlo in tale posizione da poter in qualunque momento esser visibile; e si compiace, bontà sua, di suggerire come e dove si potrebbe collocare il feretro; in guisa che i concittadini potessero rammentare le fattezze dell’illustre uomo. Ma perché dunque V.S. non pensò e non provvide a tutto ciò, come sarebbe stato dover suo, fin da tanti anni addietro, non appena la preparazione del cadavere era divenuta definitiva; ma si accontentò invece che il feretro di Martini, ermeticamente chiuso in un cassone da 78 lire e 50 centesimi (tanto è costato), venisse collocato su due piuoli di legno, ad un’altezza dal suolo, come si pratica degli arnesi ingombranti, entro una cameretta che, per quanto alla fantasia di V.S. piaccia raffigurarla bene illuminata, non cessa in realtà di essere uno stambugio cieco ed umido? Perché, non avendo avuto agio di provvedermi allora, con ci largì codesti suoi suggerimenti immediatamente dopo la mia prima lettera dal 1° marzo 1895, o dopo l’altra del 15 dicembre 1897, quando cioè V.S. era in tempo di dissipare quel primo “senso di dolore” che non le aveva tolto il lume della ragione, e di risparmiarsi quell’accesso di atrabile che doveva farla apparire così feroce colla sua terra natale e così inesorabile coll’umile sottoscritto?

«Tornava, allora facile, manifestare urbanamente i propri desiderii; forse era anche doveroso per uno scienziato proteggere fino all’ultimo quelli che riteneva, ed erano senza dubbio, i propri diritti – i diritti che gli derivavano dal proprio lavoro.

«Certo, ci si sarebbe intesi facilmente; e se intesi non ci fossimo per nostra caparbietà, V.S. avrebbe avuto, allora, buon giuoco per gridar forte ad alto a tutela del suo decoro, contro il povero paese e contro chi, gentiluomo o no, ha l’onore di rappresentarlo, col beneplacito magari dei più umili fra i suoi amministrati.

«Ma a V.S. non garbava battere la via maestra. Poteva illuminarci e ci lasciò nell’errore; poteva salvare il Muratori della Sardegna dall’onta di un colombario, e non impedì la profanazione; poteva stornare un delitto, e se ne rese complice!

«Poiché, in sostanza, la determinante di tutto codesto putiferio è il fatto che ai resti di Martini, da trentadue anni archiviati là dove tutti sappiamo, si volle dare, ad instanza dell’erede, un più decoroso collocamento: ma V.S. si sdegna ch'essi ora giacciano in un posto che può essere condiviso da altri, e ove a fianco di una illustrazione paesana le famiglie che hanno quei non molti quattrini necessari possono collocare il buono ed il cattivo ladrone.

«Inutile sdegno! La salma di Pietro Martini, mene fo mallevadore a V.S., non ha dappresso nessun ladrone; comecché anche i ladroni, per una misericorde legge di livellamento sociale, cui la morte non suole derogare, riposino oggidì in quello stesso recinto che, piaccia i non piaccia, è condiviso da tutti. Ma fosse anche diversamente, nessun meno nobile contatto potrà impedire che la salma di Pietro Martini cessi di essere quella di un uomo illustre. I molti e i pochi quattrini possono far sorgere tombe fastose e mausolei che sfidano i secoli; ma le piramidi stesse, ha detto Guerrazzi, non salvano dall'oblio.

«A scongiurare l’oblio ha provveduto di per sé Pietro Martini, vivente. Tardava al suo erede, e a tutti noi, di provvedere alla pace delle sue ossa, sottraendole a una situazione che la sola precarietà poteva rendere tollerabile. Né vi è gran male se per parecchi anni sarà tolto ai concittadini, come V.S. deplora, di rammentarne le fattezze. Tanto, non le riconoscerebbero.

«O. Bacaredda

«Cagliari, 20 febb. 1898».

Ancora per la salma di Martini (4 marzo 1898)

(Lettera aperta al signor O. Bacaredda)

«Illustre Signore,

«Il linguaggio della sua lettera aperta – eloquente testimonio della dimestichezza della S.V. coi più umili fra i suoi amministrati – mi persuadeva quasi a perseverare nel mio proposito di tacere, manifestato nella chiusa della mia ultima lettera. Però l’equivoco in cui Ella si compiace di ravvolgersi e le accuse fattemi nella sua irritazione, che non ebbe lo spirito di dissimulare, mi hanno deciso a riprendere la parola, pur dolente di abbassarmi a raccogliere qualcuna fra le tante inurbale volgarità, sparse a piene mani nella sua poco felice difesa. Voglio però schiettamente confessarle che – tenuto conto dello stato d’animo in cui Ella venne a trovarsi, vedendosi sorpreso in flagrante delitto di leggerezza e, peggio ancora, di contraddizione a verità indiscusse e indiscutibili – mi spiego la eccitabilità nervosa della S.V., ed arrivo persino ad accordarle le circostanze attenuanti.

«E vengo senz’altro al buono. Ella, credendo di darla a intendere ai suoi lettori, persiste nel porre in dubbio che io abbia consegnato definitivamente il cadavere del Martini al Municipio, dietro richiesta del Sindaco Roberti. Chiacchiere! Eccole il documento.

«“Cagliari, addì undici settembre milleottocentosettantuno, e nel civico Cimitero, alle ore otto e mezza antimeridiane.

«“I signori Marchese Edmondo Roberti, Sindaco di questa città, Presidente del Comitato per il Monumento Martini, Agostino Lai Rodriguez, Fotografo, e Salvatore Marini, Negoziante, delegati del Dottore Efisio Marini – Dottore Chirurgo Tomaso Fadda, e Chimico Vincenzo Salis, Professori in questa Regia Università, coll’assistenza del sottoscritto Segretario del Comitato suddetto, ed alla presenza dei testimoni Ballero Don Francesco, Diaz Cav. Agostino, Melis Enrico, Civico Architetto, Giuseppe Saggiante, Direttore del Banco di Cagliari, sono convenuti in questo Camposanto per ricevere in consegna la salma del fu Illustre storico Pietro Martini: richiesta dal prelodato Signor Sindaco sull’istanza della famiglia dell’estinto. […].

«“Di quanto sopra si è compilato il presente verbale di cui si fa doppio originale da consegnare, uno al Rappresentante del Dottor Marini, da conservare l’altro nel Municipio di Cagliari. E si sottoscrivono i sullodati signori”.

«E coi sullodati signori si firma il segretario del Comitato, che era un certo “avv. Francesco Cocco”, persona che ritengo da Lei conosciuta benché non appartenga ai più umili fra i suoi amministrati. Questo verbale è testualmente riprodotto nel numero 216 del Corriere di Sardegna del giorno 12 settembre 1871.

«E secondo dice la chiusa del verbale, dovrebbe essere conservato anche nell’Archivio di codesto Municipio. Ben conservato, ma mai cercato, come dice il nostro popolino: mentre così bene si è ricercata la ricevuta del famoso “cassone purchessia” pagato dal Municipio e non dall’erede. Fortuna che l’abitudine di conservare mi ha fatto salvare questo documento decisivo, come mi ha fatto trovare intatta la lettera di quel vero gentiluomo, non solo di nascita, ma anche di educazione che era il marchese Roberti.

«E dopo ciò, che c’entrava io più col cadavere? Che altro mi restava a fare? Come preparatore, nulla affatto. E se nel 1895 mi palesai ed ora mi paleso contrario al modo con cui si è voluto levar di mezzo l’ostacolo del cassone purchessia, l’ho fatto nella mia qualità di cittadino cagliaritano.

«E se Ella non vuol riconoscere a me al riguardo un diritto maggiore di quello degli altri – cosa che mai ho preteso – spero mi vorrà concedere, che come qualunque altro cittadino, posso dire francamente la mia opinione sopra una questione di decoro paesano, sopra un atto della rappresentanza comunale, che appunto perché elettiva, non può sottrarsi al libero sindacato di tutti i cittadini. E sebbene ad arte Ella voglia farmi passare per nemico e denigratore del mio paese, nessuno di quelli che mi conoscono presterà certo fede a questa che altro non è se non una malizia o una malignità puerile. Amo la mia città quanto qualunque altro, sebbene non creda necessario stamparlo sui giornali. Se dopo il 1895 io non feci più sentire la mia voce, si è perché, non a me spettava parlare, ma a chi aveva ricevuto la mia lettera, alla quale invano attendo ancora una risposta, sebbene in essa avessi manifestato il divisamento di far dono al Municipio di Cagliari del mio piccolo Museo. Ritengo naturalmente che tutto sia finito a questo proposito, e mi intendo svincolato; prima di tutto, perché il suo modo di parlare ed il suo modo di tacere per due anni mi persuadono che Ella, nella sua alta competenza, fa ben poca stima dei miei poveri lavori, pei quali forse non ha disponibile altro colombario, e d’altra parte perché tutta questa roba incomoda finirebbe per raggiungere l’originale del verbale depositato al Municipio. E poiché siamo sulla via di spiegare i nostri rispettivi atti mi permetta che io interpreti con la scorta del più semplice buon senso il non avermi avvisato del giorno in cui effettivamente si doveva procedere al collocamento più che definitivo del cadavere.

«Se la S.V. avesse creduto che gli argomenti addotti nella sua lettera di risposta alla mia del 19 gennaio fossero tali da togliere di mezzo ogni ragione per cui dovessi astenermi, si sarebbe certo curato di avvisarmi del giorno nuovamente fissato; tanto più sapendo che presso di me era una delle due chiavi che chiudevano la cassa. La mancanza di avviso prova nel modo più evidente che Ella era profondamente convinta che le ragioni addotte non avevano valore di sorta e che al solito si trattava di chiacchiere. Tengo a sua disposizione la chiavetta per il caso in cui voglia depositarla nel Museo di Archeologia, come ricordo ai posteri del modo con cui nel secolo XIX si usava aprire le casse.

«Quanto al giudizio che Ella fa dei miei lavori è degno sia della sua competenza, che della sua buona fede. Io non ho mai ricevuto cresime da nessuno, né i miei preparati ne hanno bisogno. Che io possa ridurre facilissimamente cadaveri, o parti di cadaveri dallo stato secco allo stato fresco, lo hanno accertato, non solo scienziati italiani, radunati in commissione per incarico ministeriale, ma illustri professori tedeschi e francesi come il Billroth, il Nélaton e il Sapey. A sua istruzione mi piace trascriverle questo passo del giornale francese di scienze Les Mondes (tome 16, 12 mars 1868):

«“Ces experiences ne sont pas nouvelles pour nous, et nous avons vu de nouveau, ces jours derniers, la main que le docteur Marini presenta au docteur Sapey, a laquelle cet anatomiste apposa un sceau muni d’une carte avec cette inscription: Paris, 14 Novembre 1864. La main est à l’état ecc. – C. Sapey. Et plus bas il écrivit: Le 26 novembre 1864 cette main a repris sa flexibilité et tout les caracteres qu’elle presente à l’état frais. C. Sapey”. E senza tediare più oltre la S.V., I. mi contenterò d’invitarla a leggere a pag. 265 e seg. dell’annata XIII (1868) dell’Année Scientifique di Luigi Figuier. Ella vedrà che non solo il Nélaton accerta la stessa cosa per un piede ridotto alla sua freschezza e la flessibilità naturale, ma che per desiderio di S.M. l’Imperatore ho reso la morbidità, la freschezza e la flessibilità ad un braccio di una mummia egiziana che spero Ella non vorrà ritenere mi sia stata data dal Museo egizio di Parigi fresca come la disinvoltura della V.S.

«E dopo ciò crede proprio che io abbia bisogno di crisma, per servirmi della espressione che certo Ella ha mutuato da una delle categorie dei suoi elettori non tanto umile quando predica il Vangelo? E che cosa avrebbe aggiunto al giudizio di questi personaggi la testimonianza di coloro che Ella chiamò ad assistere all’accertamento dello stato del cadavere, tanto più quando Ella stesso così poco conto ha fatto di questa testimonianza da smentirla, smentendo se stesso, col dire, nella chiusa della sua lettera, che, dopo tutto i cittadini di Cagliari non avrebbero riconosciuto le fattezze del Martini? Del resto, a tacere di altre preparazioni da me fatte, le salme di Benedetto Cairoli e del Cardinal Sanfelice, stanno ad attestare che Ella ignora completamente quali siano i risultati dei miei studi e che i fatti non si possono distruggere con un’ordinanza sindacale.

«Prima di prender congedo da Lei, mi permetta di sottoporre alla sua attenzione queste due righe stampate nel giornale Les Mondes sopra citato: “D’un autre coté, si M. Marini a eu beaucoup à souffrir de l’opposition systematique et de l’incredulité qu’il a rencontrées dans sa ville natale, Cagliari, il est aujourd’hui noblement vengé”. Io non credo che nessuno dei concittadini meriti l’accusa contenuta in queste parole. Certo la merita Lei, che nella sua condizione di nervosità si è spinto a chiamarmi complice di un delitto. I miei concittadini sanno che io non son capace di delitti né volontari né colposi.

«Napoli, 28 febbraio 1898

«Efisio Marini».


In conclusione

Questo lo scambio dialettico, prima di fioretto poi di spada, con l’arma dello sdegno e del pur educato… insulto piuttosto che non con quella dell’ironia più o meno salace, fra il sindaco – alla guida del Comune ormai da otto anni – e lo scienziato cagliaritano riparato a Napoli nella speranza di migliori accoglienze che non nella sua città natale.

Sembrerebbero incomprensioni derivate da equivoci, da parzialità comunicativa, da orgogli personali cui non potersi rinunciare. Marini desiderava che il corpo pietrificato, riportato allo stato coriaceo, duro, di Pietro Martini fosse visibile alla cittadinanza e chiedeva un oblò nel coperchio della cassa che desiderava restasse (in attesa di meglio) nel locale del camposanto attiguo alla cappella: un ambiente magari da migliorare nel suo aspetto ancora di magazzino o, secondo la definizione datane dal sindaco, di “stambugio cieco e umido”. Chiedeva un sopralzo per collocarvi la bara con il coperchio trasparente.

Da parte del sindaco si obiettava la tardività della proposta nonché l’urgenza ormai di dare risposta all’erede dello storico scomparso ormai da tanti anni: quel “reperto” cadaverico fotografato dal Lay Rodriguez nel 1866, a quattro mesi dall’evento di morte, era nella disponibilità del Comune ormai dal 1871 ed era per questa ragione che l’Amministrazione intendeva procedere e Marini giustificava il suo apparente disimpegno, mai immaginando però che tutto si sarebbe concluso in un colombario chiuso da una lastra di marmo.

Resta, negli attravesamenti dialettici documentati dalla stampa per espressa volontà dei contendenti, quel certo progetto del Famedio, o del Pantheon che era stato affacciato fin dal 1866 e che non fu realizzato trent’anni dopo né mai.

D’altra parte la meraviglia di museo a cielo aperto che il monumentale di Bonaria esprime con le sue dimensioni, la sua morfologia collinare, soprattutto con la ricchezza delle sue dotazioni artistiche – seppure colpite e umiliate tragicamente dai bombardamenti del 1943 e dall’incuria di tante amministrazioni susseguitesi nel tempo – è ancora oggi una meraviglia incompiuta per i tanti progetti che avrebbero dovuto svilupparne le potenzialità e sono rimasti sulla carta. Compreso quello di un’edicola che avrebbe dovuto accogliere, nel 1921 o subito dopo, le spoglie del benemerito sindaco Ottone Bacaredda.

Non avrebbe potuto accogliere i resti del pietrificatore invece, ormai in rottura piena con la città ma forse soprattutto con la sua Amministrazione politica.

Morì nel settembre 1900, a Napoli, Efisio Marini. Nei suoi cimiteri furono accolte le spoglie di Giuseppina, detta Carmina da Alziator e Todde – ma Carmela era la nuora di Giuseppina e di Efisio – e quelle di Rosa, forse anche quelle di Ercole Vittore. E naturalmente quelle del dottor Efisio. Aveva abitato, il dottore, nella città ai piedi del Vesuvio, in strada Santa Brigida, in via Montedidio (sulla collina di Pizzofalcone), in via o traversa Giannantonio Summonte (nel quartiere Porto), in traversa Partenope…

Ricevette il viatico, l’eucarestia del lungo viaggio… e andò a riposare, dopo le sfiancanti pene protrattesi sei lunghi mesi, nel camposanto di Poggioreale, tumulato nello stesso loculo che ventun anni prima aveva accolto, nella cappella della secentesca arciconfraternita dei Bianchi della Natività di Nostra Signora a Pizzofalcone, il corpo di Giuseppina. Un’arciconfraternita purtroppo estinta ormai da un decennio. Le sue ossa con tutta probabilità confluirono infine – così sembra – in un ossario comune.

Addendum. Un nuovo libro su Efisio Marini: “Memorie laiche di patria e amore”

Se ne partì da Cagliari alla volta di Napoli nel 1868 e con lui erano la moglie Giuseppina e i due figli, Rosa di 10 anni e Vittore di 2 soltanto. Efisio Marini cercava fuori dalla Sardegna il riconoscimento che in patria gli era stato, fino ad allora, negato. Ambiva ad una cattedra universitaria in facoltà di Medicina, e invece gli promettevano soltanto un insegnamento annuo, sì con assicurazioni di conferme, ma era cosa in sé precaria, affidata alle sole parole. A Napoli era convinto di poterla spuntare. E infatti insieme con la disponibilità aperta del rettore si sarebbe conquistato quella dello stesso ministro di Istruzione, senza però, anche così, raggiungere lo scopo. E visse da precario, come preparatore del gabinetto anatomico, neppure inquadrato nei ruoli ufficiali, all’università partenopea mentre intanto sbrigava, da libero professionista, quelle prestazioni che una certa clientela gli chiedeva per onorare con la pietra, prova d’eternità, una memoria cara: pietrificava cadaveri interi cioè, ma se richiesto si limitava agli arti – mani e piedi soprattutto con cui costruì perfino mobili e suppellettili – oppure regalava l’eternità a questo o quell’animale entrato negli affetti familiari d’una casa.

Il nostro Giorgio Todde, ispirandosi per il privato ad una nota biografica stesa nel 1946 da Francesco Alziator (nipote, ma in… incognito, di tanto “mago”), ne ha fatto, dal 2000, il protagonista di sei romanzi, calando il medico anatomopatologo ogni volta in una diversa età di vita, dalla prima giovinezza alla prossimità della morte, intervenuta nel 1900 a 65 anni a seguito di un brutto cancro, e rappresentandolo come un vero e proprio detective. Rilevata, nel gabinetto anatomico, la causa delittuosa di questa o quella morte, ecco il dottor Marini sulla scena ad indagare i come e i perché, soprattutto il chi della malvagia impresa…

Incompreso e sgradito

Quasi mezzo secolo di fatiche, di ricerche e sperimentazioni, infine di esercizio ordinario, di applicazione pratica della sua scienza cioè, con prove provate del suo merito e riscontri favorevoli a Parigi e Vienna e Berlino… ecco la buona vita del medico profeta respinto, già da studente, dalla sua città. Laureatosi a Pisa (dopo che in Medicina anche in Scienze naturali) e fattosi professore alle secondarie tecniche nelle scalette di Sant’Antonio – cui avrebbe donato una raccolta di fossili repertoriati nel corso delle sue ricerche – ebbe i migliori incontri, fra il 1861 ed il 1868, ora con il ministro di Istruzione (dapprima Matteucci a Torino poi Broglio a Firenze) ora con il meglio della scienza parigina e fiorentina, perfino con l’imperatore Napoleone III che lo insignì del collare della Legion d’onore. Inquadrato come assistente al gabinetto di Zoologia dell’Università di Cagliari manifestava il suo scontento per tanta ingiusta marginalità, tanto più che la pietrificazione e “rivitalizzazione” del cadavere di Pietro Martini – nel febbraio 1866 – avrebbe dovuto fruttargli ben altro plauso. Che nell’accademia locale e anche in molti ambienti cittadini gli era negato. La sua certificata appartenenza alla loggia massonica Vittoria era divenuta, essa stessa, motivo di avversione e anzi dileggio.


Perciò se n’era andato a Napoli, sperando in miglior sorte. Amico di Giovanni Bovio e di altri intellettuali più o meno progressisti – da Nitti alla Serao, al poeta Di Giacomo – era entrato facilmente nei circoli importanti della città allora grande dieci volte Cagliari. E rientrava in Sardegna ogni qualche anno, sempre accolto con festa dalla Società Operaia, di cui era socio benemerito. Nel 1871 e nel 1882 tornò per ispezionare lo stato di conservazione del corpo dell’antico direttore della Biblioteca governativa, a tanto rifiutandosi però nel 1898 quando il sindaco Bacaredda gli notificò per l’ultima volta (e dopo quattro anni di insistenze) la volontà comunale di trasferire quella salma d’un illustre in un loculo chiuso, finalmente uscendo dalla provvisorietà di quella certa cassa che ogni qualche tempo veniva calata con una corda dalla volta di un ambiente cimiteriale, a Bonaria, per le verifiche. Ogni volta, presente il sindaco e l’ufficiale sanitario, il notaio ecc., si acclarava la permanenza del risultato di quel bagno cui le povere spoglie erano state sottoposte con certi sali in giusti dosaggi: «silicato di potassa, verde rame per le renelle, carbonato di litina…». Marini voleva che quelle spoglie mirabilmente conservate fossero collocate in un cofano con oblò e, attraverso questo, ammirate. Bacaredda rispondeva che le 700 lire raccolte per l’approntamento della cassa erano andate perdute nel fallimento delle banche del 1887, che fare dunque? Un tira-e-molla di quattro e più anni, poi il sindaco ruppe ogni indugio. Marini protestò restandosene a Napoli.

La riduzione allo stato coriaceo, il passaggio a quello lapideo, la reversibilità per colorito e mollezza, le tecniche ed i risultati dei bagni inventati dal medico cagliaritano… ma anche l’impiego delle sue combinazioni alla medicina corrente – come avvenne a Napoli nel 1884 con gli interventi della Croce Bianca a soccorso dei colerosi –, e direi pure l’applicazione probabile agli usi di vita quotidiana per la conservazione delle carni: i preparati del dottor Marini si rivelarono all’universo mondo “naturalmente magici”.

Delle sue attività, e complessivamente della sua vita, nel capoluogo campano tratta un bellissimo libro – Efisio Marini. Reliquie laiche di patria e amore – che Michele Papa, responsabile del museo anatomico della Università della Campania “Luigi Vanvitelli”, ha curato raccogliendo vari contributi fra cronaca e scienza (coautori Borrelli, Fulcheri, Leo, Barone Lumaga, Tamburrini, Torino, e il nostro sardo Giorgio Bertorino) e arricchendolo di uno straordinario apparato documentario e fotografico. Sono oltre cento le immagini che danno conto forse più ancora che le parole, a partire da quelle che presentano… l’eterna fissità di Sigismondo Thalberg, celebre compositore e pianista, pietrificato nel 1871, e passando per l’avv. Vincenzo Villari, la piccola Maria Courrier, Giuseppe Prota, ecc. L’elenco comprende decine di nomi, incluso Benedetto Cairoli, Marianna de Sangro duchessa di Bagnoli. Manca invece il cardinale arcivescovo Sanfelice che la stampa nazionale, e anche quella sarda, dette per certo, all’indomani della morte (gennaio 1897), dover essere... trattato dal medico cagliaritano (che infatti confermò) ed anch’egli riprodotto fotograficamente in varie pubblicazioni.

Rilevanti i rimandi ai “grandi” della mummificazione del XIX secolo, dal Brunetti a Girolamo Segato, dal Tranchina a Paolo Gorini, al Pallavicini, ecc. così come, evidentemente, alle diverse tecniche adottate (e quanto, nel tempo anche precedente, per la imbalsamazione dei santi!).

Le trecento fonti bibliografiche richiamate in fine del corposo volume - manoscritte, a stampa ed web – danno ben conto delle dimensioni dello studio collettaneo che non evita di insistere su pagine tutte gustosamente napoletane dei trenta e più anni vissuti da Marini e da Rosa (Giuseppina morì nel 1879, mentre Vittore, o Ercole Vittore, coniugato con l’avellinese Carmela Sandali nel 1894, tentò il suicidio a Casoria in un brutto giorno del 1904!). Vi è naturalmente compresa L’Unione Sarda, dalle cui collezioni ho potuto trasmettere agli autori, a suo tempo, numerose evidenze di prima pagina e di cronaca. Fino all’importante discorso che nel maggio 1902 tenne il prof. Carlo Fadda – cagliaritano e prossimo rettore dell’università proprio di Napoli! – inaugurando il ricordo marmoreo voluto dagli studenti e scolpito da Pippo Boero con l’epigrafe dettata da Bovio: «La giustizia postuma è rimorso».

Il comune di Cagliari possiede il sangue perduto da Garibaldi ad Aspromonte e pietrificato da Efisio Marini, l’università di Sassari possiede anch’essa reperti che precisamente datano le attività dell’allora giovane scienziato generoso quant’altri mai come dimostrò la povertà della sua condizione civile e il frequente cambio di abitazione: perché mai cedette alle lusinghe di chi, per le accademie ed i governi esteri, fece pressione al fine di averne la… “magica” formula che, passata in eredità alla figlia (la quale grazie ad essa poté campare), volle riservare alla sua patria italiana: «E la patria gli fu ingrata», affermò a Napoli, negli anni della dittatura, il nuovo rettore Giunio Salvi, già professore in Sardegna e massone anche lui come Marini e come molti dei protagonisti del suo psicodramma nazionale ed estero.

***

Scrivo e posto queste note mentre continuano a giungere, drammatiche, le notizie da Kiev e dalla Ucraina tutta. Sia maledetto chi ha scatenato l’inferno ed ha provocato la morte e la sofferenza di tanti innocenti. (Ed ancora una volta abbiamo la plateale dimostrazione della nullità liberale degli esponenti della destra italiana, pagana e imbrogliona, da cui insistenti sono venuti, negli anni, gli accarezzamenti ad un pericoloso dittatore nato).


Fonte: Gianfranco Murtas
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