Balubirde, la carezza di una comunità e la gentilezza d’un gemellaggio possibile.
Quel sentimento e la memoria di mgr. Ottorino P. Alberti.
di Gianfranco Murtas
«De su ghelu imperadora / Mama de durze armonia / Pro nois prega Maria / De Baluvirde Segnora.
«Dae Sant’Anna dicios / Naschezis virgin’e pura / Innozente criatura / Venere e mistica rosa / Funtana burdanziosa / Meighina sanadora…».
Dorgali e Iglesias, - l’Iglesias dei tempi di Dante e del conte Ugolino – Alghero e Villanova Monteleone (patria dell’indimenticato arcivescovo Angelo Palmas che portò la Sardegna nel cuore del Vietnam allora nelle tempeste della guerra!) – cappelle o edicole, chiesette rurali o santuari, altari tutti di confluenze comunitarie o di pellegrinaggio – la Vergine di Valverde ha la sua quota di affezioni in Sardegna e Nuoro partecipa con le sue singolarità di religione e tradizione da trecentoquarant’anni… Così nella vallata che origina dalla Solitudine, e che dalla sommità dell’Ortobene è dominata – per protezione, non per imperio – dal Redentore di Pietro Jerace, la chiesetta dei Costa, o dilla degli Alberti-Costa.
Non ho la competenza necessaria ad affermare se anche a Nuoro alla Vergine de Balubirde siano stati dedicati, formalmente composti o modellati nel tempo – come potrebbe dedursi da un appunto di Agostino Gungui –, dei gosos così come a Villanova ed Alghero, cui provvide Antonio Simone Fois e che la Tipografia Operaia sassarese dette alle stampe giusto cento anni fa (fortuna nostra che la Biblioteca Universitaria di Sassari ne custodisca una copia): «Reina de altu gradu / Mama de umilidade / Tenidende caridade / De si tristu isconsoladu / Dolentes afflitt’istadu / Succurredas ad ognora…».
Ma noi che, in Sardegna, abbiamo da risolvere ancora il problema degli orgogli di campanile che spesso separano invece di federare per condividere (benché a molti progressi la storia ci abbia fortunatamente educato – e invero certe “migrazioni” popolari da territorio a territorio, in specie per motivo religioso, rivelano un atavico buon seme) – ben potremmo pensare in termini di “rete”, o di gemellaggio: e bello sarebbe convocare un giorno una bella assemblea – senza pretese d’alta mistica s’intende, però con gusto fraternale autentico e cristiano – e definire, con largo concorso, una “tavola” di umanissima confidenza con la Signora della secolare tradizione sarda.
Con i grandi anche i piccoli. Mi vien da evocare, traendolo da un diario scout proprio di Balubirde di sessant’anni fa (e di cui poi dirò meglio), un passaggio del servizio curato dal clan per la messa fissata prima dell’inizio del Grande Gioco e, naturalmente, delle ricapitolazioni del Fuoco di Bivacco: «tra le 7 e le 8 pulizia della chiesa, preparazione dell’altare, costruzione alzabandiera».
Di quello stesso tempo che fu anche della mia infanzia cagliaritana e che allestiva i sentimentali affacci nuoresi che sarebbero venuti, con la famiglia e in solitaria, poco dopo, recupero un’altra annotazione flash: «Il FdB s concluse con brevi parole del Capo Gruppo sul significato della giornata, con l’ammaina bandiera e qualche momento di raccoglimento ai piedi del simulacro di N.S. di Valverde».
In premessa una riserva, ma in amicizia
Ero stato tenuto informato delle vicende di Valverde a Nuoro: dello stato fisico della chiesetta chiusa agli accessi, degli interventi risanatori non differibili, delle fonti possibili di finanziamento (dall’Unione Europea nientemeno), di una certa condotta della curia ostile a consentire alcun accompagnamento nella “preparazione” al giorno della festa, onorato da una… fuggevole celebrazione liturgica, ed infine di una replica diffidente od offesa della gente tanto più per la mancanza di esaurienti e rispettose spiegazioni delle decisioni prese che non per il dettato in sé. Io mi permetto di aggiungere di mio – non avendo altro titolo per intervenire nella questione che il sentimento forte per la memoria di don Ottorino P. Alberti con il quale ho condiviso, nelle tempeste (che furono grosse) e nelle bonacce (discrete e reciprocamente salvifiche), alcuni decenni della mia vita, a lui dedicando molti e lunghi scritti di testimonianza, una corposa dispensa biografica, un reading teatrale – mi permetto di aggiungere di mio, dicevo, una riserva che mira in primo luogo proprio ai devoti, o a quei devoti che mi pare si siano mostrati dipendenti, proprio nella avvertita ingiusta mortificazione, dalle decisioni vescovili.
Ben si può far festa con la Madonna, ben si può far festa nel giro sociale, ben si può far festa rigustando le pagine della tradizione, anche senza il prete d’occasione se averne uno è ritenuto come rubare una statuina in casa di monsignore. Da anziano militante di Partenia, mai da avversario giacobino, mi permetto di dire: se il popolo non si emancipa dalla soggezione a figure che, qua e là, faticano ad accompagnare ma sanno soltanto comandare, esse onniscienti e onnipotenti nel breve recinto, si resterà prigionieri di una identità gregaria. E così non potrà più a lungo continuare: figlia della storia la Chiesa – quella con la C maiuscola – e figlia della storia la Scrittura stessa, figlia della storia grande la storia della salvezza (della comunione cosmica dunque!), avremo nel futuro – avranno nel futuro coloro che verranno dopo di noi – una Chiesa di lievito evangelico e tutto sociale, ben diversa, molto diversa da quella che conosciamo, e le parrocchie distrutte o autodistrutte si connoteranno secondo altre forme, comunitarie e federate, responsabili in collettivo, senza ingiustificate leadership e senza ruoli di mestiere garantito per chi entri, per vera vocazione e dopo apprendistato nell’equatore o a Calcutta, nel servizio. In fecondo scambio internazionale, anzi intercontinentale.
Il vescovo Mura, mi han riferito in questi ultimi giorni, avrebbe risposto positivamente alla insistente richiesta pervenutagli anche quest’anno di assicurare, per la data canonica, un servizio liturgico – una messa – purtroppo non la compagnia nella novena preparatoria, e che anzi si sarebbe fatto parte diretta, giusto partecipando lui stesso, vescovo delle due grandi diocesi ma vescovo anche delle minori comunità tutte tese ad un franco sentimento comunionale. Soltanto se, in via assoluta, impossibilitato avrebbe comunque delegato il suo vicario generale a fare lui fraternità non di un’ora soltanto ma di almeno mezza giornata con chi, nel piazzale della chiesa in restauro, voglia sentirsi non ospite-ospitato (mai e poi mai sopportato!) ma ospite-ospitante e accogliente. E di tanto credo di dover dare una lettura ben positiva.
(Ho creduto onesto testimoniare, a chi mi ha interrogato di recente, a favore della propensione dialogica, e per nulla autoritaria, di don Antonello Mura, o almeno quale essa io conobbi di lui prima della imposizione della mitria: da direttore del periodico “Dialogo”, organo allora della diocesi di Bosa, fu il solo a dare spazio, e largo spazio, ad una iniziativa che con diversi amici di varia matrice laica o laicale – Paolo Fadda, Bachisio Bandinu, Salvatore Cubeddu, ecc. – e presenti e intervenuti quella volta l’arcivescovo emerito Pier Giuliano Tiddia, padre Raimondo Turtas S.J., don Antonio Pinna del presbiterio oristanese, don Efisio Spettu già illuminato rettore del seminario regionale, ecc. – io promossi quasi tre lustri fa per una riflessione critica sulle attuazioni o non attuazioni dei deliberati del Concilio Plenario Sardo: iniziativa di quidam, nonostante che quella certa verifica fosse negli impegni formali assunti nel 2001 dalla CES, la quale però – allineatasi disgraziatamente e per penoso conformismo agli indirizzi della nuova presidenza – poi si disimpegnò. Si mostrarono specialmente ostili gli arcivescovi Mani e Sanna, portatori a mio avviso di una autoreferenzialità padronale e censoria, ma noi facemmo tutto con nostra libertà e responsabilità. E ricordo qui che convinto, appassionato e lucido presidente del Concilio Plenario Sardo era stato proprio monsignor Alberti che in ultimo ne registrò, anche lui mestamente, l’oblio: e, pur con espressioni di signorile diplomazia, mi confidò ripetutamente l’intimo rammarico, così nelle frequenti e lunghissime telefonate fra noi o nelle occasioni di incontro personale nella casa di via D’Azeglio che chiamava scherzosamente «il mio episcopio»).
Don Ottorino
«Nuoro fu fatta provincia il 1° gennaio 1927, settant’anni dopo che la precedente era stata soppressa. Mio padre Gustavo era il capo dell’Ispettorato agrario provinciale, nativo dell’Aretino, in Sardegna allora già da qualche anno. Nuorese invece mia madre Nicolosa, una Costa – della famiglia cui apparteneva la tenuta di Valverde, giù del monte Ortobene, con una chiesetta rurale rimontante alla fine del Seicento: Nostra Signora di Valverde. Per me una seconda casa già da bambino: umile che di più non è possibile, ma… nostra. E infatti lo diciamo: “nostra” Signora di Valverde, “nostra”, della famiglia e della comunità…». Questo l’incipit dell’autobiografia simulata che affidai all’attore Gianluca Medas nella tarda estate del 2012 e come “piatto forte” del reading che, presenti in duecento, potei allestire, non senza una soverchiante e generale commozione, nel teatro di Sant’Eulalia a Cagliari.
Perché poi di Valverde-Balubirde molto o tutto sempre restò nel sentimento più riposto, personale e familiare, di don Ottorino. Ricordo come tutto fosse stato preparato per celebrare il suo giubileo episcopale: «Carissima Eccellenza, avevo già stabilito di recarmi domani a Valverde per celebrare con Te il 25° della Tua Consacrazione Episcopale. Il Signore ha disposto diversamente e non posso che inchinarmi alla sua volontà. Tuttavia la giornata rimane sempre dedicata e offerta per Te, con la preghiera, col sacrificio, con i doveri quotidiani…» scrisse alla vigilia, proprio il 7 settembre di quel 1998, il vescovo emerito di Nuoro Giovanni Melis Fois ormai riparato a Genoni. Una polmonite improvvisa aveva infatti costretto al fermo, e poi anche al ricovero, don Ottorino, che due anni prima – settembre 1996 – aveva dovuto subire un ben grave intervento chirurgico che tuttavia s’era risolto al meglio.
Quante altre volte monsignor Melis Fois s’era riferito alla tradizione religiosa di Valverde associandola al nome di don Ottorino, così già quando aveva comunicato ai suoi diocesani la notizia del trasferimento del confratello dalla sede di Spoleto e Norcia, storicamente dipendente direttamente dalla Santa Sede, a quella metropolitana di Cagliari. Al quale confratello, eletto subito presidente della Conferenza regionale, svariate volte cedette il bacolo e la presidenza liturgica per la festa del Redentore da cui poi partiva la novena alla Vergine “di basso”.
Cadalanu, Corda, Carta… qualche titolo
Nel gran numero delle intitolazioni offertele dalla pietà popolare dei barbaricini (e baroniesi), Maria de Balubirde aveva, come in un ideale passaggio di testimone, il suo momento di gloria discreta e tutta popolare. Né don Ottorino storico aveva mai mancato di darne conto nei suoi scritti nuoresi e in specie nelle pagine di presentazione/introduzione o nei primi capitoli di testi che han fatto onore ad autori e all’ambiente socio-storico celebrato.
Così in Vecchia Nuoro, uscito a cura di Giovanni Cadalanu per i tipi di Fossataro nel 1970 e in ristampa arricchita nel 1978 (titolo del saggio “Nuoro attraverso i secoli”): «Un’altra testimonianza della profonda religiosità dei Nuoresi si ha nella fondazione della chiesetta rurale di N. Signora di Valverde. Fondatrice di questo santuario fu Nicolosa Sulis Manca, la quale, con atto notarile del 4 maggio 1684, previo assenso di Mons. Aznar, vescovo di Alghero [che aveva allora giurisdizione sulla parrocchia di Nuoro], assegnò per la costruzione e la manutenzione della chiesetta alcuni censi e un vasto predio in località Goine, che da allora prese il nome di Valverde. Questa chiesetta si aggiunse alle altre che si trovavano nella stessa zona, alle pendici del Monte Ortobene digradanti verso Marreri: N. Signora di Itria, Santu Jacu, Santu Tèderu e Santu Thomeu».
E quante fotografie, nel libro di Cadalanu, a corredo! Gli esterni larghi della chiesetta, quattro comari novenanti (in costume e fazzoletto nero in testa), due pastori intenti a scuoiare – anno 1913 – una povera pecora destinata alla «caldaia insieme alle “patatas in cappotto”: fumerà sull’ampio tagliere di sughero a consolazione dell’appetito di padroni e servi pastori che faranno corona attorno»; ancora e appunto un gruppo d’una ventina di uomini – alcuni in costume altri in abito civile – «dopo il pranzo del lunedì di pasqua», «la lieta brigata del pittore autodidatta Francesco Congiu Pes, ospiti del proprietario della tenuta Ziu Borore Costa» (avo degli Alberti), tre pastori con un numeroso ma disciplinato gregge al pascolo.
Così in Terra Barbaricina, un bel volume di Elettrio Corda uscito da Rusconi nel 1983. Scrive don Ottorino nelle lunghe pagine della sua prefazione (titolo “Nuoro nella storia e nel folclore”): «Maggiore concorso di persone si aveva per la festa della Madonna di Valverde, non solo per la grande devozione che i Nuoresi avevano per la santissima Vergine, ma anche perché il suo santuario si trovava a pochissimi chilometri da Nuoro ed era facile raggiungerlo a piedi in poco tempo. Era, questa, una festa meno chiassosa di quella di San Francesco, più sentita religiosamente non solo dagli abitanti di Nuoro ma anche da quelli dei villaggi di Orune e di Lollove, che vi accorrevano numerosi. La chiesetta di Valverde, edificata intorno al 1684 e giunta ai nostri giorni così come era in origine, sorge alle pendici del monte Ortobene, quasi al centro di un’incantevole conca di querce e di elci secolari.
«Anche in questa festa, che si celebrava annualmente la domenica in Albis, si ripeteva il solito “rituale”, ma in più si offrivano ai pellegrini il filindeu, la carne e i dolci, che potevano portarsi a casa, quasi a dare la possibilità ai più poveri di continuare la festa anche nei giorni seguenti».
Ritorna in argomento, il Nostro (e don Giovanni Carta gli dà rinforzo nel proprio saggio “Feste civili e religiose”), in Nuoro e il suo volto, pubblicato da Carlo Delfino nel 2014: «Nel 1685 la munificenza della nobildonna nuorese Nicolosa Sulis Manca aveva reso possibile l’edificazione della chiesetta di Nostra Signora di Valverde che, ricorda l’Angius, venne “dotata da un certo Antonio Sulis-Ruju con una tanca ghiandifera e un armento di vacche. In questa festeggiasi due volte all’anno, la prima nella Domenica in Albis, la seconda addi 6 settembre a spese de’ discendenti di esso Sulis, divisi in quattro famiglie”.
«È una delle rare chiese nuoresi giunte fino a noi nelle sue forme originali, se si esclude la necessaria sostituzione del tetto in canne con una copertura in tegole. Circa questa chiesa, il professor Massimo Pittau scrive che l’antico culto pagano della vegetazione, probabilmente presente a Valverde nei tempi più antichi, è un “culto che il Cristianesimo ha in seguito recepito e trasformato, per l’appunto, nel culto della Madonna di Valverde”».
Ho fatto rapido riferimento al contributo dell’ollolaese don Carta che qui richiamo non soltanto per l’ampio suo rimando alla nota storica di Vittorio Angius ma per l’associazione che il compianto direttore del settimanale L’Ortobene (morto nel 2017) ha dettato fra il compendio di Balubirde ed il nome di Alberti: «Grande guida e animatore della novena e della festa era l’arcivescovo Emerito di Cagliari mons. Ottorino Pietro Alberti, che ne curava fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 2012, ogni particolare, valorizzando al massimo sia l’aspetto religioso che quello della accoglienza e fraternità.
«È frequentata soprattutto dai nuoresi che vi accorrono numerosi e molti raggiungono il Santuario a piedi. È momento di preghiera, di ascolto e di grande condivisibilità, solidarietà umana e cristiana».
In tempi di fascismo, ricorda il professor Pittau
Prima di diffondermi sulle memorie giovanili di Ottorino P. Alberti nei fascinosi boschi di Balubirde, mi parrebbe utile raccogliere proprio quel suo rapido passaggio al nome dell’amato professor Massimo Pittau, il quale proprio a Valverde dedica un capitolo del suo memoriale L’era fascista nella provincia italiana. Il Littorio a Nùgoro e in Sardegna, edito dalla Edes nel 2011.
Scrive il professore, datando l’episodio al 31 maggio 1931: «I fascisti avevano saputo che la Gioventù Cattolica Femminile aveva organizzato un pellegrinaggio a piedi al santuario della Madonna di Valverde (Balubirde); fu immediatamente fatta l’adunata e una ventina di fascisti, armati del classico “manganello”, si recò in quella località e nel piazzale del santuario, con fare minaccioso e prepotente, impose a una quarantina di ragazze e fanciulle di togliersi il distintivo dell’Azione Cattolica. Rispetto a un giovane presente, fratello e cugino di alcune “circoline”, Tonino Mereu o, come si firmava nei suoi articoli di stampa, Tonino de Nugòro, usarono pure la violenza per togliergli il distintivo. Poi seguirono le pellegrine nel ritorno a Nùgoro cantando canzonacce da caserma. Fra le giovani cattoliche c’erano anche le tre mie sorelle, Angelina Claudia e Maria, di cui la prima era la vicepresidente della associazione cattolica e la terza aveva appena 12 anni.
«L’atto di prodezza dei venti squadristi contro quaranta ragazze e fanciulle suscitò molto scalpore e allarme nella città, tanto è vero che il giorno dopo i fascisti sentirono la necessità di stampare e di divulgare un comunicato, nel quale tentavano di minimizzare l’episodio. Però il vescovo di Nùgoro monsignor Giuseppe Cogoni il 4 giugno sospese in tutta la diocesi la processione del Corpus Domini e nella funzione solenne di riparazione che effettuò in cattedrale di Nùgoro pronunziò un infuocato discorso contro i provvedimenti del fascismo relativi all’Azione Cattolica e contro la mascalzonata dei fascisti nugoresi di qualche giorno prima. Sette anni dopo il Prefetto di Nùguro segnalava al Ministero degli Interni che quel discorso del monsignor Cogoni era “tuttora vivo nel ricordo della cittadinanza”.
«Di passaggio faccio notare che tra gli eroici fascisti che avevano partecipato alla mascalzonata squadristica di Valverde c’era anche uno studente universitario, il quale, conseguita la laurea in legge, un giorno di autunno del 1948, … ebbe modo di dirmi: “Te lo confesso, io mi sento ancora profondamente fascista”. Qualche mese dopo egli si iscrisse alla Democrazia Cristiana di Nùgoro e un anno dopo diventò consigliere regionale di questo partito e addirittura Vicepresidente del Consiglio Regionale».
Spazio scout
Superato questo… inglorioso (ma istruttivo) quadretto di vita paesana, vorrei riprendere e concludere la mia… affettuosa incursione albertiana richiamando qualche pagina che riporta proprio Valverde nella esperienza formativa, sociale e religiosa, di don Ottorino ragazzo e giovane prete. Lo posso fare con gusto speciale sfogliando le molte pagine (oltre 550!) dei memoriali scout sardi abilmente cuciti da Valeriano Cinquini in un bellissimo libro – Di isola in isola. Cronistoria del Movimento Scout in Sardegna (1911-1976) – in cui i riferimenti ai campi-scuola in Valverde (con la diretta partecipazione di Pierino ed Ottorino) sono qualche decina. Erano i tempi di don Raimondo Calvisi, responsabile della pastorale giovanile prima e dopo che il fascismo qualche suo rozzo imperio calasse nel corpo delle formazioni associative cattoliche, così anche forzando quei pochi spazi di libertà concessi dai famosi patti del Laterano. (Di Raimondo Calvisi mi permetto di segnalare, a riguardo anche della esperienza scout, i recentissimi tre volumi usciti a sua firma ma a cura di Diego Casu e Natalino Piras per l’editore Carlo Delfino: Storie e testimonianze di vita barbaricina, Figure e tradizioni del Nuorese, Nuovi racconti e canti popolari del Nuorese, nella collana Sa paraula e sos libros).
Dunque gli scout e Valverde come luogo di frequente prescelto, per ambiente e forse anche per virtù di baricentricità sarda, per i campi-scuola di Lupetti e Rover dell’intera Isola già dall’immediato secondo dopoguerra. Naturalmente Oliena e Loculi di Siniscola, Macomer e Onanì, Biscollai anche, ed altri posti… non mancarono di fare la loro parte, ma Valverde manteneva un suo fascinoso richiamo tutto speciale. «Il 16 marzo effettuammo una esclusione a Valverde assieme ad Alberti [Pierino] e ad un certo Boy, esploratore della Sq. Tigri. L’attività più impegnativa fu senz’altro quella delle segnalazioni Morse fatta con i fazzolettoni scout quadrati. Ma anche quella di scendere giù per le forre del Monte Ortobene, camminando e saltando con gli scarponi chiodati su quelle rocce di granito, non fu da meno. La strada del ritorno venne compiuta quasi tutta a passo scout, cioè alternando 60 falcate a passo di marcia con 60 di corsa. Concluse la mattinata la sosta per un’Ave Maria di ringraziamento nella chiesetta dalla Solitudine, allora non ancora restaurata». L’anno era il 1947 ed Ottorino, 19enne studente universitario iscrittosi a Pisa nella facoltà di Agraria, aveva un incarico che, quando si trovava in Sardegna, svolgeva con entusiasmo come aiuto-istruttore dei Pionieri.
Un altro flash del diario: «L’altra escursione, fatta il 23 dello stesso mese ma solo nella mattinata, li portò a Valverde. Vi partecipò anche Orazio Dore, nuovo acquisto del Riparto». Fu la volta che tutto era iniziato al «pulciosissimo nuraghe Susaiu» ed a quello Tigoloboe e appena qualche giorno prima che l’intera compagnia accompagnasse monsignor Giuseppe Melas nella sua Visita Pastorale alla Cattedrale di Santa Maria della Neve. Calzia, Frogheri, Amat, Porcheri, Murgia… i primi dei venti o trenta nomi degli elenchi scout nuoresi. E quanti parteciparono, nel 1950, alla missione-pellegrinaggio dell’anno santo! «con alla testa mons. Calvisi, Ottorino Alberti Graziano Portoghese, Cecce Follese, Mario Brianda , Fausto Lai, … tutti raccolti sotto lo stendardo dei Quattro Mori, insegna ufficiale dell’ASCI sarda…». Le foto documentano.
D’una qualche frequenza erano allora anche i rapporti con il seminario regionale di Cuglieri, e certamente di supplementare orgoglio – oltre a quello di essere ben considerati dagli austeri padri gesuiti che governavano le cattedre della facoltà teologica e più ancora dai chierici impegnati allo studio (ragazzi tutti attorno ai 20 anni!) – fu il lancio, nel 1954, dell’inno nazionale verseggiato da Angiolo Silvio Novaro con le musiche tutte nuoresi di Francesco Giovanni Ruju noto Banneddu (scomparso anche lui di recente, nel 2017): «Noi udimmo nel sonno l’invito / e balzammo serrati in drappelli / con in pugno un bastone fiorito / con in cuore uno sciame d’uccelli…».
«Il 22 febbraio 1957, di venerdì, cadeva il centenario della nascita di Baden Powel per cui nei due giorni successivi il PRISAGINU (PRImo SAn GIorgio NUoro) nonostante la temperatura fosse molto rigida a causa di un fortissimo vento che soffiava da Ovest-Nord-Ovest, per solennizzare l’avvenimento organizzò un’uscita a Valverde… Alla commemorazione parteciparono oltre alle Sq. del Riparto, le Guide, i Rover e gli Esploratori Nazionali che stavano risorgendo per opera di mons. Calvisi».
Neoprete e nuovo assistente ecclesiastico del clan don Alberti pose ad ottobre «la questione della riparazione urgente del tetto della sede e la decorosa sistemazione degli angoli di Sq. Per poter sopperire alle ingenti spese necessarie fu organizzata una lotteria…». E ancora – sempre nel 1957: «don Alberti sviluppava un pensiero sul motto scout “Estote Parati”: nei due giorni immediatamente successivi alla commemorazione dei defunti ancora un bivacco di Riparto a Valverde, il cui scopo era quello “di allenare i ragazzi ad ambientarsi anche in condizioni atmosferiche avverse alla vita del campo. Infatti sebbene il tempo sia stato nuvoloso e piovoso specie la notte, tutti hanno resistito bene, persino i Novizi”».
Dal quaderno dei riepiloghi del 1961: «l’uscita di aprile per la ricorrenza di S. Giorgio a Valverde venne rovinata dal furioso maltempo, che ne rese necessaria l’interruzione e costrinse gli Scout al rientro anticipato». Promessa di riprovarci.
A Nuoro il movimento allungava ed articolava sempre più e meglio il numero delle sue squadre: Castori e Rondini e Daini… Piero Alberti si confermava fra i capi clan, ed assiduo e scrupoloso informatore di don Ottorino dal 1959 costretto nel suo nuovo ufficio alla Lateranense… mentre Valverde continuava a offrirsi come meta di campeggio. Così dalle registrazioni del 1962: «Altre attività all’aperto furono programmate dagli Scout nuoresi dell’ASCI il 18 e 19 marzo. Il Clan si recò a Valverde per effettuare le seguenti attività: 1- costruzione di un altare da campo smontabile; 2- cucina individuale; 3 – conoscenza della natura; 4 – segnalazioni…».
1963. Cinquini ricostruisce in questo modo i programmi concordati: «Il NU 1° organizzò, insieme ad alcuni Scout di Oliena… la festa di S. Giorgio a Valverde nei giorni 27 e 28 aprile. Partiti dalla chiesetta di S. Croce alle ore 7 i ragazzi giunsero sul posto prescelto per accamparsi, in località Fontana della Costa, alle 7,55. Oltre agli zaini individuali vennero scaricate: “sei tende, compresa la Mottarone” come è riportato nel più volte citato diario di Riparto, e: “La mattinata è servita per la costruzione degli angoli di squadriglia, mentre tre scouts tornavano a Nuoro per acquistare il pane…”».
Ancora 1963: «escursione del 27 ottobre a Valverde e dintorni per l’effettuazione di un Grande Gioco. Il programma orario prevedeva: ore 6,30 partenza per Valverde; tra le 7 e le 8 pulizia della chiesa, preparazione dell’altare, costruzione alzabandiera; ore 8 S. Messa; 8,45 colazione; 9-12,30 Grande Gioco; 12,45-13,15 pranzo al sacco; 13,30-14,30 riposo; 14,30-16,30 attività; 1630-17,15 Fuoco di Bivacco; 17,15-17,30 riassetto e pulizia del luogo; 17,30 ritorno a Nuoro».
1966. «Il Gruppo 1° effettuò il 30 gennaio una escursione a Valverde. Dopo la s. Messa e l’alza bandiera il Capo gruppo lesse il messaggio che il Capo Scout dell’ASCI indirizzò a tutti gli associati in occasione del cinquantenario. A seguire ci furono le Promesse di tre Lupetti… cerimonia che si concluse con l’urlo corale del “Cigaliga”. È una specie di Hip hurrah! Festoso, di pretta marca scout… La giornata continuò con attività separate per i Lupetti, che dettero sfogo alla loro vivacità sotto la guida del loro Akela S. Ventroni, mentre gli Esploratori si cimentarono a seguire un percorso costellato di segni della pista tracciato dal C. Sq. Moncelsi. All’ora di pranzo: “Nel terreno da noi occupato scende un silenzio impressionante!” scrive il cronista di Gruppo. “Si ode ogni tanto un tramestio… è l’incontro dei denti con la… preda!”. Dopo aver mangiato tutti si impegnarono a provare i numeri da presentare al FdB. Alla cerimonia di chiusura furono particolarmente apprezzati i numeri di espressione (canti e scenette) dei Lupetti. Il FdB s concluse con brevi parole del Capo Gruppo sul significato della giornata, con l’ammaina bandiera e qualche momento di raccoglimento ai piedi del simulacro di N.S. di Valverde. Per la cronaca a quella escursione, oltre a Piero Alberti e don Pala, presero parte 1 Rover, 8 Esploratori e 10 Lupetti».
In anni recenti le cronache della stampa
Nella mia biblio/emeroteca (fra le migliaia di cartelle, una “summa sardoa” di oltre due milioni di ritagli-stampa di cui centomila riguardanti la Chiesa sarda fra storia e attualità) conservo anche le tracce delle missioni di monsignor Alberti finalmente arcivescovo di Cagliari, fra la festa del Redentore in cima all’Ortobene e quella (preparata dalla tradizionale novena) della Vergine di Valverde ai piedi, e più giù dei piedi del monte amato dei nuoresi. Nella solennità mariana di Balubirde il presule celebrava due messe al giorno, di prima mattina e alle 18, per favorire i devoti secondandone le opportunità. E provvedeva alla distribuzione del pane benedetto.
Prendo a caso questo o quel foglio ora de L’Unione Sarda ora de La Nuova Sardegna. Un titolo: “A piedi verso Valverde: pellegrinaggi quotidiani per la novena della Madonna”, così il giornale di Cagliari del 9 settembre 1988. Ne stralcio qualche passaggio: «La valle, che si apre fra le crespe dell’Ortobene, alle sei del mattino è già meta dei pellegrini che ogni giorno arrivano puntuali per la messa delle sette nella chiesetta, in lindo e aggraziato stile, dedicata alla Madonna. Nei primi giorni di questo mese i molti santuari “mariani” situati nei luoghi più suggestivi sono affollati di fedeli. In provincia si celebrano riti di intensa religiosità sul monte Gonare, nel caratteristico complesso del Rimedio a Orosei, nella chiesa della Madonna di Monserrato sotto le strapiombanti pareti del Corrasi.
«Ma a Valverde i nuoresi hanno il cuore. Questa Madonna è venerata da 304 anni e sempre la ritualità trova la sua àncora inamovibile nel pellegrinaggio quotidiano. Ci si muove a piedi dai rioni antichi e nuovi della città, si percorrono i tornanti incuneati fra le prime boscaglie della montagna, si sale poi una stradina solitaria e ci si trova davanti alla chiesetta silenziosa e accogliente.
«Da trentadue anni a presiedere la novena è monsignor Ottorino Alberti, oggi arcivescovo di Cagliari e che non è mai mancato da questo luogo in questi giorni neppure quando era a capo della diocesi di Spoleto. Un amore antico, alimentato dai bei ricordi d’infanzia, e mai venuto meno, anzi cresciuto col tempo. I nuoresi stimano tanto questo loro concittadino che anche la grande tradizionale devozione alla Madonna di Valverde sembra trovare in questo sentimento, se mai ve ne fosse bisogno, linfa rigeneratrice.
«Monsignor Alberti ha compiuto proprio ieri, giornata di festa a Valverde come in tutti i santuari “mariani” il quindicesimo anniversario della sua consacrazione a vescovo, avvenuta in Cattedrale l’8 settembre 1973… Lo ha ricordato nella messa mattutina il decano dei sacerdoti nuoresi don Salvatore Floris, che assisteva l’arcivescovo nella celebrazione. E di sera, nel piccolo delizioso sagrato, è stata festa grande, secondo gli usi di una volta, improntati alla genuinità popolana dei nuoresi più veri».
Nel 1991 (L’Unione Sarda, 9 settembre): ancora un richiamo alle due messe celebrate «nel sagrato della chiesetta per consentire alla folla dei fedeli di seguire agevolmente ogni atto della liturgia» e delle speciali, ataviche affezioni mariane dei nuoresi, fra i quali proprio l’arcivescovo che «Da buon nuorese… considera l’appuntamento settembrino di Valverde come irrinunciabile anche per i valori religiosi e popolari che la ricorrenza sa esprimere e che annualmente ripropone con immutata forza. Anche ieri, soprattutto alla messa serale, si è dovuto disciplinare il traffico molto intenso da e per Valverde: una dimostrazione della sempre solida fede dei nuoresi».
1994 (L’Unione Sarda, 9 settembre): “Una festa di popolo: omaggio ieri della tradizione nuorese alla Madonna di Valverde”: «La festa di Valverde, tradizionale appuntamento di fede nella vallata sotto il Monte Ortobene, è stata celebrata ieri, in concomitanza con la ricorrenza della Natività della Vergine che ha visto sul Monte Gonare un’altra prova di devozione popolare, con la consueta solennità e il solito concorso di folla.
«È, dopo le Grazie, la festa più nuorese, più intrisa di tradizione, più sentita dal popolo e più amata dalla gente dei rioni cittadini autenticamente nuoresi: Seuna e San Pietro. Da qui partono ogni mattina per la messa e ogni sera per la novena comitive di persone, uomini, donne, bambini. Si recano a piedi lungo i tornanti della vecchia statale per Marreri e Siniscola sino alla chiesetta solitaria che si erge nell’amena vallata dal lontano 1684.
«È una processione di pellegrini che lasciano la città e alla città ritornano dopo la preghiera. A piedi, per penitenza e sacrificio, per rendere grazie o implorare grazie, per tradizione ormai secolare.
«Ieri alle 7, per la messa mattutina celebrata dall’arcivescovo Ottorino Alberti, la chiesetta non ha contenuto la folla che si è dovuta riversare nello spiazzo attiguo. Dopo il rito la distribuzione del pane benedetto. Nel pomeriggio alle 18 la celebrazione, all’aperto, del solenne pontificale, presieduto dallo stesso arcivescovo, che qui è di casa e non manca mai a quest’appuntamento di fede e a questo bagno, gradito, di nuoresità. Era assistito dai sacerdoti della città, fra cui monsignor Salvatore Floris, loro decano e parroco del Rosario…
«Dice don Floris: “La devozione per la Madonna di Valverde è tramandata a Nuoro di padre in figlio, è un patrimonio familiare che si trasmette nel tempo”. Infatti a Valverde, nei giorni della novena e in quello della festa, si incontrano le famiglie che costituiscono il tessuto connettivo della vera Nuoro.
«Una devozione che data da oltre tre secoli. Nessuno ha ancora dimenticato la solenne cerimonia del trecentesimo anniversario di fondazione della chiesa, allorché il vasto pianoro sotto le rocce dell’Ortobene venne invaso da oltre cinquemila persone. E quell’avvenimento costituì, se pure ve ne fosse bisogno, un impulso vigoroso alla ricorrenza settembrina.
«Anche ieri caratteristici i due pellegrinaggi a piedi, quello mattutino e quello serale. Una lunga, pressoché ininterrotta teoria di fedeli ha percorso la strada asfaltata sino a imboccare il sentiero in rapida ascesa che conduce alla chiesetta. Lungo il tragitto si prega, si parla. Sono le antiche famiglie nuoresi che raccontano i nuovi e sempre uguali avvenimenti dei rioni, dei vicinati o rievocano quelli vecchi con punte di accorata nostalgia. Si arriva così alla chiesa, si assiste alla funzione religiosa e si fa ritorno, sempre a piedi, nell’abitato cittadino, come cento anni fa…».
Il ricovero d’urgenza all’ospedale Zonchello impedì nel 1998 la celebrazione, proprio a Valverde, della programmata messa di venticinquesimo di episcopato. Michele Pintore ne scrisse a lungo su La Nuova Sardegna (cf. 8 settembre: “Polmonite, ricoverato monsignor Alberti”): «Alberti si è sentito male nella casa di famiglia a Valverde, splendida campagna nell’Ortobene dove da decenni trascorre sul finire dell’estate un breve periodo. Proprio a Valverde l’abbiamo incontro venerdì mattina, poche ore prima del ricovero. Per monsignor Alberti il rientro a Nuoro in questa casa, che è anche un nostalgico ritorno alle radici in luoghi carichi di memorie familiari, dove i suoi antenati… edificarono la chiesa di N.S. di Valverde, che diede il nome alla località circostante (allora denominata Goine). Sono ricordi che risalgono al giovanissimo Ottorino boy-scout, al legame affettivo con la vecchia casa colonica che fiancheggia la chiesa, riadattata a residenza di campagna, dove nonno Costa, vecchio patriarca nuorese, aveva fatto aprire alcune feritoie cuneiformi (ancora visibili) per vigilare sulle greggi circostanti e visto il periodo, per difendersi dai malintenzionati.
«Già colpito dall’attacco influenzale, monsignor Alberti ha fatto presente il suo dispiacere per non aver potuto celebrare la tradizionale novena. Ma si riprometteva di essere presente oggi alla messa prevista… L’otto settembre è anche la data in cui, 25 anni fa, fu consacrato vescovo per mano del cardinale Sebastiano Baggio…».
Così ancora negli anni. (Qui, nel piazzale fra la chiesa e la casa, seduti come in salotto, anch’io lo incontrai, monsignore, nell’estate del 1988 e qui tornai nelle frequenti e anche prolungate e sempre gradite permanenze nuoresi. Allora, frequentando anche l’archivio storico diocesano – presentato dal caro e indimenticato monsignor Pietro Maria Marcello, personalità d’eccellenza ed autore di una densissima storia de La diocesi di Galtellì: pacificazione e comunione, così il suo saggio del 1983 –, conobbi diversi esponenti di un clero che sempre ho amato e con cui ho coltivato importanti rapporti, partendo dallo stesso monsignor Melis Fois per arrivare a don Salvatore Bussu).
Viaggiando fra i libri: Monni e Gungui
Sono forse di Vittorio Angius – prete scolopio e mille altre cose, da bibliotecario a pubblicista super, da professore universitario a deputato al parlamento subalpino – i primi riferimenti documentati alla chiesa intitolata alla «Nostra Donna di Valverde fabbricata da circa 200 anni»: così nel celebre Dizionario del Casalis (o, per le voci sarde, Angius-Casalis)
Ne riprende il passo il giuseppino padre Paolo Monni autore di un prezioso Radici a Seuna. Sintesi storica delle origini del santuario di N.S. delle Grazie di Nuoro, volume uscito nel 1987, che aggiunge: «Notizie anche queste di rilievo che pongono la costruzione della chiesetta di Valverde a metà del secolo XVII poco prima di quella delle Grazie. La notizia viene solo in parte confermata da una iscrizione riportata su una bugna di calce (rigonfiatura della parete) posta sull’altare maggiore della chiesetta in cui si legge: “hoc opus fieri curavit – propriis espensis vb Salvator Sulis Manca – comissante in aetatis 49 – anno dni 1699”: “Questo edificio fece fare a proprie spese il ven. (?) Salvatore Sulis Manca commissionandolo all’età di 49 anni – nell’anno del Signore 1699”. La datazione dell’Angius è approssimativa come approssimativo è il nome e cognome del donatore o fondatore».
(Invero – e qui mi introduco io soltanto con una ipotesi di lavoro e per chi potrà meglio approfondire – se reggesse il riferimento alla data cui monsignor Alberti ha più volte fatto rinvio, e cioè al 1684/1685, e trovasse conferma che l’iniziativa fosse stata della Sulis Manca rivoltasi per l’autorizzazione al vescovo di Alghero competente per giurisdizione canonica – un elemento di convergenza troverei nella circostanza che proprio nel 1684 compì la sua visita in Sarule – e immaginerei anche a Nuoro – il vicario episcopale di Alghero, delegato del vescovo mercedario Luigi Diaz de Aux: di tanto scrive Giacomino Zirottu in Nostra Signora di Gonare, Poligrafica Solinas 1996. Ecco qui una tessera compatibile ancorché, per altro verso, non rispondente: infatti il vescovo agostiniano Aznar Naves citato con riferimento alla Sulis Manca governò la sua diocesi, Nuoro compresa, vent’anni prima, per essere poi trasferito in zona di Pamplona).
Un intero capitolo alla chiesetta di Valverde e, naturalmente, all’ambiente naturale che l’ha accolta come sua capitale spirituale, l’ha dedicato Agostino Gungui nel suo Nuoro e i nuoresi, titolo apripista del catalogo Fossataro risalente addirittura al 1958.
La sua brevità mi autorizza ad una ripresa integrale del testo: «A tre chilometri da Nuoro, a Nord-Est nelle frastagliate pendici dell’Ortobene, si estende un pianoro, dove l’acqua non lesina le sue grazie e la vegetazione assume particolari piuttosto imponenti. In questo lembo di terra, dal quale si gode uno stupendo panorama, si stacca nettamente, dal verde cupo delle secolari piante, la vetusta chiesetta di Nostra Signora di Valverde.
«Il piccolo tempio, dall’aspetto umile e senza alcun rilievo artistico, ha una lontana rassomiglianza con un altro, esistente nei pressi di Alghero, dedicato anche quello alla Madonna di Valverde.
«Gli elementi che costituiscono l’insieme, malgrado siano trascorsi alcuni secoli, da quando la mano dell’uomo plasmò la loro fisionomia, assicurano ancora lunga stabilità.
«Il terreno annesso al santuario, e che costituisce la sua dote, e quelli viciniori, sono tutti bene coltivati.
«Nella zona, per un raggio di diversi chilometri, la vite trova ottima dimora e i frutti che si ricavano sono copiosi e assai saporiti.
«La natura, ora aspra, ora dolce, è armoniosamente fusa da una disposizione di linee, che compongono un fino ricamo, in cui sono tratteggiati, con evidenza di contorni, i monti che sovrastano il perimetro della zona.
«La chiesetta deve la sua esistenza a Giovanni Costa, che la fece edificare l’anno 1600 a proprie spese, nel suo predio, dotandola poi dei terreni adiacenti, con l’obbligo di celebrarvi ogni anno, nella ricorrenza, la novena e la messa, con diritto di patronato, trasmissibile agli eredi, i quali tuttora assolvono quanto devono, rimanendo però sempre padroni della proprietà dotale.
«Nel giorno della solennità, è tradizione distribuire su filindeu, minestra confezionata con formaggio fresco, ai fedeli che partecipano alla festa. In quella circostanza, gran parte degli abitanti si dà convegno nella valle addossata ai massi granitici che cadono a strapiombo alle propaggini dell’Ortobene. E sotto le maestose piante e sulle rocce, dalle quali si schiudono allo sguardo estatico stupende visioni, i convenuti trascorrono ore felici.
«La mattina, esaurite le funzioni religiose, le allegre brigate, che non mancano mai di presenziare alla suggestiva festa, si danno da fare per creare un clima di sano e onesto divertimento. Non mancano i balli a sa civile e le danze sarde su ballu nugoresu. I canti e le musiche delle fisarmoniche e delle chitarre creano un clima suggestivo e lasciano nell’animo dei partecipanti un’eco profonda. Quando il sole volge al tramonto, tutti gli astanti si stringono allora attorno al simulacro della Madonna e dalle loro ugole canore sgorga tragico e solenne un inno sacro: sos gosos. Si torna in città quando le tenebre avvolgono gli aspetti della campagna.
«La strada di accesso alla civettuola vallata inizia dalla Solitudine e attraverso Marreri tocca Isalle e Orrule, paesi esistenti nel 1300 e che costituivano titoli del canonicato di Galtellì, antica sede del vescovado; dovrà presto congiungere Nuoro a Siniscola, non appena saranno ultimati i lavori in corso. I detti paesi furono distrutti dalla peste (morte nera) come si desume dalla storia di Cesare Cantù. Esistono ancora i ruderi delle chiese di San Giorgio e di Santa Cristina di Isalle e San Giuseppe di Orrule.
«La strada che prima era appena accennata, e che non andava oltre Marreri, consentiva a malapena il traffico dei carri agricoli, e per la carreggiata stretta, e per il fondo stradale in pessime condizioni, mentre ora ammette il passaggio delle macchine di qualunque portata. Chi volesse recarsi a Valverde per gustare le sue acque, o per estasiarsi nella contemplazione di un ampio scenario che riempie l’anima di meraviglia, può arrivarci comodamente in macchina, anziché a piedi, come avveniva in passato.
«La rotabile ha indubbiamente valorizzato quella zona, e in avvenire la renderà più interessante, anche perché consentirà una intensa trasformazione agricola e una maggiore penetrazione turistica, data la singolar bellezza dei paraggi, tanto più che nel loro ambito comprendono anche altre amene località».
Ancora: dalla cronotassi di Bussu alle edizioni dell’Unione
Restando ancora in tema di chiesa si ricorderà – e lo fa don Salvatore Bussu nel suo pregevolissimo Nuoro il senato del vescovo: il capitolo della cattedrale di Nuoro all'interno di alcune linee di storia della diocesi (dal 1781 ad oggi), uscito dalle macchine delle Grafiche Editoriali Solinas nel 2003 – che l’arcivescovo di Sassari Alessandro Domenico Varesini, per qualche breve tempo (nel 1844) amministratore apostolico anche a Nuoro (e allora e dopo… inimico di Giorgio Asproni), compì la sua brava visita pastorale recandosi presso la cattedrale e le altre sei chiese del recinto urbano, delegando per l’ispezione di Valverde, oltre che delle minori chiese del Monte, della Solitudine e di Santa Marina, il canonico Michele Guisu ed il proprio segretario: il referto non fu granché positivo ma comunque certificò una «qualche decenza» con cui tutte – Valverde compresa – erano tenute, ma anche il bisogno diffuso «di qualche riparazione».
Le notizie già risapute circa le origini del fabbricato ritornano, con il giusto accompagnamento fotografico – il che fa anche Elettrio Corda nel suo Atene sarda, pubblicato da Rusconi nel 1992 –, nel capitolo “Le chiese, il cimitero” di Memorie nuoresi, raccolta di fascicoli pubblicati da L’Unione Sarda nel 1990.
Cambosu, ma soprattutto la Deledda
Certamente è di Grazia Deledda il maggior merito di aver presentato al mondo la valle di Valverde, la sua chiesa, la sua festa tradizionale. Lo fa, la nostra grande e amata scrittrice premio Nobel del 1926 (1927) tanto in Canne al vento quanto, e più estesamente, in una bella novella dal titolo La grazia ch’ella licenziò quasi in limine, appena tre anni prima della morte, e venne inserita nella raccolta Sole d’estate.
Ma prima di arrivare a lei, e con lei concludere questa breve passeggiata nella letteratura, nella memorialistica e nella storia sarda e barbaricina, vorrei un attimo indugiare su alcune righe donateci da Salvatore Cambosu in un delicatissimo “Ricordo di Grazia Deledda” uscito su L’Unione Sarda del 21 giugno 1960, e che meritoriamente Eleonora Frongia ha riproposto in una indovinata antologia dal titolo Cambosu giornalista, curato dalla Fondazione Salvatore Cambosu per la stampa nella collana Biblioteca dell’identità de L’Unione Sarda.
Va detto che l’autore di Miele amaro e di molte altre meraviglie di prosa poetica dedicò più volte le sue attenzioni alla produzione della Deledda. Già soltanto nell’antologia cui mi sono riferito sono riportati anche gli articoli “L’opera di Grazia Deledda” (1937) e “Ricordo di Grazia” (1956). Ed è stato attento e diligente classificatore Gianni Pititu ad accogliere nel suo Nuoro d’autore, pubblicato dall’AMD edizioni nel 2005, anche quello stralcio.
Egli ebbe il privilegio di visitare Valverde – lui ancora bambino – proprio con la Deledda, fissando nella propria memoria scenari ed emozioni. Doveva essere la vigilia del matrimonio della scrittrice e del suo definitivo trasferimento in continente, o poteva essere l’occasione di uno dei rarissimi ritorni in patria dopo quella svolta di vita. Scrive così: «Laggiù è Valverde. Mi sembra lontana la luna, quella valle colorata, che visitammo insieme allora: lei e il pittore Ballero, e quel ragazzetto che ero io…
«Non vedo i carri lenti attaccare la salita con la forza dei buoi. Il sentiero che conduceva in cima al Monte è ormai rientrato nel regno delle capre. Un piccolo autobus si inerpica per la bella strada, carico d’una comitiva di ragazzi e di ragazze “americani”: sfida la salita verso le alture di “chiare, fresche e dolci acque”, e d’una folla d’alberi che respirano e fanno buona guardia al Redentore gigante».
E la nostra grande Deledda, infine. Pagine importanti le sue, di cui un’eco non manca neppure in Immagini deleddiane, foto-testo curato da Agostino Gungui nel 1960. Sono state richiamate più volte le scene che, in Canne al vento, hanno per protagonista il vecchio e fedele Efix. Le richiamo anch’io: «La domenica dopo Pasqua andò a una piccola festa campestre nella chiesetta di Valverde. Era un pomeriggio freddo e sulla vallata dell’Isalle battuta dal vento di tramontana, con Monte Albo giù in fondo fra le nuvole come una nave incagliata in un mare burrascoso, pareva dominasse ancora l’inverno.
«Efix seguiva una fila di paesane avvolte nelle loro tuniche grevi, e col vento che gli batteva sul petto sentiva qualche cosa di nuovo, di forte, penetrargli nel cuore. La gente camminava triste ma tranquilla, come in processione, avviata non a un luogo di festa ma di preghiera: anche una fisarmonica lontana ripeteva il motivo religioso delle laudi sacre, ed egli sentiva che la sua penitenza era cominciata.
«Arrivato alla chiesetta, sull’alto della china rocciosa, sedette accanto alla porta e si mise a pregare: gli sembrava che la piccola Madonna guardasse un po’ spaurita dalla sua nicchia umida la gente che andava a turbare la sua solitudine, e che il vento soffiasse sempre più forte e il sole cadesse rapido sopra la valle per costringere gl’importuni ad andarsene. Infatti le donne si avvolgevano meglio nelle loro tuniche e dopo aver recitato il rosario s’avviavano al ritorno.
«Non rimasero che una venditrice di torroni e di pupazzi di farina nera ricoperti di zucchero; e due uomini seduti uno per parte davanti alla porta della chiesetta sotto l’atrio in rovina.
«Efix sedeva poco distante da loro e li guardava gravemente: li riconosceva, li aveva veduti laggiù alla festa del Rimedio: erano due mendicanti vestiti decentemente da borghesi, con pantaloni turchini e giacca di fustagno: uno, giovane ancora, alto e curvo, col viso giallo scarnificato ove pareva fosse rimasta la sola pelle sulle ossa, con le palpebre livide abbassate, chiedeva, chiedeva movendo appena le labbra grigie sui grandi denti sporgenti, come dormisse e parlasse in sogno, indifferente al mondo esterno. L’altro, vecchio ma forte, col viso rosso cremis congestionato, tutta la persona agitata da un tremito che sembrava finto, aveva messo il cappello fra le sue gambe aperte e di tanto in tanto si curvava a guardarvi dentro le piccole monete.
«Ma la sera cadeva rapida, grave di nuvole, e la gente se ne andava. Anche la donna dei confetti chiuse le sue cassette ancora piene e si mise a parlare sdegnosa coi mendicanti.
«“Non valeva la pena di far tanta strada! Festa da niente, fratelli miei”.
«“Non si campa più” disse il vecchio, e versò le monete in un fazzoletto e rimise il cappello in testa. Ma quando fu per alzarsi ricadde, come se i piedi gli scivolassero sul selciato dell’ingresso, e batté la testa al muro e le mani al suolo.
«Al tintinnare delle monete contro la pietra l’altro mendicante sollevò il viso terreo spalancando gli occhi vitrei come sentisse un rumore minaccioso.
«Il vecchio gemeva. La donna ed Efix s’erano precipitati su di lui, ma non riuscirono a fargli tener sollevata la testa.
«“Bisogna distenderlo”, disse la donna, “ora gli darò un po’ di liquore. Mettilo giù, aiutami”.
«Fu messo giù, ma le goccie d’un liquido verde ch’ella tentò di versargli in bocca sopra i denti serrati gli si sparsero sul mento.
«“Pare morto. E tu, non ti muovi?” ella disse all’altro mendicante. “Era malato? Non rispondi?”.
«“L’uomo tentò di parlare, ma solo un mugolio tremulo gli uscì di bocca: poi scoppiò a piangere.
«“Va, muoviti, chiama i pastori che stanno lassù nel bosco…”.
«“Dove lo mandi che è cieco?” disse Efix, inginocchiato con una mano sul cuore del vecchio. Il cuore sussultava, come tentando ogni tanto di sollevarsi e subito ricadendo.
«E l’ombra si addensava rapida; ogni nuvola passando sul vicino orizzonte, lasciavano un velo, il vento urlava dietro la chiesa, tutte le macchie tremavano protendendosi in là verso la valle, e pareva volessero fuggire, luminose d’un verde metallico, agitate da una convulsione di tristezza e di terrore
«Anche la donna ebbe paura della solitudine e di quella morte improvvisa. Si mise le cassette sul capo e disse: “Bisogna che vada. Avvertirò il medico, a Nuoro”.
«Così Efix rimase solo, fra il moribondo ed il cieco…».
Ecco la Deledda nel suo capolavoro uscito nel 1913. E di giusto vent’anni dopo è la novella La grazia in cui«la vallata di Valverde con la sua chiesetta melanconica» fa da sfondo alla confessione di un’anima che racconta, in termini chiaramente autobiografici, i sentimenti di un’età ormai lontana, quella dell’adolescenza: quando i sogni lottano, per inverarsi, con le ostilità dell’ambiente e i pregiudizi altrui: «I miei primi piccoli successi letterari furono accompagnati, come certi grandi successi, da vivi dispiaceri. In famiglia mi si proibiva di scrivere, poiché il mio avvenire doveva essere ben altro di quello che io sognavo…».
«La potenza magica della parola scritta»
E più oltre: «le frecce che miravano più dritto e mi ferivano al cuore erano quelle della critica letteraria locale. Ricordo in modo speciale una lunga lettera anonima, scritta su carta protocollo come un regolare atto di accusa, che con raffinatezza crudele mi raggiunse un bel mattino di settembre, mentre si era in procinto di partire per una festa campestre.
«Nove giorni durava la festa, intorno alla chiesa della Madonna di Valverde, nella conca omonima, dolce al mio ricordo, come la selvaggia culla dove furono allevati i miei primi sogni d’arte e d’amore. Si dormiva, per modo di dire – poiché la buona parte della notte si passava fuori, al chiarore dei fuochi intorno si ballava al suono della fisarmonica,- in certe celle addossate alla chiesa: e durante la giornata la nostra casa era la verde conca col suo ruscello, le pietre per sedie, le ombre degli alberi per tende.
«Io portavo con me la lettera anonima, come un cilizio che doveva fra le gioie della terra ricordarmi l’espiazione da venire: e, simile al bandito mistico al quale la tradizione attribuisce la fondazione della chiesa di Valverde, mi nascondevo fra le rocce ed i lentischi, per rileggere i capi d’accusa che stroncavano la mia opera appunto come quella di un malfattore»
Però non è l’accusa di questa o quella sgrammaticatura che ferisce la ragazza, è il rifiuto in toto delle sue aspettative tanto ambiziose quanto lecite e belle: «quando si crede di avere il diritto di esistere non sulla terra ma nel sole».
L’avvilimento è pieno ma ecco, risanatore, l’improvviso miracolo: una voce come quella di una janas sarda e barbaricina raggiunge Grazia. È la voce di una «piccolissima vecchia tutta vestita di nero. Anche il suo rosario è nero: ma due cose raggianti illuminano la sua figura: la medaglia grande che pende dal rosario, di argento filogranato, con due zaffiri, ed il piccolo viso di lei rassomigliante alla medaglia. Il tempo ha logorato ugualmente il viso e la medaglia, lasciandovi lo stesso splendore e gli occhi della vecchia pare abbiano acquistato quel loro liquido bagliore d’azzurro, a furia di guardare i due zaffiri antichi.
«Questi occhi adesso si affissano su di me, e a loro volta mi danno l’impressione che una nuova luce si sovrapponga all’arido splendore di prima: la luce della fede. La vecchia si è seduta per terra, ai miei piedi, e sgranando il suo rosario come davanti alla madonna di Valverde, pronunzia la sua preghiera… La riconosco sì, adesso: è la vecchietta che si è portata in un canestro tutto quanto le occorre per dormire e per nutrirsi – punto centrale la caffettiera – e passa i nove giorni del rito in un angolo della stanzetta che a noi è stata concessa ad uso di cucina».
Entrano in dialogo la vecchia e la ragazza e tutto sa di una umanità pura: innocente è stato condannato a vent’anni di prigione Sebastiano, l’unico figlio della vecchia novenante. «Tu devi scrivere una supplica per conto mio. La carta te la compro io, anche se costa una lira. Me la fai, questa grazia?». Una supplica a sua maestà la regina Margherita.
«E fui presa nel cerchio di fede e di fantasia della piccola donna che credeva ciecamente alla potenza magica della parola scritta: potenza d’altronde che se scaturisce dal cuore vivo dell’uomo può davvero attraversare i secoli e gli spazi infiniti e arrivare dal mendicante al re. Con la parola scritta io dunque comunicherò con la nostra Regina: attraverso la mia voce muta Ella sentirà il cuore della piccola madre, e giustizia sarà fatta.
«Avere qui ancora il foglio della supplica! Sostituirebbe, col suo ingenuo soffio di umanità, tutte queste paginette che hanno l’aria di una novella, e non lo sono; o forse era un documento di letteratura che il commosso ricordo trasforma e fa rivivere di più profonda vita?
«Non si sa dirlo. So che era scritto in bella calligrafia, a nome della madre, con la firma apocrifa identificata da una piccola croce tremula, significativa immagine della madre stessa, della sua fede, del suo dolore.
«Anche l’indirizzo fu scritto da me: “A Sua Maestà Margherita di Savoia Regina d’Italia Roma”.
«Passò del tempo, e nulla si seppe. La madre sperava sempre. Io non ci pensavo più, felice di aver per conto mio ripreso nel pugno la fede in me stessa.
«Un giorno Sebastiano, che aveva ancora da scontare tre anni, fu per effetto di amnistia rilasciato libero: la madre venne a trovarmi, tutta raggiante come quel giorno fra i lentischi rossi di Valverde...».
La chiusa: «Ed in segno di gratitudine ella mi offrì un ricordo che conservo ancora: è una fiaschetta da viaggio, fatta di una piccola zucca tutto intorno finemente istoriata: lavoro di arte, di pazienza, di attesa, che il condannato aveva eseguito nella casa di pena».
Caro don Antonello
Anche in memoria di don Ottorino Pietro Alberti, Valverde merita una visita non pastorale, chiamala di “fraternità episcopale”, tutta sua e di un giorno pieno. Senza burocrazia clericale, sempre odiosa. Quando verrà quel momento m’impegno a donarle una fiaschetta come quella offerta per gratitudine alla Deledda da quella magica vecchia tutta fede e innocente povertà.
(Chiudo domandando, di necessità, qualche scusa a chi abbia avuto la pazienza di scorrere questo mio articolo scritto in tutta fretta, fra consultazione dei testi e degli appunti, sviluppo scritto e correzione almeno di prima bozza, nell’arco di un giorno e mezzo e pensando alla festa religiosa che sarà fra una settimana soltanto, come personale e specialissimo abbraccio alla memoria di don Ottorino P. Alberti, la cui tomba ho visitato lo scorso anno imponendomi apposta la sosta a Nuoro dopo il convegno di Dorgali sulla Merlin e le mie “eroine” antifasciste sarde e come ho tempestivamente riferito nel sito Sardegna e Libertà promosso dall’amico professor Paolo Maninchedda).
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