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Gianfranco Murtas

Bovio coscienza morale insieme della democrazia e dell’umanesimo massonico. A palazzo Sanjust i più ne onorano la memoria e la docenza

di Gianfranco Murtas

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«Quando nel 1884 il colera assunse a Napoli proporzioni spaventose, mentre De Sanctis chiudeva le finestre per non essere disturbato dai lamenti e dalle grida della povera gente, Giovanni Bovio chiuse i suoi libri e si pose alla testa di una magnifica squadra di volontari, quasi tutti massoni, per andare dove tuonava il cannone della miseria e della disperazione, sorvegliati dalla forza pubblica, nei fondaci, nei budelli senza aria e senza luce dove i cadaveri e i moribondi giacevano mischiati insieme e in uno di questi tuguri un giorno Bovio incontrò il cardinale Guglielmo Sanfelice che gli strinse la mano e l'abbracciò ("a riconfermare dinanzi alla morte che dove una è la patria, uno è il dolore").

«"Il morbo è gravissimo" aveva scritto ai fratelli imolesi, ed ad Andrea Costa in particolare che, anche in questa circostanza, tanto aveva fatto per la povera gente partenopea, a rischio della vita. Come a rischio della vita furono gli altri componenti dell'eroica squadra approntata da Bovio: Felice Cavallotti, massone, il primo operaio ad essere eletto in parlamento, Antonio Maffi, massone, dell'unione Operaia radicale e Luigi Musini, giornalista, parlamentare socialista, massone: "Valdrè è morto. Egli è il secondo della nostra squadra". Antonio Valdrè e Rocco Lombardo, anarchici, furono i due componenti della squadra uccisi dalla terribile pestilenza.

«Bovio fu sempre attento e partecipe nelle calamità nazionali, come si evince anche dall'operato e dai discorsi che tenne in occasione del terremoto gravissimo del 28 luglio 1883 ad Ischia, che colpì principalmente Casamicciola. In quelle occasioni mostrò ammirazione per le donne di quelle zone e per la grande pietà della gente nei primi momenti dopo la tragedia: "negli occhi delle donne luce la scintilla vulcanica. Ciò che c'è di grande in queste rovine non è la morte, è il cuore del genere umano". Grandissimo estimatore del Mazzini, s'ispirò ai suoi ideali corroborandoli con i più alti valori della tradizione umanistica all'interno delle concezioni classiche dell'universo massonico.

«Nel 1892 al tribunale di Napoli pronunciò un famoso discorso nel Processo ai socialisti, e secondo Tommaso Ventura (1958), la sua filosofia "né servile, né timida, seppe antivedere, ammonire, correggere". Giovanni Bovio è stato uno straordinario precursore perché lumeggiava i caratteri salienti della vita repubblicana, con tutti i cittadini elettori, una repubblica ritenuta il vero baluardo contro la supremazia incontrastata della monarchia e punto di snodo delle forze progressive contro la chiesa di Roma. Nel 1876 [l’anno della morte di Giorgio Asproni e di lui ideale continuatore, ndr] fu eletto a Minervino Murge, e le esperienze politiche che seguirono, contribuirono a fargli guadagnare la fama di oratore di assoluto livello».

Così scrive di Giovanni Bovio – il cui busto cagliaritano è stato ripetutamente svillaneggiato da un imbecille a palazzo Sanjust, senza adeguata e pronta riparazione dalle autorità fraternali preposte – è il professor Giovanni Greco, direttore della bella rivista del Grande Oriente d’Italia Massonicamente in un suo articolo uscito sul n. 7 del quadrimestrale (2016). 

Quando fu Armando Corona a governare il Grande Oriente d’Italia 

Mi pregio di collaborare, ormai da tempo, con lui in un idem sentire ideale e civile, e proprio dal libro cui insieme abbiamo lavorato ed appena uscito, con i profili dei Gran Maestri del Grande Oriente d’Italia dall’unità d’Italia ad oggi, vorrei qui trarre una riflessione che mi era sembrato utile inserire per definire il magistero che, dal 1982 al 1990, espresse il sardo Armando Corona. Poiché di Armando Corona sono queste parole: «Che cosa è la Massoneria? è una scuola iniziatica che aiuta l’uomo a migliorarsi in tutte le sue dimensioni: in quelle spirituali, in quelle intellettuali e in quelle morali... Noi recepiamo, dentro la nostra Istituzione, profani, cioè coloro che stanno fuori dal Tempio e li introduciamo nel Tempio attraverso l’iniziazione. Ma così come il battesimo non fa un buon cristiano, neanche l’iniziazione fa un buon Massone… Noi insegniamo, a coloro che vengono da noi, che questa iniziazione virtuale deve diventare reale, cioè deve essere riempita di contenuti».

E ancora: «Noi dobbiamo essere d’esempio, se vogliamo modificare la società civile in cui operiamo e viviamo, dobbiamo essere d’esempio anche come senso del dovere, come spirito di sacrificio nell’osservare tutte le leggi e le norme che ci portano ad essere i migliori. Altrimenti non ha senso stare nella Massoneria. Se noi dobbiamo restare uguali a tutta la società che ci circonda, allora è perfettamente inutile che noi facciamo sacrifici per elaborare dentro di noi tutte quelle qualità che ci rendono assolutamente impermeabili alle sensazioni di egoismo, di profanità, alla tentazione di utilitarismo, al diffuso senso di profitto in cui il bene generale viene sempre dopo il profitto personale» (cf. Allocuzione per il XX Settembre 1987).

In un’altra occasione, riflettendo giusto all’indomani del passaggio dei suoi poteri per esaurimento del suo ottennio: «L’iniziato lavora alla costruzione di una diversa umanità: più giusta, più tollerante, più disponibile a guardare negli occhi il proprio simile, a condividere gioie e dolori. L’iniziato ha i suoi scampoli di cielo e di beatitudine in questa terra ed essi si realizzano ogni volta che, con gli altri Fratelli, lavora in Loggia alla edificazione del tempio della propria personalità, sotto la guida di una Istituzione massonica monda di sospetti e di brutture, protesa all’elevazione materiale, culturale e spirituale dell’intera umanità.

«Guai a noi se non elimineremo i maestri di profanità che siedono fra le nostre Colonne, Fratelli che pur cingendo i propri fianchi del grembiule di Maestro sono spiritualmente legati alla Colonna del Nord ed agiscono e si comportano come se la Loggia fosse una pubblica piazza o peggio un club profano. Bisogna combattere il lassismo, generatore di confusione e disordine. E’ urgente ed improcrastinabile instaurare una disciplina esteriore che produca scrupolosa osservanza della sacralità e ritualità della Loggia.

«L’insegnamento e la pratica iniziatica devono accompagnarsi ad una grande disciplina interiore, sicché ogni parola, ogni comportamento, ogni gesto, ogni atteggiamento siano di estrema coerenza con l’assoluta esclusione dei metalli dal Tempio» (cf. “Meditazioni sulla Massoneria”, Hiram n. 5/maggio 1990).

Oggi a Cagliari, a palazzo Sanjust 

Un ghigno osceno domina ancora due pagine dell’web, e sono la firma – lo dice lui stesso aprendo con una simulazione dei quattro mori bendati, irriverentemente con Bovio per protagonista in triplice replica – dell’imbecille che a palazzo Sanjust ha dileggiato lo storico monumento innalzato più di cento anni fa a onorare il professore filosofo del diritto, il parlamentare e il Grande Oratore della Massoneria nazionale negli anni della granmaestranza Lemmi. Accanto alla divertita rappresentazione fallica i nomi di alcuni dignitari del GOI e il logo dell’Ordine De Molay. C’è da inorridire per il fatto e anche per l’insensibilità o incoscienza di chi dovendo intervenire se ne astiene come Ponzio Pilato.

Ma se un imbecille ha sfidato tutti – l’intelligenza e il gusto, la misura e l’educazione, la storia e la morale –, certo bisognerà comprendere come una nobile Comunione tre volte centenaria, e antica tre secoli anche nel segmento sardo (a volersi riferire ai conciliaboli dei nostri borghesi cagliaritani con i consoli-Fratelli di Londra e Parigi, e poi a certo movimento antifeudale e repubblicano nella stagione dell’Angioy), possa esser divenuta ostaggio del nullo pensiero. E come il palazzo donato alla Fratellanza massonica cagliaritana – con quanto sentimento! – dal professor Vincenzo Racugno possa esser divenuto scorribanda della volgarità ad uso di internet.

Avverto sentimenti divaricati e pubblicamente li confesso per pura testimonianza. Con retroproiezioni immaginarie, ho scattato io, stavolta, delle istantanee in cui mi è stato facile collocare l’imbecille nella scena dei questurini che, alla fine degli anni ’20, una volta e anche una seconda si presentarono a casa di Alberto Silicani, in via Ozieri, per rintracciare documenti della cosiddetta Massoneria clandestina (quella appunto dei Silicani, dei Branca, degli Ajello, ecc.). Lui, l’imbecille che ha caricaturato Giovanni Bovio, naturalmente da parte della polizia fascista.

Prima ancora m’era sembrato di doverlo immortalare, l’imbecille, fra quegli altri della milizia scatenati a rintracciare, alla fine del 1925, Romolo Enrico Pernis – il leader della Massoneria cagliaritana – che riparava lontano da Cagliari, verso il Marghine o la Planargia, dopo la perquisizione e il saccheggio della sede di via Barcellona, quella che associava al circolo borghese dei salotti e del biliardo e della dama... la parte rituale destinata al lavoro simbolico e fraternale – il Tempio e il Gabinetto di riflessione, con i Passi Perduti e la Segreteria. 

Con un salto di molti anni e decenni, mi era sembrato di scorgerlo, l’imbecille – e ne ho impresso la sagoma – fra quei politici di quinta fila che chiedevano ad Armando Corona, allora – primavera 1978 – di dimettersi dalla vicepresidenza della giunta Soddu perché segnalato da L’Espresso come Maestro Venerabile della cagliaritana loggia Hiram (naturalmente senza che né Soddu democristiano di valore né Raggio comunista di valore dessero ascolto).

Ancora al tempo della ostensione delle liste in logica… trasparentista, nel 1993, l’imbecille era lì, con la sua tribuna a dire basta a questi massoni che comandano ovunque, anche gli acquedotti e i cimiteri, i voli lunari e la pertosse di massa, perfino la cacofonia.

Cambiano le stagioni e addirittura si rovesciano i valori orientativi dei comportamenti pubblici oltre che delle sensibilità personali. E agli imbecilli può capitare di diventare, per un ruolo da conquistare comunque, quello che, nella vita precedente, erano state le loro vittime. Ma non per resipiscenza, soltanto per trasformismo.

La microstoria locale, dico della Massoneria sarda e cagliaritana, non manca di episodi così. Un funzionario dell’Archivio di Stato e bravo storico già da giovane, campano d’origini, negli anni del primo fascismo scrisse e pubblicò lettere di fuoco contro il mondo delle logge, e propose l’abbattimento del busto a Giordano Bruno – quello che ora è in facoltà di Lettere – per far posto al monumento a San Francesco, nel settimo centenario della morte del Serafico. (Allora i residui cattolico-popolari s’erano alleati, a Cagliari, con i fascisti proprio in chiave antibruniana e antimassonica, salvo poi trovare la tipografia del loro Corriere, in via Cima, incendiata dai presunti alleati). Quel funzionario e bravo storico medievista e spagnolista nel 1948, dopo la dittatura cioè, divenne l’Oratore della loggia scozzese Mazzini Garibaldi all’obbedienza di Palazzo Brancaccio con sede in via Macomer.

Anche nella loggia Risorgimento costituita a Cagliari nel 1944 da Alberto Silicani capitò qualcosa del genere, qui evidentemente con il perdono concesso a un Fratello che, già appartenente alla Sigismondo Arquer nel prefascismo, s’era poi ritratto e fatto pubblicamente nemico della Libera Muratoria, forse in omaggio al suo posto di dirigente della Conservatoria delle ipoteche. Venne perdonato e riammesso, vent’anni dopo. Forse fu giusto, se giusta, cioè onesta e leale, si fece allora la sua riflessione autocritica.

Vicende di storia locale e riflessioni critiche

Sono pensieri che salgono alla mente ma che giocano con altre memorie delle vicende della Comunione massonica isolana e cittadina. Ciò che – lo dico chiaramente – non vuole deprimere il quadro e il giudizio complessivo, ma semmai, dal mio punto di vista, considerare quanto sia facile alle potenzialità migliori di immiserire, per mortale contagio, a causa delle debolezze umane in emersione ogni volta che i valori si fanno subordinati alle convenienze. Il che è tentazione di oggi come è stata tentazione di ieri. Direi addirittura oggi più di ieri perché se, nella società liquida in cui siamo immersi, la Massoneria non sa farsi quel che deve essere per pura teoria – società di tradizione – e perciò anticonvenzionale e anticonformista, controvento cioè, allora scema ogni suo ruolo, decade ogni sua missione.

E’ stato bravo Aldo Borghesi quando, riferendo della crisi che colpì la loggia Sigismondo Arquer prima dei colpi ferali infertile dal regime ai suoi albori, richiama un documento importante del 1923 a firma di Gustavo Canti fatto ispettore delle cose massoniche sarde. Val la pena di rievocare, pur con rapide pennellate, la vicenda che risentiva allora pesantemente di un quadro sociale e politico generale in rapido degrado: con la frustrazione delle ambizioni radicali di Ferruccio Sorcinelli (editore de L’Unione Sarda e già padrone della Società Bancaria Sarda e delle miniere di Bacu Abis) e il suo passaggio al fascismo “duro e crudo”, con le manovre del prefetto Asclepia Gandolfo per l’acquisizione delle forze sardiste al fascismo, con le rotture dunque anche interne alla Massoneria locale che dovette soffrire fra gli opposti rimandi alla coerenza liberale e democratica e alle succulenti opportunità del momento.

Tensioni ci furono allora e strariparono dai luoghi deputati finendo perfino in tribunale. Ma qui importa il giudizio di Gustavo Canti che (già Gran Segretario e già Gran Maestro aggiunto di Palazzo Giustiniani, e alla fine dell’Ottocento a Cagliari Maestro Venerabile, prestigioso e rispettato, della loggia Sigismondo Arquer) in Sardegna venne per capirne meglio. E scrisse col fuoco e chissà quanto turbamento: «La pianta massonica non è mai cresciuta robusta in terra di Sardegna. A Cagliari la massoneria vive in quanto si alimenta di forze forestiere; quando si trova il continentale capace di dominare la situazione, la loggia ha un periodo di prosperità. Non appena però prevale l’elemento locale, essa immiserisce nelle contese di interessi, nelle rivalità, nelle piccole beghe locali, tra cui l’eterno tenace contrasto tra cagliaritani e sassaresi…» (cf. “Fra grande guerra, fascismo e ritorno alla democrazia”, in Massoneria e cultura laica in Sardegna dal Settecento ai giorni nostri, a cura di Fulvio Conti, Roma, Viella, 2014).

Non saprei quanto questo ultimo aspetto della rivalità territoriale sia ancora significativo nella tenuta generale della Obbedienza nel secondo dopoguerra e in tempi ancor più recenti. So per certo che personalità di gran livello – come fu il sassarese Mario Giglio – per lunghi anni, fra ’60, ’70 ed anche ’80, tanto nell’Ordine quanto nel prevalente Rito Scozzese (da intendersi come ramo di specializzazione filosofico-rituale della Libera Muratoria) seppero governare con autorevolezza, armonia di collegialità e risultati. Fu quella la stagione in cui declinava la vecchia generazione – quella marcata anche dalla testimonianza antifascista – dei Rovasio, dei Conti, dei Simon, dei Mura a Sassari, o dei Silicani a Cagliari e cresceva quella dei Vincenzo e Giuseppe Delitala, dei Tancredi Pilato, dei Luciano Rodriguez, appunto dei Mario Giglio (che potei assiduamente frequentare dal 1975 e che è stato fra i più generosi sostenitori del mio Archivio storico generale della Massoneria sarda)… Non è più nella dialettica Cagliari-Sassari il problema d’oggi: i numeri che alimentano la polarizzazione giustinianea nei maggiori centri urbani isolani paiono innalzare il capo di sotto forse anche oltre regola: 27 logge a Cagliari contro le sette sassaresi, e i quotizzanti ottocento contro centocinquanta press’a poco…

Il problema è che i numeri debbono essere responsabilità, non gloria contabile, effimera ed imbrogliona. E il caso dell’imbecille che irride a Giovanni Bovio, ignorando tutto di lui – di lui monumento di pensiero e di lui monumento d’arte – è il segno che ai numeri può non aver corrisposto la responsabilità selettiva, quella meritocratica che pur costituisce uno dei fondamentali della Libera Muratoria come la storia li ha strutturati. Se un ghigno osceno ancora oggi prima settimana di luglio 2020 accompagna i quattro mori bendati col volto del filosofo che celebrò il centenario della morte di Voltaire celebrò Giordano Bruno a Campo de’ Fiori, se accanto a quel ghigno compaiono ancora i nomi di appartenenti al Grande Oriente d’Italia, anche chi non ha tessera ma ha il cuore… tutto intero, tutto intero nella Comunione che fu profezia dell’ecumenismo ideale e civile in Italia e nel mondo, prima di reagire piange incredulo e sconsolato.

Ogni caduta – come quella rilevata da Gustavo Canti nel 1923 – avrebbe dovuto incoraggiare ad una ripresa, ad uno slancio d’orgoglio perché il buon nome di quella Libera Muratoria che fu la militanza morale e pubblica di innumerevoli galantuomini, esponenti delle arti e delle professioni, dell’imprenditoria e della scuola, del giornalismo e dello sport fosse nuovamente oggetto di rispetto e ammirazione. 

Bisognerà riprendere a studiare. E sempre tenendo presente il monito del presidente Carlo Azeglio Ciampi, gran mazziniano livornese. Monito valido per i massoni e per i cittadini tutti di sentimento democratico in questa nostra cara preziosa Italia: siano il risorgimento, il secondo risorgimento (cioè la resistenza partigiana) e la costituzione repubblicana il percorso delle consapevolezze storiche e civili nel nostro presente. Non c’è scienza vera del presente se manca la conoscenza critica del passato, religiosamente rispettosa delle luci, della fatica di chi ci ha preceduti. I massoni sopra tutti ne siano avveduti ed educati, Mazzini non è passato, Bovio non è passato: sono profeti che parlano ancora ai tempi moderni, se noi abbiamo orecchie per ascoltare. I rischi sono dietro l’angolo, e potrebbe anche capitare che, con le ubriacature di certa iconoclastia incolta, un universalista dettosi fedele, per recita di copione, agli Antichi Doveri e al credo ecumenico di Kipling facesse, per comodità domestiche e contro ogni puro patriottismo, professione perfino di sovranismo e simili lavorazioni.

Mi riservo in un prossimo articolo – a completare i primi risarcimenti agli insulti recapitati a Bovio anche negli impensabili quattro campi della bandiera sarda – di raccontare quanti e quali motivi di solidarietà abbiano legato il filosofo di Trani alla Sardegna ed a Cagliari in particolare. Tanto da consigliare di innalzare a lui il monumento dello square delle Reali, e alla loggia massonica di acquisirne, nello stesso 1905, dall’autore Fratello Pippo Boero, il doppione in gesso pesante. (E quando potrò mandare questa breve raccolta di riflessioni scritte alle logge Giovanni Bovio del continente spero si possa, da parte loro, mai confondere il buon nome della nostra terra e della nostra gente con quello dell’imbecille e di chi pensa a lui come ad un innocente goliardo).

In conclusione invece qui vorrei presentare alcune delle innumerevoli pagine che di Giovanni Bovio tratteggiano la fisionomia intellettuale e politica, civile e morale. Pagine tratte dagli studi speciali compiuti da don Rosario F. Esposito, con i quali anzi aprirei questa sequenza, volendone dare continuazione più in là, compulsando fonti diverse, massoniche e parlamentari soprattutto.

Per conoscere Bovio: un profeta riformatore. Scrive Rosario F. Esposito:

«La personalità di Giovanni Bovio è una delle più ricche e caratteristiche del laicismo italiano ottocentesco. Arturo Labriola l’ha definito “un personaggio veramente tolstojano, certo più vero di colui stesso che ha creato questo tipo”. Egli si impose all’attenzione degli intellettuali e dei diseredati, particolarmente del Sud, come l'emblema del personaggio libero da tutti i condizionamenti spirituali e sociologici, e disponibile per realizzare la liberazione di tutti gli oppressi. Il fascino esercitato sulla gioventù, raggiunse punte di fanatismo. Ogni qualvolta Governo o Chiesa varavano qualche misura che comunque sembrasse ostacolare la libertà e Il rinnovamento, cortei giovanili e popolari si presentavano sotto il suo balcone, per invocare la sua presenza e la sua parola ispirata. Le sue lezioni non furono un fatto esclusivamente culturale, ma un fatto globale, che cointeressava e coinvolgeva tutte le realtà della vita. “Quella lezione - scrive un suo allievo - non era la monotona ripetizione di cose già dette o viete; ma l'esposizione di cose nuove e interessanti, in cui le questioni più palpitanti del giorno trovavano - con fine magistero - il loro posto per opportuno ricordo. Ora era la morte di un grande patriota o di un geniale artista, or la disfatta, or la vittoria di un popolo generoso, ora la rivendicazione di un diritto umano, ora la ricordanza di una data fastica, ora la caduta di un potente, ora la speranza degli umani... Lo slancio lirico toccava allora il diapason, e l'anima di centinaia di uditori vibrava all'alito potente di quella cara parola, supremamente educatrice”.

«Il Labriola, che fu anch'egli suo allievo, scrive: “Egli non disse mai cose volgari o vili. Non parlava che di cose degne e in uno stile di decoro e di forza. Nella sua lezione non passava mai il soffio delle collere e delle nausee personali, e nessuno può ricordare un'allusione dileggiativa. In un certo senso il suo discorso non era mai critico. Era invece una successione di musiche larghe, solenni, misurate e melodiose. L'effetto era quasi fisico, ma in sostanza di una persuasione intima, inespressa, quasi inarticolata. Nessuno avrebbe potuto dire perché, eppure si sentiva che Bovio aveva vinto i suoi uditori”. Bovio era effettivamente un annunciatore, un profeta del rinnovamento civile e morale del suo popolo; non era un creatore di sistemi, bensì un portatore di messaggi; “Egli comunicava un senso cosmico dell'esistenza - prosegue il Labriola - un senso della connessione e della ragionevolezza della esistenza, un pacato ed armonico ottimismo, desunto dall'istessa persistenza della vita... Se scienza è distinguere e separare, nessun pensiero fu meno scientifico del suo e nessuna educazione più antiscientifica di quella che si compiva nella sua cattedra”.

«Giustamente il Labriola annota ancora che Bovio “avrebbe potuto essere l'araldo di un moto riformatore, a tendenze religiose, in mezzo ai giovani”. In effetti lo fu; ed è per questo che le masse lo seguirono come oratore, come autore drammatico, come giornalista, come tribuno politico che partiva coscientemente sconfitto, rimanendo eternamente all'opposizione repubblicana e intransigentemente democratica e radicale.


«Un commentatore interiormente molto vicino al Bovio, perché massone come lui, non senza ragione, dopo aver notato che il filosofo “era un uomo integrale in cui il mondo morale e quello estetico vivevano di uno stesso palpito”, conclude: “Se non fosse stato un laico, potremmo dire che Bovio fu un santo. Ma forse appunto perché laico, sotto un certo aspetto, fu più che un santo... Bovio non fu chiamato santo perché i santi si creano e si venerano sugli altari dei templi della religione ufficiale e l'unico altare, per Bovio, fu la sua coscienza e l'unico tempio, l'Universo”». 

Così Rosario F. Esposito in apertura di Giovanni Bovio tra l’Apostolo Paolo e S. Tommaso d’Aquino, Livorno, Bastogi editore, 1975, citando l’Arturo Labriola di Giovanni Bovio e Giordano Bruno. Due conferenze, Napoli, Partenopea, 1911; il Giovanni Amellino de La cattedra di Bovio, ABG, 47 e ancora il Ripardi de Il teatro di G. Bovio, teatro della religiosità laica, Roma, Lumen vitae, 1955.

Ancora don Esposito e Bovio: la connotazione massonica

«Nella contesa ideologica avviatasi in Europa a partire dal principio del secolo XVIII, la Massoneria esercita una funzione stimolatrice di prim'ordine. I capisaldi fondamentali che presiedono alle origini della Massoneria simbolica, intorno al 1717, provengono dal longitudinarismo, dal deismo, e dal riformismo inglese, e si consolidano soprattutto intorno a due canoni, uno di carattere religioso, l'altro di carattere sociale: 1) la tolleranza religiosa, in base alla quale ogni uomo si impegna a rispettare le credenze religiose di ogni altro uomo, contento del minimo denominatore comune, che è la credenza di Dio e nell'immortalità dell'anima; 2) l'impegno di dedicarsi all'uomo, alla sua educazione, al suo miglioramento culturale, biologico, sociologico, liberandolo dai pregiudizi e dalle servitù dell'Ancien Régime.

«Trapiantata nel continente europeo, la Massoneria si trovò impegnata nell'affrontamento di un'impostazione sociopolitica praticamente ancora medievale; la Chiesa Cattolica costituendo uno dei supporti decisivi di questo mondo, la Massoneria si sentì autorizzata a prevaricare dall'impegno religioso della tolleranza, anche perché la Chiesa si era mostrata intollerante per prima dei suoi confronti, e avviò una lotta religiosa che raggiunse toni drammatici, ora in questa, ora in quella nazione. In Italia furono proprio i decenni che seguirono l'unificazione nazionale a vedere il graduale rafforzamento dell'Ordine massonico e il contemporaneo infuriare della lotta antireligiosa, nell'intento di impedire il ritorno alle divisioni politiche della nazione e di portare innanzi la liberazione del popolo dai pregiudizi clericali e dal folklorismo religioso […].La professione massonica del Bovio per molti aspetti rappresenta il più eccellente caso di autenticità iniziatica che la storia italiana dell'Ottocento vanti.

«Sovente si distanziò dalle grandi incongruenze della Massoneria, che in nome della libertà spesso agitò campagne persecutorie contro la Chiesa, così come rimase estraneo agli scandali derivanti dalla ricerca del potere e della ricchezza, che costellano la storia massonica soprattutto alla fine degli anni ’80 e negli anni ’90. Rimase sempre all'opposizione governativa, sedendo all'estrema sinistra, si dimise della carica di Rappresentante del Gran Maestro e del Supremo Consiglio di Napoli, quando nel 1889 l'Ordine dava adito a severe critiche, trasse il necessario per la sua esistenza di nobile povertà dall'insegnamento e dai magri diritti d'autore. Nella Massoneria effettivamente egli vide lo strumento della promozione della cultura e delle classi umili, e giustamente alcuni studiosi si sono meravigliati della tenacia con la quale il Bovio rimase fedele alla Massoneria, nonostante i gravi tralignamenti a cui essa cedette; un segno in più per affermare il suo idealismo e la sua evangelicità anche in questo campo.

«Tra l'altro va notato che, contrariamente a quello che fino a pochi anni fa si usava, egli non nascose mai la sua appartenenza all'Ordine. E' nota la battuta che ebbe luogo a Montecitorio fra lui e l'on. De Cesare, a proposito della discussione sul Liceo-ginnasio Mondragone, gestito dai gesuiti, nella tornata del 6 febbraio 1899: BOVIO: “...Vi so dire, signori miei, che distinzione fra gesuita antico e gesuita moderno, come la voleva il Gioberti, non esiste. Dacché nacque fino ad oggi, il gesuita fu sempre gesuita! - DE CESARE: Come il massone fu sempre massone. - BOVIO: Se il gesuita è l'antimassone, potrei dirvi che colui che odia il massone è gesuita. Non vi voglio fare questo complimento”. 

«L'ingresso in Massoneria, che secondo il Labriola, significava l'ingresso nell'Anti-Chiesa e nell'Anti-Stato “sacramentale”, rispondeva all'istanza più profonda del pensatore che era quella della “necessità pratica di ricondurre il pensiero alla massa... Perché la massa giunga al pensiero, bisogna che si contrapponga al pensiero tradizionale, consacrato nelle istituzioni di dominio... Si tratta di demolire questa autorità in nome della ragione. Bovio è un razionalista, senza che nemmeno lo sappia, senza che nemmeno lo voglia. La ragione è per lui la misura di tutte le cose. In questo senso egli resta nel circolo mentale del secolo XVIII e, nel motivo ispiratore, non è lontano dall'Enciclopedia e dall'Illuminismo... “Questo collegamento della Massoneria all'Illuminismo inchiodò l'Ordine in posizioni spirituali e dottrinali superate dai tempi, e l'Inchiesta realizzata dai Nazionalisti dell'Idea Nazionale, nel 1913 lo dimostrò a livello nazionale. In Bovio questa antinomia si verificò in pieno, e in questo c'è una ulteriore dimostrazione della sua autenticità spirituale. Il Labriola la metteva in evidenza con la sua consueta perspicacia: 

«“Il suo attaccamento massonico metteva Giovanni Bovio nella impossibilità di seguire le più vive e fresche correnti del pensiero contemporaneo, quelle correnti nelle quali si idealifica la vita morale della nostra società. Egli non riuscì mai a varcare il ponticello che lo separava dal socialismo e gli furono estranee le anticipazioni del modernismo. Dove il senso imperialistico, le nuove correnti nazionalistiche esprimevano la sovversione operatasi nel campo del pensiero... egli non vide che torbidi appetiti di conquista, il putrido fermento di ideali in decomposizione...

«“In questo senso rimase estraneo al movimento ideale dei tempi suoi, sopravvissuto a se stesso e a loro... Uomo meraviglioso, con attitudini singolarissime, incontaminate di vista e di pensiero, egli sarebbe stato una delle maggiori forze della nuova Italia, se l'essersi chiuso precocemente in un sistema non lo avesse separato dalla vita dei tempi suoi”.

«In realtà Bovio cercò nella Massoneria, come giustamente osserva un suo critico molto più recente e ottimista, l'organo promozionale dell'interpretazione umanistica della storia e del cosmopolitismo pacifista. Il Ventura scrive a questo proposito: “G. Bovio, appunto perché intimamente e profondamente massone, fu un grande umanista, perché Massoneria ed Umanesimo sono tutt'uno... e come massone ed umanista professò il naturalismo ch'è base dell'umanesimo, e poté considerare con spirito realistico la evoluzione dei tempi ed avvertire i principi informatori della modernità, e cioè la liberazione e redenzione delle plebi, la costituzione delle nazioni entro i termini naturali, la federazione internazionale in un patto comune”.

«L'ambito massonico e la lontana matrice latitudinaria e illuminista, rafforzavano inoltre il suo netto e formale rigetto del soprannaturale, per restringere nell'immanenza della storia l'avvento della giustizia e dell'umanità, all'insegna dell'apoftegma “Homo res sacra homini”: «“[La sua Massoneria] fu quella originaria, fatta e vivente di naturalismo e di pensiero essenzialmente umanistico, aborrente dal soprannaturale, dal soprasensibile, dal mistero di un aldilà, e quindi antidommatica e contraria non alla sola Chiesa Cattolica... ma a tutte le Chiese”».

Così Esposito ancora citando Labriola e il Tommaso Ventura de Il massonismo di Bovio, AGB.

Don Esposito in “Santi e massoni al servizio dell’uomo”

Bovio costituisce indubbiamente uno dei soggetti più interessanti della saggistica massonica del paolino don Rosario F. Esposito (storico che, come è noto, partì con i suoi studi da posizioni avverse alla Massoneria per farsene, strada facendo, conquistare moralmente, tanto da concludere la sua vita coraggiosa – per quanto ne ho letto – come Gran Maestro onorario della Comunione di Palazzo Vitelleschi. Fui in corrispondenza con lui e posso dare testimonianza del suo coraggio intellettuale). 

Nel bellissimo e documentatissimo Santi e massoni al servizio dell’uomo. Vite parallele, Livorno, Bastogi, 1992, egli insiste a qualificare la “santità” laica del filosofo massone. Ad illuminare la cui personalità presento, qui di seguito, alcuni brevi estratti del lungo saggio, sufficienti però anche a rivelare il giudizio dell’autore.

«La necessità della distinzione non ci abbandona in nessun'epoca, in nessuna nazione, in nessuna Comunione iniziatica. Negli anni dello strapotere massonico italiano (1880-1918, all'ingrosso) si verificarono coesistenze per giudicare le quali occorre una riflessione molto attenta. Il G.M. Adriano Lemmi non cessò di animare il confronto muro contro muro, Massoneria contro Chiesa, ed a postulare la conquista di tutte le leve del potere a Palazzo Giustiniani; un suo contemporaneo, Giovanni Bovio, fu esattamente il rovescio della medaglia Intransigente anticlericale, non esitò in Parlamento a postulare provvedimenti a favore del clero povero; visse in austerità e povertà assolute, intemerato e incorruttibile in un'Italia umbertina in cui trionfava l'arrembaggio politico e la corruzione più sfrenata; alla sua morte la vedova dovette ricorrere a un prestito per pagare il pur semplicissimo funerale».

«Non è difficile reperire nella produzione e nel pensiero di Patini [importante pittore campano di formazione garibaldina e massonica, autore di tele recanti soggetti religiosi ma discretamente ispirati dalla “religiosità” della Libera Muratoria, nda] tracce dei fermenti iniziatici più suggestivi operanti nella Napoli post-unitaria. Tra essi […] il più evidente è forse quello di Giovanni Bovio, personaggio leader del laicismo nazionale dell'epoca sia per il pensiero vulcanico ed anarchico che per la vita intemerata e incorruttibile […]. Nei diversi tentativi e capolavori nei quali Patini s'accostò al Cristo è dunque possibile intravedere una traccia della presenza solo di voce e non di persona (tanto era il rispetto nutrito per l'Uomo-Dio) di Gesù nel Cristo alla festa di Purim di Giovanni Bovio. E’ un Cristo che predica e realizza perdono e misericordia, a costo di sovvertire l'antica legge, e che flagella la falsa giustizia e l'ipocrisia dei farisei; non vi manca certo un intento polemico nei confronti dell'autorità religiosa e del clero circostante. Patini condivise per intero questo messaggio, che è presente anche nella altre opere boviane, soprattutto nel dramma San Paolo».


E così nel paragrafo intitolato “L'intransigenza di Giovanni Bovio”, rivelatore di un’umanità complessa e tutta ancora da esplorare ma che, io credo, ben s’inquadra nelle rigidezze del secolo e nella reazione laica alla permanente ostilità pontificia (e della Chiesa italiana tutta) allo Stato unitario informato ormai ad ordinamenti liberali:

«In ben più spirabil aere ci porta il discorso su Giovanni Bovio, un radicale d'estrema sinistra, notoriamente iscritto alla Massoneria...nella quale ha rivestito alte cariche, aspramente avverso alla Chiesa ed al clero dalla cattedra universitaria, dal giornalismo, dal teatro, dalle numerose e sempre rispettabili opere, dal seggio di Montecitorio e dagli innumerevoli comizi. Nel contempo il filosofo di Trani rimane ancorato invincibilmente ai principi dell'onestà e della dirittura morale, alla disponibilità alla tolleranza ed al perdono, all'incorruttibilità anche quando gli si presentano le occasioni più vantaggiose, nelle quali nemmeno si sarebbe potuto forse parlare di una vera e propria prevaricazione. Non è fuori luogo affermare che Bovio segna la vetta massima della santità laicista, pur se nei confronti del Cattolicesimo mantiene un'intransigenza che non ammette deroghe.

«Purtroppo fino a questo momento gli archivi pompeiani tacciono completamente sui rapporti fra [Bartolo] Longo [beato della Chiesa cattolica, fu il fondatore del santuario di Pompei dopo la sua conversione dalle posizioni razionaliste e anticlericali, nda] e il Bovio. Da alcune testimonianze da noi raccolte a Latiano, apprendiamo che più volte il filosofo pugliese visitò Bartolo Longo, e che queste visite, sulle quali tuttavia non possediamo testimonianze documentarie, erano salutate da molte bandierine che gli orfani sventolavano in suo onore. Don Giambattista Allaria afferma esplicitamente che don Bartolo "ebbe corrispondenza" con diversi uomini politici, che elenca così: Zanardelli, Bovio, Bonghi, Summonte, Rondini (sic. per Rudinì), Crispi (dal quale ebbe le ferrovie, le guardie ed altri vantaggi), Nicola Amore, ecc.". 

«Gli atti del processo di beatificazione ricordano comunque una sola visita del Bovio a Pompei il Can Eduardo Alberto Fabozzi ne parla in termini molto sobri. Di tutto si serviva per accendere anche negli animi più ribelli la fede.

«Un giorno venne a Pompei il maggiore rappresentante dell'anticlericalismo meridionale, Giovanni Bovio Bartolo Longo lo accompagnò a visitare le Opere di Beneficenza Poi disse: "Entriamo un momento nel Santuario, voglio farvi sentire come cantano le Orfanelle". Era stato già da lui disposto per un canto dolcissimo, ad un tratto Giovanni Bovio si alzò in piedi e disse: "Qui in questo Santuario non voglio rimanere un altro istante solo. Mi sono accorto che voi Don Bortolo la sapete lunga, troppo lunga".

«Il Frasconi offre qualche dettaglio che con ogni probabilità apprese direttamente dal Beato o da persone che erano state testimoni della visita del Bovio: "Dopo essersi trattenuto nelle sale del lavoro tra gli orfani della legge, si soffermo davanti al Quadro prodigioso ed è investito dalle voci delle orfanelle che provengono di lassù dalla cantoria, trema, sta per piegarsi, reagisce precipitoso, esige: Don Bartolo, usciamo subito, se no devo inginocchiarmi". L'Auletta annota che, seduti in chiesa, Bovio accavallò le gambe come si fa a teatro, allorché il canto delle orfanelle cominciò, ma poi la commozione Io vinse, e pregò don Bartolo di condurlo fuori. Sull'album dei visitatori scrisse: "Venni per studiare ed ammirare - Giovanni Bovio". Sembra a noi che il dialogo fra Bartolo Longo e Bovio raggiunga qui una vetta veramente molto elevata. I valori comuni al Cristianesimo ed al laicismo, messi in opera dal Beato, sono di alta classe: il lavoro, la redenzione degli infelici e tanto più dei carcerati, l'educazione degli orfani, l'alfabetizzazione e l'incivilimento delle popolazioni rurali costituiscono una delle strutture portanti del massonismo, e persino la Massoneria italiana, che in quei decenni è sovente lontana dall'autenticità, perché impegnata in polemiche politiche e religiose, è chiaramente sensibile a tali valori, e li porta innanzi con frequenza e con successo. E’ mia opinione che la stessa dirittura morale e un iperbolico senso della coerenza abbiano impedito a Bovio di arrendersi all'Eterno femminino goethiano, che a Pompei si manifestava in termini tanto gloriosi e tanto pietosi verso l'umanità meno fortunata. Ma là dove non giunse il segno esteriore, non è forse possibile che sia giunta l’illuminazione interiore, e l’accettazione del richiamo mariano nell’intimità?».

Don Esposito in “Le buone opere dei laicisti degli anticlericali e dei framassoni”

Scrive don Esposito nel suo anticipatore studio del 1970 (edito dalle edizioni SanPaolo, che successivamente si sarebbero mostrate, in un eccesso di prudenza che lo stesso don Esposito mi confidò in una lettera ormai lontana nel tempo, piuttosto ingrate verso il religioso pur appartenente alla medesima Famiglia congregazionale): 

«Perdòno delle offese e dedizione alla causa fino al sacrificio s'incrociano nella polemica fra Giovanni Bovio e coloro che gli apparivano troppo condiscendenti con la Chiesa; egli ha pronunciato nei confronti di essa una condanna inappellabile e, ciò fatto, non intende mostrar debolezze di nessun genere, mostrandosi naturalmente molto più brutto di quanto non sia in realtà. I particolari del suo litigio con un sacerdote che l'aveva attaccato troppo aspramente li narriamo nel capitolo sulla carità dei laicisti. Qui ci preme riferire l'interpretazione ch'egli stesso dà dell'episodio nella prefazione all'atto unico il Millennio, austeramente intitolata "Agl'Italiani, il XX Settembre":

«“Ecco: io apriva una lotta, e mi aspettavo o contrappasso, massime da gente che non perdona, verso uomo che rifiuta il perdono... Molte cose scritte erano invettive e non mi toccavano. Una volta mossi querela contro un prete, che subito si disdisse, ed io aprii la finestra e mandai fuori quella nottola. E che possono dire? Tra me e il Governo c'è quel po' di spazio che trae il Governo a proibire il mio pensiero, non potendolo sommettere a un tribunale di teologi come sommise il pensiero degli altri ai tribunali militari. Tra me e i chierici non ci sono mai state quelle transazioni che poi ho veduto tra chierici e massoni e radicali, a nessun fine pubblico e con molta prostrazione della coscienza umana. E ne' partiti ho fatto intendere che i miei studi e la vita mi davano il diritto di avere una opinione mia e il dovere di tenerla alta in faccia ad avversari e vicini. Chi teme in qualche occasione di restar solo non sarà mai, politicamente, un galantuomo...

«"Dalla Città di Dio alla Città Terrena era tutto un ciclo, un millennio, che pur bisogna delineare per vedere a che mena questa Città Terrena, che alcuni fanno cominciare da Petrarca, e qui si fa cominciare con Dante. Questo famoso regnum hominis, di cui costruttore è l'uomo, a che mena? Ci farà più infelici con più ardenti e più sterili illusioni, o ci guiderà a rivendicazioni che in parte acquetino le tendenze e i sentimenti dell'uomo moderno?...».

«In effetti l'intera vita di Bovio, a parte la sua posa ereticale che solo raramente riesce ad uscire dal seminato cristiano, costituisce uno dei più felici tentativi ottocenteschi di coniugazione dell'ideale classico con quello evangelico. La formula del non potersi non dir cristiani fu teorizzata da Croce, ma fu vissuta, giorno dietro giorno, da Bovio. Egli è come l'ape che per quanti sforzi faccia, non riesce ad allontanarsi dal fiore; che per lui è la Bibbia e la Divina Commedia. Realizza un cristianesimo straordinariamente anticlericale, e perciò sovente umiliato dalla fretta e dalla sommarietà di giudizio, ma è un Cristianesimo affascinante».


«Dovendo scrivere un motto che racchiudesse in breve lo spazio la sintesi della sua propria vita, Giovanni Bovio – una delle più pure figure del massonismo ottocentesco, e uno degli anticlericali più irriducibili – scrisse questi quattro versi: "A te non oro, a te non il divino – riso dei campi e il sole: a te la lieve – luce d’una stanzetta ed il pan breve – TE STESSO A TE: così disse il Destino (Corso Bovio, G. Bovio nella vita intima, Milano, sd p. 3)».

«Concludiamo con un caso che potrebb'essere intitolato “Gli scherzi di Dio nel mondo”. Presentarono un giorno a Giovanni Bovio un articolo d'un giornale cattolico napoletano; a quei tempi non si facevano complimenti né dall'una parte né dall'altra, ma in quel caso l'autore aveva passato i limiti, raggiungendo la calunnia e l'offesa personale. Bovio fu obbligato a sporgere querela, e lo scrittore si rese subito conto che stava per andare incontro a sicura condanna. Una sera questo giornalista si presentò in casa del più puro massone ottocentesco: era “un vecchio prete zoppicante e male in arnese... Il carcere... egli ripeteva ogni tanto con le labbra tremanti, rivoltando fra le mani il tricorno logoro e ingiallito...”. Presentò al deputato un foglio con la ritrattazione. Bovio gli rispose. “Questa carta offende la dignità umana non fatela vedere a nessuno. Rinunzio alla querela e rinunzio alla dichiarazione. La dichiarazione la porto nella mia coscienza”.

«Secondo atto. Bovio è in fin di vita E' stato operato più volte all'addome, ed ormai la morte è questione di ore [invece egli recupererà, e la morte verrà sette anni dopo, nda]. I figli aprono il testamento e leggono le sue ultime volontà: “Napoli, 29 gennaio 1896. Caro Corso, serba questo scritto gelosamente. Dovendo, un giorno o l’altro, come tutti gli uomini, morire, commetto a te l’incarico di fare eseguire la mia volontà. Voglio esser portato al cimitero senza preti, senza seguito o pompa. Mi farai mettere sul carro comune. Non voglio discorsi necrologici e se morto deputato questa mia volontà indicherai al presidente della Camera. Voglio la fossa comune…”.

«Il figlio tenne strenuamente fede alle consegne ricevute, per quanto il popolo abbia poi partecipato in massa ai funerali. Ma c’era un prete che partecipava ai funerali, e con pieno accoglimento da parte dei familiari, era il prete che aveva sperimentato il perdono cristiano di Bovio. e questo prete zoppicante “restò ultimo fra tutti, sotto la pioggia, fino a che il feretro non fu scomparso dietro il Cimitero”. La carità ed il perdono fanno miracoli c’è poco da discutere.

«Scrive l’apostolo Giovanni, l’agiografo più caro ai massoni riuniti in loggia: “Nell’amore non c’è timore, anzi il perfetto amore scaccia ogni timore, perché il timore suppone il castigo, e colui che teme, non è perfetto nell’amore. Quanto a noi, abbiamo questo amore, perché Dio per primo ci ha amati. Se uno dicesse: Io amo Dio, e odia il prossimo, egli è un bugiardo; chi non ama il prossimo che vede, non può amare Dio che non vede…”».


Fonte: Gianfranco Murtas
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Pasquino Lepori

11 Lug 2020

Purtroppo va aggiunta un'ulteriore vergogna all'infamia: l'imbecille spiritato non è un "grembiulino" qualunque, ma un maestro venerabile in carica, che per primo dovrebbe, il condizionale in questo caso è scempio, difendere l'onore dell'Ordine al quale appartiene. Ma che, nell'ignominioso silenzio dell'oriente cagliaritano, invece, infanga.


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