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Gianfranco Murtas

Cagliari e Villacidro, nell'anno di Alziator e Dessì. E di fra Nicola vicario di Domineddio

Dedicato ad Angelo Pittau, Efisio Cadoni, Marco Sardu e Sergio Curatti

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Di Gianfranco Murtas 


La città dei 56.124 abitanti (il 1° gennaio). La città dei quattro quartieri d'impianto medievale più i due sobborghi verso nord (Sant'Avendrace) e verso sud (San Bartolomeo). La città che giusto da vent'anni è amministrata, fra alti e bassi, dai bacareddiani. Cagliari nel 1909, anno di passaggio, senza nobiltà d'orme lasciate per la storia avvenire, ma pure con una sua originale, irripetibile particolarità nel corso ininterrotto del tempo che disegna la storia degli uomini, la storia anche d'un microcosmo urbano. Questa Cagliari è la città che accoglie — l'uno a marzo e l'altro ad agosto — due nuovi nati che ne sapranno raccontare, con singolare sapienza letteraria, umori e vicende del tempo antico e di quello attuale: Francesco Alziator e Giuseppe Dessì.

Nella politica nazionale riluce la stella di Giovanni Giolitti e nell'Isola quella di Francesco Cocco Ortu, sua eccellenza gialla, come lo chiamerà, con scherno, Sebastiano Satta in una delle sue "Ichnusie" socialisteggianti, nei Canti Barbaricini la cui raccolta è proprio di questi anni ultimi del primo decennio del secolo: «E in dolce vassallaggio / A Sua Eccellenza Gialla / Questo dono è dovuto».

L'eccellenza gialla incombe sugli interessi di Cagliari (benché eletto nel collegio di Isili). La sua influenza arriva ovunque, tranne che alla Camera del lavoro di via Cavour. Arriva direttamente sulla Camera di commercio, a palazzo Devoto; sull'Unione Sarda, che ha redazione in viale Regina Margherita (d'altra parte il giornale è nato coccortiano, giusto vent'anni prima, quando si voleva dar disturbo alla "casa nuova" di Ottone Bacaredda); sui sodalizi culturali, patriottici — come è ad esempio la Fratellanza militare, che lo nomina proprio socio ad honorem – e perfino sportivi — basti pensare all'Arborea ed alla sua creatura sociale detta del Ricreatorio popolare —; ed in via mediata su ambienti della magistratura, accademici, bancari e perfino clericali (che hanno digerito benissimo la sua remota proposta di legge divorzista). Per non dire, naturalmente, delle società d'interesse, soprattutto agrario, fra consorzi, cooperative, cattedre ambulanti, casse rurali, ecc.

Una presenza che si sente. E desta odi non meno che amori, devozioni non meno che ostilità. «Il terribile spaccamontagne che scende in campo ogni domenica roteando la durlindana nel numero di ieri è stato addirittura spietato. Dopo aver ammazzato l'imperatore di Russia, il ministro Cocco Ortu ed il presidente della Camera on. Marcora – scrive sarcastico il clericale Corriere dell'Isola in difesa del ministro liberale e contro il fronte che assiepa i radicali e gli esponenti della Camera del lavoro — con quattro piattonate ben assestate ha trucidato anche... il conte palatino. Stamattina entrando in ufficio lo abbiamo trovato esangue [ ... ]. Al povero Cocco Ortu non rimane altro difensore che Jago Siotto il quale come partigiano dell'istituto del duello venderà cara la sua vita, ma prima o poi anche lui dovrà soccombere contro l'invincibile avversario. Allora solo la Sardegna sarà rigenerata e il ministro dell'Agricoltura sarà costretto a rifugiarsi nel suo castello di Sestu, ultimo baluardo della tirannide massonico-clericale, a coltivar le carote che non ha saputo prosperare nei campi dell'Italia ufficiale. La storia dell'umanità avrà una nuova pagina e al trionfatore gli habitués di Campo dei Fiori erigeranno ai piedi di Giordano Bruno un monumentino con le più belle varietà dei loro cavoli e delle loro rape». 

È stato guardasigilli con Zanardelli, Francesco Cocco Ortu. E sarà infatti proprio lui a commemorare l'antico presidente del Consiglio della sinistra liberale, a Brescia, nel settembre 1909, alla presenza del giovane re Vittorio Emanuele III. «Uomo di parte e capitano autorevole di gare civili senti la passione che procede da convincimenti e da fedi, non l'odio che è generato dall'impotenza e dall'invidia», dice, e forse pensa a sé, fatto della stessa sostanza morale, quale che sia il giudizio dell'opposizione, costituzionale o popolare poco importa. Si sente, ed è, statista: politico che pensa ed opera, legislativamente, in grande, anche se la traduzione di quel pensiero e di quella capacità nella misura dell'amministrazione locale talvolta pare contraddittoria, legata ad interessi costituiti, forti, di classe. 

È stato per tre anni e mezzo, con Giolitti presidente, ministro dell'economia, titolare del superdicastero di Agricoltura, Industria e Commercio (che ha competenze ramificate in ogni settore della pubblica amministrazione, fino al credito). Il riformismo giolittiano viene messo in crisi, a Montecitorio, nell'autunno del 1909, per cedere il posto alla destra sonniniana. E anche il riformismo coccortiano, che è cosa reale – basti pensare alla legislazione speciale per la Sardegna del 1907 – per qualche tempo entra nelle parentesi parlamentari. «Mi limiterò a dirle che me ne torno al mio studio di avvocato con la convinzione di non aver perduto il mio tempo nella contemplazione beatifica del mio io; pago se da altri potranno essere fatte approvare le leggi per l'Ispettorato del lavoro, per la Cassa di Maternità, per i collegi dei Probiviri, pei contratti di lavoro che furono ripresentate da me, insieme ad altre, nella legislatura presente», confida ad un giornalista della romana Tribuna, all'indomani della sua uscita dal governo. 

A proposito di politica parlamentare e, prima ancora, elettorale. A marzo, quando si è trattato di rinnovare la Camera, un gruppo di letterati nuoresi ha lanciato il nome di Grazia Deledda come possibile candidata del collegio barbaricino, in opposizione all'uscente on. Are che a Montecitorio ha votato contro il riconoscimento del diritto di elettorato attivo alle donne.

L'autrice di Canne al vento prima candidata donna in Italia. Fuori da ogni ufficialità, peraltro non richiesta, e senza un giorno di campagna elettorale, sul nome della scrittrice si riversano 34 voti, di cui però 31 vengono annullati. Perché? Perché le schede recano apprezzamenti che la legge non può apprezzare, del tipo «Grazia Deledda, fior di Sardegna», «Deledda, gloria di Nuoro», «Vogliamo in Parlamento Grazia Deledda, per protesta».

Lei assicura di non averne saputo niente fino al giorno successivo al voto, quando ha ricevuto un giornale sardo. «Credo che l'aspirazione da parte nostra di prender parte alla vita pubblica, certo in un tempo ancora molto lontano, non sia cosa senza alcun fondamento di possibilità. Occorre naturalmente che la donna italiana possa acquistare un grado di educazione che ancora non ha e, soprattutto, occorre che la società in cui viviamo ci prepari quelle condizioni di vita per cui la nostra partecipazione alla vita pubblica possa attuarsi», dice a un cronista del Corriere d'Italia recatosi al suo domicilio romano per averne un commento a caldo.

Ha coscienza, la Deledda, che l'ingresso femminile in diversi settori della vita sociale non è stato, finora, portato da una soggettività autonoma finalmente riconosciuta, ma soltanto come «strumento» di altre volontà: «Operaie, telegrafiste sono alla mercé della direttiva maschile... Gli uomini operai son liberi di scegliere il loro rappresentante dove più gli aggrada, o tra di loro, o nella persona, ad esempio, del loro padrone. Ed in questo è la superiorità della classe maschile e quindi il suo maggior diritto di fronte a noi donne. Alla classe femminile operaia, non corrisponde una classe direttiva ugualmente femminile. Dal ministero delle poste dipendono, ad esempio, centinaia di telegrafiste, ma non c'è ancora alcuna signora capo-sezione o capodivisione... Da noi – aggiunge la scrittrice – c'è solo il proletariato femminile; manca, o c'è in proporzioni scarse, trascurabili, l'aristocrazia femminile che guidi e rappresenti questo proletariato. Di qui la necessità di ricorrere all'uomo per essere rappresentato anche in Parlamento. Quando, poi, il numero delle donne che si possa degnamente rappresentare sarà aumentato, allora.., allora le cose cambieranno».

Andare a Montecitorio le piacerebbe, i figli ormai grandicelli non costituirebbero un problema: «... io potrei benissimo andare alla Camera». Né ella avvertirebbe come una deminutio lo sbarramento d'età, per le donne, ai 5O anni, onde non distrarle dalle cure familiari, benché avverta che sarebbe un male per la vita pubblica perdere l'apporto di chi esprime, proprio in ragione dell'età giovane, «energie» e «facoltà intellettive» nel «migliore sviluppo», tali da configurare «un'innegabile superiorità dominatrice sull'uomo».

Sono discorsi così, in libertà... La Deledda – 38 anni, due figli nati da un matrimonio felice – gode delle sue cose, oltre gli affetti: «i miei libri, il mio lavoro...». Ma se l'avessero eletta per davvero? «Oh, allora sarei andata alla Camera – risponde – ed avrei frequentato Montecitorio fino all'annullamento della mia elezione. Per curiosità, per studiare l'ambiente, per riprodurlo, per vedere a quattr'occhi questa politica. Dicono che sia tanto brutta vista da vicino...».

Insieme veramente si può. Radicali e socialisti, pur se sullo scenario nazionale hanno imboccato strade non sempre convergenti, cercano a livello locale un'intesa, prima di tutto elettorale, che porti ad un rinnovamento delle rappresentanze amministrative. Si parte dalla concretezza degli interessi economici e di classe del proletariato o dei ceti comunque dipendenti che si vogliono affrancare dai padrinati ministeriali. Anche se è vero che da parte delle categorie, compresa qualcuna di quelle più soffocate dalla precarietà, non manca la richiesta, perfino insistente, di sostegno alla propria causa rivolta ad uomini della destra liberale... Ad un Carboni Boy, neosottosegretario alle Finanze, ad esempio.

La stampa locale espone questi interessi, diventa la loro tribuna, getta un ponte cercando chi lo voglia, dalle centrali del potere, attraversare con risposte rassicuranti per lo status giuridico, per la stabilità del lavoro, per i livelli retributivi... Ecco così, nell'anno di grazia, L'Agricoltura Sarda, la creatura di Gustavo Lastrucci, già anima del Consorzio agrario cagliaritano, da lui stesso fondato con altri esperti incontrati nell'Isola ove, lui campano, l'ha indirizzato il Banco di Napoli del quale è dipendente; ecco L'Avvenire, portavoce in via diretta dei ferrovieri (gemmati, per senso corporativo, dalla Camera del lavoro) e, più genericamente, delle istanze delle «classi operaie», ma con un certo distacco dalle contese del presente («L'interesse di classe non ci deve permettere, e non ci permette infatti, di immischiarci nel viavai della politica cittadina...»); ecco La Giurisprudenza, raccolta critica delle sentenze di tribunale e corti superiori (che avrà vita relativamente lunga, dal 1908 al 1919); ecco il numero unico Pro riposo festivo, di rinforzo alla causa dei lavoratori organizzati in leghe, che giustamente la spunteranno anche se poi l'attuazione della legge garantista non sarà senza ostacoli; ecco La Quistione dell'acqua («Giornale d'interessi cittadini», anch'esso con una sola apparizione), che cerca di ottenere una rettifica ai nuovi regolamenti per le aziende acqua e gas gravemente penalizzanti i proprietari di case, appena votati dal Consiglio comunale (ma una volta con appena 14 presenti, la seconda volta con 17!)...

D'estate cerca di unificare i sentimenti dei destri e dei sinistri un «giornale faceto», come esso stesso si definisce: Come canti ben! segue una lunga tradizione di pubblicistica umoristica, di spinta goliardica ma non solo, senza peraltro riuscire ad onorarla al meglio. «Io faccio il giornalista / per inculcar la fè / e faccio il penalista / per far quattrini affè. / Non faccio il deputato / perché ambizion non ho, / ma certo il deputato / in casa mia restò», è il «Couplets di Barbabieu» evidentemente dedicato al conte palatino Enrico Sanjust, avvocato di grido e direttore del Corriere dell'Isola...


La politica, la stampa e la Chiesa

I quotidiani si dividono la piazza moderata, quella liberale L'Unione Sarda, quella clericale appunto Il Corriere dell'Isola. Alla sinistra rimangono i periodici e qualche numero unico.

I radicali di Umberto Cao puntano sul Paese, la medesima testata del quotidiano che fra il 1905 ed il 1907 lo stesso Cao, che ne era il proprietario oltre che il direttore, aveva brandito contro Ottone Bacaredda e la sua politica amministrativa: laicista, antiministeriale, bloccardo, il settimanale (la cui redazione è al civico 2 bis della via Spano) esce da maggio, dall'indomani, può dirsi, della sconfitta elettorale nel turno che ha visto il trionfo sicuro del liberal-costituzionale (e clericale) Edmondo Sanjust cli Teulada (anch'egli sostenuto, oltre che naturalmente dal Corriere, da un foglio uscito per l'occasione: Il Fascio Liberale). L'ha preceduto, in aperto e sfortunato appoggio dell'avversaria candidatura progressista di Cao, il numero unico Il Blocco Popolare, stampato dai Comitato elettorale popolare che ha preso sede proprio nel locale che aveva ospitato la sezione repubblicana nella lunga stagione dei suoi bollori giacobini, della sua estasi bruniana, al piano terra del civico 6 di via Sant'Eulalia.

E i socialisti? Dal luglio 1908 esce, con cadenza settimanale, La Forza Proletaria, confezionato presso la Camera del lavoro dai giovani della sezione, tutti anticlericali, tutti antimilitaristi, tutti antigovernativi. Così fino ad aprile. Dopo pochi mesi di silenzio ecco quindi affacciarsi, da ottobre, una nuova testata che fonde anch'essa gli interessi sindacali propri delle leghe associati alla Camera del lavoro a quelli politico-elettorali del Partito Socialista: è La Voce del Popolo, che reca come sottotitolo «Organo della classe lavoratrice sarda».

Riparato in Corsica, non c'è Efisio Orano fra i 47 amnistiati politici, che il re Savoia ha fatto uscire di carcere a febbraio. Hanno recuperato la libertà i condannati per vari reati commessi durante scioperi o moti popolari (contro-libertà del lavoro, esercizio arbitrario ed usurpazione, istigazione a delinquere, associazione a scopo sedizioso, violenza privata, minaccia o danneggiamento, resistenza semplice all'autorità ed oltraggio)... È concesso il condono di un anno sulle pene inflitte o da infliggersi per reati – recita il dispositivo all'art. 3 – di istigazione a delinquere ed apologia di reati commessi a mezzo della stampa e di insurrezione armata contro i poteri dello Stato. Sono condonate le pene a detenzione non superiori ai 6 mesi e di altrettanto tempo ridotte quelle superiori inflitte o da infliggersi per reati commessi in occasione di scioperi o moti popolari, ecc. ecc.

Qualcuno, come Giovanni Ferraris, condannato a 5 anni, un mese e 10 giorni per i fatti del maggio 1906 (proprio ora rievocati da Ottone Bacaredda in un volume dal significativo titolo di L'Ottantanove cagliaritano) s'è visto dimezzare la pena dalla sovrana clemenza del decreto. Torna perciò in libertà, ma per essere comunque vigilato speciale non trova nessuno che sia disposto ad offrirgli un lavoro neppure di facchinaggio... Umberto Cao segnala il caso all'opinione pubblica e alle autorità del Tribunale, ma senza risultato. Eppure a Cagliari esisteva, un tempo, una società per il patronato dei liberati dal carcere...

Un caso è anche Efisio Orano, cui Sebastiano Satta ha dedicato i versi della sua più veemente "Ichnusia": «No, tu non hai paura / Della loro galera. / Essi vanno nell'ombra della sera / Tra larve e mostri, e tu guardi all'aurora...». Egli è nel gruppo dei profughi sardi che in autunno sono stati espulsi dalla Corsica. Domenica 26 novembre, movendo dalla via Roma, alcune centinaia di persone sono salite fino alla piazza Yenne dove Augusto Dragoni, della sezione socialista, ha illustrato il seguente ordine del giorno: «La cittadinanza cagliaritana riunita a pubblico comizio, mentre plaude all'iniziativa del giornale La Voce del Popolo tendente ad ottenere la liberazione del concittadino avv. Efisio Orano il quale per i suoi atti compiuti durante le dolorose agitazioni del maggio 1906 è meritevole della stima dei suoi concittadini; ritenuto ad ogni modo che il lungo esiglio ed i patimenti incontrati dallo stesso avv. Efisio Orano sono sufficiente espiazione alle pretese sue colpe ritenuto che nell'amministrazione della giustizia deve prevalere anche il sentimento di umanità; invoca da S.E. il ministro di Grazia e giustizia un provvedimento che ridoni alla famiglia, alla cittadinanza cagliaritana, all'esercizio della sua professione l'avv. Efisio Orano. Fa voti inoltre che tutti i deputati della Sardegna e delle altre regioni italiane contribuiscano per la riuscita di quest'opera».

Episodio che il quotidiano clericale propone in chiave assolutamente riduttiva: «[Il corteo] mosse da via Roma preceduto da una quindicina di minorenni – avanguardia di tutte le dimostrazioni – e composto da una bandiera rossa, dal prof. Fasola, dal delegato Ferrari, da Dragoni, Valli, Branca, da una ventina di guardie e una decina di operai. E non potea riuscire più ordinato di così».

Anche la Chiesa ha il suo organo di stampa. Si chiama Il Monitore ufficiale dell'Episcopato sardo, e raccoglie i documenti emanati dalle varie curie diocesane dell'Isola. È singolarmente estranea ad ogni soffio evangelico, o di sobrietà evangelica, la vita ecclesiale della Sardegna e non solo, ancora sotto il pontificato di Pio X. I funzionari delle curie vescovili e, tanto spesso, gli stessi parroci delle collegiate – monsignori dotti e filettati - appaiono megafono passivo di voci spente alla profezia e ad una feconda pedagogia spirituale. I canoni giuridici e le devozioni sembrano soffocare ogni slancio verso la verità, ogni pulsione verso la scoperta del vero nella carità, che non può evidentemente prescindere da una autentica presa di coscienza del sé in rapporto alla Parola metastorica, liberatrice da ogni tabù chiesastico.

Quella che s'agita attorno ai campanili nell'anno di grazia è, molto spesso, storia di carte da bollo. Né tutte sono, invero, cause intentate per la conservazione del privilegio... La congregazione del SS. Sacramento che fa capo alla prestigiosa parrocchia di Sant'Eulalia ha in corso una procedura per il mantenimento degli inabili al lavoro; così, nanti la Giunta provinciale amministrativa – che ha sede in Prefettura –, il Capitolo metropolitano il quale contesta il declassamento, nel bilancio comunale, delle spese di culto da obbligatorie a facoltative...

D'altra parte va detto che il disinteresse del Municipio perfino per l'ordinaria manutenzione degli edifici sacri, così carichi di storia e prestigio, si appalesa in sé come una provocazione, offesa (al di là forse delle intenzioni) al comune sentimento religioso della città. In grave crisi è il fabbricato della stessa cattedrale: piove dentro il battistero e la cappella di Santa Barbara, danneggiando l'intonaco che si sfarina e compromettendo la solidità degli archi più prossimi...

Sì, i teatri sono affollati, e le piazze anche, per gustare commedie e pellicole, applaudire il varietà ed i concerti. Anche quelli che al Corso suole tenere, ogni settimana, la banda militare. Il 46° reggimento fanteria ha sostituito, a metà settembre, il glorioso 58°, distanza a Cagliari già da quasi un lustro. E s'è fatto subito conoscere per questa sua attività di complemento. Avendo vacanti due posti nel suo organico musicale ha bandito un concorso per il rapido rimpiazzo. Servono strumentisti a fiato esperti di flicorno soprano, clarinetto soprano, tromba fa e mi bemolle, flicorno basso, corno, cornetta, tromba si bemolle bassa, saxofono contralto, flicorno basso grave in fa, flauto...

La vita in città è vivace, nella misura ovviamente di una città di provincia, e anzi di una provincia nell'estrema periferia del regno. Sono vivaci le scuole – dove non mancano le agitazioni giovanili perfino contro le inadempienze del ministero nell'assegnazione tempestiva delle cattedre –, sono vivaci le società sportive che dalle scuole stesse attingono il grosso delle loro forze, sono vivaci i sodalizi di memoria patriottica e quelli che guardano al futuro dell'integrazione continentale ed ai rapporti internazionali, come il Filologico.

Certo la questione sociale è questione che bolle e fa soffrire molti. Il carovita e la disoccupazione di massa sono al limite di guardia. Anche se poi i segnali sono, come sovente capita, più nel chiaroscuro che nella sola ombra. Perché se è vero che – per dirne due soltanto prese dalla stampa di opposizione – alcuni proprietari di case hanno arbitrariamente aumentato le pigioni per poter recuperare la sovrimposta decretata dal Parlamento onde approvvigionarsi di fondi e soccorrere con quelli i terremotati di Messina e Reggio («gli aumenti sono esorbitanti, per i pianterreni due lire, per i piani superiori 5!», denuncia La Forza Proletaria), è anche vero l'ente autonomo delle case popolari ha finalmente iniziato ad operare. La data d'avvio dei lavori di sterramento nel campo Carreras, fra la parte terminale della via Garibaldi e gli stradoni per Pirri e per Quartu, è quella del 5 luglio...

Cagliari com'è, bella per volontà di natura, con le sue spiagge e le sue colline verdeggianti, e però anche al limite della vivibilità per i ritardi della politica e più ancora, forse, per il differenziale fra il passo rapido della modernità che incalza e quello sempre troppo lento dell'amministrazione, condizionato dalle astrattezze della burocrazia, dalle fisse gerarchie delle sedi decisionali, dalla sempre problematica disponibilità di fondi, ecc. Pur fra infinite contraddizioni, comunque, la città è entrata nell'orbita novecentista, dello sviluppo tecnologico ed industriale, anche nella sua applicazione all'agricoltura, e della coscienza della inevitabilità dei nuovi standard igienici e, in generale, di qualità della vita.


La cinepresa di Crawford Flitch

Molto è cambiato rispetto alla Cagliari descritta nel supplemento mensile illustrato del Secolo, nel novembre 1891, che pure era stato fin troppo generoso nelle sue descrizioni. Essa è certamente assai più somigliante a quella che si riflette nelle pagine del sobrio (e parziale) opuscolo compilato, nell'autunno del 1904, dagli amici milanesi del comm. Federico Johnson, che insieme col direttore generale del Touring club avevano compiuto un giro in automobile per l'Isola. Ed ancor più, direi, a quella che è rivelata da J.E. Crawford Flitch nel suo Mediterranean moods. Footnotes of travel in islands..., di recente ristampato sotto il titolo di Sardegna 1911. Sensazioni di un viaggio, che riverbera quanto di emotivo ha suscitato nello scrittore inglese la visita compiuta (probabilmente) nell'estate del 1910 anche in città.

«Nei viali della zona bassa, che riecheggiano il modello metropolitano, dove numerose sono le linee tranviarie, le file di pioppi e le panchine di ferro, Cagliari, in verità, presenta edifici dalle strutture metalliche che hanno un aspetto tanto borghese quanto più vorrebbero apparire aristocratici, come pure monumenti di illustri scomparsi che fedelmente perpetuano nel marmo la vuota retorica dei loro discorsi pubblici». È la prima immagine di una serie che saprà andare assai più in profondità all'anima autentica del centro urbano.

La Cagliari vera è, per Crawford Flitch, il Castello, da raggiungere arrampicandosi «nelle ripide scalette» ed inoltrandosi «negli oscuri portici»: «Qui le strade appaiono scavate come gole attraverso blocchi massicci di edifici: strade maleodoranti, strette ed oscure perfino nella luce di un meriggio d'agosto. Le case sono ammonticchiate piano su piano così che, quando dal marciapiedi volgi in alto lo sguardo, sembra che le loro sommità stiano soltanto ad una spanna dall'azzurro del cielo. Eppur, nonostante la loro imponente altezza, sono segnate dalla povertà».

Ed ecco qui le osservazioni più acute, che guardano all'umanità del rione e della città: «In queste lunghe viuzze senza sole, Cagliari riversa la sua vita brulicante. Qui ...j i poveri sconfiggono il taedium vitae rifugiandosi nell'interessata contemplazione dell'intimità altrui. In questo luogo l'era dell'innocenza è ancora immune da qualsiasi concetto moderno di decenza. Non si avverte che vi sono certi dettagli della persona o della toeletta che è opportuno tenere celati.

«Le stanze dei sottani, siano esse camere da letto o salottini – e di solito sono le due cose insieme – affacciano sulla strada e la strada affaccia in esse. Così, sei portato ad osservare minuziosamente il letto sempre sfatto ed i resti del pasto che non vengono mai sparecchiati. Tutte le faccende di casa – cucinare, fare il bucato, lavare di spazzola il pavimento, pelar patate, allattare i pargoli, rammendare la biancheria intima – sono cose che vengon eseguite in pubblico».

E ancora: «I bambini si trascinano sulla soglia di casa facendo stretta economia di abitini. Gli uomini dormono per terra e, negli intervalli del sonno, approvano o brontolano per il lavoro delle loro donne. Le questioni familiari, anche quelle di grande delicatezza, vengono discusse a voce alta e con stizza. Sembra che ogni famiglia si trovi nel travaglio di una crisi domestica e pare che i bambini si sentano trattenuti dal compiere chissà quali gravi misfatti soltanto dal terrore di rimbrotti minacciosi».

Le strade espongono all'aria «un'imponente quantità di biancheria, candida e stracciata»: lavarla «è una specie di passione sebbene, poi, nessuno ne indossi mai di pulita. Tutti vanno svestiti. Forse non c'è tempo per farlo [...]. Di certo, le strade sono il divertimento più grande che Cagliari possa offrire».

Non c'è – aggiunge lo scrittore – da sconcertarsi per «tutto questo squallore e questa disinvoltura di vita», e si deve prendere atto die «vi è qualcosa nell'atmosfera che sfugge all'indagine dei cinque sensi e tocca un nervo interiore col fremito di una scossa elettrica [...]. È la sorprendente visione improvvisa della base animale della vita sulla quale poggia ogni civiltà ma che la maggior parte delle civiltà ha più o meno tenuto celata». «Nelle strade di Cagliari mi trovai sorpreso da un più veemente scorrere della vita umana la cui origine si perde indefinitamente nel tempo. Provai l'impressione che i suoi abitanti fossero sfuggiti alla moderata influenza del diciannovesimo secolo, che maggiormente ha contribuito a dare ordine e render mansueta l'umanità più di quanto non abbiano fatto tutti gli altri secoli messi insieme. Quei cittadini hanno il comportamento di gente di un'età primitiva, quando lo spirito umano era ancora capace di avvertire una frenesia divina od una qualsiasi brutale stravaganza...».

L'interpretazione sociologica dell'umanità dei cagliaritani è, nel testo, evidentemente (e duramente) influenzata dalle categorie della letteratura (così come sarà per le descrizioni di D.H. Lawrence), ma può valere come specchio che racconta una parte della verità.

Gira in lungo e in largo – ma sempre all'interno del cerchio che pare a lui concentrare tutte le sedimentazioni della storia vissuta e tutti gli aspetti più autentici del carattere dei residenti –, Crawford Flitch, e ne conclude che «il fascino di Cagliari consiste nel fatto che facilmente te lo scordi. Tutte le città conservano un po' la natura della prigione ma nessuna, come Cagliari, offre tante possibilità di evasione. Con sottile aria di modestia, nasconde le proprie attrazioni e ti invita continuamente a guardare altrove […], viverci è come vivere sul fianco di una montagna, rinfrescato perpetuamente dall'esaltante contorno dello spazio».

Ecco il Bastione San Remy con la doppia scalinata che «sale fin sotto un arco trionfale e sbocca su una terrazza spaziosa dal pavimento liscio e sfavillante come quello di una sala da ballo», magari solennizzata, anzi no, ingentilita da alcuni robusti pini marittimi «che trasformano la piazza in un giardino […] sospeso fra cielo e terra. È un meraviglioso rifugio ombroso posto a mezz'aria, dove si può sostare seduti in una sorta di divino isolamento e da dove, con quasi regale distacco, si può dominare e contemplare l'universo».

Qui si riversa l'umanità più tenera di Cagliari, quel tanto di ragazzini che si allestiscono il terreno di gioco e di ragazzine che si muovono rivelando quasi «l'eccitazione di una danza». «Si tengono affettuosamente a braccetto, agitano i ventagli, lanciano uno sguardo assassino a chi passa loro accanto, smettono di sussurrarsi i loro improbabili segreti, quindi scoppiano in sommessi scrosci di risa pieni di importanza, d'intrigo e di rumorosa allegria. Vivono in un mondo assai più eccitante e misterioso di quello delle più adulte». «Non vi è occupazione più divertente, a Cagliari, che osservare questo amabile mondo in sedicesimo, così saggiamente sciocco, così seriamente irresponsabile...», commenta lo scrittore sempre più convinto della bontà letteraria della sua osservazione critica.

E i borghesi? Le classi di mezzo sono tutte quante clienti fisse dell'ombelico del mondo che è il ristorante di Palenzona sulla terrazza Umberto I. Questa borghesia «si veste di abiti vivaci ma senza pretese; il suo eloquio è discreto ma animato ed un certo influsso della dignità e della serenità della sera si compenetra nei suoi modi. Questi signori hanno raggiunto quella moda o atteggiamento dello spirito attraverso i quali […] si può giudicare se un popolo sia o meno civile; hanno, cioè, captato il sereno e piacevole possesso dell'attimo fuggente, il piacere del corpo e della mente che si può raggiungere anche senza la gratificazione dei sensi o l'eccitazione creata da divertimenti non proprio essenziali».

Ci sono poi i monumenti. Nessuno veramente grandioso, così come «nessuna degna di nota» sarebbe la pletora della «cinquantina» di chiese sorte o aggiustate al tempo in cui i gesuiti monopolizzarono – a detta di Crawford Flitch – «il cattivo gusto d'Europa»: «Questi hanno lasciato la loro impronta su Cagliari: nelle facciate sinuose, nei frontoni spezzati, negli obelischi egiziani, nelle colonne tortili e in tutta quella smania febbrile di ricerca dell'originalità che accompagna sempre l'ultima lotta perla vita di uno stile moribondo». E da qui partono le personalissime – discutibili ma certo provocatoriamente godibili – chiavi interpretative della storia dell'arte dello scrittore.

L'ultimo capitolo è dedicato alla Cagliari aristocratica che vive «in luoghi appartati ed alti», nel mezzo degli antichi edifici istituzionali, civili e religiosi, statali e locali, della città, ed alla Cagliari delle cosiddette appendici dove si son impiantate le attività mercantili ed industriali. Le torri del Leone (cioè di San Pancrazio) e dell'Elefante sono le «sentinelle immortali» che stanno a guardia della nobiltà castellana. I moli del carbone, i magazzini, le officine, il gasometro «ed altre orribili cose» caratterizzano i quartieri di mezza collina...

Conclusione: «Non penso proprio che Cagliari abbia una concezione della vita più piacevole di quella di Manchester ma non c'è dubbio che il suo aspetto sia più piacevole e di certo è riccamente dotata delle bellezze naturali della vita. Se qui le raffinatezze della civiltà – macchine da cucire, macchine da scrivere, apparecchi fotografici e cose simili – sono più costose, l'uomo della strada si consola pensando però che frutta e vino sono assai a buon mercato.

«Qui, per trovare il gusto del bello, è appena sufficiente gettare lo sguardo dall'alto delle mura ed ammirare quell'ordito di laguna, mare e montagna che, come un panorama dipinto, circonda la città [... ]. Non capita mai di camminare per la via senza vedere bambini che giocano o senza udire risate. In tarda mattina, monelli nudi [...j se ne stanno a guazzare nelle acque del porto. A sera, la luna nuova che si affaccia sul mare ed il riverbero rosso del sole sull'acqua degli stagni, offrono un trattenimento appagante alla folla paziente che riempie la piazza. Mezzanotte è da tempo passata prima che le note dell'ultima serenata tacciano... Questa è la fortuna della latitudine!».


Il teatro e le passeggiate, e il Partenone

È la Cagliari del mercato-partenone, la Cagliari dei cine-teatri-di via Roma, la Cagliari che ama la prosa del Politeama – quando gliela danno – ed concerti del Civico, e quelli delle bande che si esibiscono al Bastione od al Corso, la Cagliari delle due corali Verdi e delle filodrammatiche, delle società sportive che raggiungono posti d'eccellenza nei tornei nazionali – così l'Amsicora come l'Arborea – ed offrono il proprio talento a pro della causa dei terremotati di Calabria e Sicilia, o come la Rari Nantes che esordisce nell'anno anche con propositi di protezione civile in mare... La Cagliari delle molte manifestazioni patriottiche, senza però fisse nazionaliste, e anche delle infinite attività di culto attorno a santuari, parrocchiali e conventi... La città della dialettica ideologica mai rassegnata ma portatrice anche di un certo sano pragmatismo volto a dar soluzione ai problemi del momento... La città dei giovani, bisogna dirlo, perché i dati delle iscrizioni alle scuole di vario ordine e grado e più ancora quelli, netti e chiari, dell'ufficio anagrafe (che parlano di una media di 130 creature – più maschi che femmine – che vedono la luce ogni mese nelle case dei quattro quartieri più i due sobborghi) danno affidamento di una tendenza che si è ormai affermata e troverà conferme nell'imminente censimento. Esso quantificherà rispettivamente in 59.606 e 60.101 unità la popolazione legale e quella di fatto (e in 205.832 e 529.812 unità quella legale, rispettivamente, del circondario e della provincia). Con 20.000 residenti – per arrotondare le cifre – Villanova avrà la palma del quartiere più popoloso, seguito da Stampace con 16.000, Marina con 10.000 e Castello con 9. 000, Sant'Avendrace con 3.000 e San Bartolomeo con 1.600. Lo scarto fra nascite e decessi è, in ragione d'anno (i discorso vale per il 1909 ma anche per l'anno precedente e quello successivo), di circa 200 unità, e le nuove famiglie che si formano sono nell'ordine delle 350. Il futuro che s'annuncia è già solo in questi numeri.

La Cagliari capoluogo di circondario e di provincia, che ha proiezioni fino ad Oristano ed oltre, nell'entroterra mantiene un rapporto privilegiato, consolidato ormai da oltre mezzo secolo, con Villacidro, tanto da aver tratto da lì, per le proprie necessità, ben due rettori d'università e perfino un sindaco per l'amministrazione civica. Villacidro - la Norbio del dessiano Paese d'ombre – è quella che, superato il ciclo individuabile nel rispettabile notabilato dei Loru e dei Todde, e anche, se si vuole, dei Fulgheri, nel 1909 conosce già da un anno la sindacatura di Ignazio Cogotti, il parrocato di Giuseppe Ortu ed un fiorire letterario destinato a lasciare il segno. L'anno è anche quello della pubblicazione, per i tipi della premiata tipografia di Pietro Valdès, di un «volumetto elegante e civettuolo» (come lo segnala L'Unione Sarda) firmato da Bernardu De Linas, alias Luisicu Cadoni, traduttore in sardo campidanese di diverse favole di Esopo ed inventore di storie in versi dialettali con malcelato intento moraleggiante: Sa torrada a s'Ellcona, Comenti margiani iat perdiu sa coda, Su molenti e su meri, Su margiani, su molenti e su bei, Su margiani e s'axina, Su lioni e is topis, Su lioni, su mulu, su bestialu e su margiani, Su cani golosu, Sa coipira e sa formiga, Su lupu e s'angioni, Su serpenti, Is rundileddus e su zerpedderi, Sa craba e su molenti, Is ranas chi domandant unu attru rei....


E la provincia… Villacidro magica sopra tutto

«Villacidro è la mia patria. Ora che da tanto tempo ne vivo lontano, anche Cagliari partecipa di questo potere di attrazione che piega l'ago della mia bussola; ma ogni volta che la nostalgia mi riporta sui suoi bastioni, all'ombra delle sue torri, o lungo il viale di Buoncammino, spira, dentro la nostalgia, un'altra nostalgia, come un vento leggero leggero ma persistente che mi sospinge verso le mie montagne» – scriverà Giuseppe Dessì riportando la mente al tempo che fu.

«A Cagliari si andava per frequentare le scuole superiori, o per trattare gli affari. Mio nonno materno ci andava per comprare gli attrezzi agricoli e le macchine, per spedire i capi vaccini che venivano issati a bordo del postale con la gru legati per le corna. Il mio prozio Loru ci andava per insegnare diritto romano all'Università, un altro per difendere in tribunale i suoi clienti, mio padre per imbarcarsi e andare in guerra. D'estate le signore cagliaritane venivano in villeggiatura da noi e passeggiavano con i loro ombrellini delicati come campanule nei viali della giovane pineta di cui mio nonno andava orgoglioso. C'erano tra queste signore anche le nostre parenti cittadine, le quali, d'inverno, invitavano in città mia madre, ancora giovinetta, per la stagione dell'opera. Abitavano un appartamento che guarda, con i suoi balconi, l'ultimo tratto del Corso, dove allora si svolgeva il passeggio serale: signore in cappello piumato reggevano con la mano inguantata la lunga gonna, signori in bombetta con i baffi a spillo, ufficiali in calzoni azzurri e dolman stipavano il marciapiede di destra, giravano a passo lentissimo sfiorando il piedistallo della statua di Carlo Felice e tornavano nel Corso sul marciapiede di sinistra. Mia madre, dietro i vetri, spalla a spalla con le altre ragazze sue coetanee, cercava di distinguere mio padre, che se ne stava appoggiato alla lunga sciabola con la visiera sul naso davanti al Caffè Marini».

Anche Alziator ha lasciato pagine incantate di quella Cagliari del tempo che fu. Autobiografia trasfigurata, e perciò arricchita, dalla sua inesauribile creatività letteraria, certamente documento fascinoso di un'epoca. «Per le serate d'opera, – scrive ambientando la scena forse alla fine degli anni '10 – mia madre si affidava alla pettinatrice e le camicie ed i colli di mio padre non si stiravano a casa ed ero io che, assieme ad una delle donne, andavo a ritirarli dalla signora Antonietta, la stiratrice che aveva la casa addossata alle mura della Leona, proprio dinanzi a quel busto di Giordano Bruno che era stato eretto, per capriccio massonico, da gente che non sapeva chi fosse e che fu rimosso, per ripicca clericale, da gente che ne sapeva ancora meno. Solo i burini, forse, vedevano giusto in quel volto oscuro e tormentato, sotto l'ampio cappuccio di verderame e, credendolo un santo, si segnavano...».

L'anno si chiude a Cagliari, così come nelle parrocchiali di Santa Barbara o di San Sebastiano, a Villacidro ed Arbus, col canto trepido e necessario del "Te Deum". Esso s'era aperto con i lutti condivisi, in spirito di perfetta fraternità nazionale, per le migliaia di vittime seminate dal terremoto di Messina e Reggio. Collette s'erano aperte in ogni dove, nella città e nella provincia, per offrire un segno concreto di solidale partecipazione.

Sì, anche nella provincia. A gennaio, in un angolo della sua chiesa di Gesturi, colui che si sarebbe chiamato fra Nicola aveva assistito, silenzioso ma fervido, alla messa di trigesimo in suffragio di quelle vittime, celebrata in terno, con la collaborazione del vice parroco di Barumini, e con la presenza di tutti i consiglieri comunali, del maestro elementare e dell'ufficiale postale, insomma delle notabilità più rappresentative di un paese povero della povera campagna sarda.

Quel giovanotto che mette del suo nel coro spirituale della comunità, si prepara a chiedere di entrare in un convento dei cappuccini. L'esercizio è dei migliori: d'estate, per dirne una soltanto, si renderà protagonista di un episodio destinato a restare nella memoria di molti, ammansendo francescanamente un bue che ha appena incornato una creatura di soltanto pochi anni che ancora sta lì, penzoloni sul capo dell'animale, aspettando la salvezza. La città, come quella creatura, non ne ha ancora consapevolezza, ma sta maturando nel suo seno la necessità, l'urgenza di un protettore, vicario di Domineddio.





Fonte: Foto G. Dessì: fondazione Giuseppe Dessì; Foto Alziator: wikipedia - Articolo di Gianfranco Murtas
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