Cagliari nel 1870, il tricolore a Roma!
di Gianfranco Murtas
Nel capodanno del 2012 come Sardegna civile – quella degli studi e della pubblicistica storica, dell’università, dell’editoria e del dibattito pubblico orientato a profilare l’originalità culturale e politica della nostra Isola nel maggior contesto della nazione fattasi unitaria nel processo risorgimentale e repubblica dopo le male avventure della dittatura e della seconda guerra mondiale – perdemmo Tito Orrù. Egli era una delle personalità di primissimo livello del mondo culturale sardo, universalmente riconosciuto per affabilità e generosità nella relazione umana, per rigore di formazione e produzione scientifica, per fermezza dei postulati ideali ai quali fece sempre riferimento: al sardismo inteso come figlio degli indirizzi democratici italiani, quelli di Mazzini e Cattaneo e, direi, Garibaldi, al sardismo repubblicano che alla patria italiana donò nel tempo i suoi migliori: da Efisio Tola il martire di Chambery a Giorgio Asproni, da Giovanni Battista Tuveri a Pietro Paolo Siotto Elias, e poi anche Lussu e Mastino e Oggiano, e Giovanni Battista Melis…
Io ebbi molti e frequenti rapporti con lui, sia nella facoltà di Scienze Politiche che dopo, nel mondo variegato della pubblicistica e dell’associazionismo. Ci univano, nello scarto generazionale, gli ideali repubblicani e dell’autonomia speciale, quelli asproniani su tutto e tutti, ci univano gli amici comuni a cominciare dal compianto Bruno Josto Anedda, perduto all’età di soli 37 anni nel 1974, lui che era stato lo scopritore dell’inedito diario politico di Giorgio Asproni andato poi in stampa in sette corposi tomi a cura proprio di Tito Orrù e Carlino Sole.
Fu in una di quelle numerose occasioni di incontro e di “fabbrica” di possibili collaborazioni (anche nel suo Bollettino Bibliografico, così anche nella presentazione di libri nel capoluogo e altrove) che mi propose di svolgere, il 28 settembre 2010, una delle relazioni al convegno (precisamente definito “Incontro di testimonianza e di studio”) “1870/2010 – 140° XX Settembre Roma Capitale d’Italia e la fine del potere temporale dei papi. Nella Storia e nell’Attualità”.
Con il professore introdussero, recando brevi saluti, Marco Caocci – presidente della Società degli Operai nella cui sede di via XX Settembre ci riunimmo –, Idimo Corte (dell’Associazione Giorgio Asproni), Gianni Liguori (dell’associazione Cesare Pintus), Aldo Piras (del Centro Studi Genealogici e Tradizioni Popolari) e Gian Giorgio Saba (dell’Associazione Mazziniana Italiana). Intervenimmo, con comunicazioni tematiche, Aldo Borghesi, Mario Cugusi, Carlo Pillai, Priamo Moi, Maria Luisa Pau, Marcello Tuveri ed io, e con testimonianze lapidarie (proiezione di lapidi e monumenti) Paolo Bullita; le conclusioni furono di Marco Pignotti.
Sono passati ormai dieci anni. Non ho mai pubblicato la mia relazione, leggera forse nell’esposizione ma impegnata nella sostanza, che recuperava materiali acquisiti nel corso degli anni in intense ricerche svoltesi anche e soprattutto (ovviamente non esclusivamente) sulla stampa sarda antica d’un secolo e più. Era stato proprio a ridosso del centenario della storica breccia di Porta Pia che, in Biblioteca universitaria (allora concentrata nel grande salone che era ed è l’aula settecentesca), ancora ragazzo mi detti a compulsare i giornali sardi dell’autunno 1870, per conoscere come la Sardegna sociale e religiosa e quella politica accolsero l’evento straordinario consumatosi nella città dei papi-re. Fu una esperienza adolescenziale che molto mi coinvolse e formò: impattai sulle complessità e contraddizioni della storia, della grande storia calatasi nella realtà della piccola isola o della piccola città (Cagliari contava allora assai meno dei 40mila abitanti della successiva era bacareddiana), con i chiaroscuri delle amministrazioni civiche, le pressioni dottrinarie o di costume esercitate sulle popolazioni dai vescovadi e dal clero parrocchiale o religioso dei conventi, le interpretazioni partigiane, in un senso e nell’altro, offerte dalla stampa scritta quotidiana e periodica…
Ne avrei scritto poco dopo, allora: nel 1972 pubblicai il mio primo articolo su L’Unione Sarda (a parte quelli che offersi già dal 1971 alla “pagina dei giovani”) proprio sulle reazioni sarde alla presa di Roma: “I sardi e la presa di Roma”, fu il titolo su sei colonne, in terza pagina (proprio il 20 settembre). Ne scrissi poi anche in altre testate, periodiche per il più, e tornai alla grande sull’argomento sulla stessa Unione Sarda, direi… ciclicamente, nel 1989 e negli anni ’90 (mi pare nel 1994): un tema appassionante, quello dei rapporti fra Stato e Chiesa e dei contrasti nello specifico risorgimentale, che avevo derivato dalle letture adolescenziali delle opere di Giovanni Spadolini (a cominciare da Il Papato socialista e Il Tevere più largo) e Arturo Carlo Jemolo (Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, e altro). In quella fase della mia vita cercavo infatti le dritte per conciliare quel che poi sarei riuscito a ben conciliare, fortunatamente anche per gli avanzamenti della Chiesa, che era stata conciliare con Giovanni XXIII e Paolo VI, e della Repubblica affidata a governi e maggioranze di complicate ma necessarie e fruttifere alleanze di centro-sinistra fra cattolici e riformisti e/o riformatori di varia matrice: la coscienza del credente, del cattolico che si faceva sempre più liberale e laico maturo, e l’amore al risorgimento di Mazzini e Mameli e Bovio nelle traduzioni azioniste del repubblicanesimo di Ugo La Malfa (ebbi la tessera della Federazione Giovanile Repubblicana, 18enne, nel gennaio 1971) che non potevano negare l’apporto della religione allo sviluppo nazionale.
Scrivendo e scrivendo molto su un numero crescente di testate allargai certamente lo spettro tematico, sempre più includendo ovviamente gli argomenti del regionalismo, ma il tema dei rapporti Stato-Chiesa, o della conciliazione fra la coscienza del credente e quella del cittadino in una società democratica avanzata (in cui non mancavano le prove anche muscolari fra le opposte scuole, come nella stagione referendaria una volta per il divorzio, un’altra per l’aborto, un’altra ancora si sarebbe voluto per la fecondazione assistita), rimase fra le mie centrali. Nel 1976 il direttore Fabio Maria Crivelli rinunciò a pubblicare il suo editoriale domenicale, su L’Unione Sarda, per lasciare due generose colonne alle mie considerazioni circa quel 106° anniversario della storica breccia.
Così aumentarono le occasioni in cui, o per recensire libri o per occupare spazi di tribune libere, su L’Unione Sarda o su La Nuova Sardegna e su periodici vari, restai sul campo, molto insistendo anche sulla riforma urgente del Concordato (cui si pervenne nel 1984).
Nel frattempo sia la pubblicazione di articoli di tema massonico (che risvegliavano la materia da altri punti di vista, mai però svincolandosi dal terreno locale, della microstoria sarda e cagliaritana cioè) che quella di svariati libri – L’edera sui bastioni è dei primi del 1988 – aggiunsero contributi non saprei se e quanto modesti ma comunque tesi tutti in uno sforzo di originalità.
Ora siamo alla vigilia del 150° anniversario di quel celebrato XX Settembre. Il Grande Oriente d’Italia ne onorerà la memoria, come fa ogni anno nella capitale, così altre associazioni democratiche e patriottiche (pur nelle limitazioni imposte dall’emergenza Covid). Speriamo che anche a Cagliari qualche spirito cittadino ami ricordare la provvidenzialità e la umanità di quel passaggio.
Ecco di seguito la relazione presentata al convegno del 2010.
Grande storia, microstoria
Dove mettere il papa? I democratici, che in Sardegna sono stati sempre una infima minoranza, il problema se lo sono posti, non senza supponenza, più volte.
Nel 1911, al tempo della guerra di Libia, il leader dei repubblicani cagliaritani Enrico Nonnoi, raccogliendo una suggestione di certa stampa tedesca che l’aveva rimbalzata da Roma stessa, propose la Palestina: il pontefice re della Palestina, dopo l’auspicato smembramento dell’impero ottomano. Ne scrisse, a più riprese, per ben dieci colonne, sul settimanale della Associazione Democratica, il partito sui generis e trasversale della borghesia ghibellina di Cagliari, costituitosi, in amicizia con Bacaredda, in quell’anno medesimo ma già subito estintosi prima della grande guerra.
41 anni prima, a ridosso del fatidico 20 settembre 1870, l’idea era stata di trasferire il papa qui da noi. La voce s’era sparsa e l’aveva ripresa, già ad ottobre, Il Corriere di Sardegna – l’organo paramassonico dei Fratelli di loggia Antonio Giuseppe Satta-Musio e Gavino Scano (grossi nomi: magistrato e presidente di tutti i comitati che sia dato di immaginare, ed amico di Asproni, il primo; avvocato presidente dell’Ordine e professore preside a giurisprudenza, poi rettore e anche senatore, il secondo).
Il Corriere aveva precisato: il papa potrebbe sistemarsi a San Lucifero, chiesa bella antica e periferica, nella piana che aveva ospitato già dal V-VI secolo il cenobio di San Fulgenzio vescovo e degli altri vescovi africani, e qui potrebbe riconvocare il Concilio ecumenico che, incassato il voto sulla infallibilità ex cathedra, egli ha dovuto sospendere a luglio in vista dell’arrivo dei bersaglieri.
Allo stesso giornale, Bacaredda – per riprendere il gran nome, allora soltanto d’un 22enne di ingegno e belle speranze, prolifico cronista anima dello scapigliato e goliardico A Vent’anni, organo di fratellanza cagliaritano-sassarese e d’amore ad ogni arte ed ad ogni spazio di libertà politica –, allo stesso giornale Bacaredda aveva pochi giorni prima scritto una lettera riferendo dell’avvenuta spedizione, da parte della «gioventù di Cagliari», di due telegrammi a «que’ grandi patriotti i cui nomi sono un culto ed una religione per quanti sentono di amar la patria, oltre la cerchia di qual si voglia consorteria»: Garibaldi e Mazzini, l’uno costretto a Caprera, l’altro ristretto a Gaeta. Telegrammi, il primo chissà se mai consegnato; il secondo invece, «per superiore comando, intercettato dall’autorità politica, messo per otto giorni in contumacia, e quindi rimandato donde era venuto, come roba affetta da cholera o da febbre gialla». Con rimborso della tariffa, subito devoluta dal giovane Bacaredda ai feriti di Porta Pia: «Così potremo dopo tutto non dolerci che un’azionaccia ne abbia dato la ventura di fare una buona azione».
A guardare indietro, al 20 settembre 1870 nell’accoglienza che se ne fece in Sardegna ed a Cagliari, incontreremmo inevitabilmente l’ombra di un numero imponente di personalità che hanno segnato la vicenda locale nel lungo passaggio fra il secolo del risorgimento unitario e liberale e il secolo del modernismo tecnologico. Personalità forti sull’intero e variegato fronte del liberalismo e della democrazia come del guelfismo popolare e reazionario, ostile a ogni evoluzione, e consentaneo con il pontefice che si dette prigioniero nella città leonina.
E mi raccontava una volta un amico di sponda tardo-clericale (che, sento, da qualcuno si vorrebbe eleggere sindaco di Cagliari il prossimo anno), che nell’agiata famiglia dei suoi nonni, dunque ancora all’inizio del Novecento, si persisteva a mangiare di magro – fare penitenza cioè – e chiudere le persiane alle finestre, ogni 20 settembre che il cielo mandava. Così almeno fino agli sconvolgimenti della grande guerra che consigliarono ben altre e più giustificate austerità.
C’è una frase, dotta e bella, di Benedetto Croce, che rimonta al 1915 ed è contenuta in Teoria e storia della storiografia, ben conosciuta dai competenti: «Solo un interesse della vita presente ci può muovere ad indagare un fatto passato; il quale, dunque [il fatto passato], in quanto si unifica con un interesse della vita presente, non risponde ad un interesse passato, ma presente».
E quale materia più di questa della relazione fra temporale e spirituale, fra civile e religioso, fra Stato e Chiesa si presta alla concreta applicazione di tale criterio?
Inizierei con una boutade anticlericale, che mi permetto proprio perché non sono anticlericale né di matrice né di approdo, ma figlio della Chiesa per formazione e sentimento, benché orgogliosamente laico sulla scena civile, azionista e repubblicano in politica.
Quelli che giusto dieci anni fa – 3 settembre 2000 – si sono spellati le mani per la beatificazione di Pio IX sono gli stessi che poco tempo dopo, anche dalle colonne di quella piccola pravda italiana che è Avvenire, hanno accusato Beppino Englaro di assassinio della figlia. Avevano dimenticato la ghigliottina di Pio IX, le teste mozzate di Monti e Tognetti – 33 e 23 anni rispettivamente. E non solo. Anche gli sforzi di Giorgio Asproni, oltre che per soccorrere le famiglie con una sottoscrizione nazionale (che coinvolse anche la Sardegna, specialmente i massoni sardi: ne ho recuperato gli elenchi), soprattutto per ottenere a Giulio Ajani, titolare del lanificio covo della rivolta antipapalina del ’67, ed a Pietro Luzzi, calzolaio 24enne – gli altri candidati al patibolo –, la commutazione della pena di morte da parte della Consulta Romana.
Avevano dimenticato, i tifosi della beatificazione di dieci anni fa, che già nel 1849 la Repubblica Romana, all’articolo 5 della sua costituzione, aveva proscritto la pena capitale che il regno di Pio IX – vicario di colui che era venuto al mondo per farsi appendere ad una croce! – contemplava nei suoi ordinamenti e che avrebbe ripristinato una volta tornato, il papa-re, da Gaeta dopo la sconfitta della gloriosa Repubblica per le armi francesi (le stesse che avevano sacrificato la vita del poeta 21enne Goffredo Mameli).
La storia è sempre contemporanea. L’inno di Mameli viene offerto al papa in ogni occasione solenne, alle benedizioni Urbi et Orbi in piazza San Pietro; forse ai papi Woityla e Ratzinger (che possono aver ragione di non conoscere la nostra storia patria) nessuno ha spiegato che Mameli fu ucciso dal fuoco invocato dal loro predecessore Mastai Ferretti ora beato.
La storia è sempre contemporanea, e il revisionismo non può mai carezzare le convenienze opportunistiche e rovesciare i dati di fatto.
Ma Cagliari, nel concreto? Quella città che Enrico Costa, che ben la conosceva, aveva definito «Monarchica, bigotta, festaiola / in Cerimonia larga e in cortesie» – spagnolesca e, in fondo, non credente anche se devota – tale era in quel fatidico 20 settembre e tale si è confermata sempre, per essere essa città di ceti medi mercantili, compromissori o mediatori, centristi per vocazione. Fino, possiamo dirlo, al referendum istituzionale – che non a caso assegnò alla monarchia 39mila voti contro i 15mila della repubblica – e fino a tutte le amministrazioni che sono seguite alla prima del 1946, dopo la sindacatura Pintus.
Il culto patriottico alle radici liberali dello Stato unitario, il 20 settembre incluso, è stato sempre, al di là di qualche enfasi di cronaca, nella ispirazione e nella organizzazione delle minoranze: non tanto ovviamente quelle democratiche di area radicale e repubblicana (interessate piuttosto a celebrare il 6 marzo cavallottiano o il 10 marzo mazziniano, o il 20 dicembre evocante il martirio di Guglielmo Oberdan – perché Cagliari ha sempre avuto in sé una colonia istriana, si pensi a Domenico Lovisato o al pastore Arbanasich), quanto quelle di matrice massonica – includenti, in santo ecumenismo ideologico, anime repubblicane e anime liberal-monarchiche. In primis dunque il 2 giugno garibaldino, anche se spesso si trattava di celebrazioni vigilate, tanto più quando a prendersi troppo spazio erano i giovani universitari, di spirito piuttosto progressista.
Il 20 settembre – festa nazionale declassata a nulla (e forse anche rimossa) dopo la firma dei Patti del 1929, in un’epoca che valorizzava, in quanto a Roma, il 21 aprile di Romolo e Remo – è stata la sola data patriottica, con quella garibaldina, a combinare la partecipazione ufficiale delle istituzioni con quella popolare. Oltre le luminarie sugli edifici pubblici ed i concerti bandistici della cittadina o della fanteria di stanza alla Carlo Alberto, erano allora manifesti e discorsi a richiamare l’importanza delle memorie storiche.
Tanto più dai primi anni ’90 dell’Ottocento – a distanza d’un ventennio cioè dalla breccia – Cagliari prese a celebrare puntualmente Roma capitale (presente sempre una rappresentanza della Società operaia); nel 25° poi quell’Ottone Bacaredda di tanta preveggenza giovanile, fattosi avvocato e professore e divenuto ormai sindaco, partecipò al primo giubileo patrio, con i sindaci di tutta Italia, nella città sì ancora del papa ma anche del re Savoia e del Parlamento elettivo. Nel 1900 – che è l’anno in cui Bacaredda divenne, per tre anni, deputato – fu affissa in una parete del palazzo di Città castellano la nota lapide riaffermante «l’antica fede ne l’immutabile destino de la Terza Roma». E scintille erano ogni anno, puntuali, con il partito clericale rappresentato dai giornali nella successione delle testate: dal Risveglio edito dalla curia, alla Sardegnetta (La Sardegna Cattolica) dell’avvocato Enrico Sanjust di Teulada, a Il Corriere dell’Isola dello stesso avvocato e conte palatino.
Dall’estate 1886 però un nome – almeno un nome – di soldato sardo caduto nella impresa del 20 settembre era onorato nella stele innalzata dal Sartorio nella piazza dei Martiri d’Italia: quello del tempiese Andrea Leoni, furiere maggiore del 21° battaglione, al quale nel 1905 i massoni galluresi intitolarono la loro nuova loggia, giunta fino al repulisti fascista.
Una città che s’avvia alla modernità
Se Roma contava, nel 1870, circa 200mila abitanti, Cagliari ne assommava poco più di 30mila: ne furono contati 33mila al censimento dell’anno successivo. Tutta la città si compendiava nei quattro quartieri storici – il Castello e le tre appendici di Stampace, Marina e Villanova – e nei due sobborghi di Sant’Avendrace, a prevalenza di pescatori dello stagno, e San Bartolomeo, con la sua colonia penale. Non c’era altro.
Da qualche anno erano iniziate le complicate operazioni di abbattimento delle mura secolari che avevano diviso quartiere da quartiere ed avevano caratterizzato la città piazzaforte militare dismessa all’indomani della unità e formalmente nel 1866. Il piano regolatore del Cima, che precede la proclamazione del regno d’Italia, prospettava una città unitaria; ci avrebbe pensato infine l’ingegner Costa, quasi trent’anni dopo, a dare una sistemazione definitiva al territorio urbano, ma intanto porte e bastioni, baluardi e contrafforti s’era iniziato ad abbatterli: tutte lontane e necessarie premesse agli impianti nelle zone di espansione della nuova Cagliari. Dal 1865 aveva iniziato il bacino di Corongiu ad alimentare correntemente la rete idrica, costituendo con il gazogene un altro passaggio obbligato al salto di qualità negli standard civici.
Cagliari era una città di chiese. Soltanto a scorrere l’indice della Guida dello Spano, che è del 1861 – a mezza strada cioè fra le leggi del ’55 e quelle del ’66 espropriative dell’asse ecclesiastico e soppressive degli ordini religiosi, delle corporazioni e delle congregazioni secolari e regolari – se ne contano ben 46, oltre al duomo e alle tre collegiate, ciascuna delle quali – a somiglianza del capitolo cattedrale – con una decina e passa di beneficiati, oltre alla squadra di parroci con tanto di presidente.
I quartieri si compongono dei rioni, e ogni rione ha la sua chiesa, e con la chiesa il patrono, e con il patrono sono le devozioni popolari. Le leggi anticlericali del governo di Torino e poi di Firenze hanno prosciugato molto, impedendo le processioni pubbliche e confinando i riti dentro il recinto delle chiese.
Il malumore che è montato negli ambienti della Chiesa trova sponda, spesso, e talvolta – giust’appunto a Cagliari – rimedio, nell’amministrazione civica. Proprio il 1870 – anno 5 volte centenario del miracoloso approdo bonarino – vede infatti, autorizzata dal Municipio, una proiezione nei viali prospicienti il santuario – solo compendio rimasto, dopo il risucchio del seminario mercedario e anche, può dirsi, del convento – delle manifestazioni di festa, mostra enologica compresa. Ma è un’eccezione, peraltro vigilata dal governo e criticata dalla stampa specie per la benevolenza finanziaria della giunta.
Gli anni fra ’60 e ’70 sono quelli che combinano gli interessi della cosiddetta camarilla a quelli del partito “nero”, in un contesto, oltretutto, di sede vacante, perché monsignor Emanuele Marongiu Nurra, dopo sedici anni di esilio a Roma, è tornato a Cagliari soltanto per morirvi, nel 1866; e la diocesi è stata riaffidata così a un vicario capitolare, l’ineffabile monsignor Giovanni Maria Filia, prossimo vescovo di Alghero. Dal 1850 in Sardegna non si fanno vescovi, e quelli che ci sono vanno, per debito di natura, a esaurimento. Invecchiato e non operativo ed infine defunto l’alerese monsignor Vargiu, per diversi anni soltanto monsignor Montixi, l’ordinario di Iglesias che con pochi altri non voterà il dogma dell’Infallibilità, è il solo presule funzionante in tutta la Sardegna.
Nel 1867 – lo stesso anno di Mentana – grazie anche all’intervento di don Giovanni Bosco sul sovrano, il governo italiano si dispone ad autorizzare qualche nomina, e nel concistoro segreto del febbraio viene annunciata la promozione vescovile di monsignor Salvator Angelo Demartis, per Nuoro – e saranno scintille l’anno dopo con i moti di “su connottu” –, e di monsignor Francesco Zunnui Casula, per Ales, poi Oristano. Tre vescovi sardi – Demartis, Zunnui Casula e Montixi (colui che, ripeto, non voterà l’Infallibilità) – parteciperanno dall’8 dicembre 1869 al Concilio Vaticano I.
A fine luglio 1870 si svolgono in città le elezioni per il rinnovo del quinto dell’assemblea municipale. Fra gli eletti o rieletti anche i Fratelli massoni Enrico Serpieri, già deputato della Repubblica Romana, imprenditore minerario e fondatore della Camera di Commercio e del Banco di Cagliari, e Stefano Rocca, l’operaio divenuto piccolo industriale e fondatore, già nel 1855, della Società operaia di mutuo soccorso. Come Saggissimo del Capitolo Rosa-Croce, che raccoglie i Maestri delle logge Vittoria-Fedeltà, Gialeto e Libertà e Progresso, e anche della Fede e Lavoro (l’officina di via Sant’Eulalia popolata di capitani marittimi e calafati, abbattuta e subito ricostituita giusto nel settembre 1870), s’è affacciato sulla stampa locale, giusto alla vigilia di Porta Pia, il Fratello Rocca, per replicare ad ingiustificati attacchi antimassonici lanciati da qualche collega a palazzo di Città.
C’è effervescenza ideologica, a Cagliari, nell’estate 1870, com’è stato nel decennio precedente e come sarà in quello successivo. A dar voce, o prestare megafono alle voci di guelfi e massoni, di liberali e clero secolare, sono i giornali. Più organizzati gli anticlericali, con L’Osservatore, La Verità, Il Corriere di Sardegna, meno – ancora per due anni, fino al debutto di La Lealtà del canonico Francesco Miglior (dotto ma reazionarissimo combattente delle teorie creazioniste in epoca già di Darwin) – meno, dico, i clericali, anche se una sorta di rappresentanza delle loro posizioni non si nega di offrirla La Cronaca, fra i cui fondatori è lo stesso Francesco Cocco Ortu – che pur fra qualche lustro sosterrà il progetto di legge divorzista – e con Cocco Ortu, liberale non massone, Gavino Fara, liberale o liberal-democratico chissà se massone (la cosa non è chiara, forse per via di omonimie).
Per concludere pochi flash cagliaritani settembre 1870. Il telegrafo porta la grande notizia in città. Silenzio del Municipio, immediato invece il movimento festoso della gente nelle strade, con luminarie improvvisate – candele e lampioncini alle finestre – e imbandieramenti patriottici e le fanfare messesi a disposizione. La mattina di mercoledì 21 ecco nei vari quartieri cortei studenteschi e di pomeriggio altri festeggiamenti organizzati ancora dai giovani, dalle società mutualistiche, dai sodalizi commerciali; in pista anche una rappresentanza dell’emigrazione romana. Luogo del convegno – in verità non festoso in sé – il camposanto Monumentale, presso la croce che ricorda i martiri di Mentana. Sono discorsi e applausi, ed è in quell’occasione che si telegrafa a Mazzini e Garibaldi, e anche alla signora Cairoli, madre di Benedetto e degli altri sacrificatisi per la causa nazionale.
Uno degli appuntamenti collettivi è al Cerruti, di fianco alla Scala di Ferro, a su Stradoni. Alcuni fini dicitori leggono pagine patriottiche, la banda del 47° fanteria allieta con gli spartiti dei grandi del melodramma italiano.
Mortaretti e “ballu tundu”, corse a premi di cavalli e magari l’esibizione di un drappello della Guardia Nazionale, e bicchierate in piazza: notizie di festeggiamenti arrivano in città un po’ da tutta l’Isola: da Sorgono e Pozzomaggiore, da Sant’Antioco e Nurri, da Lanusei e Ozieri, pure da Iglesias (in festa è la gente, non tanto anche lì il Consiglio e la giunta, che recupereranno dopo il plebiscito del 2 ottobre, offrendo l’albero della cuccagna ai giovani e la musica a tutti).
Ancora zitta l’amministrazione del capoluogo, parla e scrive invece la Deputazione provinciale, che partecipa i suoi sentimenti al ministro dell’Interno (nonché presidente del Consiglio) Giovanni Lanza.
Sconcerta veramente lo «scisma» – come viene chiamato – della giunta cagliaritana. «Noi non possiamo far pensare i “neri” a modo nostro – commenta L’Osservatore –, ma i Magistrati comunali, il Sindaco, i quali ricevettero un mandato dal paese, non per rappresentare le proprie chimere, ma per esporre i sentimenti liberali dei loro amministrati, oh! a questi non è permesso di calpestare la nostra dignità!». Sarà dopo il risultato del plebiscito, dopo il 2 ottobre, che gli amministratori cagliaritani abbozzano. Il sindaco marchese Roberti fa affiggere alle cantonate un manifesto di adesione: adesione che continua invece a negare l’assessore marchese Delitala – la giunta si regge ancora sulla partecipazione di diversi patrizi – il quale preferisce dimettersi.
Comunque, finalmente ecco le feste organizzate dal Municipio: luminarie sul palazzo di Città, di fronte alla cattedrale, e sugli altri stabilimenti comunali; in piazza Yenne e a su Brugu e poi in giro per i quartieri la banda cittadina e quella dell’Ospizio Carlo Felice (che ha sede giusto di lato a San Lucifero); la distribuzione del pane ai poveri di Castello, Stampace, Marina e Villanova, e speciali sussidi in denaro alle famiglie più bisognose.
Monsignor vicario capitolare, per parte sua, convoca d’urgenza il clero diocesano al seminario tridentino. Riunione top secret, ma certo per concordare la replica clericale, alle politiche si dice.
In qualche cronaca si riaffacciano gli argomenti proposti dal senatore Musio nel suo opuscolo intitolato Questione Romana, che critica un provvedimento della Sacra Penitenzieria la quale «niegò ai confessori la facoltà di assolvere gli impiegati civili, Ufficiali e Soldati nati nelle provincie già Pontificie, salvo promettessero di violare la fede giurata e di disertare le bandiere». Taluno sostiene che ciò dimostrerebbe come «il Papa in Italia e in gran parte dell’universo ha in mano le chiavi dell’umana coscienza!», e l’osservazione potrebbe leggersi sul doppio versante della minaccia da temere e della minaccia da combattere.
Tutti i lacci che imprigioneranno i cattolici italiani nelle logiche della astensione elettorale politica, per quasi mezzo secolo, fino al patto Gentiloni, partiranno da qui.
Eppure nel primo centenario di Porta Pia, il grande papa Paolo VI avrebbe ammonito: «Nessuna altra città fuori di Roma poteva dare alla nazione italiana la pienezza della sua dignità statale. Così fu e così è».
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