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Gianfranco Murtas

Cagliari nel 1889, all’esordio de L’Unione Sarda. Così in Sardegna, nell’Italia tutta, nel mondo

di Gianfranco Murtas

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"L'ouverture de l'Exposition" titola Le Figaro, il prestigioso quotidiano parigino giunto ormai al suo trentacinquesimo anno di pubblicazione. Anche il milanese Corriere della Sera, che sta per entrare nel suo quarto lustro, impegna larga parte del proprio spazio - fra aprile e maggio - a riferire delle celebrazioni francesi nel giubileo centenario della Rivoluzione: "Gli edifizi dei vari paesi del mondo all'Esposizione di Parigi": titola. È l'anno di debutto della tour che ha preso il nome del suo geniale costruttore, l'ingegner Alexandre Gustave Eiffel: una base quadrata con lato di 124,904 metri, altezza di 293,853 metri (per un totale di 1.792 gradini), un peso di 7.175 tonnellate che poggia su quattro piloni calcolati per resistere ad un vento di 180 chilometri orari. Suddivisa in tre piani, la sua struttura in ferro pudellato è legata da un milione di chiodi ribattuti a caldo.

Sempre a Parigi, per accrescere le attrattive dell'Expo, sta per esser finito anche un globo terrestre veramente monumentale: il diametro sarà di 40 metri, per consentire la scala di 1:1.000.000. Annata di meridiani e paralleli di ferro, la sfera - destinata a girare su se stessa nelle canoniche 24 ore giornaliere - è sorretta da una torre di ferro alta cinque metri: questa permetterà l'accesso al centro della sfera, ove una sala per conferenze sarà capace di 300 persone.

È già belle-époque, in Europa, e tutto muove da Parigi, anche se Londra e Berlino e Vienna non sfigurano nel folle campionato di lusso e di modernismo. Nel nome del Progresso Indefinito...: il dogma del positivismo massonico di qualche anno addietro è interamente calato nel suffragio della Dea Ragione, cento anni dopo il capolavoro degli enciclopedisti. Art nouveau o Modern style o Liberty che dir si voglia e gusto borghese (e urbano) delle inedite comodità offerte dall'industria marcano il tempo nuovo: si sviluppa in progressione ormai geometrica la ricerca scientifica e quella tecnica, mutano i canoni pittorici, quelli musicali, quelli poetici e letterari.

Amburgo regala l'autoscatto. Passando per Parigi e Milano, Tomaso Edison allarga il mercato del suo fonografo, ed intanto muove i primi passi il fenakisticopio, che fa il palo alla fisionomia, gestied-espressioni. L'autoscatto: in cinque minuti, contentandosi di una moneta di mezzo marco, una macchina misteriosa e precisa provvede al flash, alla triplice immersione del negativo nei bagni di rito, al lavaggio, asciugatura e spinta out della foto.

Edison, cinquantenne principe dell'elettricismo, 610 volte inventore, comanda negli States una folla di quasi tremila operai distribuiti nelle catene di produzione di dinamo, fonografi, lampadine, eccetera. Impegnati (o sfruttati?) per dieci ore al giorno, per la bellezza di una diaria di... 18 franchi.

Il fenakisticopio combina fonografo e macchina fotografica. Quando il cilindro del fonografo inizia il suo giro, inizia pure la raffica delle istantanee ad Intervalli di un decimo di secondo. In un minuto, quindi, le fotografie sarebbero ben seicento. Nasce la cinematografia, nasce il futuro.

A proposito di novità. Bisogna stare attenti ai danni arrecati dal progresso, avverte press'a poco il Giornale inglese di medicina. Infatti, lo sviluppo ferroviario ha originato forme morbose dei centri nervosi, la luce elettrica ha provocato certe patologie oftalmiche, e così ora il telefono è imputato di offese all'udito, con conseguenze serie sulle condizioni generali della salute fisica e nervosa e perfino sull'equilibrio e stabilità del carattere.

Dalla tecnologia ai costumi. In America ormai sono sempre più numerose le agenzie che noleggiano i messenger boys, gli accompagnatori cioè delle signore sole. Gigolo, insomma. Le prenotatrici pagano all'agenzia due lire per ogni ora notturna, per parte loro i giovanotti della scuderia, naturalmente numerati come i cavalli più o meno di razza, si distinguono l'uno dall'altro da uno spillo che reca appunto il numero d'ordine. Non sono finora mancati, e certo non mancheranno prossimamente, i matrimoni.

Tra gennaio e febbraio i giornali riferiscono della morte dell'arciduca Rodolfo d'Austria, figlio di Cecco Beppe [e Sissy]: «in seguito ad un colpo di apoplessia nel castello di caccia di Mayerling», scrive il bolognese Resto dei Carlino; «di un colpo d'arma da fuoco», informa invece la Gazzetta Piemontese di Torino; per «vendetta di un subalterno», precisa L'Italia, il giornale democratico di Milano; «ucciso in duello dal conte Rhaban Furstenberg», marito di una delle sue (presunte) amanti, ipotizza un altro foglio milanese, il Caffè - Gazzetta Nazionale, il quale si premura anche di avvertire: «È stato già detto che il principe nel suo testamento lascia erede la figlia Elisabetta ed usufruttuaria la moglie. La sua sostanza consiste in una forte somma in denaro, in molte carte di valore, il possesso dell'isola Lacroma a la tenuta di Mayerling».

Sulle conseguenze dinastiche e politiche della tragedia - il volontario omicidio-suidicio del principe e della sua amante Mary Vétzera - scriverà lo storico Hellmut Andics: «Senza Mayerling niente Sarajevo e forse, senza Mayerling e senza Sarajevo, niente tramonto dell'impero». Ma intanto, già all'indomani del fatto, così ha resocontato L'Italia: «L'Arciduca Francesco Ferdinando d'Este, primogenito dell'arciduca Carlo Luigi, fratello dell'imperatore, fu ricevuto ieri in udienza particolare da Francesco Giuseppe. Questi gli disse che d'or'innanzi lo avrebbe considerato come successore al trono, avendo l'arciduca Carlo Luigi rinunciato ai diritti alla successione al trono in favore del suo primogenito.

«L'arciduca Francesco Ferdinando cederà il titolo di duca d'Este e i milioni ereditati da Francesco V di Modena a suo fratello l'arciduca Ottone. L' arciduca Francesco verrà adottato dall' imperatore. Questo arciduca è nato a Gratz il 18 dicembre 1863, è maggiore di fanteria e porta il titolo di barone di Cattes».

Spigolando fra le notizie del mondo, questo 1889 per tanti versi si rivela come di passaggio in direzione di un ciclo storico nuovo, la cui trama è straordinariamente costituita da elementi di forte contraddizione, da fattori inquietanti, soprattutto in materia di diritti civili e politici, e da fattori di sicuro progresso.

A Parigi viene fondata la Seconda Internazionale, in Gran Bretagna ed in Germania scoppiano durissimi scioperi operai, in Italia, a Messina, si costituisce il fascio dei lavoratori siciliani. In due città fra loro lontane - East Lane Waiworth e Braunau - nascono due creature che lasceranno una traccia importante nella vicenda del secolo XX, incrociando le loro strade, rispettivamente come protagonista e come interprete, in un film di grande arte: Adolf Hitler e Charlie Chaplin. Anche Heidegger è di quest'anno.

Esce Voskresenie, il capolavoro di Tolstoj, Resurrezione cioè. È l'anno anche di La princesse Maleine, di Maeterlinck, di Naar vi dode vaagner (Quando noi morti ci destiamo), di Ibsen, del Saggio sui dati immediati della coscienza, di Bergson; e in Italia è l'anno del Demetrio Pianelli, di Emilio De Marchi, delle Stelle di Roma, di Trilussa, del Mastro Don Gesualdo, di Giovanni Verga (che l'ha anticipato a puntate sulla Nuova Antologia), di Mal giocondo, di Luigi Pirandello, di Il Piacere e di Il trionfo della morte, di D’Annunzio.

Ancora. Gennaio. Da Berlino si telegrafa alla Perseveranza: «L'ingegner francese Dreyfus, che fu, tempo fa, arrestato a Strasburgo per spionaggio, e che fu trovato in possesso di piani diversi di porti e altre posizioni, fu per ordine superiore rilasciato in libertà e condotto immediatamente oltre i confini dell'Alsazia e della Lorena». È però già matura, ormai, la macchinazione antisionista che ha individuato in lui la vittima sacrificale.

Dicembre. La conferenza internazionale antischiavista di Bruxelles per Natale si prende una vacanza. Ancora si parla ma non ancora si decide. Niente è stato possibile concludere sui punti più controversi: la visita delle navi, l'introduzione di armi e munizioni, la costituzione di tribunali misti. È stata la Francia, sopra tutti, ad imporre il rallentatore alle conclusioni deliberative, caricando di clausole e di riserve ogni sua proposta rettificativa delle altrui. Alcune potenze, fra cui la Russia, non hanno voluto concedere alla Turchia, che lo richiedeva, uno statuto speciale e di "manica larga" in materia, particolarmente, di schiavitù degli eunuchi negri, infelice popolazione considerata come sotto-razza umana.

L'Africa è terra di conquista predatoria per molti. Anche l'Italia, prima con Depretis - l'inventore del trasformismo, l'interprete più autorevole della Sinistra finalmente ed infaustamente giunta al potere - poi con Crispi - che aveva conosciuto ma pure ripudiato e dimenticato Giuseppe Mazzini - ha messo un piede nel grande continente alla mercé di esploratori, missionari e colonialisti. Uno sbarco finora con bilancio negativo: particolarmente dopo Dogali, Roma sta contando a centinaia e centinaia i suoi morti.

Adesso i grigio-verdi hanno occupato Asmara ed il Governo - per il tramite ufficioso del conte Antonelli - ha stipulato con Menelik un trattato chiamato di Uccialli (dal nome dell'accampamento del negus neghest, nello Scioa), grazie a cui l'Italia s'è illusa di essersi visto riconoscere un protettorato sull'Abissinia. E intanto è iniziata la penetrazione in Somalia. 

Un'intesa pasticciata e anzi rovinosa, e non solo per la discordanza (frutto di mancata collazione) dei testi fra italiano ed amarico, ma per gli obiettivi non convergenti fra i governi di Crispi e di Menelik. «Un vastissimo regno si aprirà alla nostra industria e al nostro commercio senza sacrifici di sangue, con un denaro messo a sicuro e largo frutto. Vaste zone di terra colonizzabili s'offriranno in un avvenire non remoto alla esuberante fecondità italiana»: sono parole che rivelano le dimensioni dell'inganno crispino. Il generale Baldissera - militare gradualista e diffidente fin dall'inizio, e a ragione, verso gli impegni di carta di Menelik - dovrà chinare il capo al suo presidente del Consiglio ed uscire definitivamente dalla scena africana, votata ad altri disastri.

L'Africa anche come luogo di decantazione della sofferenza sociale del Paese. Da alcuni anni l'Italia paga il prezzo di una crisi economica che ha colpito in primo luogo l'agricoltura (la Francia ha denunciato gli accordi di interscambio e le regioni più deboli del Mezzogiorno e continentale e insulare, fra le quali la Sardegna, sono state ancor più messe in ginocchio). Si patiscono anche le conseguenze di una gestione allegra della politica monetaria e creditizia, a livello diffuso sul territorio. Le banche - quelle di emissione e quelle ordinarie dell'amplissimo e semianarchico sistema - hanno riempito il Paese di sconti e di anticipazioni, mentre esso già beneficiava di ingenti disponibilità rivenienti dai prestiti esteri.

Per qualche anno, drogata dal denaro facile, l'economia ha prosperato. Prosperità fittizia. La bilancia dei pagamenti e quella commerciale certificano l'impostura che - sul fronte dei malvagi - ha coinvolto tutti, autorità di governo ed operatori. Nel 1889, per ogni cento lire importate le esportazioni ammontano a 68,4 lire. Sono stati attivati enormi investimenti nell'edilizia pubblica (quasi sempre s'è trattato di lavori non necessari) e in quella privata speculativa, indotti dai nascente fenomeno dell'urbanesimo, con la connessa dotazione di moderni servizi di utilità generale.

Il disavanzo del bilancio dello Stato si accompagna, proprio a far data dai 1888-1889, alla crisi edilizia ed alle difficoltà bancarie che, qua e là, si stanno traducendo in fallimenti e liquidazioni coatte. Criticato ormai da tre o quattro anni da Giolitti, Sonnino e dagli altri deputati sganciatisi dalla maggioranza di Depretis, Magliani - l'uomo della politica di indebitamento - finisce per dimettersi da ministro delle Finanze e del Tesoro. A sostituirlo sono Grimaldi e Perazzi, rispettivamente, nei due dicasteri. È nell'occasione di questo rimpasto ministeriale del 30 dicembre 1888 che l'ex garibaldino Luigi Miceli prende il posto, all'Agricoltura (che ha competenze anche sull'Industria ed il Commercio), del collega "entra-esci" Grimaldi.

A febbraio a Montecitorio cominciano a squillare le trombe dell'austerità: il Governo propone tagli alle spese per 32 milioni ed aumenti delle entrate tributarie per 50 milioni. Trascinata da Giolitti la Camera dice di no alla parte riguardante le nuove imposizioni fiscali. Bisogna risparmiare sulle spese, ripensare all'impresa d'Africa, fonte di un'inarrestabile emorragia di denaro - avverte Giovanni Giolitti. Così a fine febbraio, schivando il voto di sfiducia, Crispi si dimette per ripresentarsi una settimana più tardi. Le novità più importanti sono appunto Giolitti ai posto di Perazzi e Seismit Doda al posto di Grimaldi. Ai LL.PP. entra Finali, moderatissimo, alle Poste e telegrafi - dicastero nuovo fiammante - Lacava, esponente della Sinistra.

Così passa il 1889. Con Giolitti che vorrebbe e non può attuare la sua politica di risparmi che implicherebbe, brutalmente, un alt all'imperialismo che è la nuova vocazione del suo presidente del Consiglio. Giolitti è obbligato a temporeggiare, benché è pur vero che qualche concreto risultato nel contenimento del deficit e nel sostegno del corso della Rendita italiana sui mercati finanziari esteri egli riesce a conseguirlo. A luglio, poi, attua la riforma della legge sulla contabilità dello Stato, che permette l'assegnazione di appalti di lavori pubblici (per importi massimi di 100.000 lire) a cooperative operaie. ll giolittismo muove i primi passi.

ll travaglio di una larga parte del ceto politico dirigente - legislatore o amministratore - è, alla fine degli anni '80, autentica ricerca d'identità, fra cultura paternalistica e carabiniera e chiamate riformiste. Il liberalismo - che è monarchico e lealista ed è largamente maggioritario nelle aule parlamentari così come nel Consiglio dei ministri e in tutte le assemblee provinciali e civiche del territorio nazionale - appare sempre di più come una galassia incapace di riconoscersi in una leadership che abbia davvero il respiro della storia, e si rivela largamente inadeguata a prospettare al Paese - anche a quello che non è ammesso al voto - un indirizzo politico coerente e, sia pur cautamente, progressista. Monta, intanto, il disagio sociale, fermentano gli umori di lotta nei campi della Sinistra repubblicana, radicale e socialista, alla vigilia del Patto di Roma e degli stessi congressi cli fondazione delle organizzazioni partitiche.

Le riforme volute (o comunque accettate) da Crispi - l'allargamento del suffragio, che porta in tutt'Italia dai 2.026.619 del 1887 a 3.343.875 gli aventi diritti ai voto amministrativo; l'elettività dei presidenti delle deputazioni provinciali, parzialmente emancipate dall'obbedienza prefettizia, nonché quella dei sindaci dei capoluoghi di provincia e dei comuni con oltre 10.000 abitanti; l'istituzione della sezione giurisdizionale nell'ambito del Consiglio di Stato come sede di protezione ultima degli interessi legittimi, e la fissazione con la formula della "incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge" dei vizi di legittimità suscettibili di fondare il ricorso; la più prudenziale o garantista disciplina della sanità pubblica e l'altra, per certi versi connessa, riordinatrice delle opere pie, poste ora in capo alle cosiddette Congregazioni di carità; ecc. - si collocano tutte lungo il crinale della modernizzazione del sistema normo-amministrativo dell'Italia, la cui mente, comunque, rimane interamente vincolata agli egemoni interessi moderati.

E c'è un'altra riforma, straordinariamente esemplificatrice di questa ideologia dell'autoritarismo revisionista che nel 1889 muove le sue migliori pedine. Il 30 giugno viene emanato il nuovo codice penale che entrerà in vigore dal 1° gennaio 1890. Il codice Zanardelli unifica la legislazione penale, completando l'opera rimasta sospesa nel 1865, abolisce la pena di morte (sostituita con l'ergastolo), attenua le pene relative ai reati contro la proprietà, sancisce di fatto la libertà di sciopero, colpisce gli "abusi del clero" verso istituzioni e leggi dello Stato. A fornire integrazione al codice è la nuova disciplina della pubblica sicurezza (anch'essa approvata il 30 giugno), che peraltro conserva alcune norme che duramente regolamentano la prevenzione dei delitti (domicilio coatto) ed impongono lacci e lacciuoli alla libertà di riunione, iniziando dall'obbligo del preavviso di almeno 24 ore alle autorità, le quali conservano la facoltà di divieto e di scioglimento.

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La Sardegna vive come sospesa fra la sua antica e strutturale depressione socio-economica e le nuove iniziative che via via sono state intraprese per dotarla di servizi che i tempi affermano come necessari, primi fra tutti quelli ferroviari. Ne ha pagato caro il prezzo l'ambiente, con la devastazione delle foreste. Fenomeni di vero e proprio colonialismo connotano, in toto, l'aziendalismo minerario, che trae i suoi alti profitti dallo sfruttamento della mano d'opera, inclusa quella femminile e quella minorile.

Nuove sofferenze si sono aggiunte a quelle imposte dal ricatto delle multinazionali dell'estrazione e parziale lavorazione dei minerali (in cui si compendia il settore industriale dell'isola con oltre 10.000 addetti di cui 300 circa sono ragazzi sotto i 15 anni, privi - come i loro grandi - di qualsiasi preparazione tecnica, e tradizionalmente sottopagati, indifesi da un inesistente contratto di lavoro scritto) e dalla scontata ingratitudine della terra. L'agricoltura paga per la guerra doganale che vede confliggere Italia e Francia, le masse operaie urbane pagano per la crisi dell'edilizia, ma non solo dell'edilizia, che rimonta al crac bancario del 1887, che ha rubato ai risparmiatori (privati ed enti) e fatto fallire gli imprenditori. Il momento è nero né si vede una realistica via d'uscita.

680.000 abitanti distribuiti su due province che sono articolate in nove circondari sedi di sotto-Prefetture: Cagliari, Iglesias, Lanusei ed Oristano, con 257 comuni, nel capo di sotto; Sassari, Alghero, Nuoro, Ozieri e Tempio Pausania, con 106 comuni, nel capo di sopra. La densità abitativa per chilometro quadrato nell'isola è di 30 unità, a fronte di 100 come dato nazionale. Cagliari conta 37.500 abitanti. Il secondo centro della provincia è - appunto in ragione del suo sviluppo industriale - Iglesias, con 17.000 residenti. Oristano sfiora i 10.000. Fra i maggiori centri del sud isolano sono Quartu, Selargius, Villacidro, Guspini e Santadi.

Sono tempi di lenta crescita demografica: 5 abitanti per chilometro quadrato contro una media nazionale di 13, press'a poco. Sono tempi in cui s'afferma una certa tendenza centripeta delle città e dei villaggi, ciò che finisce per gravare gli agricoltori di ulteriori e sfiancanti pesi quotidiani, in termini di orologio e di energie, per raggiungere i campi. Sono tempi di larga diffusione delle malattie infettive, conseguenza sì dell'insalubrità degli ambienti ma anche delle scadentissime condizioni alimentari della popolazione. Sono tempi di analfabetismo di massa, esito delle carenze delle strutture, ma pure dei disagi delle famiglie che strappano i loro bambini ai banchi, o al "lusso" dei banchi di scuola, per riversarli nel lavoro delle campagne. Sono tempi di minaccia disoccupazionale, di attività lavorative combinate fra industria e campagna, in un senso e nell'altro, in vista di arrotondare i salari: col fenomeno del bracciantato che assume caratteri di intermittenza, coi giornalieri che sostituiscono i salariati fissi, alleggerendo i bilanci dei proprietari, già colpiti dalle conseguenze della rottura del trattato commerciale con la Francia, dell'invasione della fillossera (che arriva a colpire in Sardegna una superficie di ben 25.000 ettari), della crisi bancaria. Sono tempi di accresciuta concorrenza delle produzioni estere, di insopportabile onerosità dei noli marittimi e, di conseguenza, di abbandono necessitato delle colture più esposte (cereali, frutta, olio e sughero in primis). Sono tempi di sbarramenti doganali che disincentivano l'esportazione del bestiame, di tariffe applicate per capo e non a peso, con esiti rovinosi, per esempio, sull'export degli ovini. (Meglio va nei settori dei bovini e degli equini: nel primo per il maggiore sfruttamento delle doti produttive naturali, nel secondo per il miglioramento della razza, con benefici commerciali anche per l'interesse alle requisizioni da parte dell'esercito). Sono tempi in cui il protezionismo governativo assiste i comparti industriali che nell'isola sono inesistenti e trascura quelli che invece partecipano al PIL regionale ed appaiono più bersagliati dalla concorrenza nazionale (per esempio la trasformazione delle produzioni minerarie) o da quella straniera (spagnola per quanto riguarda le industrie del tonno, del corallo e del sughero, ecc.). Sono tempi di grave inefficienza dei servizi di trasporto interno ed esterno, stradale, ferroviario e marittimo, ciò che rende non solamente sempre più isola la Sardegna rispetto al resto del Paese, ma fa quasi di ogni mandamento o dl ogni circondario un'isola nell'isola. Sono tempi di abbandoni e di valigie legate con lo spago: tempi in cui la crisi economica si fa sociale e umana, fino a coinvolgere in pieno l'identità culturale e psicologica dei sardi che passano il Tirreno, il Mediterraneo ed ormai anche l'Oceano.

L'impianto dell'economia regionale s'è visto essere agricolo: sono i due terzi della popolazione attiva gli addetti al lavoro dei campi. Come polo alternativo - benché, negli anni della crisi, con una relazione di sempre maggiore biunivocità - sono le miniere: in rapporto di uno a tre nei volumi d'occupazione. Il resto è disperso nei vari rami del terziario più o meno povero. Il rapporto globale fra mano d'opera femminile e mano d'opera maschile è di uno a quattro, ed il dato è mitigato, per le donne, dalla statistica delle cosiddette "altre attività" che assegna ai concorsi per sesso un valore paritario (industria dell'abbigliamento, alimentare, servizi domestici e di piazza), mentre esso è assai sbilanciato - fra uno a tre ed uno a dieci - negli altri comparti produttivi primari e secondari.

Analfabetismo, malattie della povertà, emigrazione: la fotografia della Sardegna di fine '800. I dati statistici sono proprio del 1889 e degli anni ad esso più prossimi: sono l'80 per cento gli analfabeti fra i sei ed 25 anni nell'isola; il fenomeno è più pesante nel Cagliaritano che nel capo di sopra; su 100 iscritti alla leva di terra sono ben 66,59 quelli totalmente privi di istruzione (seguono la Sardegna, nell'ordine, le Puglie, la Calabria, la Sicilia, la Basilicata, gli Abruzzi, la Campania). Sono appena 60 ogni mille abitanti gli iscritti alle scuole elementari pubbliche e le femmine sono quota marginale rispetto agli scolari maschi.

E le malattie con esiti ferali, timbro di tutta un'epoca che altrove - nei grandi centri urbani - si maschera di modernismo e di civiltà. Il 12-13 per cento delle cause di morte nell'isola riguardano enteriti ed altre affezioni intestinali, il 7-8 per cento tubercolosi e, in pari misura, malattie dei bronchi e dei polmoni, il 5-6 per cento altre malattie degli organi respiratori, e così febbri malariche e tifoidee. Cresce e si diffonde la sensibilità in materia di igiene pubblica, ma per esempio gli acquedotti si contano sulle dita di una mano, forse di due, in tutta la Sardegna.

L'emigrazione, infine. Sono cento i sardi che lasciano la loro terra quest'anno (e saranno 2.500 nel 1896). La larga maggioranza - 72 per l'esattezza - vanno a cercar fortuna nel Nord Africa (Tunisia ed Algeria), 17 nei paesi europei (soprattutto in Francia), 11 nelle Americhe, meta che diverrà preferenziale per tutta l'emigrazione italiana solamente dopo il 1893. A cercar fortuna da soli sono 65, gli altri 35 sono in gruppo familiare. Le classificazioni di provenienza includono tutti i settori: agricoltori e pastori 4; minatori ed operai edili 6; braccianti e giornalieri 2; operai, muratori ed artigiani 29; padroni e commessi 10; garzoni e camerieri 10; professionisti ed artisti 1; ecc.

«Trenta giorni di nave a vapore / fino in America noi siamo arrivati, / abbiam trovato né paglia né fieno / abbiam dormito sul piano terreno / dove le bestie abbiamo riposà...», canta l'Italia povera e con essa la Sardegna - che spera nel nuovo Continente. E a proposito di italiani in America: ad ottobre muore a New York Antonio Meucci, antico compagno di Garibaldi, l'inventore del telefono. Ha lasciato scritto nel testamento cli voler essere onorato, prima della cremazione, esclusivamente con le forme massoniche. Un lampo di ideologia anticlericale che, americanizzatasi, attraversa le misere colonne dei migranti attuali.

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Cagliari. Com'è questa città nel 1889? Si direbbe un paesone piuttosto dimesso, con strade impraticabili, dissestate e buie, teatro di quotidiani abusi e dispetti e teatro, anche, dell'ignavia di chi pur sarebbe chiamato a difendere la tranquillità di tutti. Un'organizzazione degli assetti fisici in fieri, eternamente cantiere, con una confusa intelligenza che pur dovrebbe condurre ad un nuovo equilibrio fra ieri ed oggi, fra la città-caserma e la città-mercato, oltre i vincoli dell'antica piazzaforte e verso la vocazione adulta ai commerci.

Città metodica nella scansione dei suoi appuntamenti, quel giorno con la banda municipale e quell'altro con la fanfara militare, quel giorno con la soirée del Civico o del "Cerruti" e quell'altro colla manifestazione dei reduci delle patrie battaglie. Città festaiola, capace di apprezzare la buona musica e la buona prosa, di raffinato gusto in quel ceto di mezzo che rappresenta la sua spina dorsale, il centro orientatore di una comunità votata alla mediazione, come ogni città mercantile e di frontiera, dialogica ed aperta per convenienza e per cultura, più suscettibile di integrazioni e di scambi di valori prima ancora che di beni materiali.

Città borghese che ancora mitizza il Risorgimento unitario (moderato più che democratico, cavouriano più che mazziniano) e piena di militari, rappresentazione di un certo mondo che è stato elevato alla dignità di puntello eccellente della monarchia e del sistema liberale. Anch'essi, i militari - come i preti ed i canonici della primaziale - formati alla cultura delle regole, dei riti e delle gerarchie. Così i magistrati, interpreti di una giustizia che concepisce se stessa sul lato della repressione più che su quello - non massimalisticamente alternativo ma comunque inevitabilmente complementare - del recupero e della riabilitazione: nonostante i passi avanti compiuti, per esempio, col patronato "pro-carcerati" volto alla redenzione, tramite il lavoro, dei piccoli delinquenti cresciuti alla scuola della piazza, la scuola di Gavroche, piuttosto che a quella dei libri.

Ma le istituzioni? Una scuola sostanzialmente inconsapevole dell'età nuova che si sta aprendo, tarda nel cogliere la funzione, che pur dovrebbe esserle propria, di avanguardia di uno stato che sarà chiamato a modernizzarsi e perciò a democratizzarsi e forse a massificarsi, aprendosi alle istanze dei ceti finora soccombenti e misconosciuti, ma nel cui segno evolverà la politica di tutta l'Europa, con le suggestioni e gli strappi del socialismo.

E coi ritardi della scuola gli affanni dell'università, che dopo due secoli e passa di onorato servizio a vantaggio della cultura - quella medica, quella giuridica e quella economica soprattutto - è stata mortificata da vicende varie, tutte comunque riconducibili all'infimo peso della Sardegna nel gioco politico nazionale. Un anno speso all'insegna anche del "pareggiamento" invocato ed atteso.

Sono passati ventisette anni da quando la legge Matteucci ha classificato gli atenei italiani in due distinte categorie, a seconda del concorso finanziario degli enti locali. Nel 1886, poi, il grosso delle università - meno, appunto, quelle sarde, con la solitaria compagnia di Macerata - han fatto il salto di girone, pronte a sborsare le 110.000 lire annue necessarie ad ottenere il pareggiamento. Con frequenza si è opposto alle università di Cagliari e di Sassari l'incongruità della loro popolazione in rapporto alla duplicità delle strutture. Si dovranno aspettare altri tredici anni perché, salvando l'autonomia dei due stabilimenti, si abbia finalmente soddisfazione.

E la Chiesa. Tutta compromessa col suo tempo di paure, convenzionale, indifferente agli azzardi profetici, ai doveri (che sono anche passione) per la ricerca teologica e sapienziale ed invece piegata alla pratica devozionale, romantica e forse - ai fini del miglioramento spirituale del popolo - inutile. Con vescovi consapevoli più della loro autorità apostolica, del potere di "legare e sciogliere", che non della loro funzione di "sorveglianti" del depositum fidei, che è lievito di Provvidenza per l'uomo, e vale solamente se tradotto, paolinamente, in fermento dialogico, in parola missionaria ed amica, in "sale" di una terra che è l'unica terra dell'unica famiglia, che è evento eterno entrato nell'unica storia degli uomini, una storia che ignora scissioni incomprensibili ed astruse fra sacro e profano.

Vescovi e clero soggetti acritici di un rovinoso indirizzo pontificio, privi di una capacità di elaborazione autonoma e propositiva, pur nella irrinunciabile comunione dell'ecclesia, che è la ricchezza più grande del popolo di Dio e dell'istituzione intesa come organizzazione di carismi al servizio, appunto, del popolo di Dio. Vescovi e clero - ai di là della personale santità di vita - assorbiti nella rivendicazione di potestà assolute, anche politiche, interpreti di uno spiritualismo tanto esasperato da essere, sotto il profilo dei contenuti, evanescente e piuttosto rivelatore di un fondo quasi materialista; incapaci di cogliere la ragione di quel temperamento che la storia consiglia ai grandi più che ai piccoli, e invece in lotta astiosa col mondo, con le ideologie, con gli autonomi domini di coscienza, con le prassi originate da altre e rispettabilissime tavole di valori; incapaci di cogliere - un quarto di secolo dopo il Sillabo - il fondo nobile della democrazia e della libertà che, per sua intima natura, è laica. Libertà di pensiero, di parola, libertà civile e libertà politica.

E una Massoneria che a Cagliari è franca da rigorismi ideologici nella direzione - mettiamo - della Dea Ragione o del dogma del Progresso Indefinito, ma sembrerebbe piuttosto vincolata a sensibilità liberal-moderate ed a un culto della patria tutto risorgimentale; una Massoneria di versante politico e civile più che di dottrina, che risorge attingendo i suoi artieri dal mondo dell'insegnamento, dell'amministrazione (compresa quella giudiziaria), poi del commercio e dell'esercito, preparandosi a giocare la carta "giovani", la carta della giovane generazione inquieta e, in certa misura, irregolare, propensa, quando serve, anche al "muso duro" dell'anticlericalismo, proiettata più decisamente verso gli inediti orizzonti del Novecento; una Massoneria che rinasce dagli scambi dotti ed entusiasti, forse anche enfatici, presso le aule buie di un vetusto convento di carità, ed equipara Arquer a Bruno traendo dal martirio dell'antico giovane avvocato fiscale del re di Spagna a Cagliari la rabbia necessaria per rivendicare una patente di nobiltà negli annali del libero-pensiero e per rivendicare anche la pari dignità della Sardegna nella varia e complessa geografia dei testimoni di libertà. Una Massoneria, qui, non bigotta, che non si definisce "religione altra" rispetto a quella imperante ed arrogante che ha contato e conta ancora comandi ed avamposti, generali e truppa.

Chiesa e Massoneria a Cagliari. Pressoché negli stessi giorni - fra agosto e settembre - il giornale diretto dal canonico Canepa e quello diretto dal "fratello" De Francesco danno conto di débàcles e di speranze, pur in campi fra loro diversissimi. «Da noi nei tre quarti di secolo non si è aperta che una chiesetta, quella del Cuor di Gesù e ne sono state distrutte ben sette. E sono: la chiesa antica di San Francesco in Stampace, Santa Teresa, Sant'Elmo, del Monte di pietà, San Nicolò, Santa Lucia in Castello, San Bernardo. Non parliamo delle chiese che continuamente vengono profanate o per occasione di elezioni o per acquartieramento di soldati. E ve ne sono delle altre le quali sono in pericolo o di esser demolite, o di chiudersi per mancanza di redditi».



È un consuntivo materiale, quello del Risveglio, settimanale di una Chiesa invincibilmente... materialista. Guarda al domani ed al laicismo legislativo L'Avvenire di Sardegna: «Si assicura che il progetto di legge sul divorzio, che avrebbe già bello e pronto l'on. Zanardelli, di poco si scosta da quello presentato dallo stesso Zanardelli nel 1886. Le basi fondamentali del progetto sarebbero le seguenti: i coniugi, separati di letto e di beni, non potranno divorziare se non sono trascorsi tre anni dalla loro divisione legale, purché non abbiano figli, ché se ci fossero figli dovrebbero invece essere scorsi sei anni...». (E a proposito di Zanardelli. Un manifesto del sindaco, a settembre, notifica che il codice penale di prossima entrata in vigore, «rimarrà depositato nella sala del Consiglio comunale per il termine di un mese [...], restando ivi esposto per sei ore in ciascun giorno, affinché ognuno possa prenderne cognizione»).

Città teatrale o teatrante, quotidianamente attraversata dalle solenni liturgie di morte, ma con un accosto forse anche pagano all'evento luttuoso, subito recuperato e riassorbito in un rito antico, misterioso ed immodificabile, risarcente ogni dolore. Con gli asili di bimbi e di poveri prestati, con le fanfare e le baldanzose squadre ginniche, alle grandi coreografie, come masse di movimento, con un gusto di rappresentazione scenica che livella ed associa classi e ceti diversi. Quasi sempre con un'eco, che è un megafono ripetitivo, sui giornali.

Ancora. Città di giornali, ricca di testate e di redazioni più che di lettori, quasi. La galassia dell'effemeride - spinta più sui bordi della palestra e, qualche volta, del ring, che non su quelli dell'accademia, innalzata più sulla tribuna declamatoria e sentenziosa che su quella del confronto - si compone di una sorprendente varietà di giornali-partito. Fra essi, e prima di tutti, l'ecumenico L’Avvenire di Sardegna. Un quotidiano che ha alle spalle una certa storia democratica e di approssimazione a sinistra, via via involutivamente reinterpretata fino all'accettazione integrale della linea crispina, coi suoi tradimenti e le sue avventure. Fra essi, ultimo in ordine di tempo, il foglio cocchiano che "sua eccellenza gialla" lancia nell'agone politico in funzione anti-Bacaredda, dopo che il leader della Casa nuova gli ha strappato il controllo del Municipio alle elezioni di novembre: L'Unione Sarda.

Città che nell'anno amministra i suoi battesimi: al Collegio dei ragionieri ed al Banco di Napoli, chiamato a gran voce a coprire il vuoto lasciato dall'intera cordata degli istituti di credito locali, tutti falliti o liquidati; alla Scuola di viticoltura ed enologia, prossimo Istituto agrario, ed alla Scuola d'arti e mestieri, prossimo Istituto industriale; al porto commerciale, finalmente ingrandito ed attrezzato secondo le necessità degli accresciuti traffici marittimi, ed ai circoli musicali, il "Mario" ed il Mandolinistico; al poligono della Società del Tiro a segno, ed alle tratte via strada dal capoluogo a Muravera ed a Teulada.

Soffrono «i vecchi pensionati provvisti di certificato bianco», cui l'Intendenza di finanza impone insopportabili ritardi nella liquidazione della mensilità, ma non sono i soli, ché l'Amministrazione finanziaria calcola tempi eterni anche per mandare il testo bollato di una convenzione straconclusa col pur riverito signor Zedda-Piras per l'edificazione di una vasta area confinante con la Manifattura tabacchi, nel viale Principe Umberto. Un cantiere in grado di dar lavoro a cento operai vive paradossalmente l'esperienza del Limbo, perché la burocrazia ragiona non da uomini.

Protesta e rassegnazione si mescolano ogni giorno in città. Un ventenne salta le mediazioni e si propone, simpatico, nella manchette dell'Avvenire di Sardegna: «Un giovine che sa leggere e scrivere e cucinare-discretamente desidera occuparsi presso qualche ingegnere addetto alle miniere o alle ferrovie, o presso altra persona d'affari, contentandosi pure di viaggiare. Il medesimo ha servito come canneggiatore varie volte. Dirigersi in corso Vittorio Emanuele n. 261».

Infine, anche per fare qualche conto. Sono 1.286 i nuovi cagliaritani del 1889 (88 in più che nel 1888 e nel 1887), nati quasi tutti in casa con l'aiuto esperto della levatrice di zona: 648 sono i maschietti e 638 le femminucce. Il numero dei nati morti è di 68 (rispettivamente 39 e 29). I parti gemellari sono 26 (ancora con prevalenza maschile: 18 e 8). A quasi il 15 per cento si adeguano le nascite cosiddette illegittime: 74 sono i bambini riconosciuti, 101 quelli che rimangono "spuri" a cui è l'impiegato dello Stato civile ad assegnare i cognomi più bizzarri che valgono come un marchio, da Ricevuto a dell'Orfano a... Quaresima.

Giusta reazione. La notizia basta da sola a spiegare molte cose: «La nominata Quaresima Francesca, nata a Cagliari il 22 febbraio 1882 da ignoti genitori, ha fatto istanza a S.M. il re per poter assumere il cognome Melis, in sostituzione di quello di Quaresima, impostole dall'Ufficio di stato civile». Gli usci delle chiese e le ruote delle clausure costituiscono i luoghi convenzionali per la deposizione dei fagotti. Una creatura spuria ogni tre giorni, in questa città che accoglie, per la verità, anche i trovatelli concepiti altrove, nei borghi meno clementi con la "vergogna".

A giuste nozze convolano in 530 (56 in meno che nel 1888 e 14 in meno rispetto al 1887). Elevato è - in proporzione - il numero dei matrimoni fra vedovi (o con almeno uno dei nubendi in tale stato): sono il 20 per cento e passa. Matrimoni celebrati, naturalmente, con riti separati: civile e religioso, come deve essere in uno stato laico.

In Paradiso (e, per la parte di competenza, al Monumentale) vanno in 1.151 (ben 231 più che 1888 e invece 6 di meno che nel 1887). Assai sensibile è lo scarto quantitativo fra maschi e femmine: 630 contro 521. Si chiamano Cesare Millone (3 anni e 7 giorni), Giuseppa Rossi (84 anni) e Giovanni Manca (39), i primi ad andarsene dall'anno, e Carlo Sainas e Vincenza Lenza (rispettivamente di 9 anni e 24 giorni e di 2 anni e 11 giorni) gli ultimi. 

È singolare - ma forse neppure tanto - la polarizzazione dei casi di decesso nelle fasce d'età infime o, al contrario, molto elevate: fenomeno rivelatore di una profonda contraddizione insita in una società nella quale la selezione naturale si fa crudele contro l'infanzia, con mille attentati di malattia, ma - superata la soglia di rischio - concede lunghi anni ai fortunati.

La mortalità infantile è un fenomeno che trova larghissimo spazio nelle statistiche fin de siècle anche in città, ed interessa le case borghesi non meno di quelle popolari. Una trentina sono i bimbi che contano appena i giorni, e circa 150 i mesi. Hanno fra uno e cinque anni ben 250 ospiti di quelle tristi bare bianche che con infinita mestizia ogni giorno passano per le strade di Cagliari. Ed un'altra quarantina hanno fra i cinque ed i dieci anni. Insomma sono quasi 500 - più d'uno su tre - i morti bambini in questa città aggredita dalla tubercolosi. Al piccolo Mario Piroddi il destino riserva il ruolo di mascotte dei pellegrini verso Gerusalemme: ha solo tre giorni quando saluta papà e mamma e tutti quelli che, in casa, gli hanno sorriso sospirando e confidando.

All'altro capo ci sono i vecchi o i vecchissimi: circa 40, più che ottantenni (2 hanno superato il secolo - coevi della Rivoluzione e di Robespierre, Marat e Danton! - e dieci sono gli ultranovantenni). Hanno fra i 70 e gli 80 un'altra sessantina, e fra i 60 ed i 70 ulteriori novanta circa. Insomma un centinaio di decessi ultra-settantenni dimostrano, o possono dimostrare, che - a fronte degli attentati di bacilli ancora inovviabili - i ritmi quotidiani di vita scongiurano, ignorandoli nel grande numero, stress ed ipertensione.

Nel corteo di chi, volgendo lo sguardo alla Misericordia, sogna il suo giorno del giudizio - emarginati, mendicanti, etilisti - ci sono Marianna Pitzalis fu Francesco, 65 anni, originaria di Nurri, e Giovanni Antonio Briani fu Antonio, 69 anni, di Mandas, e Priamo Pala fu Bachisio, 47 anni, di San Sperate, e Prunas, e Nateri, e... Anche dai sordidi spazi del bagno penale di San Bartolomeo o delle carceri giudiziarie, ognuno con la sua storia e la sua pena, con la rabbia del vissuto e l'impotenza ad emanciparsi, migrano alle consolazioni dell'Oriente eterno i maestri del duro lavoro: Luigi Bonfiglio, 31 anni, contadino di Paternò, Dante Fogheri, 37 anni, contadino di Nuraxinieddu, Giuseppe Congiu, 38 anni, pastore di Fonni, ed Emanuele Cocco, e Basilio Del Val, e Salvatore Schiavio, e Giuseppe Sitti detto Napoleone, e... di tutte le età - 22, 42, 46, 58, 52 anni - ma sempre delle stesse provenienze isolane e degli stessi umili mestieri.

Cagliari 1889 è anche loro, appartiene anche a questa dimenticata folla di piccoli e di vagabondi infelici, gli ultimi che sono i primi e i preferiti.



Fonte: Gianfranco Murtas
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