Come il giovane Cocco Ortu (futuro guardasigilli del governo Zanardelli) anche il giovane Bacaredda ebbe Mazzini nel cuore (parte seconda)
di Gianfranco Murtas
Queste righe non sono di Bacaredda ma Bacaredda… entra comunque nel giro.
«Caro Direttore,
«Non ne val proprio la pena, ma trattandosi di gusti, lascia che anch’io, una volta tanto, me ne prenda uno e racconti.
«In certe lettere prudentemente anonime, in ammonimenti che vorrebbero parere maliziosetti e non son che fiorettature della più squisita imbecillità, in una arringa dell’avvocato Ciccio Salaris, condita di molte volgarità e banalità incoscienti, mi si rimprovera una tal quale mia incoerenza politica. Ripeto, non ne val la pena, tuttavia consentimi che imbocchi le buccine della pubblicità e rubi un po’ di spazio nell’Unione d’oggi per togliermi il gusto che dianzi t’ho detto.
«Diciotto o vent’anni fa io feci nell’Avvenire di Sardegna una molto esplicita dichiarazione di fede politica; dicevo chiaro, chiaro: “Sono repubblicano”. Da quel giorno ad oggi nelle lotte aspre che commossero la nostra cittadinanza ci smarrimmo, sì che quelli che erano o pareano repubblicani, confusi fra la gente battagliera divennero cocchiani o salariani.
«Non eranvi e non furonvi lotte veramente e sinceramente politiche, tanto che compagni miei di fede poterono, pur mangiando le insalatine e i finocchietti di campo, con l’acidaro repubblicano in testa, stare nelle combibbie festevoli per buon appetito e per improperi al Regio governo, e seguire a volta a volta l’on. Depretis o l’on. Crispi, nelle più disgraziate manifestazioni della loro politica, quella trasformista del primo e quella liberticida del secondo, senza che valesse a far mutare rotta alle passioni ed alle acredini personali l’assunzione al potere e il nome di Giuseppe Zanardelli, onesta e sicura garanzia di libertà e di giustizia. Io, allora, non fui tra questi; in tanta incertezza di criteri, in tanto sommovimento di livori trovai il mio posto fra gli amici dell’on. Cocco Ortu, tra gli ammiratori cioè e gli estimatori dell’on. Zanardelli; e furono con me non pochi repubblicani di bel nome e di fede viva che si accostarono a questo, interprete dotto e valoroso nella politica italiana, di ogni libera istituzione, di ogni pubblica libertà; e Gabriele Rosa, Giovanni Bovio, Imbriani, Riccardo Luzzatto e cento altri non isdegnarono combattere superbe e feconde battaglie di ordinamenti liberali, di provvedimenti sociali col nome e sul nome di lui; ed oggi pure intorno a Giuseppe Zanardelli si adunano e si compiacciono dimostrandogli onore e stima i bei nomi di Vendemini, di Fratti, di Bosdari, di Taroni e di quanti repubblicani sentono nelle manifestazioni del carattere e dell’ingegno di Giuseppe Zanardelli una parte non ispregevole del loro programma politico.
«Venne la concordia: un fiume di consolazione e di reciproche arrendevolezze inondò gli animi dei miei concittadini. L’interesse supremo dell’isola nostra chiamò i buoni a smettere gli antichi odi, le antiche avversioni, bandendo l’acrimonia delle lotte personali e pensando a cose più nobili e più alte. Non uno, io credo, sentì affanno o dispetto per opera così buona e proficua, ma cessata la causa che avea fatto di noi tanti benevoli partigiani è sorta qui in Cagliari l’opportunità di affermarsi politicamente in omaggio a quella educazione che rende rispettabili e forti i cittadini che liberamente e onestamente pensano, ognuno, a me sembra, avrebbe dovuto riprendere il proprio posto di combattimento.
«Io l’ho fatto; e gli altri?
«Credi all’affetto del tuo Ranieri Ugo».
Così, adesso quarantenne, scrive l’avvocato e letterato e pubblicista di bella scrittura Ranieri Ugo a Marcello Vinelli, giovane – più giovane di lui – direttore de L’Unione Sarda il 10 aprile 1897. Ugo è ormai conosciuto come un cocchiano “di ferro”, Bacaredda – che rappresenta un altro filone del liberalismo governante – è sindaco di Cagliari già da sette e più anni e con una storia che, almeno in parte, si può affiancare a quella… del (teorico) avversario ed anche a quella dello stesso Cocco Ortu (prossimo… questione di mesi, a diventare ministro di Agricoltura Industria e Commercio una prima volta nel IV di Rudinì, dopo la precedente esperienza di segretario generale – cioè sottosegretario – nel governo Cairoli).
Questi era Ranieri Ugo, ma quanti altri come lui!
Dei nomi importanti che l’avvocato-e-poeta (e molto altro in specie nella pubblicistica) fa nella sua lettera, bisognerà dire che nell’aprile 1897 Giuseppe Zanardelli – deputato dal 1861 (e anzi per qualche mese anche nel 1860 nel legislativo del Regno di Sardegna) – è stato appena eletto presidente della Camera, dopo esser stato ministro dei Lavori Pubblici e guardasigilli con Depretis presidente, e di nuovo guardasigilli con Crispi presidente, oltreché per due anni già anche presidente di Montecitorio; sarà ancora ministro di Giustizia con di Rudinì e ancora presidente della Camera, e finalmente, nel 1901, presidente del Consiglio. Al suo fianco, dai tempi della cosiddetta “pentarchia” – il rassemblement liberal-progressista (ad alta originaria caratura mazziniano-garibaldina, si pensi a Nicotera uomo della Giovine Italia e a Cairoli – riguardo a quest’ultimo cf. fra l’altro, a firma di Tito Orrù, “Benedetto Cairoli e i democratici sardi” con in appendice il carteggio con Asproni, in Bollettino Bibliografico e Rassegna Archivistica e di studi storici della Sardegna n. 17 del 1993 – per non dire di Crispi) ostile al trasformismo parlamentare – ha, alleato-collaboratore, Francesco Cocco Ortu, destinato nel futuro governo a sua presidenza a prendere lui l’incarico di guardasigilli.
Anche Zanardelli era stato da giovane – nella stagione del 1848, la stagione delle costituzioni – di sentimenti repubblicani, così come altri della pentarchia e come lo stesso Cocco Ortu, pure lui nella sua prima giovinezza, accosto ad Antonio Ponsiglioni e battagliero con il periodico La Bussola, passato come tanta stampa che repubblicana era dichiaratamente, per una serie di sequestri di polizia. Direi che quello era non un repubblicanesimo ideologico o strettamente politico, ma un repubblicanesimo sentimentale associato alla voglia di libertà, libertà costituzionale, libertà di ordinamenti.
Ranieri Ugo su quello stesso filone, appunto come molti della classe dirigente liberale nazionale e anche regionale. Compreso dunque anche Ottone Bacaredda il cui padre – Efisio Baccaredda (con due c) – di se stesso disse della fama di repubblicano che gli si era attribuita da giovane e che forse persisté a lungo così... educando e accompagnando, nella sua età adolescenziale e ancora negli anni universitari, il prossimo sindaco redattore del periodico A Vent’anni!
Certo La Bussola di Ponsiglioni e Cocco Ortu, pur autodefinendosi di interesse letterario (ci s’affacciò anche l’Angelica, “novella sarda” di Antonio Baccaredda, cf. n. 14 del 2 novembre 1862, ci s’affacciò la pittura di Giovanni Marghinotti ed anche la programmazione scenica del Civico) e carattere umoristico, era stata una testata di democrazia avanzata per il tempo in cui uscì, fra il 1862 ed il 1863, cioè all’indomani della unità territoriale e giuridica della patria. Ventenne allora, Cocco Ortu era alle prese con la sua tesi di laurea, come anche racconta egli stesso nelle sue memorie pubblicate anni fa (Memorie autobiografiche, 1842-1889, Cagliari AMD edizioni, 2012).
Ranieri Ugo, di una mezza generazione più giovane, non poteva aver vissuto e… goduto delle manifestazioni libertarie del giornale né, per gloriarsene dalla parte delle vittime profetiche, delle ripetute sue (subite) persecuzioni! Ma pure è credibile che, data anche la sua militanza pubblicistica allora esibita sulle pagine de L’Avvenire di Sardegna, egli, nella frequentazione che avrebbe avuto nel tempo con l’ormai leader, deputato e anche ministro liberale suo corregionale, di quelle prove “coraggiose” – dato il repressivo apparato prefettizio/poliziesco allora vigente e insistente – avesse discusso.
In principio fu “La Bussola” cocchiana
Chi s’è occupato della testata, studiandola a fondo, è giunto a definirla «su posizioni democratiche di sinistra filogaribaldine» (cf. la scheda curata da Giovanni Battista Careddu in I giornali sardi dell’Ottocento, a cura di Rita Cecaro, Cagliari 2015), rilevando come il primo sequestro punitivo giunse già al suo quinto numero per alcuni articoli in difesa del Generale e contro i governi che avevano – o avrebbero – «tradito e violato» quel soldato che «versava il suo sangue per dare una patria alla monarchia di Savoia». Questo il giudizio che ebbe rinnovate repliche riferendosi alle ancora irrisolte questioni di Venezia «in mano ai cani» e di Roma «in mano ai galli», e riferendosi però in generale anche alle terre meridionali «ora insanguinate e deserte dal brigantaggio» e dell’intera Italia «oggi tradita nelle sue aspirazioni, stanca e sconfortata».
L’approccio critico agli indirizzi governativi, ora nelle relazioni internazionali (in specie con la Francia di Napoleone III «oracolo di Parigi») ora nelle opzioni di politica interna, infrastrutturale ed economica – si pensi alla rete ferroviaria direttamente d’interesse isolano (di cui ripetutamente scrisse Giovanni Battista Tuveri) – fu una costante della linea del giornale che si segnalò anche per la sua prossimità al mutualismo operaio e per l’impegno a sostegno dell’istruzione pubblica e del mantenimento di entrambi gli atenei (allora a rischio permanente di ridimensionamento o addirittura soppressione) di Cagliari e Sassari.
Ripensando a quale sarà la tenacità del duo Zanardelli-Cocco Ortu nel 1889, quando dal nuovo codice penale sarà espunta la condanna capitale, ha certo un suo significato il rapsodico inserimento, nel notiziario locale de La Bussola, delle cronache delle impiccagioni: «martedì alle 6 ½ del mattino si rappresentava nel nostro paese un’atroce tragedia. Una nuova esecuzione capitale colpiva il già detenuto Antonio Garella della provincia di Biella, condannato per omicidio e grassazione. La luce dell'alba che lieta salutava le valli ridenti e i campi che giacciono ai piedi del giardino pubblico, illuminò una scena terribile. Il patibolo levava al cielo le immonde braccia e pareva, come disse Victor Hugo, aspettare la vittima. Un giovane di 38 anni, di figura maschia, dai capelli lunghi e dallo sguardo imperterrito, si presentò al carnefice… per farsi uccidere. Dopo pochi minuti nella poca folla tratta colà da una curiosità veramente “umana” si levò un mormorio simile allo stormire delle aride foglie. Era un gemito compresso per molte ore, una preghiera, una bestemmia alla… necessità sociale. Quindi fu visto penzolare un cadavere e il… d… overe fu consumato pienamente e la giustizia ebbe il corso».
Non piacque mai, La Bussola, al governo ed ai suoi funzionari locali, né alla magistratura. E a pagarne le conseguenze materiali immediate fu, secondo la legislazione allora in vigore, il gerente. In apertura dell’edizione del 14 settembre 1862, il “foglio della domenica” – questa la sottotestata del giornale – denunciò sotto il titolo “La giustizia degli uomini”: «Giuseppe Pisano, gerente della Bussola, fu arrestato il 31 agosto. Imputato di non sappiamo quanti crimini, egli può benissimo essere innocente, ed ottenere dalla coscienza dei cittadini giurati il verdetto d’assoluzione. Ma questo verdetto ha egli facoltà di riparare a’ danni che Giuseppe Pisano ha già sofferti, può esso compensare la pena preventiva, da lui già subita nelle prigioni di S. Pancrazio?
«Il 31 agosto la famiglia di Giuseppe Pisano era immersa nel lutto – ed egli era forse innocente! Perché dunque la estrema misura dell’arresto? Perché si privò della libertà un libero cittadino, sul cui capo non pesava nessuna condanna? C’era forse pericolo ch’egli spatriasse? Lo credette il magistrato che segnò il suo mandato di cattura?
«Ma ciò è ben poca cosa… Giuseppe Pisano, quando fu in carcere, domandò la libertà provvisoria, garantitagli dalla legge, unendo alla sua supplica i testimoniali di buona condotta e povertà. Fra due ore poteva egli essere messo in libertà; fra due ore si poteva riparare al già fatto. Ma il Giudice Istruttore non gli accordò la libertà perché egli (sic) come gerente della Bussola doveva essere a parte dei lucri tipografici o giornalistici.
«Chi non vede che questa è una supposizione gratuita, impossibile? Or bene, per questa supposizione, G. Pisano dovette spasimare un’altra settimana in carcere, dovette lasciare la sua famiglia nell’abbandono e nel dolore!
«Sicuro di essere nel suo diritto, appellò di questa interlocutoria alla Corte d’Appello-Sezione d’accusa. E questa, in data dell’11 corrente, vedendo giusta e legale la dimanda, gli accordò la libertà provvisoria.
«A Giuseppe Pisano, dopo 11 lunghissimi giorni di carcere, fu fatta giustizia, ma non piena riparazione. I suoi affari in dissesto, la sua famiglia nella miseria, ed egli macero dai patimenti del carcere!... Tutto ciò perché in alcuni uomini che sono destinati al santo officio della giustizia, val ben poca cosa la libertà di un cittadino…».
Venerdì 16 ottobre 1863 – dopo il ministero Rattazzi che aveva rilevato quello Ricasoli (postcavouriano), era subentrato il governo Farini ed era in carica adesso il nuovo governo presieduto da Marco Minghetti – il sequestro delle copie andate a stampa nella città di Cagliari capoluogo della maggior provincia d’una isola fatta marginale da/in tutto, aveva avuto uno speciale clamore.
Così l’apertura in prima di quel numero (l’81, ora con sottotestata “foglio popolare di Sardegna”) e con titolo “Curioso sequestro”: «Il n. 80 della Bussola fu sequestrato. Sapete perché? Perché il nostro fisco ha perduto la bussola… Non può spiegarsi altrimenti.
«Il nostro giornale fu confiscato per la riproduzione di una lettera di Giuseppe Mazzini agli operai italiani di Costantinopoli [“Ai giovani Italiani”]. Mirabile a credersi! Quella lettera non fece ombrare il fisco di Milano, che lasciò liberamente circolare i giornali che la contenevano.
«I lettori che volessero leggere quello scritto scomunicato, possono andare in tutti i Caffè di Cagliari dove si trova l’Unità Italiana. Nel n. del 4 ottobre vedranno stampata quella lettera innocentissima.
«Il nostro fisco è più zelante del fisco di Milano. È un fenomeno che merita studiato con attenzione! Povero fisco!».
Nelle pagine interne è la cronaca dell’operazione di polizia (e insistervi qui vuole indurre a riflettere su quanto nella formazione politica di taluni esponenti della galassia liberale di fine Ottocento – e fra essi Francesco Cocco Ortu, e presto anche Ottone Bacaredda – possano essere entrate suggestioni ed aspettative autenticamente democratiche anche a causa delle incongruenze del sistema in capo allo Statuto).
Ecco il breve testo: «Verso le 2 pomeridiane un delegato di PS accompagnato da tre subalterni si portò alla Stamperia Alagna. Dovette aspettare un pezzo, soffocando sotto un albero del Bastione, prima che il nostro tipografo riaprisse la sua officina.
«Verso le due ½ il signor Alagna, col solito sussiego, aprì la stamperia, e tosto comparvero gli angeli della polizia. L’operazione fu brevissima: il bottino del Fisco fu scarso e inglorioso. Appena 14 esemplari del numero incriminato furono trovati nella Tipografia. Tra i tanti che erano in vendita, appena 27 giornali caddero in potere delle vigili guardie! Sappiamo che furono tolte le copie esistenti nei caffè… Oh i miopi. E non tolsero il n. 269 dell’Unità Italiana!
«Abbiamo ragione di credere che gli associati dell’interno dovettero ricevere il giornale. Se non è che questo venne sequestrato a destinazione! È possibile. Gli associati a domicilio in Cagliari ho hanno tutti. Finora, cioè fino alle 10 ant. di giovedì, il nostro gerente Giuseppe Pisano non fu molestato».
E nel numero successivo, l’82 di domenica 18 ottobre (uscito dunque a tamburo battente): «La libertà di stampa nel libero regno d’Italia subì, anche nel mese di settembre, le solite restrizioni fiscali.
«Da un quadro che pubblica l’Unità Italiana risultano questi consolanti dati statistici: 17 giorni del mese furono di sequestro per la stampa del regno, e in 8 giorni, non interrotti, contaronsi 20 confische di giornali. Nella sola città di Napoli furono operati dal regio procuratore del re 22 sequestri. In tutto il regno, 15 giornali sequestraronsi nel settembre, e il numero dei singoli sequestri è di 33!...».
Tempi difficili nel paese e in Sardegna, a Cagliari come a Sassari (la Sassari di Bacaredda ancora adolescente ginnasiale/liceale fra 1863 e 1864)… la stampa d’opposizione, tanto quella liberale quanto quella democratica (e quella clericale, evidentemente d’altra collocazione) ha ed avrà da soffrire nel lungo graduale passaggio – così nell’ordinamento come soprattutto nel costume, anche quello amministrativo e giudiziario – da Regno di Sardegna a Regno d’Italia. Si pensi, soltanto a limitarci a Sassari ed all’area democratico-repubblicana, alla sorte de Il Credente, dalla fine degli anni ’50, a quella di La Giovine Sardegna e di La Cosa pubblica nei primi anni ’70…
Tutto andò allora per continui flussi e riflussi. Fu ancora La Bussola cagliaritana a dar notizia, infatti, anche d’un recupero tollerante e, potrebbe dirsi, autenticamente patriottico, e poi di nuovi imprevisti freni (o memoria d’essi e tema di riproposta!), nel suo numero 14 del 16 aprile 1863: «Sabato sera forse in seguito ad ordini superiori, fu tolta la scomunica all’inno [di Garibaldi] vietato e la musica lo suonò senza richiesta alcuna per due volte. Fu accolto con applausi vivissimi… e dopo aver sfogato l’entusiasmo, cessato il rumore dei battimani, i buoni cittadini di Cagliari rientrarono nell’abituale tranquillità e l’equilibrio europeo non fu turbato.
«Ora noi domandiamo, o perché si è impedito di suonarlo quando il pubblico lo voleva? Perché compromettere la tranquillità e far nascere disordini senza alcun fondamento? Niente giustifica il modo d’agire della polizia, salvo che siasi voluto dare una lezione al pubblico, disingannare il popolo che la pretende a sovrano e mostra che il governo è forte… coi deboli!».
Proseguendo nella sua linea di giusta sutura fra liberalismo avanzato e democrazia (radicale o repubblicana) La Bussola non si fermerà che davanti all’insuperabile indisponibilità di tutte quante le (impaurite) tipografie locali a dar corso alla composizione e stampa del periodico. Il quale, fino all’ultimo, non mancherà di sfidare, a modo suo, il sistema.
Ecco, nel numero del 18 ottobre 1863 i versi de “La cresima”: «Il quattordici corrente / Nell’uffizio del Fiscale / Era un correre di gente / Sottosopra per le scale, / Uno strepito, un fracasso, Uno sconquasso.
«Nuovo, altissimo pericolo / Alla patria s’avvicina!... / Di Mazzini un certo articolo / Pubblicossi stamattina / Con cappello… e con pastrano Di Pisano!
«Non sapete? Di Mazzini / È Pisano in compagnia; / Anch’ei noto né confini / Della nostra Polizia; / Anch’ei martire e trattato Da croato!
«Della Bussola il giornale / Sopra un tavolo è spiegato; / L’onorevole Fiscale / Dopo aver tutto passato / Del cervello nel settaccio, Rompe il ghiaccio:
«“Miei signori, anch’io ci vedo / qui gli estremi del sequestro: / Di repubblica ecco un credo… / Sottoscritto dal maestro… / Tanto basta, tanto basta… Oh ci ha pasta!...».
«A G. Garibaldi e G. Mazzini»
In ultimo, il 30 dicembre dello stesso 1863, vennero altri versi, questi dedicati – come nel titolo – “A G. Garibaldi e G. Mazzini”: «Scorre un altr’anno – e tu siei sempre muto / Sopra lo scoglio della tua Caprera; / Scorse un altr’anno – e alcun non è venuto / Per dirti: t’apparecchia a primavera! / Quando la terra ride d’erbe e fiori / Si grida guerra! e alcun non viene fuori, / Quasi che per tornare una ed intera / Italia aspetti sempre a primavera…
«Cagliari mia – la terra poveretta / Presso a cui siede il tuo casal modesto – / Appena scorso l’anno, in fretta in fretta / Vuol ch’io scriva un augurio – ed è questo: / O Garibaldi! io t’auguro che impressa / Ti resti l’onta d’una gente impressa / E che del tuo dolor l’amare stille / Altri non terga che la man de’ Mille»…
E così continuando, strofa dopo strofa. E con Garibaldi naturalmente Mazzini: «Ed or permetti che a un altro Giuseppe / Io mi rivolga, e gli stenda la mano, / Ei con la voce tener fermo seppe / Il vessillo e l’onore italiano / Esule santo, potente vegliardo, / Prendi il saluto del popolo sardo; / Rinnova la speranza e ti conforta / Che la parola tua non è ancor morta.
«Compagno a Garibaldi col pensiero / O Genovese antico, tu sarai; / Tu Nestore canuto, egli guerriero, / L’uno dall’altro divisibil mai. / E siccome lontani, in un affetto / Ora vi stringe un popolo diletto, / Entrambi in Roma, dal servaggio uscita, / Vi saluti così la patria unita».
La firma è quella, semplice e chiara, di «La Bussola».
Come ho sopra accennato, all’esperienza redazionale di La Bussola Francesco Cocco Ortu riserva varie pagine delle sue Memorie autobiografiche. E con La Bussola è anche quel mondo della democrazia che egli, giovane ventenne, accosta con sentimenti solidali e d’ammirazione, rinnovandone il ricordo anche in tempi successivi.
Sia bene inteso e val la pena ripeterlo. Per quanto ne conosca, non esiste di Francesco Cocco Ortu alcuna professione di repubblicanesimo giovanile, ma certo è che, da quanto emerge dalle sue pagine memorialistiche che muovendo dalla nascita (nel 1842) arrivano al 1889 – all’anno cioè del trionfo municipale del suo avversario Ottone Bacaredda – furono vive in lui studente e/o avvocato al proprio esordio professionale le simpatie per Giuseppe Mazzini ed il suo apostolato civile, direi per il suo stesso Partito d’azione. Le pagine autobiografiche, e tanto più quelle riferite a capitali esperienze da lui compiute in quanto pubblicista (segnatamente come cofondatore, con Antonio Ponsiglioni, e redattore de La Bussola), richiamano a più riprese la scuola democratica risorgimentale ed i suoi uomini più significativi: fra essi Giorgio Asproni ricordato dopo la morte sopraggiunta nel 1876, lo stesso anno del debutto cocchiano in Parlamento: «Il rimpianto della grave perdita fu qua unanime. Di lui portai giudizio, allorché parlai dell’opera dei deputati nella sopraricordata effemeride – Ricordi e profili – ma non ricordai quanto avrebbe servito a far risaltare meglio la sua figura nobile e fiera, nei cui occhi lampeggiava il fuoco dell’anima generosa, i grandi servigi alla causa e agli ideali del risorgimento, rievocati nella commemorazione solenne della Camera elettiva e nei necrologi della stampa. Fu uno dei pochi nostri che presero parte attiva alle cospirazioni con Giuseppe Mazzini, con Crispi, con tutti i più illustri patrioti per l’unità e la libertà della patria. Tenne un posto notevole nel giornalismo democratico, rivelando di possedere un singolare temperamento politico, un carattere inflessibile e una profonda cultura storica». (Sul rapporto fra Cocco Ortu ed Asproni rinvio al prezioso contributo reso al convegno asproniano del dicembre 1992 da Marinella Ferrai Cocco Ortu: cf. “L'amicizia e la colleganza politica tra la famiglia del ministro Cocco Ortu e Giorgio Asproni attraverso il diario e la corrispondenza epistolare inedita, 1859-1861” in Giorgio Asproni e il suo “Diario Politico”. Atti del convegno internazionale Cagliari 11-13 dicembre 1992, Cagliari CUEC, 1994. Mi piace, nell’occasione e per contiguità tematica, segnalare anche, della stessa Ferrai il saggio “La prima esperienza parlamentare e di governo di Francesco Cocco Ortu, 1876-1878”, in Bollettino Bibliografico ecc. n. 14 del 1991: si tratta dello sviluppo della comunicazione portata al convegno “Il tempo di Benedetto Cairoli” tenutosi a Pavia nel novembre 1989).
Con espressioni di apprezzamento per la loro partecipazione alle vicende pubbliche nazionali dalla parte della democrazia, entrano nelle citazioni cocchiane diverse personalità dell’area ideale mazziniana e repubblicana in senso lato, come Giovanni Battista Varè ed Alberto Mario, Giuseppe Petroni e Nicola Fabrizi… e magari Emilio Visconti Venosta (divenuto ministero degli esteri con la destra storica… ma anch’egli con una formazione giovanile mazziniana), e in Sardegna quel Giovanni De Francesco che, sia pure con varie mediazioni, portò nel giornalismo quotidiano – da Il Corriere di Sardegna a L’Avvenire di Sardegna ad altro ancora – certamente non una militanza ma un sentimento, o una sensibilità di evidente matrice democratica.
Va detto ancora con chiarezza: non possono assumersi nei ranghi ideologici della sinistra radical-repubblicana uomini che hanno segnato col loro nome la storia del variegato liberalismo italiano, ma pure è indubbio che molti di essi, formatisi negli anni delle guerre d’indipendenza (e anche ad esse precedenti), si nutrirono dei valori della “libertà repubblicana” non estranei – se si volesse cercare un riferimento alto – alla spedizione dei Mille. A cominciare dal “gemello” cocchiano rispondente al nome di Antonio Ponsiglioni, che diciassettenne partì volontario arruolandosi con i garibaldini.
Nelle note autobiografiche la fedeltà ad un liberalismo avanzato
Certo è comunque che le note cocchiane esprimono bene quel certo sentimento che fu, forse con qualche accento contestativo ancora più marcato, nel Bacaredda di sei-sette anni dopo. «Io al pari degli altri giovani dell’Università – questo scrive il futuro ministro – era preso dalla corrente rinnovatrice di quelli eventi fortunati, inizio sicuro e presagio dell’indipendenza e dell’unità nazionale, e insieme speranza per le future sorti dell’isola. Sentivamo che la vita sarda movevasi in un orizzonte più ampio dell’atmosfera regionale in cui era stato fino a quei giorni circoscritta, in cui si respirava un’aura vivificatrice di libertà, ma purtroppo di breve durata».
E ancora: «Le simpatie dei giovani dell’Università erano per quello della democrazia; invece il partito conservatore raccoglieva gran parte dell’altra classe censitaria di vecchi professori, avvocati, funzionari […]. Io, Antonio Ponsiglioni e un Mulas studente di Medicina costituimmo una sezione cui aderirono pochi altri colleghi. Sebbene scarso di numero ebbe l’audace pretesa di rendersi interprete del pensiero e delle aspirazioni dell’isola, delegando il deputato Giorgio Asproni a rappresentare la sezione sarda nei congressi dei comitati di provvedimento e delle associazioni del partito d’Azione, i cui gruppi erano focolari che tenevano viva la fiamma dell’ideale e l’agitazione per il compimento dell’unità nazionale. Invitato dai promotori, non esitai per far opera di propaganda a entrare in una associazione costituitasi col nome di Mutuo soccorso ed istruzione […]. Era appena ventenne, quando ne fui eletto presidente...».
Fu una società, quella, nella quale, tesaurizzati gli autografi di Mazzini e Garibaldi, non mancavano i massoni e i prossimi tali (dal Maury Loi all’Aresu al Maxia soprattutto). Circostanza, questa, che si sarebbe replicata anche in altri sodalizi, partiti e giornali evocati dallo stesso Cocco Ortu non massone e mai massone, a dimostrazione che l’amalgama latomistica non fu mai, se non nella cultura – ad esempio nell’universale scivolone circa l’autenticità delle pergamene d’Arborea – tale da fissare in blocchi politici definiti l’obbedienza al Grande Oriente. Perché se mai il Corriere di Sardegna fu – nella lettura di Cocco Ortu – l’organo della giustamente vituperata consorteria (al cui vertice stava il codino clericale Francesco Maria Serra, magistrato leader nell’Isola) ed insieme la voce ufficiosa della Massoneria, va detto che a La Bussola cioè collaboravano in pieno i fratelli-Fratelli Uda, Felice e Michele, stimatissimi appartenenti alla loggia Vittoria, per non dire dello stesso Ponsiglioni… Intrecci presenti anche nelle altre testate discendenti… per li rami e lanciate nella pubblica polemica del tempo e negli anni seguenti, magari con l’arma delle caricature umoristiche ed i fuochi dell’anticlericalismo.
Collaboratore di Gavino Fara e del suo L’Imparziale, di cui era attivo redattore Ippolito Pederzoli, «un giovane emigrato mandato alcuni anni prima in confino a Cagliari per un discorso pronunziato in Pisa dove era studente» con il quale – mazziniano radicale, poi federalista con Cattaneo – Cocco Ortu si fece inseparabile («formammo un’associazione universitaria democratica») il Nostro maturò, unitamente a Ponsiglioni, nuovi progetti. Caduto per avverse ragioni L’Imparziale, ridottosi infine a un collage passivo degli articoli «presi di peso dalla mazziniana Unità Italiana e fogli di parte moderata», ecco infatti La Bussola «settimanale con programma democratico».
«Il giornale – scrive Cocco Ortu – conquistò presto il favore della città e della provincia, per le sue idee largamente liberali, la sua indipendenza e la difesa degli interessi locali. Ad aumentargli credito contribuirono grandemente la collaborazione di Giovanni Battista Tuveri che mandava pregevoli articoli e corrispondenze dal suo romitaggio del piccolo comune di Forru […]. Il nostro periodico acquistava di giorno in giorno credito e diffusione. Ad accrescergli l’una e l’altra venne il sequestro del numero uscito quando giunse la dolorosa notizia del triste episodio di Aspromonte. Garibaldi ferito e prigioniero! Non è facile narrare e descrivere la commozione e l’irritazione della democrazia sarda, di cui si fece eco il nostro giornale, con tale asprezza di linguaggio, che fu sequestrato per una poesia e due articoli di veemente protesta».
Al sequestro di polizia e all’incarcerazione del gerente rispose tempo dopo il Ponsiglioni che, firmandosi Becero, si fece beffe di «Don Liborio il feroce inquisitore», facendo di sé e del giornale un nemico giurato del magistrato e forse della magistratura…
Democrazia declinata Asproni
Entrato ormai nelle logiche… adulte delle responsabilità amministrative – come consigliere comunale ed anche assessore, fin dal 1874 in una giunta Roberti e, dal 1875, come consigliere provinciale, ma anche fra i promotori dell’ “agitazione legale” per le strade ferrate che in quello stesso periodo animò la politica sarda – Francesco Cocco Ortu, appunto così come tanti altri del liberalismo parlamentare ed amministrativo, ancor più assorbì nella prevalenza legislativa e di governo, che evidentemente esigeva stabilità di quadro costituzionale, ogni suggestione, pur soltanto affacciata, di riforma delle istituzioni-cardine dell’Italia agli affacci del Novecento. E il repubblicanesimo restò, se si può dire così, una riserva di idealità generose e nulla di più. Leale alla monarchia ed ai Savoia, della Corona egli sarebbe divenuto perfino ministro e cioè consigliere. (Fu in tale veste che nell’ottobre 1922 avrebbe sollecitato Vittorio Emanuele III a firmare lo stato d’assedio per evitare lo svolgersi della cosiddetta “marcia su Roma” delle camicie nere di Benito Mussolini).
Quel che si sa per certo (il contributo della Ferrai, sopra richiamato, è illuminante in proposito) è che l’iniziazione democratica di Francesco Cocco Ortu sia avvenuta in casa, nella trama della educazione paterna – dell’avv. Giuseppe Cocco Mulas, giudice di Tribunale assegnato a varie sedi nel tempo – e anche, per altri versi, del nonno materno – Giuseppe Ortu, avvocato pure lui, e congiurato nella sfortunata “operazione Palabanda” del 1812.
Del padre del futuro ministro si sa che nei lunghi anni in cui venne assegnato alla sede giudiziaria di Nuoro, prima del compimento dell’unità, fu in consuetudine e perfino in amicizia con Giorgio Asproni, il che è documentato anche da un epistolario domestico. E che la figura dell’ex canonico divenuto deputato al parlamento subalpino, e poi ancora in quello italiano, fu come di casa nelle frequentazioni ideali (e forse anche materiali) del giovane Cocco. Ne è prova la già citata nota di commento alla dipartita del Bittese, a fine aprile 1876, e certo merita una ripresa il giudizio della Ferrai che pare indicare in Francesco Cocco Ortu, esordiente parlamentare proprio in quel 1876, l’erede politico, pur se sul fronte liberale e non su quello repubblicano, dello scomparso: «L’Asproni è morto da poco… immediatamente dopo l’avvento della Sinistra al potere, e manca il suo sostegno alle nove elezioni per il rinnovo del Parlamento; ma la sua eredità cade in buone mani» (cf. Giorgio Asproni e il suo “Diario politico”, cit. p. 341).
In scena Ottone Bacaredda
Sembrava importante marcare il percorso ideale-politico di Francesco Cocco Ortu che nel 1889 fu l’avversario dichiarato – lui con il suo partito (s’intende “partito personale” o “d’influenza”) e il suo comitato elettorale – di Ottone Bacaredda candidato alla sindacatura di Cagliari all’insegna del “rinnovamento”.
Si sarebbe detto che il ricambio della classe amministrativa a Palazzo di Città derivò da diverse sensibilità del pur condiviso liberalismo, oltre che dalla punizione che una certa area dell’elettorato moderato avrebbe voluto infierire ai cocchiani per la presunta loro copertura offerta al Ghiani Mameli nella sua disastrosa conduzione del Credito Agricolo Industriale Sardo, e – per interposto personale – della Cassa di Risparmio di Cagliari (ente morale non fallibile ma infine messo in liquidazione) e pure del Credito Fondiario.
Una lettura critica della… caratura tanto politico-culturale quanto sociale – riferendosi quest’ultimo giudizio alle collocazioni professionali ed agli interessi economici o aziendali e di settore dei partecipanti, ma anche alle dinamiche associative dei circoli di varia vocazione operanti in città e funzionanti da lobbies civiche – non porta, non ha mai portato ad intravedere una netta divaricazione od opposizione “di natura” fra un partito e l’altro, fra i cocchiani di radicato predominio (fino al 1889) in municipio e quelli della Casa Nuova. Gli stessi documenti elettorali diffusi dagli uni e dagli altri non mettono a fuoco pressoché nulla al riguardo.
Non la classe di provenienza, non una questione anagrafica o generazionale, non una speciale caratterizzazione politico-ideologica. Che cosa, allora, poté distinguere i bacareddiani riuniti nella Casa Nuova dai cocchiani (e viceversa)? Si direbbe essenzialmente una complessiva e vantata rappresentanza, da una parte, della consolidata esperienza amministrativa e, dall’altra, della volontà di rinnovare e forse di sperimentare con elementi in puro esordio nelle stanze assessoriali.
La dico meglio: la consolidata esperienza amministrativa sarebbe stata quella dei cocchiani che avevano avuto il controllo, oltreché della Provincia, anche del Consiglio comunale e della giunta, e in appannaggio i sindaci, dal 1883 e già per sei-sette anni (e però, saltando l’anno di Salvatore Marcello, si potrebbe allungare dieci anni, partendo dal 1880: primo cittadino Gaetano Orrù per un triennio iniziale e un anno finale, nel mezzo Emanuele Ravot – un magistrato ora in quiescenza invero non strettamente classificabile fra i cocchiani e peraltro imparentato con Bacaredda all’esordio in Consiglio – per un lustro circa). Il rinnovamento sarebbe stato quello impersonato e proposto da coloro che ancora non si erano provati con la gestione della cosa pubblica pur se tutti erano ben collaudati e vincenti nelle rispettive attività professionali o commerciali: essi che contavano, o avrebbero contato, sul di più di autonomia amministrativa dai tradizionali impacci governativi o prefettizi, atteso che la nuova legge comunale e provinciale aveva appena stabilito che il sindaco non fosse più nominato ma eletto.
Può bastare? Forse no. Forse entrò nel calcolo della opinione civica chiamata ad esprimersi nelle urne anche il giudizio sulla parte che soprattutto Cocco Ortu ed il suo partito avevano avuto (o s’erano sentiti addebitare, come già detto) nel crollo bancario che tanto aveva colpito, con le casse pubbliche – e drammaticamente quelle del Comune –, i risparmiatori e gli investitori. Ma forse, e ancor di più, entrò l’influenza (e il supporto numerico elettorale) del partito avverso, in politica, a quello cocchiano: la fazione salariana cioè, che, con distinti riferimenti parlamentari rispetto ai cocchiani – orientata essa su Depretis campione del trasformismo parlamentare e poi su Crispi campione della onerosa politica coloniale, gli altri su Zanardelli e il modernizzatore riformismo sociale – non aveva perduto un’occasione per contrastare, in provincia e nel capoluogo, oltreché nel collegio politico, il rivale. In altre parole, pur se non inquadrabile nel salarismo o nel crispismo, il partito della Casa Nuova parve legittimamente godere del sostegno degli avversari di Cocco Ortu. Secondo la logica per cui… il nemico del mio nemico è mio amico… (qui in biunivoca declinazione, sia proSalaris in quanto erogatore di preferenze sottratte appunto agli amministratori uscenti che proBacaredda in quanto beneficiario di preferenze e in crescente allungo sui contendenti).
E ancora si pone la domanda: può bastare? Come qualificare, sul piano ideale/ideologico, Ottone Bacaredda?
Mazzini sempre vivo. Ancora un ripasso (e una suggestione)
I testi giornalistici già richiamati e riconducibili all’età verde del sindaco, che dal sovrano Savoia avrebbe avuto nel lungo tempo della sua magistratura civica tutti i gradi delle onorificenze regie – cavaliere della Corona d’Italia, commendatore e, quando era ormai prossimo alla morte, anche grand’ufficiale –, hanno fissato ad abundantiam, s’è visto, un certo radicamento di Bacaredda nel progressismo liberale copiosamente alimentato dalla migliore mitologia mazziniana. Quel messaggio da lui, a nome dei suoi colleghi universitari, inviato all’Apostolo prigioniero a Gaeta ancora nei giorni della presa di Roma e la lettera consegnata al Corriere di Sardegna, dopo che i funzionari dell’Interno imposero la restituzione dello scritto “non recapitato” e il rimborso della relativa tariffa telegrafica, segnarono indubbiamente il giovane costretto a toccare con mano quanta ottusità vi fosse in certo liberalismo dichiarato ma non praticato.
È anche possibile e anzi probabile – ne affaccio la verosimiglianza non la prova – che la stessa simpatia per una figura come Giorgio Asproni presente nella redazione di A Vent’anni! oltreché dei giornali – dal Corriere a L’Avvenire di Sardegna – cui il giovane, a Cagliari ancora ma poi anche a Firenze ed a Genova, assicurava la sua assidua e sempre brillante collaborazione, possa aver convolto lui stesso e che il nome del deputato sardo associato a quello del Genovese abbiano echeggiato nella sua riflessione. Così dunque ancora negli anni che per lui, ormai laureato e trasferitosi per qualche tempo in continente, furono anni di altri studi (per il conseguimento del titolo di avvocato) e la partecipazione al concorso (vinto) delle dogane.
Ignorava certamente, Bacaredda, quel che Asproni scrisse a Floriano Del Zio, parlamentare lucano e filosofo, già professore di filosofia nei primi anni ’60 al liceo di Cagliari (erano gli anni in cui Ottone adolescente viveva a Sassari), confidandogli ciò che c’era stato fra lui e il grande Mazzini alla vigilia proprio dell’arresto e della detenzione gaetana: «L’ultima volta che io vidi Giuseppe Mazzini fu quando passò in Napoli diretto per Palermo, dove l’arrestarono per condurlo al forte di Gaeta. Per tre ore di seguito Nicola Lepiane ed io lo esortammo a cedere dal suo proposito con ragionamenti ai quali era molto difficile rispondere. Il Mazzini ascoltò paziente, e poi favellò così: “Conosco i pericoli a cui vo incontro, si avvereranno tutti i vostri vaticini tristi; so di più che il Generale Medici si reputerà felice catturandomi, e volentieri con animo soddisfatto mi farebbe fucilare: troppo io lo beneficai, ed i benefizii fuori misura sono sempre ricambiati da odio, e non da grazie. Pure io ho impegnato la mia parola d’onore che sarei andato, e vi anderò. Non ho mai mancato né alle promesse, né a me stesso”. E mi abbracciò commosso. Nol rividi che morto a Pisa!».
Nei giorni caldi caldissimi della conquista italiana della città eterna, il giovane Ottone – prossimo a compiere i suoi 22 anni e ad iscriversi al quarto anno di Giurisprudenza, nel fortilizio di palazzo Belgrano – visse indubbiamente le emozioni in rapida propagazione per quanto se ne sentiva e leggeva, portato a Cagliari dal telegrafo e dai giornali, forse anche da qualcuno in carne ed ossa piuttosto informato ed in arrivo dal continente. Nel suo messaggio a Giuseppe Mazzini prigioniero lo aveva definito «primo apostolo libertà italiana», lamentando poi, con il direttore del Corriere, che quella testimonianza di affetto partita da Cagliari fosse stata ritenuta, dalla ministeriale burocrazia carceraria, «come roba affetta da cholera o da febbre gialla». E il nome di Mazzini associato a quello di Garibaldi egli aveva nuovamente tenuto ad indicare come «un culto ed una religione per quanti sentono di amar la patria, oltre la cerchia di qual si voglia consorteria».
Ed è da credersi abbia partecipato, il giovane Ottone, alle feste organizzate (infatti) da lui stesso leader-nato, con i suoi colleghi di facoltà e d’ateneo, con i suoi coetanei: feste gioiose, nelle strade del centro cittadino, la mattina del 20, feste più composte e d’orgoglio patriottico, la sera, incanalate nel lungo corteo che, infoltito dalle rappresentanze e dall’emigrazione romana, raggiunse il camposanto di Bonaria facendo sosta davanti alla croce dei martiri di Mentana.
Roma italiana, Roma capitale d’Italia tale soltanto “virtualmente” da quel 27 marzo 1861 – la data che cinquant’anni dopo (essendo Bacaredda sindaco) avrebbe ribattezzato la piazza del Carmine – divenuta ora capitale anche di fatto, finalmente.
Ma perché non rivedere, come in un film parallelo, lo svolgersi di quelle giornate, anzi di quelle settimane, fra l’arresto di Mazzini ad agosto e la storica breccia di settembre, attraverso le sequenze memorialistiche di Giorgio Asproni? Lui testimone sul continente, fra Napoli e Firenze e Roma infine, lui mazziniano per intima adesione di coscienza e di pensiero, lui come il giovane Bacaredda a Cagliari «dolente» per l’ingiusta, assurda «cattività» dell’ex Triumviro? E di più: quanto di più doveva raggiungere Cagliari attraverso il solito telegrafo e le pagine dei quotidiani, accompagnando la vicenda personale mazziniana? La guerra fra Francia e Prussia che riporterà la repubblica a Parigi, Garibaldi che in un estrema prova di generosità, liberato dal suo domicilio coatto, lascia Caprera e raggiunge Marsiglia, e Tours, e Avignone, e Chambery… il caporale toscano Pietro Barsanti – nato giusto nei giorni del declino definitivo della Repubblica Romana (quasi la continuazione, per prepotente generosità giovanile, di Goffredo Mameli!) – fucilato 21enne perché accusato di insurrezione antisavoiarda, e sopra tutto la liberazione di Roma, l’incontro con l’Ajani (salvato in extremis dalla ghigliottina pontificia dove sarebbe dovuto arrivare con Monti e Tognetti: salvato dalla ribellione asproniana! e del Ferrari e dei repubblicani), la scarcerazione dei detenuti politici antipapalini compreso il Petroni prossimo gran maestro del Grande Oriente d’Italia, il papa Pio IX che si dibatte fra restare a Roma o andare offeso chissà dove (si ipotizzò anche la Sardegna, anche Cagliari, sede in San Lucifero!)…
Eccole allora le scene del film asproniano:
Napoli, venerdì 12 agosto 1870:
Indi insieme [con l’amico Nicola Le Piane] siamo saliti verso la via Vittorio Emanuele, e siamo entrati nella casa dove abbiamo trovato Giuseppe Mazzini che faceva colazione. Mangia quanto basterebbe a nutrire un pollastro. È in ottima salute, cosa che mi sorprese, memore dello stato in cui nello scorso anno lo trovai a Lugano in casa Nathan. Abbiamo fatto quanto da noi si poteva per dissuaderlo: egli stesso dava ai nostri ragionamenti il peso che realmente avevano; ma soggiunse di avere impegnata la sua parola d’onore che il giorno 15 sarebbe in Palermo. E ci sarà, a meno che non cada in mani della polizia. Mi ha detto che il Giacomo generale Medici è contro a lui accanitissimo, e che si è lasciato sfuggire di bocca avere dato tali ordini che, se capitasse in paesi sottoposti al suo comando, l’uffiziale che lo scuoprisse saprebbe d’un colpo liberarlo da ogni ulteriore fastidio. «E comprendo – mi soggiungeva – che pensi e faccia così, essendo che sono passate fra lui e me le più intime relazioni, e sarebbe impossibile che egli sostenesse per cinque minuti il mio sguardo che gli farebbe sentire il ferro candente della ingratitudine ai benefizj che ricevette da me». Mazzini ha timore che la Francia ci prenda nel moto rivoluzionario, perché se la iniziativa non parte da terra italiana, resterebbe la Nazione per altro mezzo secolo schiava della influenza francese. Egli crede che fra pochissimi giorni si darà una grande battaglia tra il Reno e la Mosella. Se vinceranno i Prussiani Parigi insorgerà contro l’Impero e proclamerà la repubblica, metterà in armi tutto il popolo alla difesa. Se vincono i Francesi – e non sarà vittoria decisiva – il nostro Governo si pronuncerà per l’alleanza, per la quale il Re Vittorio si è di già legato, ed è solamente trattenuto dalla pubblica opinione e dal timore della ruina. Ma allora Bismarck – che è cinico e senza convinzioni – darà quattrini alla rivoluzione. «Li ha di già promessi – Mazzini diceva – ma non li darà, se non come estremo rimedio di salvezza. Anche lo Imperatore di Russia – continuava a dire – nel tempo della guerra di Crimea, quando l'Austria era incalzata dalla Inghilterra e dalla Francia ad entrare nell'alleanza ed oscillava, mi mandò a Londra il tenore Tamberlich profferendomi milioni per promuovere una rivoluzione in Lombardia; ma quando l'Austria si dichiarò neutrale, non mantenne più la promessa fattami per organo del Tamberlich, il quale allora era molto carezzato alla Corte di Pietroburgo, dove cantava nel teatro come primo tenore». Mazzini mi ha detto: «Sono stanco, ho avuto troppe delusioni, e voglio finirla bene o male - con un grande tentativo». Di altre cose varie abbiamo discorso. Abbiamo menzionato Daniele Manin ed io gli ho detto che era un uomo di molto inferiore alla reputazione goduta in vita e dopo morte. Egli ha confermato. Mi ha detto che andò espresso clandestinamente a Parigi per fargli una visita d'onore, e che lo infervorò a scrivere la storia dell'ultima rivoluzione di Venezia. Gli rispose che aspettava le carte, che lo farebbe: poi quasi contro sua volontà soggiunse: «sebbene bisogna non scrivere perché poi ci gittano in faccia quello che abbiamo detto». Sentiva che gli avrebbero notato le sue contraddizioni. Il Mazzini considerava: aveva coscienza delle sue mutazioni e della instabilità nei propositi repubblicani. Anche del Gioberti si è parlato. Ci ha detto che in Parigi gli diceva: «Io non so questa riluttanza vostra al cattolicesimo, che pure è un sacco magno che cape tutto, e dove potete riporre tutto quello che volete». Così Gioberti intendeva il cattolicismo. Mazzini poi serba memoria del seguente fatto di Gioberti. Il Teologo Paglia era uno sfolgorato seguace della scuola giobertiana, e al Gioberti devoto con tale fanatismo che impazzò e morì tale. Quando i Gesuiti disseppellirono l'articolo che Gioberti aveva stampato nella Giovane Italia approvandone con larga lode il programma repubblicano e rivoluzionario, egli si trovò imbarazzato. Si raccomandò a Mazzini per negare e non ottenne. Allora disse a quest'ultimo: «Risponderò che l'articolo firmato Demofilo era scritto dal morto Paglia». Il Mazzini notava, ridendo questa immoralità a scaricarsi sui morti. Discorrendo delle spie, mi ha raccontato che vi sono alcuni che prendono danari d'ambe le parti e fanno ad ambe le parti la spia fedelmente. «Questo – egli confermava – io sperimentai specialmente nel Muller, che veniva a braccare per incarico del Gualterio e allo stesso tempo dava a me le più esatte notizie che non trovai mai false. Stava a me scrivermene con accorgimento». Delle altre cose di cui abbiamo parlato farò nota in tempo meno incerto. Questo importa che per ora si dica avere convenuto, che se poteva farlo indurrebbe a differire il moto, sebbene egli creda che in Sicilia sarà generale. Ci siamo separati con prolungato e forte abbraccio e baciandoci ripetutamente e facendogli auguri di esito felice. So che si è imbarcato. Il vapore era gremito di poliziotti e di birri, con un Commissario di pubblica sicurezza. A J. gli è venuta la diarrea per la paura. Ha avuto timore più grande allorché l’incaricato dell’amministrazione, spedendo il biglietto d’imbarco da bordo ai passeggeri, squadrandolo prima ha detto: si atteggia ad un ministro protestante, ma colui è Mazzini. Gli ha risposto: «Se non sapessimo che Mazzini è infermo ed è a Londra, vi direi che avete ragione, tanto questo prete acattolico si rassomiglia a lui». Avrà creduto? Ora aspettiamo con ansietà la notizia dello sbarco a Palermo. Che figura religiosa e storica non è mai Giuseppe Mazzini! Non abbiamo altre nuove dalla guerra.
Napoli, sabato 13 agosto:
Non abbiamo le convenute notizie che ci assicurino lo sbarco del Mazzini. Il vapore giunse a quel porto oggi a mezzogiorno. Siamo in grande ansietà. Temo forte che Medici lo abbia ingabbiato. Ma che farebbero i Siciliani? Attendiamo. Il destino ci domina.
«Sarà il nome più santo e venerato nella posterità»
Napoli, domenica 14 agosto:
La Nuova Patria, giornale al soldo del marchese d’Afflitto, Prefetto di Napoli, annunzia oggi che a Palermo fu ieri arrestato Giuseppe Mazzini, che aveva passaporto inglese sotto il nome di Enrico Zannith. Questa dolorosa notizia sarà telegrafata all’Europa ed all’America. Dopo quaranta anni circa di cospirazione, fuggendo a mille pericoli, percorrendo l’Europa ed eludendo fortunatamente tutte le polizie impegnate a prenderlo doveva cadere in mani delle sbirraglie messe agli ordini del generale Giacomo Medici, un tempo suo agente ed amico. Che farà il Governo di Giuseppe Mazzini? Gli farà un processo? Lo sottoporrà a giudizio? Lo condannerà? Io credo che Mazzini in prigione darà più da fare alla Monarchia regnante che Mazzini libero. Gli daranno l’acquetta? È anche possibile. Gli altri giornali ripetono la notizia, ma con riserve. E pur troppo è certa. Stamani hanno fatto una perquisizione al Joele nel suo scagno, ma non hanno trovato cosa alcuna.
Firenze, martedì 16 agosto:
Stamani siamo arrivati a Firenze in ritardo. Siamo andati alla Camera. Era affollatissima. La discussione è stata ardente […]. Prima di andare alla Camera ho incontrato per via Urbano Rattazzi. Egli mi ha detto che i Ministri ed i Consorti vogliono occupare Roma per supplire l’assenza dei Francesi. Dell’alleanza non parlano più. A Crispi hanno telegrafato da Genova che a Giuseppe Mazzini arrestato mancava il necessario. Crispi ha comunicato il telegramma al Ministro Lanza, che lo ha assicurato di avere ripetuto gli ordini di trattarlo col massimo riguardo. Così il Crispi ha risposto. Sono imbarazzatissimi di questa prigionia.
Napoli, venerdì 26 agosto:
Alla stazione di Forlì abbiamo trovato lo triumviro romano Aurelio Saffi. La moglie è entrata nel nostro vagone ed è venuta sino a Napoli con noi. Va a visitare il Mazzini. Stassera Nicotera ed io abbiamo fatto la domanda al Procuratore Generale per darci facoltà – unitamente alla detta Signora – di vedere in Gaeta Giuseppe Mazzini. Se celo negassero, scriveremmo a Lanza che celo ha promesso.
Napoli, sabato 27 agosto:
Oggi ho scritto al Quintino Sella, Ministro delle Finanze, la seguente lettera: «Mio caro Sella – Appena arrivato qui ho provveduto per avvertire l’amico al quale io dovrò parlare […]. Gradite i saluti miei, e permettete, voi giovane e Ministro, a me vecchio e rassegnato a morire come sono vissuto – affine al nulla – una parola. La vera gloria non si acquista senz’affanni e senza grande virtù. Per uscire da una grave compilazione è necessario sfidare il pericolo. Osate con gagliarda risoluzione. Completando l’Unità della Patria ne avrete potenza e fama immortale. La fortuna, che ama le grate violenze, vi sorriderà. Se no, no: se precipiterete molto giù, forse col nome turpe che voi certamente, credo almeno, non meriterete mai. Siete in realtà, e tutti vi reputiamo, anima, mente e forza del gabinetto. Uomo acuto e sagacissimo, comprenderete che la responsabilità vostra è grande, e che in casi eccezionali come questo, si perdona all’audacia anco se non coronata dal successo; non mai alla prudenza che raffina troppo e termina come chi trae il sottile dal sottile, per sbigottirsi codardamente. Credetemi sempre V.° Dev.mo G. Asproni». Il Sella è cinico: tiene però al potere; tiene alla vendetta come piemontese; ha un’ulcera nel cuore contro la Consorteria toscana che congiurò contro a Torino. Certamente egli brama di andare a Roma per questi motivi più che per la gloria; ma quanto è ostinato nei suoi propositi di imposte e di banca, altrettanto è perplesso per le imprese altissime. Egli è una maliziosa mediocrità. “Fa da leon col cuore impecorito”. Nicotera ed io abbiamo chiesto alla Procura Generale di Napoli il permesso di visitare Mazzini. Il Lanza, Presidente del Consiglio dei Ministri, ci disse che dipendeva da lei. La Procura ci ha risposto, oggi, che Giuseppe Mazzini è prigione in un forte che dipende unicamente dall’autorità militare. Stassera abbiamo telegrafato al Lanza, affinché provveda egli, come ci aveva promesso. Staremo a vedere che cosa ci risponderà. Mi pare che finiremo per pubblicare tutti questi sotterfugi vituperosi. Neppur essi, i Signori che lo arrestarono, sanno quale imputazione si abbia a fare a Giuseppe Mazzini, non sanno come uscire dallo imbarazzo in cui li ha messi questa cattura. Stassera ne abbiamo discusso in casa Nicotera, presente la Giorgina Saffi, che deride noi tutti come monarchici.
Napoli, domenica 28 agosto:
Il Ministro Lanza non ha risposto ancora al telegramma di Nicotera e mio col quale gli chiedemmo il permesso di visitare Giuseppe Mazzini nel forte di Gaeta, dopo che la Procura Generale ci rispose che quel carcere dipende dalla autorità militare. Aspetteremo ancora: forse ci deluderà. Il governo è vile. Il telegrafo ci annuncia la fucilazione del caporale Barsanti eseguita in Milano. È un altro martire della idea repubblicana: un errore di più della Monarchia. La via che conduce alla vera libertà è disseminata di triboli e spine e di tombe di valorosi che lottano e muojono per andare avanti. E c’erano dei faccendieri che si lusingavano della grazia sovrana. Stolti! Si perdona ai ladroni ed ai grassatori; si premiano gli assassini di Fantina e di Petralia Soprana, ma ai promotori di repubblica la monarchia non perdonerà mai.
Napoli, lunedì 29 agosto:
Il Ministro Lanza ha risposto al telegramma speditogli da Nicotera e da me per permetterci di visitare il Mazzini nel forte di Gaeta. Da una lettera particolare di amici sappiamo che alla Carlotta di Genova ricusarono che assistesse il Mazzini nella sua prigionia, ed è ripartita da Firenze. La stampa grida contro questo bestiale rigore e ridesta il sospetto che il governo avveleni il grande agitatore. Veramente il governo della monarchia va in piena reazione. La fucilazione del Barsanti è il primo segnale.
Napoli, martedì 30 agosto:
Stamane la Signora Saffi, Nicotera Giovanni e Nicola Le Piane sono andati a Gaeta per tentare se possono avere accesso a Mazzini, od almeno avere notizie della sua salute. Ritorneranno domani […]. La fucilazione del Barsanti è biasimata da tutta la coscienza del Paese. Ci voleva la cecità di un governo avviato alla perdizione, e un re che ha perduto ogni stima, per commettere questo errore. Sono gli estremi furori del militarismo rappresentato dai Lamarmora, dai Cialdini e compagni. Il Barsanti andò alla morte col coraggio del martire della causa repubblicana, e si avrà un culto sua memoria.
Napoli, mercoledì 31 agosto:
Nicotera non andò a Gaeta. Vi andarono Le Piane, la Saffi e la Profumo. Non sono ancora ritornate. Il Nicotera telegrafò al Fabrizj che l’autorità giudiziaria si oppone ai permessi per vedere Mazzini. Nicotera gli ha scritto una lettera molto acre. Forse la pubblicheranno a Firenze. I giornali pubblicano una lettera cocente della Marchesa Anna Pallavicino Trivulzio, nella quale rende conto dei vani sforzi per avere accesso al re, e come il Lanza la ricevesse al momento che eseguivano la fucilazione del Barsanti. Questo sangue ricadrà sulla Monarchia e sopra i suoi Ministri.
Firenze, giovedì 15 settembre:
I principali Comuni d’Italia felicitano il governo della marcia su Roma. Le nostre falangi sono alle porte della Città Eterna. Le Divisioni comandante dal Bixio hanno occupato Corneto e domani investiranno Civita Vecchia. […]. Informano che nel forte di Gaeta negano al Mazzini libri, carta, penna e calamajo e che non gli consentono conversazione di sorta, ho scritto una lettera al Castagnola, dicendogli che di questa esorbitanza governativa egli ha la maggiore responsabilità verso i Genovesi, che ne sono irritatissimi. Vedremo se e cosa egli mi risponderà.
Firenze, sabato 17 settembre:
Oggi ho scritto al Procuratore Generale Regio presso la Corte di Lucca domandandogli licenza di visitare Giuseppe Mazzini a Gaeta. L’ho pregato di estenderla anche al mio collega ed amico il deputato Nicotera, facendolo inteso che il Ministro Raeli disse ieri al deputato Regnoli, mandato da me e da parecchi deputati a chiedergli conto del Mazzini, che quest’ultimo dipendeva specialmente dalla Procura di Lucca. Ora aspetterò la risposta. […]. La Divisione Cadorna è ora alle porte di Roma. Ho incontrato il Lanza davanti alla porta principale di Santa Maria del Fiore e, richiestegli notizie, mi ha risposto che il Cadorna (a cui i piemontesi hanno dato il battesimo novello di Ca-dorma) a preghiera del Conte Armin, Ambasciatore Prussiano, ha dato il tempo di altre 24 ore per la resa. Aspetteremo dunque sino a domani.
Firenze, domenica 18 settembre:
Il Sella mi ha promesso che appena i nostri soldati entreranno a Roma e la strada sarà libera, mi manderà un biglietto alla Camera […]. Siamo tutti nella più grande ansietà. I Prussiani circondano Parigi; ma in Francia lo spirito di popolare resistenza si fa grande e mi attendo cose grandi e memorabili. Garibaldi è sempre in Caprera sorvegliato davvicino. Ho scritto al Procuratore Generale di Lucca per avere il premesso di visitare Mazzini, essendo che alla medesima fu riservata questa facoltà, secondo le risposte date al deputato Regnoli dal Ministro Raeli, al quale ne parlò per incarico di parecchi deputati. Vedremo se mi risponderà.
Firenze, lunedì 19 settembre:
Oggi le comunicazioni con Parigi sono rotte. I Prussiani stringono l’assedio. È manifesto il proposito del re Guglielmo di volervi entrare ad ogni costo e imporre le leggi del vincitore […]. Neppure oggi è cominciato il fuoco contra i mercernarj che resistono a Roma. Là abbiamo un esercito imponente. Ma, Dio buono, chi lo comanda! Un Cadorna! C’è grande impazienza dell’indugio: ma è un bene che si entri a Roma tirando cannonate. In tal guisa le condizioni saranno meno offensive alla libertà. Quel Lanza che criminale è mai! […]. Oggi ho presieduto l’Assemblea generale degli azionisti di Montevecchio. Tutto si è fatto col massimo accordo. Si son messi in chiaro i furti colossali e sfacciati dei zio e nipote Guerrazzi. Ho ricevuto risposta del Procuratore Generale di Lucca. Per parte sua mi dà licenza di visitare il Mazzini in Gaeta; ma mi avverte che non sa se lo permettano le altre Procure Generali che istruiscono processi contro a quel Grande. Per mezzo del Regnoli ho comunicato la lettera al Ministro Raeli. Questi ha detto che ne parlerà al Lanza. Quanto sono miserabili questi servitori del re miserabile! Sono dominati dalla paura, e non fanno che spropositi.
Ancora dal “Diario”: la liberazione di Roma dalla teocrazia di Pio IX
Firenze, martedì 20 settembre:
Il Ministero tratta la Camera come un'assemblea di uscieri. A stento ci ha dato un laconico dispaccio. Eppure anche gli spazzini di Firenze alle ore 9 avevano cognizione che il fuoco contro Roma è stato aperto alle ore 5 e 20 minuti stamani dalle cinque divisioni. Alle 8 la breccia era quasi aperta tra Porta Pia e Porta Salaria. Più tardi è arrivata la notizia che le truppe italiane si precipitavano con entusiasmo entro le mura, sempre combattendo. Il popolo fiorentino a capannelli per le vie, e specialmente in piazza della Signoria e in quella di Santa Trinità, guardavano se s'inalberava la bandiera. Parecchi deputati abbiamo fatto ressa al Comm. Trompeo, ed io stesso andai cogli uscieri sul Campanile del Palazzo Vecchio ed ho fatto sventolare la bandiera. È stato un momento di commozione incredibile. Immantinenti il popolo ha occupato le vie acclamando freneticamente con bandiere. Anche al Palazzo Municipale si è issata la bandiera. Il popolo ha occupato i campanili ed ha fatto festa al suono generale di tutte le campane della città: non è stata muta neppure la piccola della chiesa Orsanmichele. Per le vie le bande hanno suonato l'inno di Garibaldi e la marcia reale. Dal '48 in poi non si era mai vista in Firenze una manifestazione tanto spontanea e tanto solenne come la odierna. Strapotente è il nome di Roma, ed oggi si è fatto palese anche in Firenze che questa grande idea supera tutte le altre, non escluso l'interesse materiale. Questo è il più grande avvenimento del secolo. Cosa non immaginabile, la Monarchia costretta dalla rivoluzione a mettere giù col cannone il Papato! L'Italia sola nel mondo ha virtù di dare questi singolari esempli ed operare questi miracoli di civiltà. L'entusiasmo di tutte le altre città d'Italia non sarà inferiore a questo di Firenze. La Gazzetta Uffiziale pubblica oggi la lettera del Re mandata al Papa per mani del Ponza di San Martino. È un'opera vituperosa: degna della miserabile intelligenza del Ministero. Fa vergogna al Governo d'Italia. Una confessione preziosa vi è che il Re va a Roma per paura del partito di azione e per salvare la propria corona. Già da un Lanza non si deve aspettare che cose asinesche. Il Pasquino lo ha dipinto a cavallo, come la statua di Marco Aurelio, avente un lavativo in mano e con la iscrizione ai piedi: Quam parva grammatica regitur mundus! Eppure due cose faranno sempre onore a questo novello Sangrado: 1°, la fermezza insuperabile con cui si oppose all'alleanza che il re voleva ad ogni costo col Bonaparte nella guerra contro la Prussia; 2°, che conduce la Nazione a Roma obbedendo allo impulso ricevuto dalla pubblica opinione.
Firenze, mercoledì 21 settembre:
Dai telegrammi che arrivano si vede che in ogni città d’Italia l’ingresso delle truppe italiane a Roma è stato festeggiato con entusiasmo straordinario. Le popolazioni italiane istintivamente sentono che questo è il più grande avvenimento del secolo. Il Dr. Lanza ci è avaro di notizie di Roma. Sappiamo per altre vie che quel popolo ha festeggiato con maravigliosa espansione l’Esercito italiano. Io anderò stassera a Roma, sebbene dicano che la locomotiva non va oltre Monterotondo. Proseguirò a cavallo sino a Roma.
Roma, giovedì 22 settembre:
Ier sera col treno delle ore dieci io partii da Firenze. Il deputato D’Amico mi consentì gentilmente uno scompartimento di vagone riservato. Erano con me l’ex deputato Giovanni Battista Cuneo e l’avvocato Muratori. Per fortuna il treno è arrivato sino al ponte rotto sull’Aniene. Il trasbordo è durato due ore. Siamo arrivati alla stazione verso le undici antimeridiane. […]. Siamo venuti all’Albergo di Costanzi […] Abbiamo letto affisso sui muri l’Avviso di una convocazione di popolo al Colosseo e ci siamo andati. Là ho veduto i deputati Cucchi e Pianciani, e Mattia Montecchi che presiedeva l’adunanza. […]. Vi ho pure veduto quel figuro del Guerzoni. Il quale accompagnò il generale Bixio nella spedizione. Ci ha raccontato che dalla Città Leonina si fece un fuoco vivo contro i soldati del Bixio che ebbe parecchi uccisi, un cannone smontato, che fremeva a diventare un’idra per la proibizione precisa del Governo di non far fuoco sulla Città Leonina. L’adunanza è stata tranquilla. Si trattava di comporre una Giunta provvisoria per il comune di Roma. […]. La lista della Giunta è stata approvata per sollevazione di cappelli. V’erano 14/mila persone. Si è suonata la marcia reale. Siamo in luna di miele per la monarchia sabauda. Si è fatto cenno di Garibaldi. Allora la esplosione è stata immensa. Niuno ha parlato di Giuseppe Mazzini. Verrà il tempo della sua postuma glorificazione. Per ora è in carcere. […] al Caffè san Carlo abbiamo trovato il Bixio. Abbiamo ciarlato allegramente felicitandoci di essere in Roma. Finalmente! Il Bixio ha dato convegno al Cuneo ed a me per andare domattina insieme a visitare il Palatino ed altri antichi monumenti. Egli non era stato mai più a Roma dopo il 1849. Le feste che ha fatto Roma in questa occasione hanno riscontro solo nell’ingresso di Garibaldi a Napoli. La stessa diplomazia ne è stupefatta. I Zuavi furono disarmati con tutti i soldati pontificj. La popolazione li ha cariati di contumelie e gittato sul loro viso letteralmente scartocci di merda. Erano odiatissimi. L’accoglienza allo Esercito italiano supera la immaginazione. È furore, è frenesia. Il popolo della Città Leonina ha invaso l’atrio di San Pietro e cercato di penetrare nel Vaticano, maledicendo ai preti, ai frati, al Papa. Pio IX ha implorato la tutela dei soldati del generale Cadorna, che gli ha subito mandato un battaglione di Fanteria. I diplomatici raccontano che la mattina del 20 sin dalle ore 5 e mezza erano a far corona al Papa nel Vaticano, dove stettero per più di cinque ore in piedi. Dicono che il Papa era pazzo. Non credeva all’attacco. Anche dopo principiata la lotta egli diceva: «Scenderà una legione armata dal cielo che respingerà gli invasori». Allorché il Kanzler fu a dire che ogni resistenza era vana, si sbalordì. Vorrebbe andar via, e non osa. Non sa decidersi. Frati e preti sono ritirati e pieni di paura. La popolazione li odia a morte ed è inebriata della decadenza papale. Cominciano ad apparire i giornali, ma di niuna importanza. Sono un embrione. Sono stati messi in libertà i ditenuti e condannati politici; tra loro il Petroni ed il Castellazzo. Ho veduto pure l’Ajani, al quale ho dato un forte amplesso. Ora principierà il lavoro della repubblica.
Roma, venerdì 23 settembre:
Comincia in Roma la reazione governativa. Il generale Cadorna (o Cadorma!) ha nominato la Giunta provvisoria, escludendo il Montecchi, il Castellani Alessandro ed altri nomi che hanno creduto democratici. […]. Ho riveduto l’Ajani e l’ho informato della parte che Monsignor Sagreti ebbe nella sentenza della Signatura per salvarlo dalla morte. Più tardi sono salito al Quirinale ed ho fatto visita al Sagreti, Uditore Santissimo. Egli si è immensamente rallegrato di questa cortesia che gli ho usato. Si è raccomandato a me di ottenergli che gli conservino l’alloggio nel caso dispongano del Quirinale […] Gliel’ho promesso ed ho scritto subito confidenzialmente al Ministro Sella. Il Sagreti mi ha detto che ier sera vide il Papa, che è grandemente avvilito. È come cascato dalle nuvole.
Napoli, giovedì 6 ottobre 1870:
In casa di Nicola Le Piane ho veduto la Signora Carlotta, che è di ritorno da Gaeta, dove si recò per visitare Giuseppe Mazzini. Ci ha detto che è in ottima salute; che è trattato col massimo riguardo e che tutti fanno a gara per servirlo. È a sua disposizione un maresciallo dei Carabinieri che gli adora i pensieri. La sera si trattiene dandogli lezioni di astronomia. Ha libri, giornali, carta, tutto quello che desidera, ed ha principiato a scrivere la Storia d’Italia. Conviene che dopo l’occupazione di Roma la monarchia per un anno non è attaccabile con successo. Egli desidera di visitare anche in segreto la sepoltura di sua madre, ed aspetta l’amnistia per recarsi a Genova. La Signora Carlotta ha tal colore e tali lineamenti nel viso, e gli occhi, da farla credere sorella germana del Mazzini. Gli rassomiglia moltissimo. […]. La democrazia germanica si rianima e manifesta la sua avversione alla guerra contro la Francia repubblicana. Intanto re Guglielmo stringe d’assedio Parigi che par divenga un osso duro. Speriamo che la Francia si ridesterà concorde e fiera. Il telegrafo segna la pubblicazione di un manifesto di Luigi Bonaparte. Spera ancora di rimettersi sul trono. Il potere avvelena il senno. Il nostro governo prosegue le sue trattative col Papa, e ci perde il latino. Chi discute coi preti finisce sempre per essere soggiogato. Ma la monarchia sente la necessità dell’ajuto sacerdotale per mantenersi sul collo dei papali.
Napoli, venerdì 7 ottobre:
Non abbiamo altre notizie politiche. Vedremo se si confermerà la partenza di Garibaldi da Caprera ed avviato per Marsiglia, come La Piccola Stampa di Firenze annunziò. I Nizzesi sono inferociti contro la signoria dei Galli e vogliono essere o repubblica autonoma o uniti agl’Italiani. Se persisteranno con costanza otterranno il fine agognato.
Napoli, lunedì 10 ottobre:
L’assedio di Parigi ha contribuito a sciogliere il problema della navigazione aerea. Ormai il servizio postale si fa tra Parigi e Tours con regolarità. Gambetta è arrivato con un pallone ad Amiens; di là andò a Tours. Anche Garibaldi vi è arrivato. Lo spirito fiero dei Francesi comincia a manifestarsi potente. Io credo che finiranno per vincere i Prussiani. Si ricorderanno per secoli dell’Impero di Luigi Bonaparte. Anche oggi cospira col nemico ad umiliare la Francia, pensando sempre a rimettersi in capo alla corona. Che pendaglio da forca!
Napoli, martedì 11 ottobre:
Il telegrafo ci dà notizie sugli sforzi che la Francia fa per respingere la invasione. Annunzia proclami di Vittorio Hugo – gran ciarlatano – e di Louis Blanc agli Inglesi. C’è anche un manifesto del Gambetta infervorando la Francia a difendere la capitale. [...]. Garibaldi è a Tours. Il telegrafo è molto avaro a suo riguardo. Dal decreto di amnistia si deprende che Mazzini vi è compreso. Forse a quest’ora l’avranno scarcerato e sarà partito a bordo di qualche legno di guerra da Gaeta. I romani si mostrano niente grati al Mazzini, che sarà il nome più santo e venerato nella posterità: lo dimenticano anche nelle candidature per le prossime elezioni politiche. Ma così è il mondo. La croce a Cristo e la tiara al Pontefice.
Napoli, mercoledì 12 ottobre:
Sono stato alla direzione del Pungolo, ed ho passeggiato col Comin. Discorrevamo di questo, che forse la posterità non si farà un’adeguata idea del nostro lavoro assiduo, penoso, incredibile per demolire la mala signoria dei preti e ricuperare Roma alla Italia. Il Mazzini intanto, che è l’Apostolo vivente di questa grande idea, è in carcere, mentre il generale Alfonso Lamarmora che derideva il pensiero della Unità come la fantasia di mentecatti oggi è a Roma Luogotenente del Re. Così ha voluto il capriccio di quella fortuna…
Napoli, giovedì 13 ottobre 1870:
Orléans è stata presa d’assalto dai Prussiani. Ormai per i Francesi non c’è più speranza di vittoria in battaglia campale: unica e vera risorsa è la guerra insurrezionale della Nazione. Ma ha essa questa grande virtù? La corruzione imperiale l’ha evirata. Così periscono i popoli che si materializzano e si abbandonano alla suprema cura di un uomo. Mazzini è ancora nel forte di Gaeta. Si attendono i decreti della Corte di Lucca in applicazione dell’amnistia per metterlo in libertà. Nicola Le Piane ed io vi anderemo, se sapremo in tempo che è in libertà. Io credo che lo faranno imbarcare sopra qualche legno di guerra per timore di manifestazioni di simpatia.
Napoli, venerdì 14 ottobre:
La stampa italiana a coro unanime biasima la nomina del generale Alfonso Lamarmora a Luogotenente del Re in Roma. Quella testa di zucca ne farà delle graziose. Speriamo che durerà poco. Stamani è stato scarcerato Giuseppe Mazzini, che è partito subito da Gaeta per via di terra. Aspettiamo lettera della Venturi che ci sappia dare più larghe informazioni. La situazione della Francia peggiora sempre. I tedeschi corrono sulle ali della vittoria. Parigi resiste. Garibaldi si recò ad Avignone, non sappiamo a qual fine.
Napoli, domenica 16 ottobre:
Garibaldi era a Chambery, dove si organizzano i volontari italiani affidati coi tiratori francesi al suo comando.
Napoli, lunedì 17 ottobre:
Stamani ho conosciuto il giovane Castiglioni, uscito dal Carcere della Concordia imputato di cospirazione repubblicana. Accompagnò il Mazzini nel viaggio per Palermo dove fu arrestato dal Medici. Il Castiglioni fu arrestato dopo. Dalle cose che gli disse il Giudice Cipolla si argomenta che Carlo Mileti gli fece anche la spia. Già di ogni turpitudine è capace quel tristanzuolo. […]. Si parla con insistenza della risoluzione del Papa ad andarsene: ma dove anderà egli? Quale potenza del mondo gli offrirà le garanzie di libertà che gode in Italia? I fanatici vorrebbero agitare il mondo; ma il mondo non è più con loro. Siamo entrati in una era novella di progresso civile.
Napoli, domenica 23 ottobre:
Giuseppe Mazzini ha pubblicato una dichiarazione ed un brano di lettera che scrisse al Procuratore Generale di Lucca, respingendo ogni idea di colpa nel suo quarantennale apostolato. A Roma non si trovò un giornale che accettasse l’incarico di pubblicare questo buon scritto. La stampa è sotto la censura del generale Lamarmora e dall’aguzzino Sig. Gerra, mano destra della Consorteria. Da Francia niuna buona. Il nostro Governo si ostina ad impedire il concorso della gioventù italiana che parte per raggiungere Garibaldi. In Londra continuano le riunioni popolari che formulano ordini del giorno a favore della repubblica francese. […]. La pubblica opinione è rivolta universalmente contro al re di Prussia. Vedremo che farà Garibaldi.
Napoli, lunedì 24 ottobre:
Ho ricevuto lettera del Senatore Musio, che mi ha mandato l’ultimo suo opuscolo intitolato Della questione di Roma e della relativa Convenzione di Settembre. È un trattato scritto con molta dottrina, con precisione, e chiarezza. Ne farò qualche articolo al Pungolo. È singolare la energia di questo vecchio Magistrato a settantaquattro per settantacinque anni. Ha forti studi e mente soda e quadrata.
«Verrà il tempo della sua postuma glorificazione»
A proposito di 20 settembre e di Porta Pia. Non potrebbe dimenticarsi che anche il giovane – allora giovanissimo, doveva essere il 1861 ed allora a lui «la parca, come ad Antiloco in Omero, il decimo ed ottavo anno filava» – Francesco Cocco Ortu “tifò” da subito, con animo puro, per Roma capitale. Fu quando costituì, con i coetanei e condiscepoli universitari Ponsiglioni e Mulas, «uno dei comitati di provvedimento, agitantisi per la liberazione di Roma e Venezia, che facevano capo alla presidenza di Federico Bellazzi [mazziniano e garibaldino, nda]» e con essi, con Ponsiglioni e Mulas cioè, «atteggiandoci a rappresentanti della Sardegna» si delegò a rappresentarla al congresso di Genova il deputato Giorgio Asproni» (cf. Memorie autobiografiche 1842-1889, cit. p. 114). E tutto torna: Mazzini e Garibaldi, Asproni e Cocco Ortu e… Bacaredda.
L’amnistia decretata per solennizzare l’evento romano determinò la scarcerazione anche di Mazzini. Il quale ne scrisse immediatamente a L’Unità Italiana, il giornale milanese di Vincenzo Brusco Onnis. La cosa rimbalzò anche a Cagliari dalle colonne del settimanale locale La Verità – periodico acceso da una vibrante passione anticlericale – il 23 ottobre dello stesso 1870. Ne ho già riferito, ma varrà ripetere, immaginando l’impatto sui giovani della iconoclastia cagliaritana, Bacaredda nel mezzo: «… Sono libero. Hanno riaperto la porta della mia prigione, e sono escito… Non accettando l’amnistia, non intendo giovarmi dei suoi benefici. Ripiglierò dunque tra pochissimi giorni, volontario la vecchia via dell’esilio. Dolente ma sereno e fermo nella mia fede e certo che i grandi fatti d’Italia devono un dì o l’altro compiersi tenderò da lontano l’orecchia a udire… se dalla sacra, comunque or profanata Roma o da un angolo qualunque d’Italia, sorga una voce che accenni a generosi fatti e rinnovelli la rotta tradizione di libertà repubblicana…».
Pur se non dichiaratamente repubblicana la stampa cagliaritana, ora questa ora quella testata quotidiana o periodica e d’orientamento progressista, ha dato conto delle vicende nazionali (e di quadro internazionale) in cui ben si è situata quella personale dell’Apostolo recluso, anche rimbalzando articoli e documenti apparsi su qualche giornale continentale. Nel novero certamente il repubblicanissimo marchigiano Il Lucifero che, all’indomani della storica breccia, ha accolto una lettera di Aurelio Saffi (titolo “Come sta Mazzini in Gaeta?”) in cui l’antico triumviro della Repubblica Romana ha richiamato alcune confidenze del detenuto e la sua espansione sentimentale anche al sardo Giorgio Asproni: «Ora ecco ciò che scrive, il 19 corrente, intorno alla sua salute: “sto letteralmente bene, e fisicamente ho quanto mi occorre. Son trattato con la massima cortesia e avrei più se volessi. Moralmente nessuno potrebbe giovarmi, perché le cure dell’anima non scendono dal pensare a me ma da ben altro. Non sarei lieto se fossi libero. Rassicuratevi e vivere, quanto a me, tranquilli… deciso come sono a non difendermi, anzi d’ora innanzi a tacere davanti ad ogni interrogativo, tutto ciò poca importa… ringrazia e rassicura sul conto della mia salute Fabrizi, Nicotera, Asproni, Bertani ecc. Sono grato a tutti ma in verità dovrebbero dare le loro cure a cose che importano più assai di me”. Sempre eguale a se stesso vedete. In carcere come fuori, Mazzini guarda, colla mente e col cuore, non a se, ma alla patria».
Di Asproni… bacareddiano e delle “lettere di Genova”
La simpatia per la variegata area democratica costituitasi nella lunga e complessa stagione dell’unità nazionale fino ed oltre la presa di Roma, e di più, la simpatia anche per Giorgio Asproni deputato devoto di Mazzini ed amico di Garibaldi non toglie al giovane Bacaredda il gusto di pensare sempre comunque con la sua testa, di esaminare le cose, i fatti e le opportunità, oltreché le persone, con il suo metro di giudizio non strettamente classificabile in alcuna scuola dottrinaria. Così, quando – ventitré-venticinquenne – da Genova (e Firenze) ha modo di inviare commenti e corrispondenze a L’Avvenire di Sardegna – la testata di nuova fondazione voluta da Giovanni De Francesco (in trasloco da Il Corriere di Sardegna), qualche puntata di riserva, se non proprio di polemica, egli non se la risparmia anche verso i suoi più prossimi.
Sull’Avvenire del 9 gennaio 1872 scrive delle “fortificazioni della Sardegna” nel quadro dei presìdi, istituzionali e materiali, di cui la nuova Italia deve potersi dotare, e va dotandosi, come «potenza di prim’ordine, sorta dallo sfacelo di tante potenzine appigionate»… E dunque si tratta della flotta navale, dell’esercito, della difese delle frontiere, ecc. incombenze su cui il ministro della guerra Cesare Francesco Ricotti-Magnani – un generale piemontese piuttosto decisionista – sta facendo fronte bene.
E’ in tale contesto che è entrata la proposta dell’on. Asproni, avanzata al Comitato segreto della Camera, appunto di «fortificare militarmente la Sardegna, per affrancarla dalle insidie di una nazione, che se non ci è palesemente ostile – almeno per ora – può quandochessia credersi in diritto di accampare delle pretese e delle non guari antiche ragioni di vendetta a suo riguardo». (Chiaro il riferimento alla Francia, sorella e ancora zia diffidente e dispettosa).
Bacaredda forse conosce i termini della discussa legge di riforma dell’esercito presentata dal ministro, forse sa che le accuse a questi rivolte, se davvero fondate e “realizzate” circa un preteso danno che le sue iniziative recherebbero, per… paradossale eterogenesi dei fini, alle forze armate, farebbero felice il Bittese che considera un «flagello» l’esercito stanziale, propendendo egli – secondo la più classica scuola repubblicana – per la «Nazione Armata»…
Ma non è tanto alle problematiche di caserme, reggimenti e divisioni che il giovane articolista pare interessato: è piuttosto alle priorità sociali ed economiche della sua regione che egli pone la propria attenzione e ad esse vorrebbe che i ministri del regno volgessero le loro assidue cure. Riconosce, Bacaredda, che nell’ispirazione della proposta Asproni c’è l’«affetto ardentissimo che il deputato sardo nutre per la sua terra natale», ma ciò non di meno esprime qualche dubbio sulla sua effettiva utilità… Sì, in astratto, lo sarebbe forse per la patria, ma di certo non per la Sardegna in quanto regione purtroppo a sviluppo zero! E comunque sarebbe un’operazione estranea alle brucianti priorità declamate dall’Isola! Certo – aggiunge – la bocciatura decretatane dalla Camera risponde in primo luogo alla logica del «dimenticatoio» che il governo e il Parlamento di Roma, com’è stato a Torino e Firenze, sogliono praticare, «per religiosa tradizione», quando debbono decidere questioni d’interesse isolano, ma nel merito... se ne potrebbe dire!
Scrive: «La Sardegna ha un territorio vastissimo, una volta zeppo d’uomini, che mano mano l’hanno disertato; ha paludi malvagie là dove erano ville ridenti ed orti copiosi, manca di strade che avviverebbero il commercio, porterebbero il maestro elementare dove non c’è che il pastore, che dirozzerebbero popolazioni montanare viventi in una primitiva semplicità; manca di porti che la natura ha maestosamente tracciati, e che attendono la mano dell’uomo per divenire monumenti di grandezza e di prosperità; il suo terreno produce, quasi a dispetto dell’uomo; la semente vi germoglia senza essere mancipia della vanga: e pure per giornate e giornate esso non è seminato che di sassi e di squallore; il sottosuolo è ricco di inesplorati tesori… I sardi sono arditi, intelligenti, generosi, facili all’entusiasmo, saldi nella riconoscenza… ma facilissimi allo sconforto, come tutti i popoli meridionali […]. Le lunghe disillusioni, le male ricompense, quel giuoco indegno di prometter sempre e non mantenere mai […], li hanno accasciati; così che oggi sorridono collo scherno a chi si sbraccia di proteggerli…a parole; sdegnano ogni conforto ed ogni supplicazione, e inclinano a perdere sin quella fede nell’avvenire … che guai se si perdesse davvero!».
E conclude: «Per la Sardegna ci vuole un governo d’uomini più equanimi, più generosi e più previdenti, che pensino a confortare il cuore dei sardi e a fortificare – non militarmente però – questa terra poco fortunata». Si tratta di «purgarla dalla malaria, promuovendovi l’emigrazione di quelle colonie che oggi vanno in America in cerca di già sfruttati tesori, favorendovi le comunicazioni», sicché «anche senza castello e senza bastioni, si potrebbe dormir sicuri tra due guanciali, ché essi non si scorderebbero, a tempo opportuno, di qual nazione fanno parte, e quali furono i loro padri del 93 […]. Invitiamo i deputati sardi – a tempo avanzato – di farsi iniziatori presso il governo di coteste fortificazioni».
Sia chiaro: montagne di carte parlamentari e di articoli di giornale dimostrano che prima del giovane Bacaredda in quelle riflessioni e in quelle perorazioni c’è passato Asproni, Asproni stesso, l’anziano Asproni deputato bittese ormai giunto alla vigilia quasi della sua scomparsa. Non lo contesta Bacaredda, è evidente, ma pure egli sente di dover dire la sua, in aggiunta e anche, nello specifico, in dialettica.
Con Asproni nelle riflessioni, anche in quelle scritte, bacareddiane, naturalmente entrano e stazionano Garibaldi e anche Mazzini, o meglio, il “partito” di Mazzini, ché l’Apostolo s’è involato ormai da due anni.
Di “Garibaldi calunniato” dai francesi scrive sull’Avvenire del 7 febbraio 1873, della “dialettica” accesasi interno al “partito” repubblicano fra mazziniani puri e garibaldini transigenti scrive sullo stesso giornale, sempre siglandosi O.B., il 1° ottobre 1874.
Se ne può accennare qui soltanto per confermare l’interesse che il futuro sindaco liberale di Cagliari mostra, ad ogni piè sospinto, nella sua giovinezza, per l’area politica che più tardi considererà sì generosa ma non spendibile nelle tavole legislative ed amministrative dell’Italia che guarda al Novecento…
In contestazione entrano subito alcuni giudizi espressi dal deputato della destra francese divenuto segretario dell’Assemblea Nazionale dopo la sconfitta di Sedan e la caduta dell’impero di Napoleone III: «disse già alla tribuna che l’unità d’Italia egli l’aveva ritenuta sempre dannosa alla Francia, e quindi costantemente osteggiata, mentre altri la favoriva; rivelazione abbastanza esplicita che importa per ogni buon patriota francese l’obbligo di congiurare ai nostri danni, e di ficcarci sempre dei bastoni fra le gambe, perché… rompendoci le ossa restituiamo alla Francia l’antica egemonia».
Il rapporto del Sègur «è così zeppo di calunnie, di ingiurie e di plateali ironie contro l’italiano Garibaldi, largheggia così d’insinuazioni per i garibaldini che, nel nome della fratellanza, andarono a spendere la vita per una nobile causa, è così maligno ad un tempo sciocco, e vuoto e spudorato che mai l’eguale».
E soggiunge, l’articolista, ancora ironico e soprattutto sdegnato: «Sapete che cosa andò a fare Garibaldi al di là delle Alpi, quando disse di mettere la sua spada in servizio della repubblica? Andò a scarrozzare di lungo e di largo per le vie di Marsiglia e di Digione, a gingillarsi con un bel mantello di centonovanta lire sulle spalle tra i dandy e le Marion Delorme repubblicane, andò a dissanguare la Francia per rimpolparsi e rimpannucciarsi…».
Disgustato per tanto «veleno del rospo sulla figura luminosa di quell’italiano», commenta in conclusione: «Infelici quegl’illusi e generosi italiani che morirono sui campi francesi delle palle prussiane, acclamando alla fratellanza dei popoli: sui loro incolti sepolcri fischia oscena e sinistra l’autorevole voce del signor Sègur… più infelici quelli che ritornati poveri, feriti, disillusi in patria, devono assistere oggi a questo turpe esempio d’ingratitudine che la Francia repubblicana ci dà in forma ufficiosa e solenne».
Così nello sguardo internazionale. Ed in quello interno? Cosa dice, il giovane Bacaredda, della “dialettica” accesasi fra i puri ed i transigenti? Qui non si tratta, ovviamente, da parte degli “avversari”, di vilipendio a Garibaldi: la contesa che può animare taluno nei suoi confronti è per ben altro che non per la superiore dignità della sua figura da tutti riconosciuta ed onorata. A non condividersi è semmai la sua condiscendenza verso la casa reale e l’istituto monarchico, nel ribaltamento degli antichi ideali… E’ appena un accenno il riferimento dell’articolista che ne tratta in un mix di cronaca circa la nuova ferrovia di collegamento fra Savona e Torino o circa gli impegnativi lavori in corso nel cantiere di Sestri, dove si va costruendo un grandioso piroscafo in ferro commesso da una compagnia inglese… e su altro ancora, dalla presenza a Genova di Edmondo De Amicis, alla partenza del pittore Junk per Costantinopoli, alla riapertura del teatro “Paganini”…
E dunque: «E’ scoppiato un vivo dissenso nel partito repubblicano. Mazziniani e Garibaldini si sono recisamente allontanati gli uni dagli altri. Certi troppo passionali articoli dell’Unità Italiana contro Garibaldi hanno provato le bizze della Bandiera, che finì per dar sulla voce a Maurizio Quadrio, l’erede legittimo delle dottrine di G. Mazzini. E’ molto difficile che dopo le polemiche di questi giorni e le decisioni delle diverse associazioni si ristabilisca la concordia». La sua è una presa d’atto, forse, anzi senz’altro, dispiaciuta…
Emanuele Canepa, il garibaldin-mazziniano della “Giovine Sardegna”
E a dire di garibaldini e mazziniani a Cagliari. Cagliaritano di Villanova, classe 1861, Emanuele Canepa – dei Canepa originari di Chiavari venuti in Sardegna per esercire caffetterie e business collegato, fra la piazza Costituzione e s’arruga de Is Argiolas (poi Garibaldi), dei Canepa anche che avrebbero dato per vent’anni un vescovo alla Chiesa cattolica con residenza nuorese (e affaccio persino nel sattiano Il Giorno del giudizio!), dei Canepa che avrebbero segnato, ognuno con una sua cifra irripetibile, molti segmenti della vita cagliaritana – è uno dei protagonisti giovani della scena cittadina che accompagna Ottone Bacaredda alla vittoria elettorale e alla sindacatura. (Di questa bruciante personalità mi sono occupato offrendo il mio contributo al ricco volume Numero speciale in memoria di Tito Orrù, a cura di Maria Corona Corrias, Cagliari, Arkadia editore, 2013, specificamente con l’articolo “Emanuele Canepa, la febbre civile di un poeta e giornalista repubblicano”).
Già firma irrequieta (e poi avversaria) de Il Bertoldo e già prima di riviste e periodici, ora letterari ora di polemica civica, come La Maschera e il Sancho Panza, mentre fecondissima collaborazione assicurerà nel tempo anche a Vita Sarda (dove debutta la Deledda) ed a La Scolta, Emanuele Canepa è studente che dal Dettori è balzato alla facoltà di Giurisprudenza e che, senza essere (né divenire mai) massone, è fra quelli che, forse involontariamente, figura fra gli iniziatori della rivitalizzazione libero-muratoria a Cagliari dopo un sonno pressoché decennale. Quel suo grido «intendiamoci!» rilanciato in pubblico al ritorno della delegazione universitaria dalla cerimonia romana di Campo de’ fiori, nel giugno 1889, ha innescato infatti il movimento bruniano rivestendolo di panni sardi, quelli di Sigismondo Arquer vittima della inquisizione spagnola nel 1571. E con le conferenze e le pubblicazioni ecco infatti venire anche la loggia, destinata a durare ben trentacinque anni. La loggia cui, per ragioni ignote, egli non partecipa, ma alla quale aderisce il suo “gemello” ideale (e sul fronte garibaldin-mazziniano e su quello bacareddiano, oltreché su quello pubblicistico del Bertoldo, del Sancho Panza e, in ultimo, della Giovine Sardegna) Ignazio Macis.
Iscritto per qualche tempo al circolo Cairoli, Emanuele fa professione di ateismo (chissà quanto imbarazzando i due fratelli preti – Luca e Silvio – che ha in casa!) e gode di qualche scambio avuto con Giuseppe Garibaldi. Ché se non ha potuto con Mazzini – morto quando egli aveva soltanto dieci-undici anni – certo è che con il Generale qualche contatto l’ha avuto: gli ha mandato alcuni suoi scritti, ne ha avuto il riscontro. Il tema patriottico e quello politico garibaldino è stato presente nelle ripetute prove di verseggiatore sulle pagine de La Maschera, cui ha collaborato con vari pseudonimi e sigle diversi dei quali gli saranno consueti anche in futuro (Eccì, Cie, e.c., Dott. Veridicus, Ursus, Em., Fra Gaudenzio, e ancora Atta Troll, Triboulet…).
Per saldare la figura intellettuale di Ottone Bacaredda nel suo passaggio dagli anni della formazione a quelli dei sui primi cimenti amministrativi, e connotare anche politicamente il suo profilo, occorre passare per la serie de La Giovine Sardegna – ecco un altro nome che rimanda alla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini e che (Giovine/Giovane) nel primo dopoguerra marca a Genova l’associazione di vari circoli di sardi emigrati come anche, a Cagliari, quel circolo pre-sardista con Titino Melis ancora liceale e con Anselmo Contu, studente ventenne chiamato a celebrarvi proprio l’apostolo repubblicano! – e dunque per l’apostolato (oltreché di Macis) di Emanuele Canepa. Ed è pertanto necessario investigare anche sulla biografia di quest’ultimo.
Pur di sentimenti genericamente religiosi, pare di capire che i Canepa nutrano, come i migliori liguri che conoscono i conterranei Mazzini e Garibaldi, l’opinione che sa ben saldare nazione e democrazia. E se un Canepa ha militato addirittura nell’esercito garibaldino, c’è qualcosa di liberale ed avanzato anche nei Bancalari – il filone materno da cui viene Emanuele – se è vero che Chiavari confina con Zoagli, nome che pur dice qualcosa anche alla Sardegna ed a Cagliari: per la marchionale famiglia materna nientemeno che di Goffredo Mameli e anche per le radici di quel Luigi Merello, industriale e parlamentare cocchiano, che tanta parte avrà nella economia e nella politica isolana per lunghi decenni fra fine Ottocento e primo Novecento…
Sarà nei momenti di ripresa, pur all’interno del ciclo della sopravvenuta dolorosa instabilità psichica, che Emanuele saprà comunque riversare sul foglio – come pure emergerà dalle testimonianze processuali impostesi per risolvere una vertenza con il direttore del Bertoldo – una notevolissima capacità creativa di scene poetiche e, non meno apprezzabile, una capacità di padroneggiare la metrica. Fra le tante deposizioni recate al dibattimento del 1890 in riferimento ai fatti della metà degli anni ’80, quella dell’avv. Ranieri Ugo – un altro dei bersagli polemici (perché cocchiano, pur di matrice mazziniana e dunque considerato ex-amico) di Emanuele – recherà appunto questa nota: del valore indubitabile dei suoi versi, talvolta abbondanti e anche troppo, che il giovane poeta a lui presentava sempre sperando nella pubblicazione. (Si ricordi in proposito, perché allusiva ad un desiderio evidentemente coltivato fin dall’inizio, una riga in calce ai versi “XXXV” apparsi su La Maschera del 9 ottobre 1881: «Da un volume di versi di pubblicazione… avvenire»).
A quel 1881 rimontano i versi titolati “Roma” e inviati poi al generale Garibaldi in quel di Caprera: «Un pontefice boja e un assassino / imperator ci fulminò: noi baldi, / animosi, e fidenti nel destino / d’Italia e in Garibaldi. / E al nizzardo eroe, fulmin di guerra, / angel d’Italia, iddio della battaglia, / non valse l’alma e il cor contro una sgherra / legione e la mitraglia. / Un contro venti noi cademmo. Ed ora / che il nostro sangue fecondò altri eroi, / ora che sorta è l’agognata aurora, / noi ci leviamo, e a voi, / prodi di Porta Pia, diamo il salute: / salvete; e salve a te Roma immortale; / libera quando avrai forte premuto / il rettile papale. / Sia morte al papa-re!». «Mio caro Canepa Grazie per i due numeri della Maschera e per la bellissima poesia. Con gratitudine v.ro G. Garibaldi»: questa, sollecita, la risposta del generale.
In tale contesto sarebbe da collocare la performance oratoria del giugno 1885, nell’occasione della celebrazione garibaldina in cimitero. Perché allora i suoi versi martelliani sono accolti dal pubblico – si dirà – con sorpresa, per la loro debordante lunghezza. E peraltro la manifestazione, promossa dal Circolo Democratico – uno di quei sodalizi attivi a Cagliari negli anni ’80 e portatori di istanze ideali repubblicane –, rivela anche questa appartenenza del giovane Canepa ad un’associazione che negli anni del declinante trasformismo depretisiano, dopo le speranze accese dalla sinistra di Cairoli, ha animato, pur sempre da posizioni di minoranza, settori rilevanti dell’agitazione giovanile locale.
Collegabile a queste rinnovate manifestazioni di fede democratica e repubblicana è, nel 1887, l’ode “Al monumento di Piazza Martiri” nel nome di Efisio Tola, il martire sassarese di Chambery, fucilato trentenne nel 1833, perché ritenuto affiliato alla Giovine Italia. Dedicati a Filippo Garavetti «Decoro di Sassari sorella» perché leader del repubblicanesimo turritano, i versi di Emanuele Canepa associano la vittima dei Savoia a Garibaldi e a tutti i democratici che si sono esposti, più spesso soccombendo, per dar corpo all’Italia nuova: «Io sognavo. Addensavansi nel cielo / fosche nubi: gravavano nel core / le nebbie, che disteso aveano un volo / di morte e di squallore. / Saliva la piramide spezzata, / tetra; il bianco vessillo avea figura / d’una coltre funebre, accovacciata / vi stava la paura. / Una turba di scheletri, ridendo, / le si affollava intorno, e, ognun plaudia, / commosso dentro l’anima, scorgendo / una memoria pia. /… / “È nostra Roma! È nostra Roma!”. È il canto / di mille voci; è mistica parola… / L’ombra pensosa scuotesi dal pianto, / vi scrivo: Efisio Tola».
Del 1889, e legate alla cerimonia d’inaugurazione del monumento a Giordano Bruno nella capitale – ne ho già accennato –, sono da segnalare le battute che il giovane pronuncia al rientro della delegazione cagliaritana (gli Scano padre e figlio, Emilio Sanna, Giacinto Orrù e Michele Ambrogi) da Campo de’ fiori: «Moleschott ha detto: “Il Vaticano ha paura d’una statua!”. Ebbene, rendiamo un cimitero tutta quanta l’Italia, ma buttiamogli in faccia le sue vittime. Hanno un monumento Arnaldo da Brescia e Giordano Bruno, lo abbiano Paolo Sarpi, Savonarola, Cecco d’Ascoli, Fra Fulgenzio, Tomaso Campanella, Lucilio Vanzai, Aorio Paleario, Ugo Bassi!...». E, sognando Sigismondo Arquer, aggiunge: «Siano distinti i partiti, si combatta a faccia aperta, si abbia il coraggio delle proprie opinioni; non ipocrisie, non menzogne: conosciamoci d’una buona volta!». Un uragano d’applausi, nell’aula magna dell’Università, presente il rettore Todde.
Sono parole, quelle appena pronunciate da Emanuele Canepa, che vogliono anche spiegare l’ultima parola dell’ultima riga – «Intendiamoci» – del breve manifesto pubblicato, il 14 giugno, dal comitato studentesco composto oltreché da lui, anche dai colleghi di Giurisprudenza Ignazio Macis, Domenico Rubbiano ed Ettore Atzara: «Cittadini, oggi rimpatriano i rappresentanti dell’Università, del municipio e della società Gialeto che, a Roma intangibile, festeggiarono Giordano Bruno, assassinato dalla Corte papale. A Roma, il 9 giugno, si è fatta l’apoteosi del suo pensiero, si è iniziata la Religione dell’avvenire».
Un mese dopo, la laurea. Sono stati, gli ultimi, anni di studio impegnato, assiduo, faticoso. Anni anche, probabilmente, non esenti da affacci di quel “male oscuro” che ha avuto sbotti tanto clamorosi in precedenza ma che ha manifestazioni che adesso ne denunciano la permanenza, quasi si tratti di una evidenza della singolarità personale. La rilevano – uno dopo l’altro, chiamati a deporre in Tribunale – i colleghi, idem gli insegnanti e, con il professor Gaetano Orrù, ex sindaco cocchiano della città, anche il professor Bacaredda ormai sindaco in carica e già intensamente sostenuto dal giovane Emanuele.
La circostanza emerge anche in risvolti particolarmente scabrosi. Ad esempio quando il prof. Bacaredda rivela l’argomento della tesi, certamente originale e appunto, a leggerlo in altro contesto, inquietante: “Lo stupro con violenza”, un titolo richiamato anche nella partecipazione di laurea diffuso fra parenti ed amici, secondo il costume del tempo. Con le parole infilate nella piegatura del biglietto, forse per nascondere, forse per enfatizzare. Certo è che questa problematica erotica, cui farà riferimento anche qualcuno degli avvocati difensori del Sulliotti in sede di chiusura processuale, va a confermare i disturbi mentali del querelante.
Le criticità personali, personalissime, di un generoso, e la scena pubblica che va prendendo altri colori, va trasformandosi nei passaggi politici, nell’abbandono del vecchio e nella formazione del nuovo establishment amministrativo… Ma se è di umanità che infine si tratta, perché espungere questo tratto, questa vicenda, dalla considerazione complessiva?
Nella stessa estate del 1889, a precedere e quasi preparare il voto municipale di novembre, la novità è data nelle elezioni politiche. Attorno al nome di Pietro Sbarbaro il comitato elettorale vuole raccogliere tutta la opposizione anticocchiana di Cagliari. Sbarbaro non ce la fa, perché l’eletto è Enrico Lai – avvocato e docente universitario, cocchiano di ferro e fra i comproprietari de L’Unione Sarda di imminente uscita in città –, ma è indubbio che il risultato appare assai confortante.
Questo passaggio è importante non soltanto perché prepara il terreno al prossimo successo bacareddiano, ma anche per la modalità, invero non nuovissima né a Cagliari né altrove, ma comunque peculiare, della lotta elettorale che associa al comitato sostenitore della candidatura un organo di stampa combattivo: è per Sbarbaro il Sancho Panza – un settimanale delle solite quattro pagine (la quarta con testatina La Posta), che esce il 27 aprile e abbasserà l’insegna il 30 novembre 1889 –, sarà per Bacaredda, immediatamente dopo (ma per breve tratto in sovrapposizione), La Giovine Sardegna “effemeride settimanale”. E come detto, nell’uno come nell’altro caso, a tirare la volata è la coppia Ignazio Macis-Emanuele Canepa.
Nel Sancho Panza fanno prove di firma sia il Dott. Veridicus che e.c., pseudonimo e sigla che, come già accennato, saranno di generalizzato uso nell’impaginazione di La Giovine Sardegna (ma Emanuele, forse per qualche vuoto di memoria, negherà di aver scritto sul Sancho Panza). Tutto è qui mirato, però, a valorizzare le virtù umane e civili, intellettuali e politiche di Pietro Sbarbaro, sociologo ligure già direttore del periodico satirico Le Forche Caudine, distintosi nella lotta alla corruzione politica (tanto più a quella rivelata dallo scandalo della Banca Romana: motivo ispiratore, forse, per il deciso forcing che si scatenerà, a Cagliari, contro le coperture politiche assicurate alla mala gestione del fallito Credito Agricolo Industriale Sardo e capofila di altri istituti pure essi, cominciando dalla Cassa di Risparmio di Cagliari e dal Credito Fondiario, trascinati nel crac). Né solo a sostegno di Sbarbaro sono le energie spese da Emanuele Canepa nell’avventura del Sancho Panza, ma anche volte a deprimere la figura del suo avversario nello scontro del collegio uninominale: quell’Enrico Lai che diventerà un bersaglio fisso, per l’assenteismo parlamentare che gli si addebiterà, de La Giovine Sardegna.
Sul piano ideale ci sarà coerenza, coerenza fino all’ultimo, anche dopo l’affermazione bacareddiana, ancora documentata dalle pagine di Vita Sarda, il quindicinale di “scienze, lettere ed arti” lanciato nel 1891 da Antonio Scano e Antonio Giuseppe Satta Semidei. Sul numero del 16 agosto 1891 esce l’articolo “Due monumenti – Giuseppe Manno, G.M. Angioy”, un interessantissimo commento critico su due delle più eminenti figure pubbliche della Sardegna fra Settecento ed Ottocento: il barone Manno, già senatore del regno (e anzi presidente del Senato vitalizio) e sabaudista ortodosso, e l’Angioy, il mitico alternos della rivoluzione antifeudale. Il tutto per onorare il secondo e mettere molti puntini sulle i del primo, e così confermare gli indirizzi ideali o ideologici della propria formazione democratica, mazziniana e garibaldina…
Manno… e, per contro, Angioy… Scrive il Nostro, infatti, che «la Sardegna ha bisogno, seguendo il voto dell’Asproni, di inspirarsi a ideali più sacri; ha bisogno di tener presenti al pensiero esempi migliori di virtù e di carattere», sicché il pensiero ben legittimamente può cadere sull’alternos «tradito in vita, disconosciuto o infamato dopo morte»: «L’Angioy che moriva incontaminato; che meritava l’elogio sublime di Carlo Botta, che aveva osato mettere in pratica a’ primi del secolo, la santa utopia dell’abolizione del feudalesimo, che doveva poi essere, col tempo, un fatto compiuto, merita quanto il Manno, certo più del Manno, l’ammirazione e la gratitudine. Mancano i “caratteri” alla patria, e non è col mettere dinanzi agli occhi della folla i peccatori di adulazione che se ne rialzano le sorti. Le lotte generose, gli amari passi di fuga, le amarezze dell’esilio, e soprattutto, la coscienza illibata del Grande di Bono, valgono assai più dei titoli illustri del moderno storiografo sardo. Abbiano l’uno e l’altro il monumento decretato; ma in Giuseppe Manno s’onorino la dottrina e le belle lettere; in Angioy la santità dei principi, e la fermezza del carattere; nel primo, un passato che si deve dimenticare, nel secondo un avvenire che si dovrebbe far risorgere».
E più oltre, quasi in chiusura, a marcare ancora la propria vocazione repubblicana: «Non si potrebbe, e con poca spesa, dal Comune, bilanciare una somma modesta, perché, anno per anno, sorgano nel Giardino Pubblico, o nel parterre di via Roma, due busti che rammentino le nostre glorie? Nessun campanilismo; la storia della Sardegna appartiene a tutti i suoi figli. È nostro Azuni quanto Tuveri; Spano quanto Cima; Angioy quanto G. Fara; Asproni quanto Vincenzo Sulis. I monumenti, inutili a’ morti, servono a’ vivi…».
A chi stesso ha sostenuto ad agosto Pietro Sbarbaro e a novembre Ottone Bacaredda è attribuibile il fondino dell’ultimo numero del Sancho Panza e titolato “Il sindaco di Cagliari”, un articolo chiamato a direttamente contrapporsi agli editoriali della neonata Unione Sarda, organo della parte cocchiana. Eccolo:
Un plauso sincero al novello Sindaco di Cagliari. Egli si è dimostrato quel è, degnissimo della carica conferitagli.
Le parole che ha pronunciato hanno fatto conoscere a tutta la cittadinanza l’uomo rettilineo, che intende studiare i veri bisogni della Città, e provvedervi a vantaggio dei cittadini, e non per conseguir dei fini, che spesso non si dicono e s’intravedono.
Dei retti intendimenti dell’avv. Ottone Bacaredda nessun dubbio sorge; egli farà onore alla maggioranza che lo ha eletto, e alla sua città nativa.
Tutti conoscono la di lui fermezza, e tutti si augurano bene dalla sua amministrazione. Noi non gli faremo censura, se nel suo splendido discorso non ha tracciato un programma, e se solo accennò alle linee generali ch’egli e la Giunta intende seguire.
Non è facile nelle condizioni nelle quali il novello Consiglio trovò l’amministrazione, farsene un concetto esatto, senza del quale sarebbe stata avventataggine un programma, che altronde non doveva esporti prima che fosse conosciuto e pubblicato il risultato della deliberata inchiesta.
Siamo però sicuri che Sindaco e Giunta, senza lunghi indugi, non mancheranno a manifestare in modo preciso il loro disegno; e a far conoscere non i mali solamente, ma ancora i farmaci, mercé i quali si propongono guarirli.
Noi, al pari della maggioranza dei cittadini, siamo fiduciosi nella novella amministrazione e speriamo di non ingannarci.
Il discorso del Sindaco ci ha confermato nella nostra fiducia, e per ciò plaudimmo e plaudiamo alle parole dell’egregio avv. prof. Ottone Bacaredda.
“La Giovine Sardegna” per la Casa Nuova
DI seguito al Sancho Panza, dunque, ecco La Giovine Sardegna. Nel suo numero di saggio datato 8 settembre 1889 il giornale pro-Bacaredda presenta la sua tavola dei valori, chiedendo alla pubblica opinione di portare quegli ideali in municipio, nell’ordinario quotidiano dell’amministrazione. Scrive:
La nascita del figlio del 1° Napoleone fu annunziata all’attonita Europa con 101 colpi di cannone: la nostra, più splendidamente, fu resa nota con la pubblicazione, affissione e distribuzione di migliaia di manifesti grandi e piccoli, che alle genti di tutta l’isola recarono la lieta novella. Al figlio del grande despota di Francia, chiamato iperbolicamente fin dalla culla re di Roma, fu dal fato serbata la dura sorte di morire consunto per lascivia, e reso cretino dal sospetto della corte austriaca, semplice duca di Reichstad; a noi che i despoti odiamo, che le ingiustizie ci levano l’animo a sdegno, che le azioni disoneste ci fanno fremere d’ira, e che non tendiamo a dominare, né a conquistare, ma alla purificazione, al rinnovamento morale e materiale della nostra bella, forte e sventurata Sardegna, ci sia dato sperare se non il lauro delle grandi antichi trionfatori, il sincero, imparziale, benevolo giudizio di tutti gli onesti, a cui aggiungeremo il segreto testimonio della nostra coscienza.
Ecco, pertanto, il manifesto:
LA GIOVINE SARDEGNA EFFEMERIDE SETTIMANALE
«Il nostro sarà un giornale di lotta: il programma si compendia in poche parole:
Verità, Onestà, Libertà, Uguaglianza, Giustizia.
La nostra città – a fa bene a dirlo – si è svegliata dall’antico torpore, e stanca di essere continuamente sfruttata da pochi faziosi e disonesti, grida ad alta voce: Casa Nuova, Uomini Nuovi.
Noi siamo l’eco di quelle voci, e a visiera alzata combatteremo tutte le fazioni, tutti i soprusi.
Ci ispireremo ai principi più liberali; vogliamo che coloro ai quali sono affidate le nostre sorti, le nostre libertà, i nostri diritti abbiano un cuore che batta per il paese, un cuore disinteressato e nemico degli affari loschi.
Abbiamo sul collo la cancrena di turpi amministrazioni: liberiamocene.
Ci pesano le invidiuzze e gli attriti di due fazioni personali Cocco e Salaris, nulla han mai fatto per noi, che impediscono si faccia qualchecosa per l’avvenire; liberiamocene.
Ci scagliamo animosi nella pugna, sicuri di adempiere ad un dovere, certi che l’aiuto degli indipendenti, positivamente onesti, non verrà a mancarci.
Tetragoni a’ colpi dei maligni e degli arruffapopoli ci soccorre la coscienza del sentirci puri; non abbiamo mai dato a cottimo la nostra penna; non abbiamo mai vissuto alle spalle dei dilapidatori dei nostri quattrini; non abbiamo mai agitato il turibolo dinanzi a nessun trionfatore, per avere un posticino di sfroso nel banchetto formato dalle lagrime e dai sudori dei cittadini.
Non ci impaurano bassi mezzi a cui han sempre ricorso e correranno inostri avversari. Alle calunnie opporremo fatti documentati; daremo dell’onesto agli onesti, del ladro ai ladri.
LA GIOVINE SARDEGNA fida nel vostro appoggio, o cittadini indipendenti, il vostro obolo è necessario per la santa battaglia. Unitevi, tutti, ascoltateci; aiutateci.
E voi, modesti ed operosi agricoltori, seguiteci con sicuro animo; le colonne del nostro giornale sono aperte per voi: fateci conoscere le trame del nemico; spiegateci la turpitudine dei loro mezzi; rivelateci i vostri bisogni.
La nostra causa è quella del benessere del paese; è quella della Giustizia.
Rammentate che siete una Forza, sappiate farla valere».
Poche parole di commento. Abbiamo giudicato savio scegliere per nome di battesimo del nostro giornale il bellissimo e significantissimo La Giovine Sardegna per accennare non a pura opera di giovani, ma al fermo proposito di tutti di contribuire con tutte le forze al risorgimento della vita sarda, purificando e abbattendo tutto quanto d’ingiusto, di disonesto può ancora corromperla.
Il nostro isolano dovrà di nuovo essere esaltato per fierezza di carattere, per indomita gagliardia, per vivissimo amore alla terra nativa, intollerante di qualsiasi sopruso, insofferente di qualsiasi giogo. Troppo tempo egli è stato docile strumento in mano di fazioni avide soltanto di lucri personali e di governi che la vollero ingentilire e incivilire a forza di insopportabili balzelli. Tutto ciò che si oppone alla rigenerazione della Sardegna, alla instauratio ad imis fundamentis delle cose sarde, sia stritolato e che più ne rimanga memoria. Finora ci hanno tutti trattati indegnamente incominciando dai nostri fatali amministratori fino al governo ed ai giornali da esso prezzolati che ci buttato sul viso in risposta ai nostri lamenti il sanguinoso oltraggio sardi queruli, come anticamente la frase sardi venales.
Francamente, preferiamo questa a quella, perché dinota che i sardi d’allora superbi, alteri, ardenti di amor di patria e di libertà, erano refrattari alla schiavitù e non ci piegavano tanti facilmente ai voleri ed ai comandi dei padroni romani. I sacrifizi di sangue, di denaro, di privilegi e di libertà fatti in tutti i tempi dalla Sardegna le sono ricompensati esuberantemente con parole dileggiatrici della sua dignità. Miseria, sfiducia, perdita di credito, nessuna industria rigogliosa, inceppata e ostacolata in tutti i modi con imposte esorbitanti qualcuna nascente, commercio arenato, prodotti del suolo invenduti agricoltura abbandonata, terreni in preda…
Pur mancante di riferimenti ideologici, pare di rilevare, nell’articolo quel tanto di affidamento ai valori della democrazia, o della liberaldemocrazia, che realisticamente – cioè senza sfondamenti nella dottrina “alternativa” a quella del vigente statuto albertino, per dire di costituzione e addirittura di repubblica – rappresentavano, nell’inoltro all’ultimo decennio del secolo, dunque alla vigilia della fondazione dei primi partiti politici (i socialisti nel 1892, i repubblicani nel 1895, i radicali nel 1904) lo stadio più avanzato che era dato richiedere all’Italia monarchica ed a suffragio politico ed amministrativo ancora ristretto (oltreché soltanto maschile).
Leggere le idealità, da cui la politica, da cui i programmi
Come qualificare, sul piano ideale/ideologico, Ottone Bacaredda? Questa è stata la domanda. In molti si sono posti sempre questa domanda ed al convegno “Cagliari tra passato e futuro” tenutosi nel capoluogo (presso l’auditorium del CIS) il 13, 14 e 15 novembre 2003, è stata Maria Corona Corrias, già docente di storia delle dottrine politiche presso la nostra facoltà di Scienze Politiche ed autrice di importanti saggi su un vasto arco di temi (incluso quello asproniano e del rapporto Stato-Chiesa nell’età risorgimentale), ad affrontare con maggior rigore e compiutezza la questione, offrendo le sue conclusioni.
Ebbi lunghe conversazioni con lei (per me assolutamente arricchenti), alla vigilia di quel suo impegno pubblico che vide riuniti molti valentissimi studiosi del vasto spettro disciplinare in cui specchiare Cagliari nel suo divenire storico, urbanistico e sociale. Ed ebbi occasione di un qualche convergente approfondimento sulla matrice democratica e anche su quella ipotizzata (ma infine smentita) massonica di Ottone Bacaredda amministratore e politico. Il tema assegnato alla docente, nel vasto quadro di quelli interessanti l’evoluzione secolare del capoluogo sardo, faceva riferimento diretto alla figura del sindaco-mito per trarne utili chiavi di lettura dello sviluppo cittadino nel cruciale passaggio fra tardo risorgimento ed età giolittiana, ed in quella luce correttamente interpretare il ruolo delle classi sociali e delle forze culturali che di tale processo furono protagoniste.
La relazione della Corona Corrias (“La lunga stagione di Ottone Bacaredda”), giustamente impaginata nella sezione “I fermenti della modernità”, è nel volume degli atti del convegno, curato da Gian Giacomo Ortu e che replica nel titolo quello del convegno stesso (Cagliari, CUEC 2004). Dopo una lunga e articolata premessa che tende anche a mettere a fuoco i contrasti vivissimi che mossero e da parte liberale e da parte clericale, accompagnando il debutto della Amministrazione Bacaredda alla fine del 1889, il contributo dà conto documentato degli elementi di modernità recati dalla nuova leadership insediatasi a Palazzo di Città, capaci di associare il miglior mutualismo d’ispirazione democratica e mazziniana alle correnti europee dette del “liberismo organizzatore”.
Peraltro, chiosando la querelle sulle ragioni di opposizione con i cocchiani, mi pare interessante qui riprendere un passaggio delle riflessioni porte dalla Corona Corrias: «La ruggine tra il Bacaredda e il ministro sardo datava già da tempo; fin dal 1875, come ricorda lo stesso Cocco Ortu, un gruppo di giovani da posizioni liberali, ma meno centriste, aveva combattuto la sua elezione. Le divergenze politiche erano emerse, dunque, da oltre un decennio, e da allora andava maturando il consenso della cittadinanza sulle idee di Bacaredda…».
Queste le precise parole del memorialista che riportano al «sopraggiunto scioglimento della Camera» alla fine del 1876: «L’annunzio di esso era il suono della squilla che apriva la campagna e dava la stura a tutte le ambizioni. Non nascondo la mia aspirazione al mandato politico, ma la tenni per me, senza aprirmene con alcuno, sebbene sentissi di poter far calcolo sulla benevola simpatia ripetutamente manifestata e costantemente riaffermata nei voti onde era stato onorato nelle votazioni di Cagliari alla rappresentanza del Comune e nei diversi collegi per il consiglio provinciale.
«Però mi sconsigliava dal pormi avanti la prudenza, per non svegliare anzitempo le invidie e gelosie dei coetanei e di altri aspiranti. E mal non mi opposi. Infatti un giornale compilato da giovani, tra i quali ricordo Ottone Baccaredda, quando si parlò della mia candidatura in Cagliari, la osteggiò, con l’ipocrito argomento dell’interesse della città, il quale esigeva che non fossi distratto dalle cure dell’amministrazione civica, alla quale rendevo utili servizi»).
Confesso che mi manca, al momento, un riferimento documentale alla circostanza che meriterà certamente di essere acquisito ed analizzato, il che concorrerà senz’altro all’approfondimento biografico tanto del Cocco Ortu quanto del Bacaredda suo (preteso) avversario. Soltanto evidenzio adesso che il ritorno di Bacaredda in Sardegna da Genova, a famiglia fatta (moglie e primogenito), risulta databile al 1876, e dopo ben quattro anni pieni di lontananza, per cui se il richiamo vuole anche coinvolgere il movimento pro-ferrovie detto allora dell’ “Unione Sarda” in cui il futuro ministro ebbe parte non secondaria, quella asserita avversione meriterebbe più d’una puntualizzazione.
I giornali sentinelle di interessi più che di valori, forse…
Ho già rappresentato, naturalmente con sintesi forzate, il percorso politico cui m’è sembrato si sia accinto Bacaredda lungo i molti anni della sua primazia pubblica, tanto più fra Municipio (e Consiglio provinciale) e Parlamento, e anche come conferenziere – metti al Circolo Universitario così come alla Società degli Operai –, portatore di un giudizio largo che, con le categorie della scienza politica, sapeva combinare ispirazioni ideologiche di radice risorgimentale ad attuazioni legislative moderne e magari ancora in itinere… A dire tutto e subito ma in pochissime parole la concluderei così: dalle giovanili simpatie repubblicane e mazziniane (derivate dall’esempio paterno e variamente coltivate nella adolescenza e primissima giovinezza) egli ebbe un realistico riposizionamento liberale piuttosto aperto e direi perfino ecumenico verso tutte le espressioni presenti nella galassia parlamentare che insieme comprendeva Crispi e Giolitti, di Rudinì e Zanardelli, Pelloux e Saracco, Fortis e Sonnino e altri ancora. È certo che una certa plasmabilità il liberalismo nazionale mostrò, nel tempo, anche rispetto alle caratterizzazioni della politica sarda e del collegio elettorale in quel passaggio fra Otto e Novecento, fra amministrazione locale e seggio politico di Montecitorio: in campo il trasformismo depretisiano reinterpretato a Cagliari e in provincia da un Francesco Salaris ed in campo, a seguire, il colonialismo di Crispi sostenuto da un giornale come Il Popolo sardo (uscito, a direzione Cixi, nel quinquennio 1893-1897 e vicino alle posizioni del deputato Pais Serra) ed avversato, in logica antifiscale e di protezione della piccola borghesia fondiaria, da Cocco Ortu, in campo l’avanzato laicismo civile di Zanardelli di cui lo stesso guardasigilli cagliaritano fu apostolo (nonostante i personali statuti di coscienza che lo facevano credente e religioso) e il ruvido militarismo di Pelloux al quale il Bacaredda parlamentare parve all’inizio, e stranamente, occhieggiare…
Meriterebbe indugiare almeno un attimo – poiché ne danno motivo sia L’Unione Sarda per contrastare che il cennato Il Popolo sardo per appoggiare – sull’atteggiamento della stampa come portatrice a fine Ottocento, nella Sardegna e nel suo maggior capoluogo, di interessi locali ma anche di indirizzi valoriali o idealità politiche che cercano, senza però trovarla, una coerente linea di affermazione. Perché se a Bacaredda ancora volesse attribuirsi un orientamento favorevole al crispismo (e favorevole, in sede locale, nonostante le negazioni, al resistente partito di Salaris), con questo meritando il favore del quotidiano di Cixi in cui conta molto anche il federalista repubblicano Siotto Elias già direttore del Caprera, e l’ostilità degli zanardelliani-cocchiani de L’Unione Sarda, certo colpisce che, almeno nei primi tempi, e cioè finché esso resta in campo, L’Avvenire di Sardegna, detto addirittura finanziato dalle banche del Ghiani Mameli e protetto da “sua eccellenza gialla”, fornisca un qualche pur confuso appoggio al rinnovo amministrativo del 1889…
Un “liberismo organizzatore” che viaggia verso la democrazia
L’incontro fra il liberalismo classico, che è la base comune, nel Parlamento nazionale, delle maggiori correnti del centro e della sinistra non socialista né socialisteggiante, sia quelle di maggioranza che quelle di minoranza, e la democrazia che è conquista… di futuro, per la legislazione e per le istituzioni dell’Italia, del primo Novecento, la Corona Corrias lo scorge nel “liberismo organizzatore”. Ed in esso, o nella sua declinazione italiana e sarda, individua una matrice mazziniana di natura mutualistica che non esaurisce però la sua portata nel mutualismo bensì si sviluppa in una continua pressione per l’adeguamento e anzi la riforma degli ordinamenti sostenuta dall’etica del dovere. Sarà straordinariamente felice, da questo punto di vista, il discorso che Ottone Bacaredda terrà, nel novembre 1911, davanti al Consiglio comunale che lo ha rieletto sindaco dopo quasi un lustro di assenza dalla scena principale.
Ma dove trovare, con una certa compiutezza, la riflessione democratica nel suo input mazziniano di Bacaredda al tempo della sua sindacatura e, comunque, della sua insuperata leadership civica tesa lungo un trentennio e più? La risposta della relatrice è precisa: nel discorso tenuto al Teatro Civico di Cagliari in onore della locale Società degli Operai nel suo giubileo, il 30 aprile 1905.
«Bacaredda esalta i “diritti dell’uomo e del cittadino” che erano scaturiti dalla grande Rivoluzione, che aveva con ciò anche sconfitto “il pregiudizio della innata e insanabile inferiorità di una classe”», ricorda la Corona Corrias. E precisa: «L’idea democratica dell’uguaglianza sostanziale di tutti gli uomini, tra mille ostacoli, si era affermata lungo tutto il corso del secolo XIX, ed egli percepisce come durante questa maturazione si manifestasse sempre una divergenza di metodo, tra i più moderati e gli estremisti», ma «Dalle libertà statutarie, che egli definisce senza eufemismi “timide”, era scaturita una nuova primavera politica. C’era da “fare una Patria”… occorreva affratellare le anime, “fonderle” a un nuovo o meglio vecchio sentimento, “quello della solidarietà”. È significativo che ritenga elemento costitutivo del concetto di patria, come quello della identità di un popolo, il sentimento della fratellanza che si traduce in solidarietà… dalle sue considerazioni emergono tutti e tre i vocaboli emblematici degli ideali rivoluzionari: libertà, eguaglianza, fraternità. Proprio da queste esigenze erano nate le associazioni di mutuo soccorso, ed egli sottolinea… come fossero propugnate soltanto dai più miti, tra i consapevoli, i quali con il riformismo ottengono, a suo giudizio, i risultati più duraturi: mentre “i figli più accesi seguono” quelle che egli definisce evanescenti chimere: la pace universale e il collettivismo».
L’intuizione di Stefano Rocca, promotore della Società degli Operai cagliaritana – di lui genovese come Mazzini, ma che forse non aveva ancora letto nulla di Mazzini – fu quella stessa ispiratrice del magistero dell’Apostolo repubblicano: «emancipare il lavoro, costruir l’operaio», e dunque considerarlo, l’operaio, «un soggetto di diritto», «un’entità pensante e volente, da cui sarebbe conseguita una forza collettiva organizzata». Ecco così la progressiva affermazione del «diritto di associazione» che, proclamato dalla ragione naturale, entrò nel costume e nella legislazione.
Il mazzinianesimo etico-civile di Bacaredda è da lui espresso riconoscendo che «la storia del “diritto umano è la storia della umana ribalderia onde le più sacre prerogative dell’individuo, la libertà di pensiero, la libertà di parola, la libertà personale, la libertà di associazione, l’eguaglianza dinanzi alla legge, diritti innati inalienabili imprescrittibili… non furono che farisaici eufemismi» e che sia giunto finalmente il momento di affermare il protagonismo sociale della classe lavoratrice.
Egli ripassa le improbe fatiche sopportate prima di questa promozione insieme sociale e civile, perciò politica: lo sfruttamento che non ha evitato neppure i minori d’età, mentre dalla religione tante volte è parsa venire una banale e moraleggiante giustificazione della rassegnazione alla… schiavitù! Nel tempo ha però preso corpo «il diritto operaio», e la competenza del lavoratore si è affermata nella contrattazione industriale, nel nuovo quadro economico e produttivo della modernità: «Necessità e giustizia» hanno indebolito la prepotenza borghese ed inciso sugli equilibri politici che chiamano tutte le classi sociali ad una pari dignità e quella del lavoro a portare il contributo “del numero” e dunque a spingere il liberalismo verso la democrazia.
A legittimare la classe operaia, e per estensione il popolo, alla compartecipazione nell’amministrazione del bene comune deve essere la sua capacità di comprendere gli stadi della storia che evolve verso la modernità e chiede precise assunzioni di responsabilità a tutti i soggetti in campo. Fu un errore dei “molti” che si mobilitarono contro il carovita, nel 1906 a Cagliari, imputandone la colpa alla modernità che divenne quindi, ai loro occhi, un impedimento alla giustizia egualitaria: i carrettieri che contestavano il servizio dei vagoni della Tramvie, quanti boicottarono la dotazione delle celle frigorifere al mercato centrale furono essi inconsapevoli strumenti di piccole minoranze che ne sfruttarono il bisogno e non ne accompagnarono la maturazione delle consapevolezze circa le caratteristiche di una società dinamica e complessa.
«Non si può fermare il progresso, pur ritenendo con Cattaneo che il processo destinato a produrre delle profonde riforme debba essere lento e graduale!» – osserva la Corona Corrias nella sua lunga, articolata e dotta relazione, ricordando anche – con lo sguardo rivolto a tempi relativamente recenti – l’opposizione di Togliatti al piano Marshall e «la contrarietà [della sinistra] al liberalsocialismo che si era realizzato nelle grandi democrazie europee»…
Bacaredda apre anche al socialismo, ma al socialismo responsabile e misurato, non ai luddisti: «Se non mirano a far man bassa dei diritti degli altri, dei diritti di tutti, se mirano alla propria elevazione e non all’annientamento altrui – apriamo loro le braccia da buoni fratelli – e lasciamoli cantare in pace l’inno dei lavoratori».
Riconosciuta, con tutta lealtà, l’esistenza di una rilevantissima questione sociale «maturata considerevolmente proprio grazie alla grande rivoluzione industriale scaturita dal progresso, e che avrebbe costituito nel futuro l’unità di misura della stessa civiltà», Bacaredda individua nella necessità di maggior armonia sociale l’origine delle società operaie di mutuo soccorso chiamate ora a prendere coscienza che la propria «consistenza numerica» deve divenire un vero e proprio «strumento di pressione politica».
L’adesione al diritto naturale ed ai conseguenti diritti umani porta il sindaco (già sindaco fino al 1900, nuovamente sindaco il prossimo luglio 1905 dopo la parentesi parlamentare e, comunque, nella permanenza consiliare) a dirsi sostenitore di un «diritto operaio» che un certo estremismo combattivo rischia però di svuotare di legittimità facendolo scadere alla dimensione della inconcludente e rovinosa «lotta di classe».
Dalla filosofia politica di Edoardo Bernstein che guarda non alla rivoluzione ma alla evoluzione, egli deriva le proprie convinzioni: «Non più sull’attrito, ma sull’accordo di interessi, si costruirà la nuova democrazia del futuro; occorre propugnare un lavorio lento e pacifico inteso a trasformare democraticamente lo Stato». Si chiami riformismo o si chiami liberalsocialismo – avverte la Corona Corrias – quella è comunque la via: «Bernstein propugnava, secondo Bacaredda, quello che lui chiama liberismo organizzatore. Ed è significativa questa trascrizione terminologica poiché presuppone una accentuazione politico dottrinaria positiva, oltre che propositiva, opposta alla classificazione con cui gli storici del pensiero politico hanno incasellato il pensiero di Bernstein, ricordato tra i revisionisti della teoria di Marx».
Maria Corona Corrias: «Bacaredda, il suo riformismo mazziniano e gradualismo cattaneano»
E ancora: «Anche a proposito del diritto di sciopero Bacaredda espone la sua prudente valutazione: plaude alla sua libertà, come conquista… ma la ritiene un’arma a doppio taglio, perché se esercitata in armonia con le condizioni del lavoro, della produzione, della concorrenza e del consumo, raramente fallisce il suo scopo, ma se è capriccioso “accesso di febbre di crescenza”… è del tutto improduttiva… I salari non aumentano e la disoccupazione dilaga. Insomma anche il capitale sciopera». Da qui la necessità assoluta di «una maggiore consapevolezza e sensibilità, per cui il capitale industriale, posto che la ricchezza è ormai essenzialmente mobiliare, deve rendersi conto che non può opprimere coloro che ne dipendono, ma il suo impiego deve tornare utile alla massa sociale, migliorare le condizioni economiche dei lavoratori, tutelarne l’igiene, promuovere gli istituti di previdenza e di assistenza, controllare le ore di lavoro. Lo Stato, per ciò che lo riguarda, ha l’obbligo di assecondare questo processo, accordando al lavoro quel patrocinio che non è mai mancato alla proprietà».
Importa sempre, ad avviso di Bacaredda, non deprimere con interpretazioni dottrinarie, più spesso maliziose, ogni riforma che, nata con i migliori propositi, sia umiliata – come è stata umiliata in passato – da sentenziosi epiteti quali «truffe e mercimoni (le pensioni operaie)», «manette di polizia (l’arbitrato obbligatorio)», «trappole da sorci (i sindacati professionali». Insomma, «Non si può auspicare la “soppressione di tutte le leggi perché costrittive della libertà” o “l’abolizione dell’idea di patria perché incentivo alla guerra perpetua”»: «il lavorio livellatore non può essere a rapido decorso anche perché si tratta di elevare il comune livello, non di abbassarlo».
Emerge ancora qui, osserva la Corona Corrias, «il suo riformismo mazziniano, e potrei dire cattaneano»: «Né si plasma un cittadino, come si abbozza un uomo; né la scuola più lunga e più difficile è quella dei diritti, ma quella dei doveri». E come non ripensare qui alle tavole dei “Diritti dell’uomo”?
Il discorso è piuttosto chiaro e lineare: Bacaredda reputa «la partecipazione del proletariato alle funzioni della sovranità un principio ormai acquisito del diritto pubblico, e dà per certa la prossima estensione del suffragio universale maschile (purtroppo soltanto maschile), come avverrà con Giolitti nel 1912. L’azione politica diretta ad instaurare il “liberismo organizzatore”, a cementare le conquiste della democrazia, ad allargare la piattaforma dell’influenza proletaria è ormai in piena attività. La politica è la scienza delle occasioni e l’arte degli accomodamenti… Nel suo realismo politico auspica che i repubblicani “tollerino” la monarchia e che un socialista italiano si accosti al potere per svecchiare e democratizzare quello Stato al quale del resto tutti hanno giurato fedeltà. Nulla può sfuggire al processo di democratizzazione…».
La disciplina sociale al servizio della democrazia non è mai irrigidimento o capitolazione: essa deve essere dovere di tutti i ceti, di tutti i cittadini quale che sia la propria condizione. Le classi sociali sono fluide, l’ascensore sociale è una benedizione. Non lotta di classe dunque, ma «competizione di interessi», contro ogni immotivato permanente privilegio così come contro ogni velleitarismo utopico.
«In sostanza – è la conclusione della Corona Corrias – il riformismo o il liberalsocialismo è auspicato come il cammino futuro per l’umanità, mentre la concezione di Mazzini è attuabile immediatamente. Le varie classi sociali sono unite tra di loro da tanti vincoli di sangue e di costume, da affinità morali ed economiche. La tanto calunniata borghesia, pur con il suo egoismo e parzialità, ha messo a disposizione di tutta l’umanità le sue conquiste: la fiducia nella democrazia e i diritti umani; mentre al lavoro del proletariato riconosce che è dovuto il reale progresso dell’umanità, e la diffusione della libertà. Da entrambi questi due fondamentali apporti deriva il moto accelerato della trionfale marcia del progresso che non può essere contrastato: “se Dio non avesse lavorato, il mondo non esisterebbe. Dunque il lavoro è di diritto divino”».
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Scrivo queste note mentre continuano a giungere, drammatiche, le notizie da Kiev e dalla Ucraina tutta. Sia maledetto chi ha scatenato l’inferno ed ha provocato la morte e la sofferenza di tanti innocenti. (Ed ancora una volta abbiamo la plateale dimostrazione della nullità liberale degli esponenti della destra italiana, pagana e imbrogliona, da cui insistenti sono venuti, negli anni, gli accarezzamenti ad un pericoloso dittatore nato).
Fonte: Gianfranco Murtas
Autore:
Gianfranco Murtas
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23 Giu 2022
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