Contus stampaxinus: don Arthemalle a Roma
Le vacanze romane di don Arthemalle
Don Mario Arthemalle era un prete povero. Viveva della piccola elargizione che mensilmente gli assicurava il Parroco (presidente dei parroci della Collegiata di Sant’Anna) il cui importo aumentava in relazione alla numerosità dei funerali e delle messe in suffragio da lui celebrati, ma sempre di miserie si trattava. Comunque tanto gli bastava per condurre una vita dignitosa e di cui ogni giorno ringraziava il Signore. Certamente non poteva permettersi alcun extra, con l’eccezione del tabacco da fiuto, che assumeva in dosi quotidiane, con assidua frequenza, seppur in misura assolutamente controllata. Ad ogni “fiutata” corrispondeva uno o più sonori starnuti, che mascherava malamente coprendosi il naso con uno dei suoi variopinti grandi fazzoletti. Ne ricordo uno rosso a pois bianche. Non di rado si divertiva a ficcare un pizzico del suo tabacco nel naso di qualche chierichetto, così… “alla fidata” e mentre il malcapitato starnutiva lui se la rideva sonoramente, come si diceva “a scraccallius”. Ma torniamo alla povertà di don Arthemalle. Certamente tra le spese extra non potevano esser contemplate quelle per le ferie. Dopo la festa patronale di Sant’Anna, il 26 luglio, tutti se la squagliavano: i sacerdoti assistenti delle associazioni giovanili in campeggio o comunque a ricrearsi in occasioni di “servizi spirituali”. Il parroco-presidente mons. Pasquale Sollai (che insieme alla parrocchia reggeva il vicariato generale della Curia, “come delegato arcivescovile – precisava – e non come vicario generale, ad evitare che mi si imponga la rinuncia alla parrocchia, che amo sopra ogni altra cosa”) un’estate di un certo anno decise che anche don Arthemalle avesse diritto alle ferie. Organizzò e pagò tutto lui, con i soldi della parrocchia. Senza alcuna acquisizione di "consenso-informato" prese contatti con non so quale Congregazione romana e fissò a beneficio di don Arthemalle un periodo di “esercizi spirituali”, forse meglio definibile come “vacanza romana”. Per don Arthemalle tutto andò come previsto: piroscafo Cagliari-Civitavecchia, treno fino a Roma, stazione Termini. Da qui, gli aveva detto mons. Sollai: “Prosegui fino alla Pensione, che ti ho prenotato, facilmente raggiungibile a piedi perché poco distante dalla Stazione. Ecco qui una facile piantina per orientarti, ma se sei in difficoltà chiedi pure ai passanti o meglio a qualche vigile urbano, che ti saprà orientare”. Don Arthemalle, quantunque un po’ in ansia fino a quel punto, non si era preoccupato di chiedere ulteriori informazioni dettagliate su detta pensione, ma tutto era scritto nel biglietto (una sorta di voucher) che gli aveva consegnato il Parroco. E qui sorse il problema. La pensione si trovava infatti in Via Lucullo. Questa denominazione della via a don Arthemalle – ignorante di storia romana – sembrò un’insolenza dei romani, insomma una parolaccia, che non si sentiva di ripetere a quanti avesse dovuto richiedere informazioni. “Bella figura! Scusi dov’è via Lucullo -lu cullo?”. Dopo aver girovagato un po’ nella zona giusta senza trovare casualmente via e pensione, risolse il problema facendo leggere il foglietto con l’indirizzo “via Lucullo” direttamente a un passante a cui chiese le informazioni, e da cui ebbe agevole risposta. Come proseguì la vicenda? Bene, considerato che don Arthemalle tornò da Roma sano, salvo e rigenerato dalle sue “vacanze spirituali”. Tutto quanto, compresa questa faccenda di via Lucullo, raccontò a suoi amici fidati, forse a iniziare dal suo confessore personale, tra uno “scraccallio” e un altro ancora.
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