Credente e laico democratico, Bruno Josto Anedda come il suo Asproni e il suo Frassu riscoperti per noi
di Gianfranco Murtas
Era stato giornalista corrispondente de Il Sole 24 ore, il redattore responsabile dell’Agenzia Italia in Sardegna, il collaboratore di innumerevoli testate e di cultura storica e di aggiornamenti economici – da Nuovo Bollettino Bibliografico Sardo a Sardegna Economica – ed il direttore del periodico, bellissimo, Tribuna della Sardegna. Era infine passato alla Rai, nella sede di viale Bonaria a Cagliari. Negli anni di studio alla facoltà di Scienze Politiche – quando imperava, con l’autorità dei suoi meriti di dottrina e personalità, la professoressa Paola Maria Arcari, preside di Giurisprudenza, era stato indirizzato a biografare con speciali monografie, e seguendo magari l’ordine alfabetico, alcuni sardi eccellenti dell’Ottocento: ed aveva perciò iniziato con Vittorio Angius, ch’egli aveva raccontato in un composto (e spumeggiante) volume – Vittorio Angius politico – pubblicato da Giuffré nel 1969.
Il maggior appuntamento, però, era stato già allora, e prima ancora dell’uscita del volume sul deputato prete scolopio che aveva collaborato con il Casalis curando le voci sarde del celebre Dizionario, con Giorgio Asproni e la sua signoria politica. Già nel 1966 ne aveva riferito in un bellissimo articolo su La Voce Repubblicana. Ne aveva dato occasione il 90° della morte del grande parlamentare amico di Mazzini e Garibaldi, e leader della opposizione ai governi della destra cavouriana e postcavouriana. Sviluppando la sua ricerca s’era imbattuto nel monumentale deposito delle casse custodite, sul continente, dal conte Dolfin, pronipote di Asproni: esse contenevano i quaderni manoscritti dal Bittese con le registrazioni di oltre vent’anni di battaglie politiche condotte a Montecitorio dopo che a Palazzo Carignano ed a Palazzo Vecchio, nella successione delle capitali del regno d’Italia al tempo dell’unità e di Roma capitale.
Altre volte ho ricordato il mio amico Bruno Josto Anedda che morì giovane 37enne nel gran caldo dell’estate di cinquant’anni fa. Oggi nuovamente evocandone la persona e la personalità non credo di dover ripetere quanto già ho consegnato all’interesse intelligente di quanti non lo conobbero e tanto più al sentimento di coloro che lo conobbero e frequentarono a Cagliari, nelle prime stagioni della sua troppo breve vita, dopo l’arrivo nell’Isola – lui ancora bambino – sulle onde delle migrazioni obbligate degli italiani dalle terre del nord-est fattosi jugoslavo per ignominia storica, anch’essa ennesima, del fascismo aggressore nella guerra di Mussolini e di Hitler.
Aveva una formazione religiosa cattolica, Bruno Josto Anedda, sardo di Pola ma con ascendenze materne istriane e croate, sardo figlio di marinaio imbarcato nei sommergibili e incrociatori. Coltivò la religione con speciale diligenza negli anni dell’infanzia, della adolescenza e della prima giovinezza. Gli studi storici avviatisi nel liceo di Cagliari regalarono però alla sua cultura più larghe dimensioni e la stagione del Concilio Vaticano II che aveva appena concluso i suoi lavori aggiunse più libere dinamiche alla sua riflessione tanto più in materia di rapporti Stato-Chiesa, di compatibilità – che il neoguelfismo democristiano, ingessando le appartenenze, non aveva saputo risolvere con alto profilo – fra la coscienza del credente e quella del cittadino.
Nella progressiva acquisizione della consapevolezza d’essere minoranza, e voce lucida ed anticipatrice, nella rivelazione e rivendicazione insieme morale (e religiosa) e civile di quelle compatibilità, in un’Italia ancora troppo conformista e radicata su ideologismi astratti e immotivati, operò – lui che era stato organico all’Azione Cattolica – una scelta politica che guardava ad una realtà che pure essa si qualificava di minoranza o estrema minoranza. Entrarono allora molti elementi nella sua maturazione ideale, culturale, personale e non furono capiti da molti che pur gli erano vicini, da una sponda e dall’altra: quel sapersi configurare minoranza liberandosi dalle artificiose convenzioni e dalle attese del consenso, quel saper individuare nel modernismo azionista repubblicano (di salde e sane radici risorgimentali) l’indirizzo del miglior sviluppo socio-economico e civile del Paese, quel saper collocare nell’alleanza dei repubblicani con gli autonomisti dell’antica ed illuminata scuola regionalista le sue energie propositive di sardo e di intellettuale. Di sardo e di intellettuale che apre la scena al futuro attivando quel patrimonio di idealità rivelatesi, al giudizio della storia, assolutamente profetiche: democrazia e repubblica, autonomie territoriali ed unità costituzionale, europeismo e piena laicità pubblica (di scuola e di legislazione), libero mercato a mitigazione dirigista e meridionalismo assunto a priorità nella programmazione dello sviluppo.
Cinquant’anni fa
Nella chiesa di San Carlo Borromeo, cinquant’anni fa giusto nei giorni ferragostani mi occorse, com’era stato mille volte nella mia infanzia, di servire la messa all’altare: era il requiem celebrato da un prete amico per accompagnare religiosamente Bruno Josto Anedda nel suo transito. Soltanto pochi giorni prima ero stato con Armandino Corona, amico comune, a salutarlo nella sua casa alla Fonsarda. Vedemmo tutti i familiari con lui. Aveva una moglie dolcissima e anche lei apprezzata studiosa, e due bambini d’oro. La scrivania colma di tesori asproniani, carte e carte esito di ricerche faticose e lunghe che s’eran dovute sospendere, nonostante tutto, troppo presto.
Io ho avuto un percorso di vita per taluni aspetti simile a quello di Bruno Josto Anedda, fra valori di coscienza ed esposizione civile, e anche adesso che s’è consumato già mezzo secolo da quei discreti confronti, avverto l’orgoglio di una sequela tanto critica quanto appassionata: piantata nella scuola democratica che dal risorgimento unitario raggiunge l’antifascismo realizzatore della repubblica costituzionale, con Mazzini e Bovio e, appunto Asproni, fino a Cesare Pintus e Silvio Mastio, fino a Michele Saba ed anche all’indimenticato, ultimo testimone, Lello Puddu.
Nella nostra isola la scuola democratica si rimanda facilmente alla figura di Giovanni Battista Tuveri e, con anticipazione di decenni e nel quadro degli ingrati rapporti con i Savoia e, allargando, con gli istituti feudali d’imprigionamento sardo, a quella di Giovanni Maria Angioy. Del quale fu sodale generoso un prete, il canonico Salvatore Frassu, delle cui virtù si mostrò intensamente ammiratore Giorgio Asproni – prete e canonico pure lui – che lo commemorò, con molti dettagli biografici, sulla Gazzetta popolare del 23 agosto 1857, e che il mio caro e compianto professor Lorenzo Del Piano biografò a sua volta dedicandogli un intero corposo capitolo del suo Giacobini e Massoni in Sardegna fra Settecento e Ottocento.
Del necrologio consegnato da Asproni al giornale del Sanna Sanna riprendo qui appena le prime righe perché mi riportano poi al mio compagno di sogni e di militanza Bruno Josto Anedda: «Nella matura età di 80 e più anni passò agli eterni riposi il sacerdote avv. Salvatore Frassu, il dì 9 dell’andante mese in Bono sua terra natale. Era il Nestore dei democratici della Sardegna, e morì costante nella sua fede politica, senza avere mai cambiato. Giovinetto, a cui appena adombrava il mento il pelo dell’adolescenza, partecipò al moto dell’Angioy, suo illustre compaesano; moto infelice, ma fecondo d’insegnamenti alla posterità, che farà onore alla sua memoria, erigendogli un monumento degno della sua antica virtù. Per tradimento di amici infami e per opere dei feudatari vinta la rivoluzione, al Frassu fu depredata ed incendiata la casa dai reazionari vittoriosi che espugnarono il villaggio di Bono deserto di abitatori; ché tutti si erano fortificati nella montagna, né furono sottomessi che per capitolazione. Ché se nei villaggi confederati fosse stata uguale a quella di Bono la generosa risoluzione di combattere, ben altro destino correva fin d’allora questa povera Sardegna…».
Bruno Josto Anedda si innamorò profondamente di questa figura di prete democratico forte di sentimento civile e democratico non soltanto di competenze teologiche e la associò all’icona – mille volte esplorata nella sua umanità segreta non soltanto nella apparenza del suo protagonismo pubblico – e in diverse occasioni, non potendo per opportunità firmare con il proprio nome, adottò lo pseudonimo di Salvatore Frassu.
Fu così anche l’8 giugno 1974, in calce all’articolo “Sarabanda demagogica” uscito su La Voce Repubblicana. Si era alla vigilia delle elezioni per il rinnovo del Consiglio regionale (quando i repubblicani avrebbero confermato nel suo seggio l’on. Armando Corona, segretario regionale del partito). Nonostante fosse ormai colpito dal male e costretto ad una terapia anche dolorosamente chirurgica, il giornalista e storico, l’intelligente e generoso dirigente repubblicano – che nell’Isola il PRI aveva guidato fra il 1968 ed il 1969, saldando l’intesa con gli autonomisti del PSd’A ma anche rafforzando l’identità azionista del piccolo partito erede dell’edera mazziniana – non rinunciava a partecipare alla battaglia elettorale, ad offrire il suo contributo di analisi ad un impegno corale e capace di anticonformismo, tanto più quando riferito, come allora avveniva, al discusso rifinanziamento del Piano di Rinascita. Un rifinanziamento “non meritato” da una classe dirigente che s’era rivelata incapace di una lettura autocritica di quante occasioni perdute avevano lasciato sul tappeto i famosi piani esecutivi della legge 588.
Ecco, volendo oggi ricordare, a cinquant’anni dalla morte, un intellettuale civile di tanta portata, ho pensato di riprodurre, come precisa testimonianza del suo giudizio politico, quando scrisse proprio alla vigilia del triste congedo dalla vita. Il che è cosa che mi riporta alla mente anche gli ultimi giorni di due altri grandi patrioti moderni della scuola democratica italiana e dell’impegnativa militanza repubblicana: Ugo La Malfa abbattuto da un ictus nel 1979, giusto all’indomani di un grave e stressante (e purtroppo infecondo) impegno ricostruttivo, nel centro-sinistra, in quanto presidente del consiglio “esploratore” d’incarico dal capo dello Stato Pertini; Giovanni Spadolini che, espropriato il Senato dalla sua prestigiosa presidenza per volgarissimo calcolo padronale di Berlusconi, non mancò di parlare da statista oltre che da grande storico a Palazzo Madama, e in quei giorni stessi delle avvisaglie per lui malefiche, contro il penoso governo che la plastica di forza italia alleata della Lega secessionista e dei neofascisti aveva allora imposto alla povera nostra Repubblica.
Sarabanda demagogica
«Un polverone demagogico è stato sollevato in Sardegna in vista della scadenza del 16 giugno, data in cui i sardi saranno chiamati alle urne per le elezioni del 7° Consiglio regionale.
«L’avvio alla sarabanda demagogica lo ha dato lo stesso presidente della Giunta regionale on. Giovanni Del Rio, con le sue dichiarazioni programmatiche in cui sono riemersi vecchi temi cari al capo dell’esecutivo regionale e da lui già sperimentati quando altre volte ricoprì la massima carica politica isolana.
«Si tratta, nella fattispecie, dell’affermazione, un po’ velleitaria, che con i fondi residui del cosiddetto “piano di rinascita” si potrà far fronte ad un eventuale rientro in massa degli emigranti sardi, assicurando loro – oggi – quel posto di lavoro che la Regione non è stata mai capace di garantire in 25 anni di vita autonomistica.
«Ma si è trattato soprattutto della rivendicazione, anzi della “contestazione” della Sardegna nei confronti del Governo centrale e genericamente dello Stato (quasi la Regione non fosse essa stessa Stato) per non aver “onorato la cambiale” che sarebbe stata sottoscritta con la grande guerra (chissà poi perché solo con la guerra del 1915-1918) quando furono moltissimi i sardi che si immolarono per la causa comune.
«In effetti l’art. 13 dello Statuto speciale della Regione autonoma sarda, che è legge costituzionale e pertanto impegna Governo e Parlamento, dice testualmente che “lo Stato con il concorso della Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’Isola”.
«Non sono certo i repubblicani a negare la validità dell’impegno che è stato assunto dall’Assemblea costituente il 29 febbraio ’48, tant’è vero che quando finalmente, nel 1962, fu approvata dal Parlamento la legge 588 che stanziava 400 miliardi, da erogare in 12 anni, per “favorire la rinascita economica e sociale della Sardegna” il disegno di legge recava anche la firma dell’on. La Malfa.
«Fu allora una legge importante; per la prima volta in Italia si tentava un esperimento di programmazione. Purtroppo è stato un esperimento che è finito male per riconoscimento unanime delle forze politiche isolane.
«Ora, mentre la legge 588 sta per esaurirsi (quest’anno scade infatti il dodicennio del cosiddetto “Piano di Rinascita”), la Sardegna ha avuto il rifinanziamento del “Piano” con 600 miliardi di lire. Alla testa di questa “rivendicazione” si erano subito poste proprio quelle forze politiche e quelle persone che, in massima parte, sono state causa del fallimento della legge 588.
«Occorre tuttavia premettere che a nostro parere, nonostante le perplessità via via manifestate, la richiesta di rifinanziamento del Piano di Rinascita non è stata assolutamente una richiesta campata in aria, tanto è vero che l’abbiamo appoggiata e votata. Essa in verità ha una profonda validità ma per motivi diversi da quelli che demagogicamente vengono portati avanti, in primo luogo dalla Democrazia Cristiana, in questo periodo preelettorale.
«I 600 miliardi infatti non devono essere la copertura di ogni passata inefficienza e responsabilità per poter continuare con l’andazzo di sempre, ma l’occasione ultima per affrontare i problemi della Sardegna con seri piani di intervento e di spesa.
«Oltre che dall’art. 13 dello Statuto speciale, l’impegno dello Stato per migliorare le condizioni economiche e sociali dell’Isola è scaturito anche dai risultati dell’indagine che la commissione parlamentare ha condotto sulle cause dei fenomeni di criminalità in Sardegna.
«Questa indagine, infatti, per quanto condotta con i paraocchi e su schemi preconcetti, ha dato alcune indicazioni apprezzabili. Dall’ultima di queste è scaturita l’iniziativa dei partiti dell’arco costituzionale i cui presidenti di gruppo, al Senato, hanno sottoscritto il disegno di legge n. 509.
«Il Consiglio regionale per suo conto aveva già approvato e inviato ufficialmente un ordine del giorno in cui chiedeva allo Stato il rifinanziamento del “Piano di Rinascita” per favorire il rilancio economico e sociale della Sardegna e modificare la struttura dell’economia agro-pastorale secondo le indicazioni emerse dalle conclusioni della Commissione parlamentare di inchiesta.
«I repubblicani, nella persona dell’on. Armandino Corona, sottoscrissero l’ordine del giorno e impegnarono il Partito a sostenere la battaglia per la rinascita dell’Isola, ma durante il dibattito che precedette la presentazione di questo ordine del giorno tennero a chiarire bene quale significato avesse la battaglia repubblicana per la rinascita della Sardegna e come essa intendesse capovolgere la logica clientelare, settoriale ed occasionale che aveva ispirato l’azione politica delle altre forze.
«I repubblicani infatti non possono dimenticare che nel momento in cui sta scadendo la legge 588 giacciono inutilizzati nelle casse della Regione ben 150 miliardi dei fondi della stessa legge, e questo perché il V programma esecutivo non è stato approvato dall’Assemblea regionale. Non possiamo neppure dimenticare che solo ora, dopo cinque anni, potrà forse essere applicato il Piano della Pastorizia (80 miliardi dello Stato, e 20 della Regione). Se poi consideriamo i 120 miliardi del bilancio ordinario, vediamo che la Regione può già disporre di oltre 350 miliardi. Non è quindi propriamente una questione di soldi. Questo è il punto. Infatti le forze politiche che hanno governato la Regione finora, ivi compresi i comunisti che hanno rinunciato al loro ruolo di oppositori, hanno ampiamente dimostrato di non poter spendere perché non hanno il coraggio di fare scelte. Da qui il polverone demagogico per accecare gli occhi degli elettori sardi, sperando che i discorsi sulle inadempienze dello Stato facciano dimenticare questa sesta legislatura regionale durante la quale non è stata approvata alcuna legge di rilievo e, con otto crisi dettate da questioni di potere, si è tenuta paralizzata l’Amministrazione regionale.
«Nessuno nega, ovviamente, che da parte dello Stato vi siano inadempienze gravi, ma noi riteniamo pure che da parte del Consiglio regionale, prima di indire un’assemblea di tutti gli amministratori dell’Isola per invitarli a dar vita ad un movimento rivendicativo nei confronti dello Stato, sarebbe stato meglio fare un’ampia, approfondita ed onesta autocritica. E’ vero che lo Stato ha reso macchinosa la applicazione della legge 588 ed ha violato il principio dell’aggiuntività degli interventi; ma è anche vero che la Regione ha fatto poco o nulla per tutelare i suoi diritti ed attuare i suoi interventi anche là dove ha competenza primaria. Ha rinunciato ad esempio a darsi un Piano urbanistico regionale che sarebbe stato utilissimo strumento di programmazione. Questo però avrebbe costretto le forze politiche a fare necessariamente delle scelte invece di lasciare andare le cose in mano alla speculazione e raccogliere poi sottobanco le briciole della “torta”.
«I sindacati, poi, per quanto li concerne, quando indissero in Sardegna lo sciopero generale a sostegno della 509, dimenticarono di chiedere che la legge contenesse precise garanzie di inserimento delle forze sindacali al tavolo della programmazione regionale.
«La 509, inoltre, sembra porre l’accento, seguendo le indicazioni della Commissione Medici, soprattutto sull’urgenza di trasformare la pastorizia da nomade in stabile mediante la costituzione di un demanio dei pascoli. Questa scelta pare dettata più da una analisi storica delle condizioni interne dell’Isola che da una valutazione sia della situazione reale della Sardegna, sia delle sue possibilità in un quadro congiunturale europeo.
«La Sardegna, a nostro avviso, ha diritto all’aiuto dello Stato per trasformare la sua pastorizia non perché riteniamo valida l’equazione “pastore-bandito” che è tra le righe delle conclusioni della Commissione Medici, ma perché essa può forse alleviare il deficit giornaliero di 5 miliardi di lire che l’Italia si accolla per importare carne alimentare dall’estero. Quindi, secondo noi, non dovranno essere ripetuti con la 509 gli errori della 588 ed i finanziamenti non dovranno essere frantumati in mille direzioni perché altrimenti non si risolverà alcun problema.
«Su questi e su altri temi la nostra battaglia per la 509 è diversa da quella degli altri partiti. Ma a monte di tutto questo, alla origine della nostra polemica con le altre forze, c’è un fatto fondamentale, una caratteristica che ha sempre distinto storicamente i repubblicani: un grande senso del dovere soprattutto come pieno rispetto della “cosa pubblica” che è e deve essere al servizio della comunità e non dei singoli.
«In Sardegna, invece, lo scadimento profondo delle strutture amministrative si è ripercosso ovunque, il clientelismo ha pervaso ogni decisione economica, la logica del potere ha prevalso su quella della giustizia ed i risultati sono davanti agli occhi di tutti: i posti di lavoro vanno diminuendo di anno in anno, la forza attiva è ben al di sotto della media nazionale e l’emigrazione in aumento».
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