Della memoria dettorina… e focus Azzolina. Omaggio al preside Roberto Pianta (terza parte)
di Gianfranco Murtas
In questo terzo articolo del ciclo dettorino, fin dall’inizio immaginato o programmato per onorare e salutare il preside Roberto Pianta prossimo a concludere la sua brillante carriera di docente e dirigente scolastico, ho creduto di poter associare, nella raccolta delle testimonianze, a quelle “datate” (perché di generazioni ormai scomparse) una ulteriore rimontante ad una stagione assai più vicina ai nostri tempi. In omaggio così anche alla memoria grata di chi l’ha fornita – Walter Piludu – per il quale è ancora fresco il dolore causato dalla vicenda di malattia che l’aveva colpito e dall’exit necessario che l’ha poi drammaticamente (e beatamente) assorbita.
Omaggio al Dettori ed agli “anziani”, però, in primo luogo: ad Antonio Ballero, classe 1905, perfetto cronista e caporedattore de L’Unione Sarda per lunghi decenni, e poi ancora suo collaboratore quiescente dalla residenza finale di Venezia; a Mario Pintor, classe 1897, anch’egli della famiglia de L’Unione (come segretario di redazione e prolifico notista di articoli storici) in quotidiana condivisione con la Camera di Commercio; a Guido Scano, classe 1895, avvocato e pubblicista e coltissimo bibliografo letterario e storico; a Nino Fara, classe 1907, professore di storia e filosofia e critico musicale del giornale – sto riferendomi sempre a L’Unione.
Omaggio specialissimo, nell’ecumene, alla memoria di Liborio Azzolina, mitico italianista del Dettori e poi anche della risorta facoltà di Lettere (e di Magistero), celebrato da Scano in uno speciale de Il Convegno e da Fara in particolare in occasione della scomparsa (nel luglio 1960), ma del quale richiamerò di seguito l’intervento per l’inaugurazione del monumento a Dante – collocato nell’estate del 1913 all’interno di un corto recinto di lato all’ingresso della scuola –, intervento che già potei risvegliare in un lunghissimo articolo pubblicato nel sito di Fondazione Sardinia il 22 febbraio 2017 (cf. “Specchio di idealità passate e di grette incomprensioni attuali le vicende dei monumenti a Cagliari. Focus sul busto dettorino di Dante Alighieri”) chiosando il tutto con un articolo del professore, bellissimo, su Cagliari divenuta la sua città elettiva (si tratta di “Cagliari”, uscito su Il Nuraghe, fasc. aprile-maggio 1925 e riproposto da Cenza Thermes in E a dir di Cagliari…, Cagliari, Gianni Trois Editore, 1998, pp. 156-159).
Al professor Azzolina riserverò anzi un focus speciale anche con tanto di scheda bio-bibliografica, non dimenticando di lui alcuni degli articoli di recensione libraria che, nel corso del tempo, volle firmare sulle pagine de L’Unione Sarda, e particolarmente quelli titolati “I Canti di Tullio Marcialis” e “La luna sulla montagna” apparsi rispettivamente il 27 giugno 1923 e il 12 giugno 1932. (E a proposito di firme dettorine d’antan sul quotidiano di Cagliari non potrei qui omettere di citare Angelo Nucciotti recensore di La razza di Riccardo Melis, recensito l’11 aprile 1923, – il Nucciotti tanto bistrattato dal giovane Giuseppe Dessì, ma certo d’altissimo livello anche come curatore di una corposa Storia della letteratura latina, uscita nel 1950 per i tipi di un conosciuto editore napoletano, il Rondinella. D’altra parte, italiano per latino, anche Azzolina ebbe gloria, neppure modesta o marginale, in campo editoriale, se a lui si deve, fra il molto altro, l’aggiornamento antologico della Storia della letteratura italiana del Cesareo, l’accademico siciliano… fiero nemico di Carducci).
E dunque, ricapitolando, ecco in successione: di Antonio Ballero “Piazzetta Dettori”, uscito su L’Unione Sarda (nella rubrica domenicale “Memorie di tempi lontani”) del 6 gennaio 1974; di Mario Pintor “Ricordi del vecchio liceo ginnasio Dettori: altri tempi”, apparso sullo stesso giornale il 9 dicembre 1956; di Guido Scano “Lettera al mio professore”, su Il Convegno del dicembre 1956; di Nino Fara, “Ricordo di Liborio Azzolina”, occhiello “La morte di un maestro”, apparso ancora su L’Unione Sarda del 23 luglio 1960.
La lettera di Scano sulla rivista degli Amici del libro ed il colonnino di Fara aprono il focus azzoliniano: perché in esso ho inserito, stralciandola dal sopra cennato mio articolo del 2017, la cronaca – o il riecheggio di cronaca – dello scoprimento del busto dantesco nel 1913 e del discorso d’occasione pronunciato dal professore (integralmente riprodotto su L’Unione Sarda del 26.27 luglio 1913), nonché il “dipinto” cagliaritano – figurativo ed impressionistico ad un tempo – regalato da Azzolina al prestigioso periodico del Carta Raspi nella primavera 1925.
Concludono la rassegna le pagine di Walter Piludu contenute in Il cugino comunista. Viaggio al termine della vita, uscito per la Cuec nel 2015, e segnatamente le introduttive 21-28.
La natura sentimentale di queste mie… puntate dettorine mi autorizza facilmente ad “allargare” il catino. E così, se è sembrato utile conservare al ricordo strettamente liceale di Piludu anche le sue divagazioni extrascolastiche nel quadro più generale delle dinamiche sociali e politiche sviluppatesi negli anni della sua adolescenza, allo stesso modo mi è parso utile non escludere dal resoconto dell’evento del 1913, e quasi a suo complemento, un riferimento neppure breve alla cultura dantesca di Cagliari, al culto della Commedia come fu assicurato lungo molti decenni dalla predicazione dei benemeriti soci della Dante Alighieri, la cui sezione cittadina rimonta addirittura al 1898 (e ne fu apostolo il professor Gustavo Canti, docente di lettere e preside dell’Istituto tecnico e nautico intitolato allo storico Pietro Martini, nonché Venerabile della loggia Sigismondo Arquer). A tutto bisognerebbe poi aggiungere almeno e sempre un cenno a un contributo di Francesco Alziator sul Codice Dantesco Cagliaritano (preziosissimo manoscritto membranaceo custodito nella Biblioteca Universitaria di Cagliari e risalente alla prima metà del Trecento): è in Il Convegno, la storica rivista degli Amici del libro, fasc. luglio 1954.
Ma in questo medesimo contesto mi è sembrato anche legittimo e anzi necessario comprendere altro ancora, e qui faccio diretto riferimento alle osservazioni e testimonianze di Nicola Valle riguardanti specificamente il busto dell’arte del Bozzano che, abbattuto dalle bombe del 1943, fu poi fortunosamente salvato e restaurato, ed oggi finalmente tornato nella sua sede istituzionale, seppure non in quella fisica. (Ma sarebbe bello se il Comune, così come era stato previsto dalla giunta precedente all’attuale, duplicasse quel monumento con la tecnologia 3D e ri-piazzasse l’ex-manufatto rifatto moderno nel luogo in cui era, di sentinella allo stabilimento della Marina, oggi di proprietà municipale e sede di varie associazioni culturali).
Ballero: «Piazzetta Dettori»
Lui, il bidello, prima che si udisse il prolungato risuonar della campanella, sostava sul limitare del portone semiaperto, e con i suoi occhietti vispi e scrutatori, sbirciava gli sparsi gruppi degli studenti in attesa, or richiamando qualche impertinente, or cercando di sedare un improvviso schiamazzo, e di tanto in tanto spostandosi un poco ad un lato per lasciar passare i professori che salutava con un leggero inchino. Caro, umile, povero signor Ancis, - e povero lo era davvero, e non so come facesse a sostentar la famiglia con l’allora molto magro stipendio di bidello – mi par proprio di rivederlo vivo, animarsi e agitarsi in quel vano di porta, specie quando si affannava a tentar di arginare e di incanalare il simultaneo e tumultuoso affluire dei giovani. E quante volte, generoso qual era, consentiva ai ritardatari di varcar egualmente l’uscio, trovava sempre una scusa se il preside, affacciandosi dall’alto della scala, chiedeva spiegazioni.
Piazzetta Dettori, con l’antico edificio del liceo-ginnasio, ex convento requisito dopo il 1870, a fianco della chiesa dalla semplice facciata, le vecchie case e le vecchie vie della Marina, le scalette di Santa Teresa rotolanti dalla via Manno, non potrei raffigurarla diversamente senza il dominante personaggio del bidello Ancis, perché è la piazzetta Dettori degli anni spensierati e quindi quella che più mi è vicina al ricordo. Quante mattine si sono avvicendate sotto il sole, sotto la pioggia, o nel turbine del vento, nella raccolta piazzetta, che si riempiva dello squillante vocio studentesco e la scena si ripeteva puntuale ogni mattina, ogni mattina esplodeva la gioconda gazzarra dinanzi al portone vigilato dal buon signor Ancis.
Quasi al centro del popoloso quartiere, la piazzetta, con la sua accentuata pendenza che favoriva le corse dei trafelati studenti, oltre al massiccio complesso edilizio dell’ex convento, un po’ tetro per la chiesa da tempo non officiata, e l’interno del liceo-ginnasio dalle aule squallide e fredde, ospitava al piano terra di una delle case di fronte lo studio del notaio Cugusi, una sala dal soffitto basso, sempre buia, le pareti ricoperte da ampie scaffalature e vetrine, un pesante odor di chiuso. Già molto avanti negli anni, però dritto nella persona, magrissimo ma sano – mi pare che cessò di vivere quasi novantenne - il notaio Cugusi, il quale continuava a lavorare con l’aiuto del figlio, talora lo si scorgeva di sfuggita, all’aprirsi o chiudersi della porta a vetri, sprofondato nella poltrona dietro il gran tavolo ingombro di carte.
Gli studenti simpatizzavano per il vecchio dall’aspetto severo e dignitoso e quando sostavano in prossimità del suo ufficio, come se ne intuissero il desiderio, evitavano di gridare, addirittura abbassavano il tono della voce. Quella del notaio fu una simpatica e familiare figura della piazzetta Dettori, ed ebbe per compagna, sebbene del tutto diversa, l’altra egualmente ed amata del bettoliere austriaco – non ne rammento il nome – con il frequentato esercizio nello stabile allo spigolo di via Barcellona. Anche lui alto e smilzo, biondiccio, taciturno, gestiva la bettola-bar mescendo il buon vino per i clienti della sera e riempiendo di fette di salame i panini degli studenti. Era giunto a Cagliari all’epoca della prima guerra mondiale come prigioniero e, cessato il conflitto, non aveva più voluto far ritorno al suo paese di origine, si era innamorato di una ragazza cagliaritana, e sposatosi, s’era dato a far l’oste. Divenendo in breve, con la porta della bettola-bar spalancata proprio di fronte all’ingresso del liceo-ginnasio, il distributore delle merende studentesche a mezza mattina e il premuroso fornitore delle colazioni durante i lunghi e faticosi esami di maturità nell’afa di luglio.
Tra i tanti professori che insegnarono al “Dettori” – il nome della piazzetta derivava infatti da quello del liceo-ginnasio – e non pochi si distinsero per preparazione e capacità, particolare popolarità ebbe, senza dubbio, il professor Azzolina. Innamorato di Dante, appassionato studioso del Poeta, seppe inculcare nei discepoli che lo seguirono lo stesso suo entusiasmo, rese a molti più facile e gradita la lettura della Divina Commedia. Sebbene severo, di indole un poco scorbutica, era comunque un’ottima persona, e la scuola servì con assoluta dedizione. Negli ultimi anni di vita, abbandonato ormai l’insegnamento, incontrandolo diverse volte per le vie cittadine, lo vidi farsi lentamente più vecchio, strascinare il passo a braccetto della moglie.
Egualmente noto e stimato il matematico professor Cabitza. All’epoca che rievoco era agli sgoccioli della carriera, già stanco, già vecchio. Non possedeva più l’energia di tenere a bada la scolaresca che ne approfittava trasformando la sua ora di lezione in una babele. Caro e buono professore Cabitza dal carattere mite e remissivo! Una mattina, non so più in quale zona del porto, era scoppiato un incendio. Poco prima del loro ingresso alla scuola gli studenti avevano visto i pompieri correre a precipizio per le strette vie della Marina spingendo a braccia il carrello con le bobine in cui si avvolgevano, arrotolate, lunghe pompe e innanzi ad esso, lanciando acuti sibili da una trombetta d’ottone, il comandante Bottero. Gli alunni dell’ora di matematica non potevano lasciarsi sfuggire di certo la propizia occasione, e nell’aula esplose d’un tratto il terrificante grido: «Incendio, incendio». Così lo stupito preside vide avviarsi verso l’uscita l’intera classe del professor Cabitza con il professor Cabitza in testa, spaurito e tremolante. Mi sembra di riviverla la comica scena e di udire il preside urlare furioso: «Mi faccia il piacere, professore, torni in classe: qui non c’è nessun incendio».
Piazzetta Dettori non ti ho dimenticato, e non ho dimenticato le molte mattine che, nell’attesa della campanella, il mucchio dei libri legati con lo spago, si intrecciavano corse e giuochi in un festoso e assordante gridio. Erano quelli i momenti più belli della piazzetta, perché essa tutta quanta si animava, si elettrizzava, e mentre i negozi aprivano i battenti, passavano lente, con le loro sporte, giungendo dal Castello e da Villanova, le massaie dirette al mercato. Non credo che mai, in quel quotidiano assembramento giovanile, con il bidello Ancis che sorvegliava, la piazzetta sia stata teatro di spiacevoli episodi. La contestazione d’oggigiorno non la si concepiva neppur lontanamente, eppure i giovani, se qualcosa li conturbava e li indignava, avevano i loro vivaci moti di ribellione. E questa ribellione sfogavano, appena non visti, lanciando con furia le bottigliette dell’inchiostro contro il marmoreo busto di Dante collocato su un basso piedistallo in un breve recinto ad un lato dell’ingresso del liceo-ginnasio. Forse mai nessun’altra effigie venne tanto bersagliata come quella di Dante nell’angolo della vecchia piazzetta.
Pintor: «Il vecchio liceo ginnasio: altri tempi»
“Portatemi la volpe”. Questo ordine pronunciato con accento perentorio dal professore di storia naturale era stato rivolto al segretario di classe. Il segretario della classe veniva nominato, tra gli studenti di buona condotta, ogni anno da quell’insegnante ed aveva, appunto, il compito di recarsi nell’attigua sala ove erano conservati esemplari imbalsamati della fauna sarda.
Il segretario uscì dall’aula per eseguire l’ordine senonché, mentre recava la volpe, incappò, nell’andito, con un gruppo di condiscepoli, ne nacque un putiferio con una grave conseguenza: la volpe fu privata della coda, lasciando traboccare dalla “ferita” un fiocco di cotone… Che fare? La “bestia” fu deposta sulla cattedra.
Intanto il professore mostrava di banco in banco un esemplare di talpa ed il segretario tornava al suo posto, paventando la burrasca. Essa non si scatenò subito ed anzi si addensò più nera perché Lillino Girau che, allora, frequentava il Liceo, notata, dal primo banco, l’avvenuta amputazione della coda alla volpe, rese più evidente il fiocco del cotone trasformandolo, con maggiore evidenza, in una vera e propria coda di… neve.
L’insegnante si sedette, ripulì con calma le lenti degli occhiali e prese a descrivere: “Feris vulpes”, “volpe”, in vernacolo “margiani”, “urpi”. Ha il muso così, la dentatura così, il manto così, gli arti anteriori così, i posteriori… la coda! Proruppe in un urlo cavernoso: “La coda... Segretario saltatemi la porta anche voi, siete gente di gallera”! Il segretario filò, quatto quatto, via, ma lungo le scale ebbe la ventura di rintracciare la famigerata coda, la raccolse, gli parve che avrebbe potuto invocare qualche attenuante portandola al professore. Tornò su, bussò la porta dell’aula, entrò con la coda, tenuta delicatamente fra le due dita e: “Professore, biascicò, ecco la coda”. Questi gliela strappò di mano furente. Non vi era da tergiversare, bisognava andarsene di nuovo e così fece, il segretario, appena in tempo per scansare un solenne pedatone.
Ma era un burbero-benefico il professore di storia naturale; preso poi, con calma, revocò la sospensione e tutto finì lì. O meglio, non richiese alcuna punizione a carico del segretario, ma ne revocò la nomina… E fu forse, questo, un danno maggiore perché il nome del segretario rimase fra quelli segnati nel libro nero dell’insegnante, il quale l’anno successivo, nel formare il registro, individuò senz’altro il suo ex collaboratore: “Voi siete quella buona lana di Pintor…”.
Nel fare le lezioni, questo professore era accuratissimo, dettava i suoi appunti, facendo risparmiare l’acquisto del libro di testo, il cui importo, manco a dirlo, veniva a costituire un provvidenziale provento extra…
Da tempo questo esimio docente sardo è morto, perì tragicamente in seguito ad un incidente d’auto ma il suo nome viene ricordato con rimpianto mentre taluno dei suoi ex allievi conserva qualche brano delle sue lezioni fra i ricordi della gioventù.
Non si può rievocare questa nobile figura di insegnante senza associarla – intendo comprendervi molti altri – a quella del preside dell’epoca. Par di rivederlo con la barba patriarcale, coi suoi occhi espressivi, severi apparentemente, in finanziera, incuteva più simpatia che timore. E lo rivediamo addoloratissimo nel rilevare, incisa sul banco occupato dall’indimenticato figlio Giorgio, una “scultura” irriverente, e atteggiare ad un tratto il viso ad un sorriso, che rispecchiava il ridistendersi del suo animo, quando si apprese che l’autore del… lavoro era un altro giovane, il quale generosamente ne assunse la paternità.
Un giorno in piazzetta Sepolcro due “liceisti” che avevano in animo di godersi il sole più che di curvare il capo sulla letteratura latina, iniziarono uno speciale concerto nelle adiacenze della piazzetta Dettori. Uno di loro, peritissimo in “gorgheggi” e “corone”, intonò una marcia, l’altro si assunse l’onere dell’accompagnamento. Suonò la campana, i due presero a salire sulla scalinata, ma, a metà dell’ascesa, furono fermati dalla voce del preside che dall’alto tuonò: “O, voi due del concerto, andate a proseguirlo altrove!”...
A proposito di letteratura latina non può omettersi un ricordo particolare. Un professore, che si entusiasmava e si accalorava nel leggere, a ritmo di metrica, le egloghe, pretendeva, perché gli allievi ne afferrassero il ritmo, che tutta la scolaresca leggesse in coro con lui così come in una orchestra, di cui assumeva il ruolo di capo banda. E qui bisogna proprio dire che si diventava delle vere canaglie, perché il professore, trasportato dall’enfasi, leggeva per conto suo e i giovani scandivano, per conto loro, la tiritera dell’ambulante Spinas: “piatti, piatti, orinali, tubi prussiani, piatti di Marsiglia…”.
Alla fine il professore sollevava il capo tutto sudato per la foga ed esplodeva, senza che si fosse accorto di nulla, in questa esclamazione: “E’ magnifico!”.
Un professore che fece un cattivo… ingresso e che poi, invece, divenne uno fra i più stimati, dovette il suo iniziale insuccesso ad una frase. Comparve con una cravatta a farfalla, microscopica, su un colletto monumentale. Si udì dall’ultimo banco questo commento: “Cercate la cravatta!”. Tutti proruppero in una risata. Il professore non mostrò d’accorgersene: sapeva il fatto suo. Cominciò la prima lezione. Quando finì la cravatta era del tutto dimenticata, data l’ammirazione e l’ascendente che in breve si era conquistato il bravo insegnante.
Altro docente che godeva, per la sua rara competenza e per l’arte con cui sapeva trasfondere nel giovani le bellezze dell’idioma e il fascino dei capolavori dei grandi poeti, era quello d’italiano. Egli si affezionò a questa nostra città, vi contrasse vincoli di famiglia, larghe amicizie ed oggi si gode l’onorato riposo. E’ considerato nostro cittadino e riscuote la stima universale, mentre i suoi antichi allievi, diventati uomini d’età e padri di famiglia, quando lo incontrano hanno la sensazione di tornare indietro di un quarantennio e lo riveriscono con venerazione, così come facevano allora…
Guido Scano: «Azzolina, il professore delle lezioni più attese»
Iniziava l'anno scolastico 1911-12, Lei entrò con passo sicuro nella nostra aula - quella della seconda classe del Liceo Dettori - salì sulla predella, andò dietro la cattedra, e, rimasto in piedi, passò in lenta rassegna, uno per uno, i nostri volti e le nostre persone.
Provammo la sensazione che quegli occhi non guardassero, ma fotografassero. A ispezione visiva ultimata, ci disse seccamente: - Comodi. -- Si sedette anche Lei. Aprì il registro e incominciò l'appello. Nomi nuovi per Lei, appena arrivato in Sardegna, nomi che certo Le saranno sembrati strani, e tuttavia li pronunciava chiaramente, senza sbagliare negli accenti, riguardando fissamente la fisionomia di chi, alla chiamata, rispondeva col prescritto «presente». Solo due nomi determinarono in Lei una visibile reazione: Mattana, al pronunciare il quale le Sue labbra si atteggiarono ad un ironico sorrisetto, e Siotto che Le fece increspare le ciglia, indubbiamente per il richiamo mentale allo storico casato a Lei, di sicuro, già noto. Tutti gli altri La lasciarono indifferente: non Le dicevano niente e non Le ricordavano nessuno, né chiese di essere ragguagliato in proposito.
Esaurito l'appello volle invece sapere chi fossero i ripetenti: ce n'era uno solo e per malattia. Fece una smorfia che interpretammo per un «non sarà così quest'anno» che ci raggelò, mal disponendoci inizialmente verso di Lei.
La nostra era infatti una classe composta nella quasi totalità da giovani studiosi, maturati alla scuola di docenti quali i professori Oddone, Paladino, Galvani, Volpe, Rinonapoli, Bruni, Maccarone, Falchi, Carassali, Aru, tutti assurti a rinomanza nazionale per le rispettive discipline. In quanto alla Sua materia, Lingua e Letteratura Italiana, i Suoi predecessori si chiamavano, appena appena, nel Ginnasio superiore, Ugo Enrico Paoli, e, nella prima Liceo, Vittorio Amedeo Arullani. E Lei, Lei forse perché di folta barba aveva ornato il mento, portava occhiali con aurea montatura, vestiva inappuntabilmente, in perfetta attinenza alla moda maschile del tempo, giacca nera e pantaloni grigi a righe ricadenti su attillate scarpette di lucido coppale con ghettina a bottoni di madreperla, Lei era proprio sicuro di poterli, con tanto pur rispettabile apparato, validamente sostituire in quella onoratissima cattedra? Non lo pensavamo possibile.
E invece molto breve fu il periodo di sospettosa diffidenza da parte nostra, giacché Lei, nonostante la Sua, più formale che sostanziale, autoritaria burbanza, si inserì, prima ancora che ce ne rendessimo conto, nella nostra grande, incondizionata stima e nella nostra ammirata considerazione. Fu una rapida, vittoriosa conquista.
Ben presto le Sue lezioni furono attese e desiderate. Ma non erano, le Sue, lezioni nel senso scolastico della parola, ma elevate, suggestive, avvincenti conferenze letterarie, e i Suoi commenti al Divino Poema o alle Opere di altri nostri grandi, dissertazioni sapienti, e allo stesso tempo accessibili, che ci facevano meglio intendere, apprendere ed assimilare, senza costrizioni a pesanti sforzi dell'intelletto, le armoniose bellezze della nostra poesia e le magnificenze della nostra letteratura.
E’ certamente merito di docenti della Sua levatura, se dei giovani di quel tempo - e qui faccio necessario ed esclusivo riferimento alla mia epoca per personale cognizione di persone e di cose - nessuno, può dirsi, deluse o tralignò. Chi cadde, cadde in aureola di gloria immolando la propria giovinezza sui campi di battaglia, prima di potersi affermare - come certamente ne sarebbe stato - in quelli dell'esistenza: Enrico Atzeri, Lorenzo Loy, Beniamino Mattana, Stefano Giagheddu, Luigi Siotto, eroici indimenticati colleghi di studi e d'armi.
Ma gli altri sopravvivono, (mutili o reduci del primo conflitto mondiale, o estranei - pochissimi invero - ne siano dovuti rimanere) quale nobile schiera d'onore per la Scuola e per Lei che ne fu una delle Guide più ispirate ed oggi è la sola che tuttora, (a quasi mezzo secolo di distanza - e Dio voglia ancora per lunghissimi anni) sopravvive. E Lei è presente tra di loro, perché sia ad essi consentito di onorarne, unitamente ai giovani di successive generazioni ugualmente educati al Suo sapere, il Nome e la Persona.
Tra gli allievi dei Suoi primissimi anni di insegnamento al Liceo Dettori, sono infatti i tre primi Presidenti della Regione Sarda, Luigi Crespellani, Alfredo Corrias e Giuseppe Brotzu, nonché l'attuale Sindaco di Cagliari, Mario Palomba, e Suoi discepoli, dello stesso lontano periodo furono Raffaele Sanna Randaccio, Enrico e Luigi Musio, Giovanni e Vitale Cao di San Marco, Antonio Putzolu, Sebastiano Deledda, Angelo Binaghi, Francesco Vodret, Amedeo Usai, Aurelio Espis, i tre Ufficiali Generali Antonio Giagheddu, Enrico Macis e Mario Solinas, dell'Aeronautica il primo, e gli altri della Giustizia Militare, e tanti, tanti altri pur affermatisi ed impostisi nei campi delle libere professioni, dell'industria, della tecnica, della magistratura, della finanza, della scuola, della politica, degli impieghi.
Né le due gentili rappresentanti della femminilità studiosa, si dimostrarono da meno dei colleghi in pantaloni: Bruna - ma biondissima - Bruni ha una cattedra di materie letterarie a Firenze, e la realmente bruna Rita Masala, andata sposa ad un altro compagno di classe, Carlo Ibba, medico provinciale in una Prefettura Lombarda, è docente di matematica pura. Ottime spose e madri di famiglia, erano a quei tempi le nostre generose, insuperabili suggeritrici degli interrogati alla cattedra, alla quale l’unico banco prossimo era il loro, in zona staccata dalla mascolinità della classe.
Lei i nomi dei Suoi più anziani allievi li ricorda certamente tutti, forse anche più vividamente di altri meno vecchi, senza che il tempo e le lontananze ne abbiano potuto attenuare il ricordo o annebbiare la patina delle fotografie scattate dal luminoso obiettivo del Suo sguardo, perché essi rappresentano, oltre che la più lontana generazione da Lei istruita, i primi anelli di contatto con la gioventù studiosa della. Sua città d'elezione.
Quando poi altri rapporti d'affetto, di stima e di amicizia, anche per il Suo inserimento in una onorata esemplare Famiglia cagliaritana, quella della Donna eletta e gentile che Le è fedeIissima, luminosa Compagna, seguirono, senza peraltro sovrapporsi agli iniziali della scuola, i nostri sentimenti sono rimasti sempre di devozione rispettosa al Maestro, negli incontri col quale ci si spalancano le porte della memoria per farne sortire a frotte i ricordi fra i più cari della lontana giovinezza.
E l'affetto del quale Lei ci ricambiò, volle estendere anche alla nostra terra, divenendone, come noi, amantissimo Figliolo. Di tanto amore dobbiamo esserLe, e Le siamo, infinitamente grati, e se il Suo valore nel campo degli studi letterari e dell'insegnamento Le hanno valso l'ambito riconoscimento ufficiale di benemerito della cultura, siamo pur convinti che ragione di ben maggiore orgoglio debba essere per Lei il plebiscito di ammirazione e di riconoscenza che Le tributano schiere di vecchi e di giovani allievi, i quali, oggi onorandola, sono partecipi lieti e commossi, di una grande, comune festa del cuore e dello spirito.
Fara: «Ricordo di Liborio Azzolina: la morte di un maestro»
Dalla nativa Sicilia era venuto a Cagliari negli anni precedenti alla prima guerra mondiale, titolare di Letteratura italiana al Liceo “Dettori” dove poi rimase per tutta la sua carriera, educatore di centinaia e centinaia di giovani di Cagliari, della provincia tutta, di Nuoro, dacché allora – e per molti anni ancora – soli licei classici dell’Isola erano il Dettori di Cagliari e l’Azuni di Sassari. Guadagnò subito il massimo prestigio per la serietà della preparazione, per le grandi doti didattiche; e a Cagliari, che considerò sua terra d’elezione, arricchì a mano a mano la sua opera di studioso e di critico, elaborando numerosi saggi (in particolare si ricordano gli scritti sul Dolce stil nuovo, sul Parini, sul Berchet, sul Giusti, sul Foscolo) e ampliando – corredandola anche di una vasta antologia commentata – la Storia della letteratura italiana del suo maestro G. A. Cesareo, da lui rinnovata e integrata, specialmente per il Dolce stil nuovo, per il primo Rinascimento, il Seicento, il movimento erudito ed enciclopedico del Settecento e Contemporanei. Su quei sette volumi pubblicati nel 1921 studiarono per diversi anni i liceali cagliaritani.
Conoscitore profondissimo di Dante, sapeva a memora tutta la Divina Commedia e tenne sempre lezione senza ausilio del testo, con quella sua dizione della poesia così vibrante e commossa. I canti di Francesca d Rimini, di Farinata, di Ulisse, di Ugolino, di Casella, di Sordello, di Piccarda, di S. Francesco, la malinconia del Petrarca, la commedia umana del Boccaccio, l’aerea fantasia dell’Ariosto, la turbata sensibilità del Tasso, la lieve grazia metastasiana, la coscienza morale del Parini, la voce magnanima di Ugo Foscolo, il colore leopardiano, la romanità del Carducci lo ebbero interprete e illustratore sensibile, suggestivo, commosso.
Nella sua 1.a liceale A, dai banchi a gradinate ora scomparsi, nel vecchio edificio di piazza Dettori, giungemmo – nel 1926 – un mio compagno (caro dott. Benvenuto Caruso, dentista rinomato, posso dirlo ch’eri tu?) ed io, mutati di corso per certa mascherata brillante, ma giudicata inopportuna. Nuovi dell’ambiente, e diversamente abituati, visto il professore sfornito del testo, glielo porgemmo, ponendolo sulla cattedra. Sorridendo ci chiese cosa dovesse farne, e così apprendemmo che il prof. Azzolina non avrebbe fatto uso – né per la 1.a, né per la 2.a, né per la 3.a liceale – di alcun testo. Un giorno ci leggeva e ci commentava un sonetto del Petrarca e l’allievo interrogato non riusciva a spiegare un passo. «Chi sa spiegare?», fece Azzolina. Ed io, sbirciando alla svelta le note, diedi la spiegazione. «Chi ha detto questa sciocchezza?» fece Azzolina, ed io senza pensarci su: «Giacomo Leopardi», ché proprio suoi erano il commento, l’interpretazione dell’edizione del Canzoniere che in quella classe io solo possedevo. «Eh, benedetto figlio, cosa mi hai fatto dire!».
Un’altra volta Mario P. (oggi funzionario al Ministero dell’Interno) s’impuntò sulla parola “tapino” e il professore, accorgendosi che ne ignorava il significato e che non si era curato di saperlo, finse di istradarlo: «è un…», e quello: «è un animale». «Già! con quante gambe? due o quattro?». «Quattro».
Conseguita la libera docenza insegnò a lungo anche nel nostro Ateneo Letteratura italiana e Letterature neolatine.
In riconoscimento dei suoi meriti ebbe varie onorificenze e nel 1952 fu eletto a Cagliari consigliere comunale nella lista del Partito nazionale monarchico. Conferitagli dal Ministero della P.I. la medaglia d’oro dei benemeriti della scuola, per iniziativa del “suo” vecchio Liceo “Dettori” gli furono fatte nel 1959 onoranze che riuscirono testimonianza della larghissima stima e del memorie affetto di cui Egli era circondato.
Fervidissimo assertore d’italianità, era stato interventista nel 1915 e sempre alimentò nei giovani e manifestò vivissima la coscienza nazionale. Ricordo le sue lacrime di commozione quanto, nel 1948, mentre presiedeva agli esami di maturità al Dettori, giunse la notizia della dichiarazione tripartita che sanciva il ritorno all’Italia del T.L. di Trieste. Per la prima conquista di Trieste egli aveva visto partire tanti suoi allievi e il Liceo Dettori custodisce la lapide commemorativa degli eroi con le parole da Lui dettate:
«Martiri della patria – mentre per essi un sogno era la vita – nella scuola che li educava e che onorano – tra il ricordo e la devozione perenne – le menti i cuori al vero al bello anelanti – rischiarino e sorreggano – con la fiamma del santo ideale – cui si immolarono – con la gloria dei loro nomi immortali» e dopo i nomi dei caduti «a quest’urna – che sacre zolle – già d’olocausti eroici are gloriose – custodisce – l’animo vostro, o giovani, si pieghi – devotamente – e la sua voce ascolti – che è carità di patria – che per la patria infiamma – ad eroismi, ad olocausti nuovi».
Dinanzi a quella lapide si rinnovano sempre i fiori e arde perenne la lampada. Nelle sedi beate delle labili ombre lo spirito dei giovinetti eroi ha accolto ora con l’antico affetto l’anima del vecchio Maestro.
«Dante, Dante, Dante», di Gianfranco Murtas
[…]. Grazie ad una pubblica raccolta di fondi promossa dagli stessi studenti e con donazione finale al Comune che aveva offerto l’area pubblica, venne realizzato anche il busto di Dante Alighieri, opera dello stesso scultore che predispose l’erma bruniana: Antonio Bozzano.
E’ nel tardo pomeriggio di giovedì 24 luglio che qualche centinaio fra studenti e professori del liceo-ginnasio, loro colleghi delle altre scuole cittadine con la bandiera d’istituto, autorità del Municipio e della Provincia e cagliaritani quidam, sparsi o in associazione, si assembrano, per la gran cerimonia dello scoprimento, nella piazzetta Dettori, lo slargo che collega la via Principe Amedeo e le scalette di Santa Teresa (così si intitolava la chiesa che sarebbe diventata Auditorium) alla matrice stradale di basso: dal vico Collegio, che arriva da levante, alle parallele vie Sant’Eulalia e Barcellona orientate in direzione del porto, alla via Dettori nell’inoltro verso il Largo e Stampace. Moltissime persone assistono dalle finestre e dai balconi degli edifici d’intorno.
Cuore del cuore della Marina, quel compendio – chiesa e collegio – si porta addosso una storia almeno due volte secolare. Forse non tutti hanno piena conoscenza dei dettagli, ma certamente tutti conoscono, direi intuitivamente e per i racconti proposti da qualche anziano testimone diretto o indiretto, il peso e il valore di quell’antica ed austera edilizia religiosa: di fianco alla chiesa (già dismessa al tempo del can. Giovanni Spano che la descriveva ancora però con le sue colonne e i capitelli corinzi, i due maestosi cappelloni e le grandi tele, gli altari laterali con altri venti o trenta dipinti originali, e la sagrestia che era stata anch’essa una vera pinacoteca sacra) è la ex casa professa dei seguaci di Sant’Ignazio di Loyola. Essa s’era fatta più volte teatro dei più accesi contrasti fra l’anima religiosa e tutta corporativa dei gesuiti, monopolisti dell’educazione scolastica, e quella civile della popolazione così come dell’ordinamento regio e poi (nel 1848) costituzionale. In tempi più remoti era stata testimone dell’umiliazione imposta dal papa Clemente XIV, nato francescano conventuale, il quale aveva decretato (era il 1773) la soppressione della Compagnia in tutto l’occidente cattolico (ed anche, per conseguenza, la chiusura, a Cagliari, dei tre presidi di Santa Croce, San Michele e, appunto, Santa Teresa).
Divenuto scuola di lettere latine affidate a preti secolari, così per tre lustri prima della Rivoluzione e fino al 1822, quel palazzotto era tornato ad essere, appunto in quell’anno che aveva visto la resurrezione della Compagnia, il quartier generale dei padri, luogo di studi severi e selettivi e di disciplina formativa. Nel 1848 la nuova e violenta cacciata dei religiosi aveva aperto una nuova stagione: era sorto il collegio reale, statale cioè, scuola onnicomprensiva diremmo oggi, con i corsi delle elementari, delle grammaticali, del secondario e della filosofia. Fu reso attivo, allora, anche un gabinetto fisico ben attrezzato. Nel 1859, infine, venne costituito il liceo-ginnasio, ma lì studiarono anche i bambini delle primarie ed i ragazzini delle scuole tecniche.
Questa la storia del plesso, storia anche e soprattutto di vissuti personali e collettivi, di giovani e di docenti, di famiglie e di religiosi associati.
Poggiato su un piedistallo in marmo di Pietrasanta, sopra due gradini di pietra sarda di Serrenti, il busto di Dante, ancora coperto da un gran telo candido, s’alza su uno sfondo di palme e querce, alla sinistra dell’ingresso del caseggiato. Tocca a due studenti, in rappresentanza dei loro colleghi, togliere il drappo e mostrare a tutti l’opera. Squillano in quel momento le trombe della banda cittadina e s’alza l’applauso prolungato di tutti. La scena è cinematografica: perché in quel momento chi ha in testa un cappello o un berretto si scopre, e così sono le chiome, insieme con le fronde degli alberi e le numerose bandiere presenti, ad agitarsi per il vento che rinfresca la sera. E’ ben leggibile la dedica: «Al – Divino Poeta – Gli studenti liceali 1912-1913».
S’appresta a parlare il professor Liborio Azzolina – 42 anni, origini siciliane in Piazza Armerina, a Cagliari ormai da due anni (qui ha appena fatto famiglia con Dina Pisano e qui resterà fino alla morte), docente di lingua e letteratura italiana e libero docente (all’università di Palermo, poi lo sarà anche di Cagliari, e anche straordinario della risorta facoltà di Lettere, dantista di competenza ed autorità). Tocca a lui pronunciare il discorso ufficiale, e dopo lui, nella tribunetta allestita accanto al monumento, è il preside Leonardo Bruni a dire qualche azzeccata parola, sottolineando il proprio orgoglio di educatore «di giovani che tanto alto hanno in sé il sentimento dell’Arte, del bello, del grande e del buono».
Delegato dal sindaco Bacaredda interviene poi l’assessore Carlo Aru, archeologo e storico di professione, sensibilissimo dunque all’evento e alle sue motivazioni: «La città è grata ai giovani studenti – egli sostiene – per aver essi con ammirabile forza di volontà, con fede ed entusiasmo voluto fregiarla del monumento» che, a nome di tutti, prende in consegna.
L’avvocato Virgilio Cugia, rappresentante della locale sezione della Dante Alighieri (di cui è presidente l’on. Enrico Carboni Boy), aggiunge qualche considerazione, tanto più sulla vocazione nazionale e pedagogica del sodalizio attivo a Cagliari già dalla fine dell’Ottocento.
Un’ora, poco più, fino al tramonto. E’ festa per tutti, scrutini ed esami hanno appena concluso l’anno scolastico. Ne verrà, tranquillo, soltanto un altro. Poi, in crescendo, sarà un’altra aria. Giusto nell’estate 1914 s’apriranno le ostilità della guerra continentale, e nella primavera del 1915 in molte case cagliaritane arriverà la cartolina del richiamo in armi di qualche proprio giovane, sovente dello stesso capofamiglia. Nel febbraio 1916, poi, una tragedia tutta interna alla scuola: il suicidio del giovane professore di fisica Guido Algranati, che a Cagliari, dalla sua Toscana, aveva voluto venire ad insegnare ma non aveva saputo fronteggiare certi scapigliati delle sue classi…
Degli anni immediatamente successivi abbiamo, del Dettori, numerose testimonianze volte ora al racconto autobiografico ora alla rappresentazione del prevalente spirito pubblico, del sentimento diffuso. Ricorderei fra il molto, le pagine di Francesco Alziator (anche quelle di Attraverso i sentieri della memoria) e quelle di Gustavo Piu (direi soprattutto Un magistrato racconta, Cagliari, 1977). Ma in generale sulle vicende secolari della scuola un doveroso rimando merita il celebrato Annuario 1959-1960 curato dal professor Danilo Murgia (ed ampiamente recensito da Alziator su L’Unione Sarda nel dicembre 1960), così come – opera deliziosa nella voluta modestia anche grafica – un apprezzamento sembra doveroso verso Santa Teresa in Marina. Storia di un antico convento e delle scuole in esso ospitate, curato nel 1993 dalla media Manno (con ingresso in via Collegio) sotto la guida della preside Enrica Figus.
Azzolina, l’erma e la critica de L’Unione Sarda
E’ tutto rivolto agli studenti il discorso del professor Azzolina. Egli sa bene – ché è mestiere suo insegnare la Commedia in quanto materia curricolare – che i ragazzi si trovano, cantica dopo cantica, impegnati per anni attorno alle terzine del Poeta, ma più ancora attorno o dentro il suo mondo, che fu agitato per l’anima politica di chi sarà costretto all’esilio e anche per le fatiche proprie, ideologiche, della sua composizione maggiore e delle altre. «Non è ingombro inutile o superfluo ornamento il profilo marmoreo di Chi diede unità e vigore al nascente e incerto volgare italiano, specie se posto quasi genio tutelare presso il tempio degli studi severi, che sopra tutti formano la gioventù al culto delle gloriose tradizioni patrie, all’amore della grande Italia. I monumenti dei sommi, dei veri eroi dell’umanità, furono sempre e ovunque scuola di virtù civili, nobile ed efficace esempio di azioni generose…», dice Azzolina, che poi subito aggiunge:
«La gioventù sarda deve più di ogni altra mirare alla sua elevazione morale e intellettuale, se vuole che la sua terra, favorita da mille incanti della natura, si redima oramai e s’innalzi nel concetto degli uomini. Voi, che avete voluto onorare con questo marmo il sommo Poeta, considerate, o giovani, l’alto significato del fatto compiuto. Dante lo abbiamo nell’anima – a Dante sono stati innalzati troppi monumenti, dicono quelli che lo considerano o soltanto il poeta di Francesca, di Farinata, del conte Ugolino, o la Minerva oscura che riporta ad altre maniere di pensare, di sentire, di rappresentare; a tempi che furono. Ma v’ha di più.
«Raramente come nel grande Fiorentino l’uomo, il cittadino, il moralista, il poeta armonizzarono in un’individualità perfetta, senza irregolarità, senza ombre. In Dante, l’uomo mirò alla propria elevazione nelle plaghe radiose di un puro ideale; il cittadino intese al bene comune, alla salute della patria divisa e minacciata; il moralista seguì la vita luminosa della virtù, indicandola agli altri smarriti fra le tenebre del vizio; il poeta diè forma ad una estatica visione di redenzione umana, universale.
«Dante negli studi cercò il suo vital nutrimento e nei maestri ripose la sua venerazione; per la patria usò le armi, esiliò Guido Cavalcanti l’amico suo più caro, sfidò le ire di Bonifacio VIII; alla difesa del suo onore sacrificò la gioia di rivedere ancora una volta il suo bel San Giovanni e al trionfo della verità immolò agi e conforti; dell’arte conservò un culto profondo sino alla fine estrema, pari a quello che ebbe di Dio e delle sue beatitudini eterne.
«La vita di Dante fu tutto un progredire verso la perfezione… fu tutta un’ascensione dall’interesse personale al bene sociale, umano, ammaestramento e consiglio a quanti non vorrebbero veder al di fuori del proprio io; fu tutto un sacrificio per il benessere e per la grandezza della patria, monito solenne agli infingardi e ai mestatori che si consumano nell’inerzia e nella viltà, in maneggi loschi e sediziosi.
«E quale modello più perfetto potrebbe offrirsi ai giovani, nel tempo che essi sono incalzati assai più dalla curiosità di sapere, dal bisogno di sentire, dall’impazienza di operare? Egli è un modello che ci parla con l’opera sua e più con la sua Commedia, se letta ed intesa senza le storpiature e i deliri dei mille commentatori…».
Andando quindi verso la conclusione: «Vero è che Dante soprattutto fu uomo del suo tempo e che l’opera sua compendiò il Medio Evo; ma non è vero che noi esageriamo e fomentiamo un cieco fanatismo onorandolo sempre più col mutar dei tempi. Tutti i grandi poeti hanno alcun che di eterno, che oltrepassa i limiti angusti della loro epoca e sovrasta luminoso nei secoli. Ma Dante nel suo petto di fiorentino dugentista sentì palpitare tutta l’anima italiana come smaniosa di libertà così avida di grandezza. E se sino al nostro Risorgimento politico parve l’antesignano di ogni moto che andasse a scuotere il giogo straniero, oggi che l’Italia imprende forte e fiduciosa il cammino della conquista prosperosa e civilizzatrice, parrà voce fatidica che consiglierà di persistere e di progredire sempre, persuaderà a non tergiversare, a non transigere, a non piegar mai… Dante fu un ammiratore dei forti caratteri, ed egli fu un carattere adamantino. Insidiato, perseguitato, costretto a scendere e a salir per l’altrui scale, a bere sino in fondo in un calice amaro, non deviò mai dalla vita scelta, non perdette mai di vista la meta prefissa; non seppe avvilirsi, non seppe mentire; disse tutto, senza esitazione, lasciando pur grattar dov’era rogna, e tenne che il suo grido fosse come vento…
«Oggi all’Italia occorrono forti caratteri, coscienze indipendenti, cuori arditi… Ed è a tale riguardo, o giovani, che acquista un merito speciale questo segno marmoreo del vostro culto per il divino Poeta. Senta pure l’anima vostra tutta la soave poesia la quale, ispirata all’eterno dramma dell’amore, vi fa sognare con Francesca, piangere con Paolo, commiserare col Poeta. Contempli stupita la vostra fantasia quel gruppo michelangiolesco in cui due capi-partito, due forti – Farinata e Dante – palesano nel gesto, nello sguardo, nelle contrazioni del viso, ciascuno l’ira della sua parte, la fierezza della sua famiglia, l’orgoglio della propria individualità. Tremi tutto il nostro cuore allo strazio indefinibile di un padre, del conte Ugolino che si sente impotente ad aiutare i figli che muoiono, e che li vede cadere ad uno ad uno, e per tre dì li chiama poi che son morti, finché anche lui soccombe al digiuno più che al dolore… E poiché lo onorate, voi mostrate di comprenderlo e di sentirlo: il che è promessa sicura per l’avvenire. E il vostro esempio gioverà a quanti verranno dopo di voi a trovar in questa stessa scuola nuovi lumi per la loro mente, più alte aspirazioni e sentimenti più degni per il loro cuore.
«Oh! custoditelo sempre, quasi gelosamente, nelle vicende diverse della vita, questo culto per il grande Fiorentino. Esso vi guiderà per vie sicure, esso vi inciterà a grandi cose. E sarà un bene per la vostra città, per l’isola vostra, per la grande madre Italia, oltre che un onore per il vostro nome, se anche voi vorrete un dì meritarvi quel plauso che il Poeta volle fatto dal suo Duce: il plauso più bello, più dolce che toccasse il suo cuore di figlio, profondamente grato alla tenera madre: “Benedetta colei che in te s’incinse!”».
Così il professor Azzolina che al mito di Dante avrebbe orientato tutta la sua vita di docente e conferenziere, tanto più e specialmente nelle attività del sodalizio che al nome del Poeta si intitolava ed a quelle degli Amici del libro. Non va dimenticato, al riguardo, il fascicolo monografico de Il Convegno, a lui dedicato poco tempo prima della morte avvenuta nel 1960.
Ma la festa… non è solo festa. Perché, rispettato Dante e rispettata l’intenzione e l’azione dei dettorini, è il busto in quanto tale che non convince tutti. Lo stesso avverrà presto anche con l’erma di frate Giordano, verso cui esprimerà qualche riserva, fuori da ogni diplomazia, lo stesso sindaco Bacaredda.
No, «un cipiglio melodrammatico, un volto cartapestaceo»
La critica (propriamente demolitrice) al lavoro del cav. Antonio Bozzano è uno stesso (anonimo, si firma “effe”: Felice Senes?) redattore o collaboratore de L’Unione Sarda a non risparmiarsela. La propone, in accompagno alla cronaca del festoso scoprimento e della festosa commemorazione. Sembra, invero, eccessiva e anche mossa, più che dal risultato plastico, da una pur comprensibile ragione di categoria, per non essere stati officiati gli artisti isolani che ben avrebbero potuto produrre un’opera degna di ammirazione. Si pensi – ma i casi personali non sono esplicitati dall’articolista – ai lavori di Pippo Boero, si pensi che Francesco Ciusa ha trionfato da appena sei anni alla Biennale di Venezia… ed altri, con loro, hanno partecipato agli abbellimenti interni al nuovo municipio di via Roma.
«… Insomma una nobile celebrazione, una bellissima festa – scrive “effe” –. Purtroppo di brutto non c’era che… il monumento inaugurato. Il giudizio degli artisti e delle persone che con l’arte hanno una certa dimestichezza non può non essere concorde. E’ il busto di Dante quello che ieri salutammo, o il busto di un rachitico? Sono quelle rozze e grossolane mani, che scrissero le delicate terzine del Paradiso? Quel cipiglio melodrammatico, quel volto cartapestaceo avrebbe avuto accoglienza nei castelli del Casentino, di Lunigiana e di Romagna? S’è tanto sbraitato, per amor dell’arte, contro il mastodontico monumento di piazza Santa Croce a Firenze, e contro la statua, pur maestosa, di Trento, e contro i mille busticelli che disadornano aule, nicchie, lunette e piazze dell’Italia redenta e irredenta, che di questo minor fratello malaticcio, adattato sopra una colonna da pulpito d’altare, messo, per maggior aberrazione contro lo sfondo d’un pilastro bianco, a ridosso dell’edificio scolastico, non sappiamo cosa dire. Si condanna da sé. Non c’è bisogno di essere feroci sostenitori che a integrarci nella fantasia l’immagine mortale del Poeta bastino la maschera di Ravenna, il ritratto di Giotto, quello più maturo che Domenico di Francesco dipinse sotto le robuste volte di Santa Maria del Fiore, quello dei Memmi in Santa Maria Novella e tutt’al più le medaglie del Morzachelli e del Putinatti.
«Basta aver letto le poche forti linee di prosa con che il Boccaccio descrive i lineamenti felici del suo grande amico, e avere nel cuore le terzine di granito sanguigno e d’azzurro terso, e soprattutto rispettare le leggi dell’arte, per deplorare che un’idea bella e nobile, che noi caldeggiammo all’inizio, sia così precipitata nel grottesco. Ché il busticello del prof. Bozzano è soprattutto grottesco; modellato con fiacchezza accademica, senza la linea di grandiosità che esigeva l’altissimo soggetto, falso nei giuochi d’ombra sopra l’accigliatura, infantile nelle linee che s’intrecciano fra la bocca, il mento e le guancie, orribile nell’atteggiamento e nella modellazione delle mani, artisticamente rachitico per dirla con una parola.
«Primi a protestare contro le gatte frettolose alle quali dobbiamo il brutto regalo di quella colonnina da pulpito con suvvi la profanazione di un Dante da operetta, dovrebbero essere gli artisti nostri, gli artisti di Sardegna che hanno dato bei saggi del loro valore – pittorico, scultorico e decorativo – nelle aule del palazzo municipale, e vederlo, per mano d’intrusi, di toscani dirazzati, di scalpellini laureati, una nuova bruttezza aggiungersi alle troppe di cui va onusta la città. Perché debbono essi domandarsi, non si è fatto un concorso? Il nome del prof. Bozzano, oscuro come la Minerva di Dante, era tutt’altro che garanzia d’arte.
«Basta coi monumentini bell’è fatti che si smaltiscono come le figurine d’alabastro a cinque lire la dozzina. E’ tempo di far rifiorire il gusto delle cose belle. I mercanti che non trovano spaccio nelle piccole città del Continente debbono avere il bando anche in questa Sardegna che ormai fiorisce di giovani artisti che hanno varcato le soglie del successo. Perché le autorità cittadine – possono anche domandarsi gli scultori e i pittori nostri che hanno il torto di non essersi uniti in una Famiglia da consultare in casi come questi – perché le autorità cittadine hanno dato il permesso all’erezione di un birillo di quella fatta, che saremo costretti a vedere chissà per quanto tempo ancora presso la soglia del Liceo Dettori? Meglio, oh assai meglio, che si fosse piantata una palma nel bel mezzo della piazza a dar refrigerio d’ombra e gioia di vista ai nostri giovani, all’imminente primavera spirituale di Sardegna. Invece si è sostituito un orinatoio con un monumento ugualmente vespasiano…»
Trent’anni pieni, volenti o nolenti, e il dopo
Fino al 1943, l’erma dantesca – bella o brutta che sia – accompagna, come una sentinella, l’ingresso principale del liceo.
Nel suo Cagliari del passato (Cagliari, 1983) scrive il professor Nicola Valle, che anch’egli – classe 1904 – del Dettori è stato allievo e poi anche docente:
«il busto marmoreo… durante un bombardamento sulla città, negli anni dell’ultimo conflitto, fu investito da un forte spostamento d’aria, e andò a cadere ai piedi del basamento sul quale era stato collocato nel 1912 [recte: 1913] per iniziativa del prof. Liborio Azzolina e degli studenti liceali. Nei mesi successivi servì da passatempo alla soldataglia che, incontrollata, gironzolava nella città disabitata e semideserta, e si divertiva a farlo rotolare e poi risalire lungo la discesa di piazza “Dettori”. Poi, alla fine della guerra, la statua fu pietosamente raccolta e messa a dormire in un buio magazzino a pian terreno dello stesso liceo. Più tardi servì ancora una volta come oggetto di spasso agli scolari del liceo artistico, ivi trasferitosi; essi si divertirono a verniciarlo in modo ridicolo, alterandone i lineamenti. Fu infine scovato e salvato e ripulito a cura dell’Associazione “Amici del Libro”, che superando interminabili difficoltà burocratiche e d’altro genere, riuscì a riportarlo alla vita, restaurandolo e sistemandolo sulla gradinata d’ingresso della sede sociale, nel palazzo del Comune; dove attualmente si trova».
Così, appunto, fino al 2003, anno di sgombero forzato e affrettato dalle viscere municipali del lodevole sodalizio. Ho ricordato, nel già cennato articolo del 21 settembre us., le speciali benemerenze degli Amici del libro in uno con la sezione cagliaritana della Dante. Il 4 ottobre 1972, aprendosi il nuovo anno accademico/sociale fu inaugurato di nuovo quel busto onorevole (seppur tanto maltrattato, dopo che dalla penna dell’anonimo de L’Unione Sarda, soprattutto dalla sorte). Al restauro provvide l’artista Anna Cabras Brundo e in diversi parteciparono, con spirito di mecenati, alle spese: Salvatore Marini, Moderno Bini, Filippo Carboni (il generale), Franco Trois, l’Arredarte Marino Cao, il fotografo Caboni, l’amico mio Nino Ciusa (figlio del grande scultore Francesco). Madrina, in quella serata, la professoressa Dina Pisano, vedova del professor Azzolina.
Il nuovo Dettori non ha mai goduto, dunque, della compagnia del suo Dante. Trasferitosi in progress, dalla metà degli anni ’50 (anno scolastico 1953-54 e fino al 1958), nelle aule del caseggiato, fresco di costruzione, di via Cugia, esso godette – ma forse non ci pensò mai – della vicinanza insieme ideale e fisica di un altro e più moderno cavaliere protettore: Emilio Lussu abitò infatti, fino al 1975, in uno dei più prossimi palazzi di quella strada larga e ariosa, al civico 14. Lussu che fu pure lui, press’a poco negli stessi anni di Gramsci, studente del liceo nella Marina: o meglio, più che studente frequentante, fu studente (privatista) esaminato per la maturità e maturato, dopo un primo tentativo andato male. Era il 1910. Nei registri il cognome figura con una finale rotonda: Lusso.
Dei maltrattamenti da parte dei ragazzi dell’Artistico e del riparo offerto dagli Amici del libro scrive nel suo Cagliari, amore mio (Cagliari, 1983), anche Cenza Thermes, e lo fa combattuta fra sentimenti opposti: «Anche il buon padre Dante ha preferito la quieta ombra dell’atrio dell’Associazione degli Amici del Libro all’aria aperta della piazzetta Dettori. Che ci faceva più, ormai, dacché gli studenti del vecchio liceo sono emigrati verso lidi più ospitali, accanto al palazzone della Regione Sarda? Gli studenti dell’Artistico non avrebbero certo amato il fiorentin fuggiasco quanto lo amarono e lo odiarono – a seconda dei gusti e delle fortune scolastiche – generazioni e generazioni del Classico. Tutt’al più l’avrebbero snobbato. E così, se ne sta silenzioso e ripulito, nell’ombra, in una sede del tutto degna, ma che è solo per gli addetti ai lavori, non più tanto giovani per giunta».
E’ certo perdonabile, dati tali e tanti meriti della scrittrice, lo svarione topografico – invero soltanto parziale, perché effettivamente erano liceali, benché del Siotto Pintor, anche quelli trasferitisi in viale Trento, e per di più provenienti dallo stabilimento che era stato del Dettori! – mentre resta acuta, e forse anche malinconica, la riflessione circa l’emigrazione del manufatto verso la terza età frequentante le dotte conferenze associative, piuttosto che una residenza confermata a controllo e monito degli adolescenti…
E a proposito della Thermes che tratta di Dante cagliaritano (si perdoni la digressione). Meriterebbe qualche approfondimento il cenno che ella propone ad una tavola riproducente la Crocifissione e con Dante, appunto, ivi ritratto: si tratterebbe di un’opera di proprietà dell’antica chiesa di San Domenico, che i padri predicatori custodi di tante preziosità avrebbero alienato nel 1855 «ad un compratore danaroso», ormai perso di vista e lui e il gran fagotto (cf. Cagliari, amore mio, pag. 212). Una tavola che, se non vado errato, fu citata anche dal can. Spano nella sua celebre Guida di Cagliari e che taluno, il Marghinotti per la precisione, attribuì addirittura al Masaccio. Della sua fortuna o sfortuna cagliaritana accennò lo stesso Valery nel rendiconto della sua visita sarda del 1834… (cf. Voyage en Sardaigne, 1837).
Si ha notizia di alcuni buoni propositi, insieme con altre strampalate idee, dell’Amministrazione civica circa la statuaria cagliaritana. Fermo dov’è, e non invece migrante al parco della musica, Giuseppe Verdi, lo square divenuto piazza Italo Balbo e poi, più felicemente, Giacomo Matteotti – per la quale speriamo nel ripristino di un sufficiente decoro, grazie a un qualche doveroso accordo del Comune con la proprietaria società delle Ferrovie – potrebbe riaccogliere la riproduzione fedele dell’erma boviana, ricalcata dal busto attualmente presente a palazzo Sanjust.
Al parco della musica – si ricorda al sindaco, incapace di rispondere a lettere ed a pubblici appelli che gli sono stati inviati sul punto – ben potrebbe andare, con molto altro, il busto, vanamente offerto dalla famiglia al Comune, del baritono cagliaritano Antonio Serra Manca, deceduto poco più che trentenne nel 1955.
Nella rotonda della piazza Mazzini potrebbe certamente tornare un doppione di frate Giordano Bruno, restando l’originale in facoltà di Lettere, dove esso ha acquisito ormai il diritto alla residenza permanente. Nel sito dell’ospitalità originaria dovrebbe a mio avviso collocarsi anche un pannello recante notizie storiche sulle tormentate vicende dell’opera oltreché sul genio del religioso l’abbrustolito vivo dall’Inquisizione nell’anno di grazia 1600.
Dove collocare, in tale contesto, un busto di Dante risanato da mani esperte? L’idea prima riporterebbe la risposta alla piazzetta Dettori, là dove esso era stato, magari adesso a guardia delle associazioni che nello stabilimento del vecchio liceo sono e/o sarebbero accolte, con l’ideale abbraccio del Comune: e ciò, però, a due condizioni, una fisica ed una morale. Che l’opera sia in grado di affrontare lo spazio aperto, vale a dire l’assalto ordinario e straordinario di tutti gli agenti atmosferici, e che essa – al tempo del restauro a cura degli Amici del libro e della Dante – non sia stata ceduta in proprietà a tali sodalizi.
Ove il nostro Dante sia tuttora nella piena disponibilità pubblica e non sia però capace di subire gli affronti del vento e della pioggia, si tratterebbe di pensare ad una soluzione protetta, ma pure garante della ostensibilità e, possibilmente, ancora nel centro storico. Sempre davanti al vecchio Dettori ma con una copertura alta e trasparente? Direi comunque che una copia, oggi tecnologicamente fattibile senza costi particolarmente rilevanti, dovrebbe poter tornare alle associazioni che nel 1972 ne curarono il restauro e per trent’anni ne hanno assicurato la custodia, ed un’altra – accompagnata sempre da un pannello illustrativo – andasse al liceo-ginnasio di via Cugia, anche per rafforzare un sano spirito di appartenenza della scolaresca, sposando lo studio della Commedia a quello, però non soltanto libresco, della città bacareddiana, magari passando anche per… Fazio degli Uberti e la sua descrizione trecentesca della Sardegna e di Cagliari stessa! [così è avvenuto, non con la copia 3 D ma con l’originale stesso ben restaurato, nell’ottobre 2017, giusto alla vigilia del centenario della nascita di un dettorino doc, anzi d’oro, come è stato Antonio Romagnino studente e professore].
Il mito dantesco a Cagliari
Meriterà un giorno riepilogare i dati essenziali della tradizione dantesca in Sardegna e specificamente a Cagliari. Ritornare alle vicende più che secolari delle sezioni della Dante aperte nei due capoluoghi provinciali – Cagliari e Sassari – ed in altri centri fra cui soprattutto Iglesias, alle loro attività volte alla promozione del culto del Poeta, alla diffusione della conoscenza della Commedia, alle Lecturae Dantis aperte a tutti.
Meriterà ritornare intanto ai saggi che diversi studiosi sardi hanno dedicato alle cantiche ma, più in generale, al mondo culturale e politico in cui esse hanno preso vita ed alle occasioni che suggerirono di trattare (nella Commedia ma anche, sgradevolmente, nel De vulgari eloquentia) della Sardegna – “malebolgia” incompresa e liquidata – e dei sardi, della loro lingua neoromanza disprezzata e pari invece, nelle radici, all’italiano e alle altre dell’Europa latina…
Ce n’era e ce n’è, e da parte nostra il fastidio… nazionalitario per certi giudizi era ed è compensato soltanto dalla consapevolezza della maestà del Poeta e di tutti i suoi scritti. Ne abbiamo ricevuto memoria, dell’un aspetto e dell’altro, dalle pagine di Filippo Vivanet (La Sardegna nella Divina Commedia e nei suoi commentatori, 1879, 1881), o da quelle di Pantaleo Ledda (Dante e la Sardegna, 1921), o ancora da quelle di Dionigi Scano (Ricordi di vicende e di personaggi danteschi di Sardegna, fra gli inediti stampati nel 1962, e Ricordi di Sardegna nella Divina Commedia, 1982, 1986 nelle ristampe curate da Alberto Boscolo). E di più ancora, a voler ricordare Giusto Matzeu e il suo Dante e la Sardegna, uscito nel 1955 per le edizioni Propago, o Alberto Bergamini che a La Divina Commedia e la Sardegna dedicò il suo discorso pronunciato nel 1954 al 49° congresso nazionale della Dante svoltosi a Cagliari – in felicissimo replay di quello dell’ottobre 1907 –, e i cui atti sono poi stati pubblicati in uno speciale del Convegno, a cura di Nicola Valle.
Potremmo ricordare anche i più recenti lavori sia di Federico Francioni e Vittorio Sanna (Dante e la Sardegna: invito a una nuova lettura, 2012, con dvd video allegato) sia specificamente di Sanna regista, autore già nel 2009 di un film didattico ispirato agli studi di Dionigi Scano: Dante e la Sardegna, personaggi danteschi e luoghi dell’Isola tra passato e presente.
Potremmo andare alle opere in lingua sarda, di traduzione della Commedia: partendo dal classico di don Pietro Casu (Sa Divina Cumedia di Dante in limba salda, variante logudorese, 1929) ed arrivando ai più recenti titoli di un altro religioso, il giuseppino Paolo Monni, che ricordiamo a lungo operante alle Grazie del capoluogo barbaricino: Sa Cummedia Divina. Cantigos de s’Ifferru… de su Purgatoriu e de su Paradisu in limba sarda. Comente si narat in Nugoro e Biddas d’intundu, la cui prima edizione apparve nel 2000. E altre ancora, di versioni in lingua sarda, se ne potrebbero menzionare: almeno quelle del berchiddese Sebastiano Meloni in idioma sassarese e di Aldo Congiu in campidanese. Ma non potrei mancare di citare un classico cui sono anche idealmente legato: mi riferisco alla traduzione in lingua sarda della Commedia, curata dall’avv. Pietro Paolo Siotto Elias – uno dei grandi mazziniani sardi nel postRisorgimento – e andata in stampa da Valdès nel 1906. Purtroppo fra le biblioteche pubbliche dell’Isola credo sia soltanto la Universitaria di Sassari a custodirne una copia (fortunatamente anche digitalizzata).
E se sia lecito ora citare anche, allargando il discorso dall’opera alla persona, il sassarese Fabio Frassetto (antropologo allievo del Camerano e del Lombroso) cui fu commesso, unitamente al Sergi, lo studio delle spoglie, antiche di seicento anni, del Poeta – il che avvenne nel 1921, anno appunto sei volte centenario della morte dell’Alighieri – a monte di tutto dovremmo tornare, per celebrare il rapporto dell’Isola con la memoria ed il tesoro del grande Fiorentino, a uno splendido documento membranaceo: perché la Biblioteca universitaria di Cagliari si fa legittimo vanto di possedere il Codice Cagliaritano Ms. 762 (il Chiose Cagliaritane, uno dei più antichi manoscritti della Commedia risalente alla metà del Trecento). Se n’è scritto da più parti ripetutamente (Carrara, Manzoni, Rocca, Rossi, Cossu Pinna, e, con più mirati approfondimenti, Maninchedda: cf. Il testo della Commedia secondo il Codice di Cagliari, 1990): forse esso appartenne allo storico Gianfrancesco Fara, vescovo bosano ed erudito storico e geografo del XVI secolo, e passò poi per le mani di Monserrato Rossellò, umanista, giurista e bibliofilo cagliaritano deceduto ai primi del XVII secolo: da lui il trasferimento ai gesuiti del collegio di Santa Croce, giunto infine alla Biblioteca universitaria.
Questo è quanto potevo e dovevo riepilogare, pur in velocità, per riannodare l’ieri all’oggi e viceversa. Ora tocca all’Amministrazione, della quale ho poca stima, procedere recuperando il tempo perduto.
Addendum azzoliniano
Ecco di seguito la scheda bio-bibliografica del professor Liborio Azzolina come riesposta dallo speciale de Il Convegno nel dicembre 1956:
Nato a Piazza Armerina (prov. di Caltanisetta) il 5 maggio 1872 - da Aristide e Giovanna Zitelli.
Vi studiò sino a conseguire la licenza tecnica il 10 agosto 1887 con risultato complessivo di media 9 su 10.
Da autodidatta, si preparò agli esami per la patente di Maestro elementare di grado superiore che conseguì a Catania il 20 agosto 1894 con 96 su 130.
Trasferitosi a Palermo vinse il Concorso (classificato 1°) per l'insegnamento nelle Scuole Elementari, - contemporaneamente studiò per conseguire la Licenza liceale e ottenutala si inscrisse all'Università. Si laureò il 25 giugno 1902 con 110 e lode.
Il 26 giugno conseguì per esame il Diploma per la Scuola di Magistero sezione Filologica, con 40 su 40 e il 27 giugno per la Storia, con 40 su 40.
Con Decreto Ministeriale del 22 dicembre 1906 ottenne la Libera Docenza di Letteratura Italiana.
Ebbe l'incarico dell'insegnamento di Lettere Italiane nel Liceo Umberto I di Palermo dal 1902 al 1909.
Nel 1909 si presentò al Concorso per l'insegnamento nei Licei classici. Riuscì 1° vincitore.
Il 1910-11 insegnò a Parma, dal 1911 in poi a Cagliari dove contrasse matrimonio nell'agosto del 1912 con Dina Pisano.
Per molti anni ebbe l'incarico dell'Insegnamento di Lett. Neolatine e di Letteratura Italiana nell'Università di Cagliari (Facoltà di Lettere e Magistero).
Con comunicazione 25-9-1915, fu dichiarato idoneo Capo d' Istituto con incarico della presidenza a Modica o a Galatina. Rifiutò.
Per due volte ebbe l’aumento quinquennale con antecipazione di un anno per Merito distinto.
Con comunicazione 9 aprile 1924 fu inscritto nei Ruoli d'Onore dei Proff. dei RR. Istituti Medi.
Con D. M. novembre 1919 ebbe il Diploma di Benemerenza «per l'opera patriottica e volontaria portata ai servizi dell'Assistenza Militare e delle pensioni di guerra».
Con Decreto 26 ottobre 1943, per meriti scolastici: nomina di Cavaliera della Corona d'Italia.
Con Decreto 18 maggio 1948: nomina di Commendatore.
Pubblicazioni:
1)- «L'anno della nascita di Dante Alighieri» - Palermo, Barravecchia, 1901
2)- «La Compiuta Donzella di Firenze» in Antologia siciliana fasc. IX, Palermo, 1902
3)- «Il dolce stil nuovo» - Palermo, Reber, 1903
4)- Su «Le rime di G. Cavalcanti» a cura di E. Rivalta, Perugia, 1904 (recensione)
5)- «I Trionfi» del Petrarca in Giornale Dantesco anno XIII, q II, Prato, 1905
6)- «La contraddizione amorosa» di F. Petrarca – Palermo, Barraveccha, 1906
7)- «li Crepuscolo del Rinascimento Italiano» - Palermo, Barravecchia, 1907
8)- «L'esilio di Dante nella Divina Commedia» - Palermo, Barravecchia 1907
9)- «Il mondo cavalleresco in Boiardo, Ariosto e Berni» - Palermo, Reber, 1912
10)- «La Poesia del Giusti» in Annuario del R. Liceo Dettori, anno scol. 1913-1914 - Cagliari, 1914
11)- «Storia della Letteratura Italiana» ad uso delle Scuole Medie - con Antologia - voll. 3, in 7 parti - in collaborazione col Cesareo - Catania - Muglia, 1912-21 (nell'Avvertenza vol. 1°, sono specificate le parti rifatte o aggiunte dall'Azzolina al testo originario del Cesareo, e cioè: il Dolce stil nuovo, il Rinascimento, il Seicento, il Movimento erudito ed enciclopedico del Settecento, i Contemporanei).
12)- «La vita nuova e la commedia» in Studi critici in onore di G. A. Cesareo – Palermo, Barravecchia, 1923
13)- «I canti di T. Marcialis» - Cagliari, Nuraghe, 1923
14)- La «Razza» di R. R. Lecis – Cagliari, Nuraghe, 1923
15)- «Aurora Sarda» di P. Casu - Cagliari - Nuraghe, 1923
16)- «La piccola lampada» di M. Mundula – Cagliari, Nuraghe, 1924
17)- «Pape' Satan... !» - Cagliari, Nuraghe, 1925
18)- «Romanze e fantasie di G. Berchet, con introduzione e note» Firenze, Sansoni, 1927
19)- «La critica del Giusti» in Gior. Stor. d. Lett. Ital. n. XC - Torino, 1927
20)- «L'estetica del Foscolo e le Grazie» in Mediterranea n. 11-12, Cagliari, 1927
21)- «Modernità perenne del Foscolo» in Annuario della R. Università di Cagliari, anno scol. 1927-1928
22)- «La poetica e l'arte del Giusti» in Glossa perenne 1-1929 - Milano, Fratelli Silvestri, 1929
23)- «Foscolo critico» in - Glossa perenne n. 3 - Milano, Fratelli Silvestri, 1929
24)- «Prose e poesie di G. Giusti» scelte e commentate, con introduzione – Napoli, Perrella, 1930
25)- «Dante e i fedeli d'amore» in Convivium n. 6-1930 – Torino, SEI, 1930
26)- «L'arte del giorno» in Convivium n. 3-1932 – Torino, S.E.I., 1932
27)- «”L'educazione” del Parini» in Annali della R. Università di Cagliari - Roma, 1933
28)- «Il Giorno e odi scelte di G. Panini» con introduzione, giudizi critici e note - Firenze, Le Monnier, 1934
29)- «Tempi tradizionali e allegorie in Charles D' Orlèans» in Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Cagliari - 1935
30)- «L'ispirazione della "Libertà"» - Roma, Tip. Op. Rom. 1937
Liborio Azzolina: «Cagliari tutta pittoresca»
A chi dal treno ha veduto, per lunghe ore, pianure incolte e aride balze o nuraghi solitari e casupole in mattoni di terra cruda, Cagliari, inaspettatamente, appare come un'oasi.
Il treno arriva, rallentando tra l'ampio stagno di S. Gilla, che si distende a specchio, e la collina calcarea, che continua a contendere al tempo le sue tombe punico-romane, mentre si viene qua e là adornando di piante e di case.
Fuori della stazione, attrae subito la via Roma, che si allunga luminosa e diritta, s'insinua nello scenario dei portici sotto ai bei palazzi a sinistra, e s'allarga verso il mare, all'ombra di ficus benjaminae, che sembrano avviarsi, dal giardinetto a destra, in file serrate, per andare a schermire dal sole. E l'attrattiva cresce davanti al largo, cui Carlo Felice impone il nome dal piedistallo che, in fondo, lo solleva al di sopra di un ciuffo di palmizi, tutto in bronzo e in veste di guerriero romano. Nessun interesse per questo monumento anche oggi, come allora che "i cittadini… una bella mattina si svegliarono e trovarono, inconsci del come e del quando, il buon Re ritto e silenzioso, facendo la sentinella nella piazza del mercato". Gli alti edifizi, però, a cui vennero cedendo le antiche catapecchie dopo che il vecchio mercato dovette sacrificare le sue tende e capanne cadenti alle superbe colonne doriche e alle tettoie a vetri del mercato nuovo, e che si allineano irregolari ma decorosi ai lati, e coi due marciapiedi a lastre, coi quattro filari paralleli di jacarande, con le rotaie tranviarie, luccicanti in mezzo, accompagnano il largo nella lieve salita sino al suo ripiegarsi e sparire nell'ombra verde della Piazza Yenne, offrono un aspetto pittoresco: specialmente dove pare che a un tratto si inerpichino a picco, anche oltre la cinta pisana, quasi volendo far più manifesto omaggio, da quell'altezza, alla maestà della torre dell'Elefante, gloriosa della sua mirabile struttura e della sua tinta dorata nel cielo azzurro.
Ma tutta Cagliari è pittoresca per chi guarda dal mare, e ha visto la costa nuda e uniforme da capo Carbonara a capo Sant'Elia. Si delinea come un immenso anfiteatro fra il mare e il cielo, degradando arditamente per cupole e torri, per bastioni e rocce, per campanili e caseggiati, tutta protesa all'aria e alla luce da finestre, da terrazze, da logge, da portici.
In alto la cupola del Duomo e il torrione di S. Pancrazio, isolati nell'orizzonte con la loro immagine di forza e di fede. Giù, a un'estremità, ugualmente rivolto alla via ferrata, al mare e all'intera città, quasi alfiere di ospitalità e di civismo, il nuovo Palazzo Comunale, biancheggiante in tutta la sua gran mole, sino alle due torrette, e dalle sue fitte vetrate sfolgoranti al sole; all'estremità opposta, un festone di verde fatto dall'alberata di via Roma e dalla pineta di monte Urpino, che il colle di Bonaria congiunge ad angolo coi suoi pini e cipressi, dove disposti a ciuffi e dove a spalliera, e adorna col vecchio santuario dedicato alla Vergine e con la basilica nuova e la cupola di classica struttura lanciata nel cielo, come a proteggere l'eterno sonno dei morti nel Cimitero vicino e ad accompagnare la preghiera dei fedeli nella sua elevazione a Dio. In fondo, la sella del diavolo, con che il colle S. Elia va a specchiarsi nella deliziosa spiaggia del Poetto.
E i ricordi storici, che fioriscono tra l'ammirazione, danno al paesaggio un interesse nuovo, a mano a mano che ne distinguono i particolari diversi e ne caratterizzano i singoli motivi.
La torre su cui s'accende il faro di S. Elia, che forse venne costrutta coi materiali di un antico monastero di Benedettini, testimoniati lì accanto da qualche avanzo, e che riporta al tempo della dominazione aragonese come quella che ora serve di campanile alla chiesa di Bonaria; le tracce di sepolture cartaginesi e di colombaj romani, che si trovano dentro e nei pressi del Cimitero e che richiamano quelli dalla parte di S. Avendrace, visibili anche dal treno; la scarpata rocciosa, che sostiene, col torrione di S. Pancrazio e del Duomo, alcuni resti di torri e dì mura di cinta, e che con la cinta della Torre dell'Elefante rimanda al dominio pisano, fanno pensare a Cagliari antica e medievale....
Ora di tanto passato, con le tracce morte e trascurate, con gli avanzi raccolti nel Museo archeologico, custoditi nelle chiese, ammirati all'aperto, rimane ancora il sentimento nostalgico di qualche anima solitaria e sognatrice, che sente il disagio dei nuovi tempi e degli uomini nuovi.
Ma il modo di concepire e di sentire muta, come mutano gli uomini e i tempi. E se nulla di posteriore ha da paragonare all'imponenza dei ruderi della civiltà romana e alla nobiltà di costruzioni, alla grazia di motivi ornamentali dell'arte pisana, nondimeno Cagliari mostra sempre, dove può, d'aver ereditato dai suoi antichi dominatori il senso del grandioso, come col nuovo Palazzo Comunale e col Mercato nuovo, provano la monumentale scalea della Passeggiata coperta e la superiore Terrazza Umberto I. E già ai varii monumenti onorari eretti a scapito del decoro e dell'estetica può opporre veri capolavori d'arte propria nelle sculture del Ciusa, nelle pitture del Figari, nelle acqueforti di Melis Marini.
Oltre che nella sistemazione attuale essa presenta aspetti, che contribuiscono non poco alla bellezza sua e dei suoi dintorni... Dal belvedere di Buon Cammino il panorama della città declinante verso la vallata del Campidano supera i limiti entro cui s'inquadra dalla Terrazza Umberto I, e s'avvantaggia dei posti, dei colori, degli sfondi, che vengono apparendo nella salita del Terrapieno, distendendosi tra il mare a insenature e zone luminose e la cortina violacea dei monti lontani signoreggiati dal gruppo di Serpeddì, dai frastagli dei Sette Fratelli, e aggiungendo, sotto il cielo di zaffiro, ai nuovi aspetti dei colli di S. Elia e di Bonaria e del monte Urpino, il ridente quartiere di Villanova, le cui ultime case scendono in ordine sparso in mezzo al verde e risalgono verso la collina di S. Michele, macchiata di giovani pini e dominata dalle tre torri del vecchio Castello. Più in là, disposti ad arco attorno allo stagno di Molentargius coi suoi cumuli bianchi di sale, e cinti da ubertosi vigneti, Pirri, Monserrato, Selargius, Quartucciu e Quartu S. Elena, come adagiati, in prossimità l'uno dell'altro, al fine di variare il paesaggio e goderne.
Dalla parte opposta al belvedere, davanti ai quartieri di Stampace e di S. Avendrace sottostanti alla necropoli e alla valletta rocciosa sparsa di piante e affondata nell'Anfiteatro romano, l'ampio scenario dei monti di Pula e di Capoterra degradanti nelle terse acque dello stagno di S. Gilla, che la Plaia, bianca di polvere, divide da quelle del mare e il tramonto colora fantasticamente. Sembrano tanti laghetti di pietre preziose in magica fusione, in cui il cielo acceso dagli ultimi bagliori e i monti velati di grigio riflettono le loro linee e le loro luci, sfumate, morbide, quasi fluide, mentre, oltre la Plaia, il mare sotto i monti bruni nel cielo opale, prende immagine di uno stagno convesso e luminoso e la mente rapita si dà ragione del nome di Karalis col rapimento che ai mercanti fenici dovette suggerire Karel, città di Dio. Il mirabile quadro va smorzando e mutando le tinte col passar dei secondi, finché svanisce in una uniformità plumbea e triste. Ma la fantasia eccitata anima quelle prime ombre di forme dell'antica vita, che chiuse parte del suo fasto sotto le acque stagnanti, i suoi affetti nell'acropoli dimenticata, le sue feste nell'Anfiteatro deserto. E nella memoria si seguono l'amicizia di C. Gracco pei Sardi, l'insegnamento di Ennio, l'approdo del grande Pompeo, la breve dimora di G. Cesare, di ritorno dall'Africa, il nobile sacrificio di Atilia Pomptilla per la salute del suo Cassio Filippo, esaltato nella grotta della Vipera col dolore del compagno superstite.
I lavori di bonifica, già iniziati, leveranno con lo stagno il particolare carattere e il fascino maggiore ai tramonti di Cagliari. E chi sa se lo noteranno gli assidui del Buon Cammino, che forse appaga più la vista della Plaia, come quella che fa pensare all'annuale festa popolare di S. Efisio, alla folla di devoti bramosi soprattutto di godere, ai tepori del maggio odoroso.
Nella città che avvalora e perpetua la sua bellezza tra le bellezze della natura, la vita trova il suo massimo fervore all'aperto. Così, gli affari e la politica hanno per loro campo abituale la piazza Martiri e la piazza Yenne, la curiosità femminile vaga in tutte le ore per la via Manno, il pettegolezzo mantiene la sua fucina sotto i portici del Caffè Torino; e l'amore nascente o stanco, fiducioso o geloso, cauto o sfrontato, ha per buone tutte le vie, tutte le finestre. Anche lo studio e la meditazione preferiscono l'amenità e l'aria libera delle passeggiate e dei giardini pubblici al silenzio e al raccoglimento di quattro pareti.
Ma il cotidiano godimento dello spirito e del corpo, desiderosi l'uno di moto e l'altro di svago, lo profondono la Terrazza Umberto I e la via Roma. Quando al calar della sera, i bimbi vivaci, invece di rincasare e abbandonarsi al sonno ristoratore, si adattano a restringere i loro giuochi in un'ala della terrazza per dar posto agli adulti, nella luce diffusa delle lampade ad arco sovrastanti, è un andar su e giù, per ore e ore, stipati, beati, in più file religiosamente seguite, senza una lagnanza contro chi o quanto arresti il passo e tenga fermi anche parecchio, senza un pensiero del tempo che trascorre in siffatta guisa e sempre uguale. Intanto, dalle panchine attorno e dal Caffè, come da un comodo e ambito punto di osservazione, molti a guardare, a curiosare con manifesto interesse, inaccessibili al fastidio di vedere, di ammirare o criticare le stesse persone, gli stessi portati della moda; pochi appoggiati al parapetto, a sentire tutto l'incanto del mare vicino, percorso da fremiti fosforescenti ove lo bacia la luna, vampante a tratti con le fiaccole di pescatori operosi, unito al cielo stellato in una fascia comune di ombra e di mistero.
E così, a un di presso, in via Roma, la mattina, nel pomeriggio, nelle prime ore della notte, tranne che l'aria vi è sovente ammorbata dal fumo acre, in mezzo a cui il tram a vapore del Campidano s'invigorisce per il suo viaggio di ritorno, e talvolta viene invasa da nugoli di polvere accecante sollevati dal turbine.
Si direbbe che vi sia dell'orientale nella vita al pari che nei paesaggi. Senonché, la via Roma vede anche fughe di automobili, di autobus, di motociclette, di trani elettrici come processioni religiose e cortei funebri; s'interessa a frequenti gare sportive come a follie carnevalesche e a spensieratezze goliardiche; ammira imponenti dimostrazioni patriottiche come deplora meschine intransigenze di partiti; assiste al traffico continuo del porto come al periodico riversarsi di tutta la cittadinanza ai bagni di Giorgino, del Molo, del Poetto, del Lido...
Piludu: «La terza liceo, frammenti degli anni ’60»
Avevo poco più di diciassette anni quando nel settembre 1967 mi accingevo ad iniziare l'ultimo anno delle scuole superiori nel liceo classico Dettori, diretto allora dal temutissimo ed autoritario preside Pietro Rachel. Alla fine dell'anno avrei dunque affrontato l'esame di maturità, vero simbolico spartiacque per uscire dall'età adolescenziale e, come milioni di ragazzi prima e dopo di me, guardavo a quell'appuntamento con un misto di fascino e di timore. Quel sentimento era reso ancora più piccante dal fatto che, sfortunatamente, la mia classe anagrafica avrebbe affrontato l'esame di maturità portando tutte le materie dell'ultimo anno di corso più i riferimenti degli anni precedenti, mentre dall'anno successivo sarebbe entrata in vigore la riforma che limitava a due le materie d'esame. C'era dunque un legittimo e diffuso disappunto in tutti noi.
L'unico vantaggio era che nella mia sezione, il corso C, avevamo avuto per tutti i tre anni del liceo in materie fondamentali come il latino e il greco un eccellente insegnante, un giovane ma già affermato latinista e grecista, il professor Gianni Runchina, vero maestro di poesia e di bellezza. Ricordo ancora le sue lezioni di letteratura latina e greca, dotte e profonde, e la lettura dei poeti greci e latini impreziosita dalla musicalità della metrica. E’ uno dei ricordi più belli che ho di quegli anni. Mi rammarico di non essere riuscito, negli anni successivi, a coltivare quelle conoscenze che mi avrebbero permesso di godere ancora della grande bellezza di quella poesia.
La mia era una classe molto affiatata, cementata da tre anni di liceo e dal ginnasio, cosa che rese piacevole la vita scolastica. Le amicizie erano a gruppi. Nei miei ricordi ci sono Carlo, Giancarlo, Giorgio, Peppetto, Paolo, e poi Magi, Maria Benedetta, Maria Piera, il gruppetto di compagni di scuola con i quali si sviluppò poi un'amicizia solida, che nella maggior parte dei casi si è mantenuta intatta anche nei decenni seguenti, sino ad arrivare ad oggi.
In quegli anni non c'era solo la scuola. C'erano le letture, soprattutto, per quanto mi riguarda, la grande narrativa americana di Steinbeck e di Hemingway, meno, purtroppo, i classici russi. La saggistica storica di Indro Montanelli. E poi lo sport, anzi, il calcio. Il calcio giocato nei tornei giovanili e il calcio da tifoso del mio Milan. Il Milan di Nereo Rocco e di Gianni Rivera che avrebbe vinto, al termine di quel campionato, il suo nono scudetto.
E poi c'era, a va sans dire, l'interesse per le ragazze, materia nella quale devo riconoscere non fui molto precoce. Fu, infatti, solo nel novembre del 1967 che iniziai la mia prima vera storia sentimentale con Rita, una ragazza che frequentava l'ultimo anno delle scuole magistrali, più adulta di me, non solo anagraficamente. Fu un rapporto per me molto importante nel quale mi gettai con grande e comprensibile passione e partecipazione, ma purtroppo si rivelò un rapporto attraversato da molti contrasti e da troppe differenze. Finì circa dieci mesi dopo, con mia grande sorpresa e sofferenza. Ma quell'esperienza e anche la sua fine contribuirono non poco a formare il mio carattere, nel senso che è sempre salutare farsi qualche cicatrice. Impari a vivere meglio.
Il 1967, il '68 e poi il '69 non furono solo, tecnicamente, gli anni finali del decennio, ma rappresentarono il culmine di quel periodo della mia vita e diedero al decennio stesso il significato che poi solo dopo i commentatori e tutti noi avremmo dato. Il decennio del grande cambiamento e dei grandi movimenti.
Ci sono due canzoni di quell'epoca che nel loro titolo simboleggiano bene, credo, la storia di quel decennio. Entrambe le canzoni sono di Bob Dylan, il grande cantante folk americano, "Blowin' in The Wind", e "The times they are a-changin", che tradurrei con «I tempi stanno cambiando". Ed effettivamente si sentiva, con maggiore o minore consapevolezza, vivendo quegli anni, che erano anni di grandi cambiamenti che soffiavano da una parte all'altra dell'oceano. Da San Francisco a Liverpool, da Parigi a Praga, passando da Roma e Milano.
E’ molto difficile, e certamente non posso farlo, passare in rassegna tutto ciò che di nuovo attraversò quegli anni, ma alcuni episodi sono impressi nella mia memoria. Voglio ricordare i più significativi.
La rivoluzione musicale, i Beatles con tutto quello che di nuovo portarono nella cultura giovanile e nella musica, le rivoluzioni della moda e del costume con la scoperta, magnifica, delle minigonne e quella più discutibile dei capelloni. In Italia scoppiò il fenomeno dei cantautori. Gino Paoli, "Sapore di sale", la scuola genovese con Umberto Bindi, con le canzoni malinconiche di Luigi Tenco e poi con Fabrizio De André.
L'intero decennio fu segnato da avvenimenti di straordinaria rilevanza. Il grande papato di Papa Giovanni XXIII che aprì la Chiesa al rinnovamento e alla sua umanizzazione. Yuri Gagarin, il primo uomo nello spazio, e poi, nel '69 i tre astronauti americani che atterrarono sulla luna; la crisi dei missili di Cuba e, ricordo, il terrore del rischio della terza guerra mondiale. La costruzione del muro di Berlino, ferita terribile nell'Europa del dopoguerra. E poi nel 1967 il colpo di stato dei colonnelli in Grecia che temendo la vittoria del partito socialista soffocarono la democrazia e instaurarono la dittatura. L'esplosione dei movimenti studenteschi in tutto il mondo occidentale con l'occupazione di molte università italiane e i fatti clamorosi del maggio francese. Il socialismo dal volto umano e la primavera di Praga di Dubcek del 1968 e poi, nell'agosto di quell'anno, i carri armati sovietici che invasero la Cecoslovacchia soffocando una grande speranza.
Voglio anche citare gli episodi cruenti di quel decennio perché ho ricordi vividi, prima da bambino e poi da adolescente, di luoghi e storie.
Ricordo due episodi di lotta anticolonialista di segno diverso: la vittoria del fronte di liberazione nazionale dell'Algeria che realizzò l'aspirazione all'indipendenza e, in quegli stessi anni, la deposizione e poi l'assassinio di Patrick Lumumba in Congo per opera di un gruppo di ribelli sovvenzionati dal colonialismo belga.
Nella Spagna franchista ci fu l'uccisione di Julian Grimau, un dirigente del partito comunista spagnolo clandestino, non ricordo se con la fucilazione o con la garrota. E nel 1967 nella foresta boliviana, l'assassinio di Ernesto Che Guevara mentre tentava una improbabile guerriglia rivoluzionaria.
Legati ai conflitti razziali che attraversavano l'America in quegli anni, ci furono l'assassinio di John Kennedy nel novembre 1963 e nel 1968 quello di Martin Luther King, il religioso di colore, capo del movimento anti segregazionista degli Stati Uniti, e qualche mese dopo, l'assassinio di Bob Kennedy, candidato democratico alla carica di presidente.
E infine voglio ricordare il suicidio terribile di Jan Palach, lo studente praghese che protestava contro i carri armati sovietici.
Quelli citati furono tutti fatti molto cruenti, simbolici e rilevanti, che hanno segnato la storia di un decennio di grandi speranze ma anche di grandi contraddizioni. Il mondo tentava di andare avanti ma c'erano straordinarie forze che volevano tornare indietro.
La vicenda più forte di quel decennio fu però la guerra nel Vietnam. Nella sostanza, può essere considerato l'ultimo grande episodio di lotta anti coloniale di un Paese di contadini che cercava di riunificarsi e di opporsi al peso di una potenza straniera. In quanto diretta dai comunisti, assunse anche il significato simbolico di un mondo che voleva trovare, nella liberazione economica, in un'idea socialista, le ragioni del proprio futuro.
Era quindi un mondo molto complesso quello degli anni della mia gioventù, un mondo di grandi contrasti e, consapevolmente oppure no, tutti noi, giovani e meno giovani, sentivamo quello che i tedeschi chiamano Zeitgeist, lo "spirito del tempo". Ma, come collocarsi di fronte allo "spirito del tempo", di fronte a quel cambiamento? Non era facile scegliere.
Per quanto mi riguarda, devo dire che io ero molto attento a queste vicende. Leggevo con sistematicità i quotidiani, il Corriere della Sera, per farmi un'idea, ma non avevo opinioni precise.
Avevo un atteggiamento curioso, ma scettico, sostanzialmente di carattere conservativo. Ero molto influenzato dal Corriere della Sera, per definizione giornale governativo e moderato. Mi riconoscevo abbastanza nella cultura di Ugo La Malfa, un grande personaggio, leader del partito repubblicano italiano che, nonostante i suoi consensi elettorali da prefisso telefonico, per il rigore e la forza con la quale si metteva al centro della discussione politica, esercitava una grande influenza. Se avessi voluto definirmi, mi sarei definito come seguace di Ugo La Malfa.
Certamente non influì su questa collocazione politica la mia famiglia d'origine. La parte femminile, mia madre e le mie sorelle, se non ricordo male, oscillavano su posizioni molto più moderate che, probabilmente, significavano il voto al partito monarchico o al partito liberale. Mio padre invece era nettamente di destra, missino, come tutta la sua famiglia. Ma negli anni tra il 1964 e il 1968, in virtù della separazione che era intervenuta tra i miei genitori, mio padre non viveva con noi e quindi, nonostante io conoscessi i suoi orientamenti politici, non ne fui per niente influenzato.
Così come sono certo che non influì, per reazione, sulla scelta che successivamente feci, cioè quella di diventare di sinistra, l'adesione al movimento sociale italiano di mio padre e di tutta la sua famiglia (il nonno paterno era stato podestà a Monserrato, una zia acquisita aveva avuto ruoli di una qualche importanza come collaboratrice del Popolo d'Italia all'epoca del primo fascismo). E’ possibile però che, nell'infanzia, assistendo ai contrasti famigliari, alle liti, all'emergere di uno spirito autoritario da parte di mio padre, io abbia inconsapevolmente introitato l'equazione fascismo uguale arroganza, violenza. Ed è possibile che, inconsciamente, ne abbia rifiutato le idee politiche.
Ricordo a questo proposito, come curiosità, che - mi pare fosse il 1958 - avrei dovuto fare la cresima e mi preparavo alla festa. La cerimonia si sarebbe dovuta svolgere il 28 aprile. Ad un certo punto, qualche giorno prima, mio padre, nei corridoi della casa di via Hajech a Milano dove abitavamo, disse: "il bambino non farà la cresima". La ragione? Il 28 aprile era l'anniversario della fucilazione di Mussolini, avvenuta a Giulino di Mezzegra nel 1945 ad opera dei partigiani. Il 28 aprile feci la cresima come programmato, ma quell'episodio è rimasto impresso nella mia memoria come l'unica vera esplicita dichiarazione di credo politico da parte di mio padre.
Allo stesso modo posso dire con certezza che sono state irrilevanti sulle mie scelte future anche le amicizie infantili. In via Hajech, quando ero bambino, tra i miei compagni di gioco di strada c'erano Nello, figlio di Mario Venanzi, avvocato e senatore del partito comunista italiano, e Giulia, figlia di Francesco Scotti, deputato del partito comunista italiano e comandante garibaldino durante la guerra di Spagna. Tra le mie amicizie d'infanzia mi piace ricordare anche quella con Sergio Cofferati, il futuro segretario della CGIL, che abitava in una casa ringhiera di Corso XXII marzo, quasi d'angolo con via Hajech. Con Sergio avrei mantenuto un rapporto affettuoso anche quando lui diventò il capo della CGIL, nonostante gli incontri sporadici.
I primi veri atti formativi di quella che ho chiamato adesione al partito repubblicano avvennero attraverso le letture, il Corriere della Sera. Leggendo quel giornale da adolescente scoprii che il fascismo era stato alleato del nazismo, che il nazismo era stato quella cosa che aveva portato a morire sei milioni di ebrei nei campi di concentramento e nelle camere a gas. E se il fascismo era stato alleato del nazismo, il fascismo era anch'esso responsabile di quella che, pensavo allora e continuo a crederlo oggi, fu la più grande tragedia dell'umanità.
Da quell'elementare rifiuto del fascismo e da quella contemporanea, provvisoria adesione alle idee lamalfiane e repubblicane, sino alla decisione di entrare nel partito comunista italiano, il tragitto non sarebbe stato né breve né semplice.
Di quella lontana adolescenziale appartenenza ideologica credo cli essermi portato dietro per tutta la vita una acquisizione significativa: la diffidenza, se non la aperta ostilità, verso le spiegazioni della complessità della vita e del mondo reale improntate al semplicismo e alla faciloneria. Più avanti negli anni avrei dedotto, da quella fondamentale acquisizione, la profonda avversione per tutte le forme di demagogia, per tutti gli arruffa popolo e i masaniello, piccoli e grandi, neri e rossi. Sono profondamente convinto che fare appello e parlare, come decisione sistematica, alla pancia della gente piuttosto che all'intelligenza delle persone, sia un segno di profonda disonestà intellettuale e di altrettanto profondo cinismo morale.
Torno ora rapidissimamente a quella terza liceo del '67-68 perché l'anno scolastico si aprì con una novità importante. Il titolare della cattedra di storia e filosofia del nostro corso era una importante figura di anziano intellettuale socialista, Sebastiano Dessanay, che però, salvo le prime due settimane di inizio dell'anno scolastico, era perennemente assente, in aspettativa per motivi politici e istituzionali. Nei primi due anni aveva avuto dei sostituti non all'altezza della sua preparazione che mi avevano reso ostico l’approccio con la filosofia, tanto è vero che in prima liceo ero stato rimandato proprio in quella materia, oltreché in scienze. Fu la prima e ultima volta nella mia carriera scolastica.
Quindi era forte l'attesa per il nuovo sostituto. La sorpresa non fu piccola perché il sostituto era una ragazza poco più grande di noi, una giovane donna di notevole avvenenza, particolare questo ovviamente non sgradito alla parte maschile della classe. Ma, al di là di considerazioni estetiche assolutamente secondarie, ciò che conta è che Rosanna Demurtas si dimostrò subito una persona dotata di spiccata personalità. Una dote, questa, che le consentì di dirigere la classe e di interloquire con essa senza autoritarismo, ma senza neanche indulgere ad atteggiamenti giovanilistici o amicali. Scoprimmo presto, grazie al gossip di una città piccola come Cagliari, che Rosanna Demurtas era una di sinistra, addirittura militante di un partito che si chiamava partito comunista d'Italia marxista leninista, una piccolissima formazione appartenente a quella galassia di movimenti e partitini che in quegli anni si andavano formando alla sinistra del partito comunista italiano.
Rosanna Demurtas dimostrò anche di essere un'insegnante molto capace e grazie a lei, alla sua capacità didattica, alla passione e alla competenza con la quale spiegava gli argomenti delle lezioni, riuscii ad appassionarmi non solo alla storia, che era già una materia che amavo, ma anche alla filosofia. Fu così che quell'anno, la filosofia classica tedesca - Hegel, Feuerbach e la sinistra hegeliana, Carlo Marx e poi Kierkegaard, Nietzsche, il positivismo, insomma, tutto il grande pensiero filosofico del diciannovesimo secolo - divennero per me non la somma, astrusa ed estranea, di elucubrazioni lontane, ma il luogo moderno di formazione del mondo contemporaneo, il luogo nel quale potevo riflettere i problemi e i dilemmi che come giovane di quegli anni mi portavo dietro.
Quell'anno di studi di filosofia furono molto importanti per la mia formazione culturale e politica. Il che non deve intendersi nel senso che subii l'influenza di una sotterranea propaganda politica, perché - ci tengo a dirlo - Rosanna Demurtas era ineccepibile nei comportamenti in classe e poi perché, nella sua opinione – come da poco mi ha ricordato il mio caro amico Paolo, memore di una confidenza che lei gli aveva manifestato alla fine di quell'anno - io, ai suoi occhi, ero, con definizione sbrigativa ma legittima, un liberale. Al suo insegnamento devo la conoscenza e la confidenza con strumenti di analisi e categorie di giudizio sul mondo moderno grazie alle quali potei successivamente, in maniera libera e autonoma, fare le mie scelte culturali e politiche.
Arrivò finalmente l'esame di maturità. Lo superai senza grandi squilli di tromba, con una lunga sequenza di sei, pochi sette, in greco e in storia, e per l'appunto in filosofia. Un unico exploit, un otto in italiano, tanto più prezioso in quanto fu l'unico otto in italiano assegnato alla mia classe.
E arrivò infine la lunga estate del '68, l'ultima estate dell'adolescenza, un'estate densa di avvenimenti. Alcuni piacevoli, altri meno. Tra quelli piacevoli ci fu senza dubbio l'aver imparato a guidare la macchina nella cinquecento di proprietà delle mie sorelle, Anna e Nennella, e con Nennella maestra di scuola guida un po' azzardata, che già al secondo o terzo giorno di pratica mi portò a guidare nel centro di Cagliari, nel trafficatissimo Largo Carlo Felice.
Ci fu poi un avvenimento luttuoso, come la morte di uno zio paterno al quale ero molto affezionato. E legato alla commozione per quel lutto, il ritorno nell'ambito della famiglia di mio padre. Un fatto da me vissuto con grande contrarietà e qualche avversità appunto per il modo palesemente emotivo con il quale avveniva.
Purtroppo fui involontariamente un profeta perché, solo qualche anno dopo quel ritorno, ci fu, nei primi anni '70, una nuova e definitiva separazione di mio padre dal resto della famiglia.
Ci furono episodi simpatici, quasi grotteschi, come un viaggio fantozziano, fatto con Carlo, Giancarlo, Giorgio, stipati come sardine nella cinquecento di quest'ultimo. E un campeggio nelle spiagge di Capo d'Orso vicino a Palau, con la dichiarata, velleitaria e infruttuosa ricerca di turiste tedesche.
Tra gli avvenimenti tristi di quell'estate, dopo le vacanze, colloco anche la già ricordata fine della mia storia sentimentale.
Finita l'estate, arrivò la stagione delle scelte, la prima delle quali era la scelta della facoltà alla quale iscrivermi.
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