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Gianfranco Murtas

Di Zella Corona, fra la cattedra scolastica e il laboratorio di vita

di Gianfranco Murtas

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Sono passati ormai vent’anni da quando, nel giro di poche settimane, e in una fase delle più tribolate della mia vita, persi due amiche dotte e altrettanto pure di cuore come Zella Corona a Cagliari ed Elena Melis a Nuoro. Pressoché negli stessi giorni di Zella – allora 81enne – se ne andò anche un altro amico caro delle comunità sarde di Mondo X: Baingio Piras, l’avvocato famoso per le cronache giudiziarie e le drammatiche vicende della fuga e lunghissima contumacia all’estero, dell’arresto improvviso e della detenzione a Buoncammino (otto anni) passata poi a semilibertà. Il lutto per la perdita di Elena – perdita appena anticipata da quella di suo fratello Pasquale, ben noto anch’egli alla Sardegna politica e all’Amministrazione regionale – avrebbe avuto nel giro di due anni altri due episodi andati lì ad estinguere quella generazione nobile dei Melis, fra il capoluogo barbaricino e Oliena, e Pula e Cagliari e Baunei… tappe di vita di Titino e degli altri di casa: s’involò nel 2002 Ottavia, un anno dopo Mario il presidente. 

Sono presenze sempre tutte vive nel mio mondo morale in consumazione. E vorrei, della loro esistenza e della loro missione umana e civile, dare una testimonianza, andando per tempi. E qui già adesso, cominciando da Zella che inaugurò quella triste sequenza degli addii. 

In un libro dal titolo Ricerche Ricordi Riflessioni Anno 2001, che ripassava quasi come un diario l’anno Duemila, e nel quale inserii – come le tessere in un mosaico – anche numerosi file nati dall’occasionalità (relazioni a convegni, testi di teatro per la comunità, corrispondenza di qualche rilievo pubblico, profili di amici, lanci religiosi anticlericali, ecc.) – le pagine iniziali furono dedicate proprio a Zella (Immacolata per l’anagrafe e il fonte battesimale) Corona. Eccole di seguito. 

E dopo di queste eccone altre che depositai, anni dopo, in una modesta, modestissima pubblicazione – Partenia, la Comunità – che volli “Per i 25 anni di Mondo X Sardegna”, come recita il sottotitolo. 

Era dunque il 2005 e intesi riunire nel centinaio di pagine di quel libretto il materiale documentario riferito alla vita delle comunità di vita fondate da padre Salvatore Morittu che non ero riuscito ad inserire negli altri volumi – una decina complessivamente – che a quell’impresa umanitaria e sociale e pedagogica avevo dedicato nell’ultimo decennio del secolo scorso. Ritagli poveri e insieme nobili condivisi in pace francescana con gli amici, molti amici. Qualche tempo fa donati anche al pubblico intervenuto per ascoltare una mia conversazione con padre Morittu e Gian Mario Selis nella sede degli ex allievi salesiani.


Zella, una professoressa per amica

E' trascorso un anno dalla morte di Zella Corona. Lunedì 29 gennaio 2001, nella chiesa francescana di San Mauro, di lato alla quale intorno al 1650 è sorto il convento che giusto ventuno anni fa ha accolto la prima comunità di recupero dei ragazzi tossicodipendenti, il padre Salvatore Morittu celebra la messa di anniversario della indimenticata professoressa datasi, con esemplare costanza, ad un volontariato di alta qualità. Generoso e insieme critico. Faceva lezione tutte le settimane. La sua era, di necessità, una materia omnibus e senza confini: cultura generale, combinazione di storia e geografia, di letteratura e politica, di arte, scienza e religione.

Era stata tratta dalla malattia con improvvisa prepotenza. Avrebbe avuto soltanto una decina di giorni di vita ancora, troppi per una agonia. Spesa nel silenzio della mente. Ma proprio quando il declino si era fatto irreversibile, e lei ne aveva avuto percezione, aveva sussurrato il mio nome ad un'amica, come se avesse voluto parlarmi. Ho un'idea, non la certezza, sui motivi. Da tempo, l'intesa fra noi si era fatta, umanamente e, … osiamo, intellettualmente, impegnativa. Attendono la pubblicazione due suoi libri, dopo Storia di un rione (chiamato Paradiso), dopo Il quinto moro, dopo Fascicolo 23, dopo Portoni dipinti. Dovrò, in qualche modo, occuparmene.

Il giorno del suo funerale, nella cappella del cimitero di San Michele - celebrava anche allora, né poteva essere diversamente, il padre Morittu -, fui richiesto di dire un'intenzione di preghiera, nella fila dei ragazzi che si sarebbero susseguiti all'ambone. Preferii leggere alcuni stralci di una lettera che le avevo inviato allorché scomparve il solo figlio, Vittorio, un medico che risiedeva nel continente, dove anche lei aveva vissuto per anni, e per anni anche svolgendo una preziosa attività di pubblica amministratrice, come assessore alla cultura nel Comune di Ferrara.

Era atea, o tale si definiva, Zella, e per consolare il suo dolore per la perdita di quell'affetto (dolore ancor più acuto perché calato in una vedovanza che aveva già esso, e da anni, ristretto il giro delle intimità date e ricevute) mi era impedito di ricorrere al repertorio suggerito dalla fede nella trascendenza. Ecco quanto le scrissi, quel certo 19 maggio 1998.


Il dio-Dio protettore degli atei

«Cara Zella, è soltanto un segnale, discreto e sommesso, di affettuosa vicinanza nei tuoi riguardi, oggi, questo breve messaggio di partecipazione al tuo lutto che mi viene spontaneo immaginare greve e patito come cosa ingiusta, ma che pure va assunto nel bagaglio naturale delle nostre umane, e così spesso amare, esperienze.

«Viene più facile, chissà, ragionare di un accadimento di morte con chi si muove tra coordinate esistenziali che richiamano ad una fede nella trascendenza ed all'epica della resurrezione, come è per i cristiani. E' il mio campo, che pure si fa rigorosamente laico nell'attività civile. Non è il tuo, cara Zella. La tua passione umanistica e la tua cultura larga e profonda, dalle infinite e anche raffinate sedimentazioni, che ha esperienza dei percorsi del pensiero umano lungo i secoli e nei luoghi sparsi del pianeta, nei suoi approdi infiniti nella filosofia e nell'arte o nella scienza, e - oltre la mente e la ragione - la tua delicata sensibilità personale, tutto questo, insieme con l'affetto dei vicini, ti aiuterà a trovare senso e consolazione per l'accaduto.

«Oso sognare che vi sia un dio tutto al minuscolo, dio degli atei, signore eppure paterno anch'esso, capace di concedersi come consolatore, in forme che non saprei, io, scorgere e neppure intuire, ma che pur dovranno esserci perché ad esserci è senz'altro il bisogno. Una realtà intelligente e dialogica - col gusto del dialogo -, relazionale, che conosce la cordialità dei semplici e ne frequenta le virtù, che gode dei successi dei "suoi", soprattutto quando siano volti a un fine di emancipazione delle quote deboli della società, in un'offerta solidaristica e nell'adempimento di un dovere etico-politico che è maturato, coerente (o teso alla coerenza, alla fedeltà al motivo ispiratore) nel tempo, seguendo l'esempio forse familiare e dei maestri e sviluppando però anche percorsi originali e autonomi.

«Allora questo dio al minuscolo, che non si sente diminuito nell'ottica dell'immanenza propria degli scettici, né sente diminuita la sua carica di amore, cioè di partecipazione alla vita dei "suoi", lo vorrei - lo voglio - attivo ed efficace, direi "compensatore" nei momenti di più avvertito bisogno di noi poveri umani. E' quel dio che è in noi, coscienza e memoria della coscienza, che ci rende prossimi a qualsiasi esperienza alta del mondo, al pensiero e al dolore, così alla fede religiosa come alla innocenza di chi la sa difendere e alimentare... Insomma, è un dio, comunque ineffabile, che sa farci intimamente "più puliti", più puri e capaci di godere di quanto la vita materiale e immateriale ci dona, e capaci, non di meno, di aggiungere del nostro, di integrare con un contributo nuovo.

«La morte, soprattutto quella dei nostri più cari, ci riporta a pensieri essenziali, e a una riflessione sul nostro essere ed esistere nel tempo, a vocazioni intuite od espresse o, più spesso, appena affacciate e bisognose di compiersi. Credo che questo sia perché la morte - pensiamola francescanamente come "sorella" - non può che essere affronto ma, paradossalmente, anche e forse soprattutto aiuto. Perché si tratta di imparare a rendere onore a chi ci ha lasciato e di educarci ad entrare, con lui, in relazione nuova e umanamente più autentica.

«Pensieri in libertà, che ti porgo in spirito di amicizia, con l'ammirazione di sempre e il desiderio forte di incoraggiarti. Un abbraccio».

Così mi rispose, per iscritto: «La parte migliore di me stessa se n'è andata. La solitudine rimasta è diventata più difficile e più dolorosa. Ringraziandoti per la partecipazione al mio dolore, se ne troverò la forza, un giorno forse risponderò ai tuoi cari pensieri. Con tanto affetto». Altro poi disse nell'incontro personale, nella sua abitazione di Genneruxi dove mi invitò.


Marx, la Sardegna e la scuola comunitaria

Della sua figura pubblica, Zella Corona ha lasciato una traccia scritta che è apparsa, postuma, in Il “chi è?” delle donne sarde, uscito di recente [in verità nel 1989 dalla sassarese Edes] a cura di Franca Sini. Le prime righe, come in un buon articolo di giornale, riassumono il tutto, che sarà successivamente esposto nel dettaglio: «Scrittrice. Operatrice sociale». In queste tre parole è l' autopresentazione di Zella.

Subito dopo ecco alcuni flash sulla propria formazione intellettuale e civile, con lo scrupolo, sempre avvertito, di fissare una specie di nesso fra cursus honorum e "produzione", tanto quella culturale e letteraria quanto quella sociale: due facce di una stessa medaglia. Così scrive, infatti, valendosi della terza persona: «Si laurea prima in Lettere Moderne all'Università di Napoli, poi in Filosofia e Storia all'Università di Cagliari. Una vita intensa, ricca di esperienze maturate in diversi campi di attività: da ciascuna di esse è derivata la stesura di opere letterarie ispirate da un impegno politico, sociale e umano».

E più precisamente: «Dopo lunghi anni dedicati alla scuola, dove ha percorso tutti i gradi fino al Liceo Ariosto di Ferrara, avviene l'incontro con la politica. Studiosa della Luxemburg, delle teorie di Lelio Basso, ha militato nel Psiup ed ha ricoperto la carica di assessore alla Pubblica Istruzione per diversi anni, nel Comune di Ferrara, città cara al suo cuore, che le ha consentito la conoscenza della storia e dei problemi della Pianura Padana, e insieme i primi viaggi nei Paesi dell'Est. Trasferita nel 1974 al Liceo scientifico Pacinotti di Cagliari, si stabilisce in Sardegna».

Si chiude, proprio in quegli anni, la prima, lunga parte della sua vita. Perché il lustro, e meno ancora, di insegnamento al Pacinotti costituisce una sorta di cesura rispetto alla seconda e conclusiva, e non meno fertile, stagione della sua esistenza. «Lasciata la scuola senza molti rimpianti, perduto il marito, - aggiunge - nel 1978 si dedica alla ricerca sociale. Nasce la prima opera Storia di un rione chiamato Paradiso. Poi per i frequenti viaggi in Africa, Asia, America latina, acquisisce conoscenza diretta del Terzo Mondo. Di rientro da un lungo soggiorno in Senegal, nel 1980 s'imbatte nel fenomeno della droga in Sardegna. Da questa esperienza nasce Il quinto moro, Ed. Horta, 1983, uno studio della prima Comunità fondata dal francescano Salvatore Morittu. Da questa prima analisi deriva un'ampia e approfondita ricerca alle radici dell'emarginazione: Fascicolo 23, Ed. Delfino, Sassari, 1992».


Macrocosmo e microcosmo. Le disuguaglianze e, anzi, le profonde, strutturali ingiustizie sociali che rileva sul grande scenario dei continenti, le incontra - perché ha modo di scorgerle e volontà di indagarle - anche nella sua patria, fra le pieghe della modernità e dell'apparenza del benessere di massa, nel bel mezzo della democrazia e della civiltà economica che ostenta i suoi indicatori di crescita inarrestabile. Viaggerà per il mondo, ancora per tutti i vent'anni della sua operosa quiescenza: vedrà la Cina di Mao (interessandosi all'esperienza delle comuni legate alla rivoluzione rossa) e vedrà anche Israele (appassionandosi qui alle produzioni collettive dei kibbutz), vedrà anche la Birmania e lo Yemen, e la Turchia e il resto della penisola indocinese: dal Vietnam al Laos alla Cambogia, e poi ancora il sud America e il centro, vedrà capitali e deserti, monumenti millenari e luoghi di apostolato missionario - che tanto la affascineranno, e che ammirerà da atea naturaliter religiosa - nelle periferie subumane... La Palestina - una delle ultime terre visitate - si suggerisce a lei come il riassunto della contrastata e contraddittoria storia di popoli con i quali i sardi vennero in rapporto prima ancora che con Roma...

I grandi viaggi impreziosiscono la sua coscienza di isolana, forniscono materiali nuovi allo scavo personale cui, forse anche in ragione dell'età e dell'esigenza dei primi ampi consuntivi, dà nuovo impulso. Una ricerca come sempre misurata nei ritmi ed ordinata nelle avanzate, attenta e coerente al metodo cui la disciplina degli studi l'ha educata. Il ritorno alle origini, forse anche per valutare il cammino compiuto, il suo tracciato esistenziale, diventa racconto. Infatti: «Segue, nel ricordo dell'infanzia in una Sardegna di tanti anni fa, Portoni dipinti, Ed. 2-D Mediterranea, Sassari, 1994».

Nella scrittura fissa i temi della sua ricerca, e i passaggi del viaggio insieme intimo e sociale, e i suoi approdi. L'aggancio saldo, anche affettivamente robusto, oltre ogni fatica del cercare e la paura del non trovare, resta Mondo X, alle cui espressioni ora pedagogiche ora meramente organizzative pure non manca di fornire, lealmente, il contributo della sua intelligenza problematica. «Negli ultimi anni porta a compimento un'opera ancora inedita, su avvenimenti, personaggi, classi e luoghi della seconda guerra mondiale: narrazione del vissuto con l'intento di andare al di là delle "vulgate" ideologizzanti dell'epoca. Inoltre compie un'altra opera sulla storia delle Comunità di padre Morittu di prossima pubblicazione: E fu sera... e fu mattina». Che è appunto l'originale saggio donato ai francescani per la stampa. Che sarebbe ora stampa d'onore, post mortem. (Dell'altra opera - quella sugli anni del secondo conflitto mondiale, trascorsi in Emilia-Romagna - si sa esser stata interessata, da lei stessa, una grande e prestigiosa editrice come la Sellerio, ed un'altra casa di Milano, e speriamo venga, presto o tardi, quella risposta da Zella vanamente attesa, con insistito desiderio che rivelava in lei un curioso e forse sorprendente aspetto di innocenza quasi fanciullesca...).


Ma non è finita. Perché gli ultimi due periodi della scheda di perfetta autobiografia guardano ancora allo scenario del suo fare di educatrice (a scuola come in comunità), lumeggiandone però le cause, per così dire, teoriche: ed ecco ordinarsi qui i rimandi necessari alle elaborazioni di Karl Marx, ch'ella avverte come dottrina "critica", e non come dogmatica chiave interpretativa dei rapporti economici e sociali. Scrive: «Studiosa del marxismo, rifiuta con sdegno la strumentalizzazione e lo stravolgimento che di quella teoria hanno fatto il leninismo e lo stalinismo. Dopo aver conosciuto l'America latina le è nata una forte propensione per la "teologia della liberazione"».

«Fino agli ultimi giorni della sua esistenza terrena - e qui la scheda rielabora fedelmente quel che la "scrittrice" ed "operatrice sociale" ha sempre detto di sé, presentandosi e spiegandosi a chi l'interrogava - continua, da quel lontano 1980, l'attività di volontaria nella Comunità di San Mauro, e a chi le domandava le ragioni della collaborazione fra una laica e un francescano, rispondeva: "Noi siamo due argini, due sponde fra le quali scorre un fiume di umanità tempestosa. È a questa che bisogna guardare"».

È l'«umanità tempestosa» che s'affolla, appunto, nelle fitte pagine di Il quinto moro - raccolta di testimonianze di vita dei primi ragazzi della prima comunità di recupero dell'Isola - e poi anche di Fascicolo 23 - la storia di Lampu, un giovane giunto in quel di S'Aspru dopo aver passato tutte le stagioni dell'emarginazione, dalla periferia cagliaritana di Sant'Elia ai riformatori minorili del continente. È quell' «umanità tempestosa» che esige innanzitutto il rispetto dell'ascolto e denuncia poi il bisogno dell'accompagnamento: ascolto ed accompagnamento, l'arte tipica cioè - per dirla con padre Dario Pili - degli «uomini dell'uomo» (e con il linguaggio inclusivo moderno diremmo: degli «umani dell'umano»).

In qualche modo convergente con questa tensione, ideale e sociale ad un tempo, è la ricerca forse anche d'identità, fra gli spazi mai del tutto chiari della memoria personale. Della sua infanzia lontana, negli anni che saldano la fine della grande guerra agli esercizi di dittatura del fascismo nel microcosmo paesano di Villaputzu, vicecapitale del Sarrabus, Zella Corona è tornata più volte, fissando i ricordi, come lampi fotografici, sulle pagine dei suoi libri di narrativa. Le migliori istantanee sono forse quelle, frammischiate alle altre degli anni successivi (della sua giovinezza cioè), delle Storie di un quartiere chiamato Paradiso e di Portoni dipinti. La sua lettura delle gerarchie paesane, delle dinamiche (o delle cristallizzazioni) sociali, è tutta attraversata da una critica che sa di ideologia, della sua ideologia, e dunque sono più "ritratto", cioè elaborazione, che vera "fotografia", cioè oggettività. Ma quel che di più importa, di quelle pagine, è proprio l'elaborazione, cioè la lente scelta dalla scrittrice per raccontare di sé e della sua famiglia, del paese tutt'intero di cui quest'ultima era fra le maggiori. Con tutte le sue peculiarità, s'intende, non soltanto per la classifica "dimensionale" dell'agiatezza...


Lo scrive, l'autrice stessa, nelle righe di breve introduzione alle sue Storie (maggio 1977, che è ancora tempo di preparazione alla missione che verrà, assidua e duratura, fra le spesse pareti di un convento antico): «Benché pubblicati tanto tempo dopo, (questi racconti) non vogliono essere una fuga a ritroso nei sentieri smarriti della memoria, un attardarsi nella contemplazione del vissuto, un puro ricordare fine a se stesso, ma bensì il punto di partenza per un'analisi che dovrà essere condotta sino ad oggi. Partire da lontano, quindi, è apparso indispensabile per chiedersi che cosa sia veramente scomparso e che cosa permanga; per effetto di quali forze ed in quali direzioni quel mondo si sia venuto volgendo, poi, nell'incessante dialettica delle classi del nostro tempo».

Così è anche, ma con nuove sottolineature, in Portoni dipinti: «In storie collocate quasi fuori del tempo, in un piccolo villaggio e nei suoi dintorni, troviamo così ingiustizie e prepotenze, ma anche sogni, aspirazioni e gesti di grande umanità attraverso i quali si delinea una visione del mondo realistica, drammatica, ma aperta anche alla certezza della possibilità di un cambiamento, di un riscatto.

«Con questo tuffo nella memoria infantile, l'Autrice ritrova le radici delle sue convinzioni, e quindi dell'impegno politico, sociale ed umano che ha caratterizzato le sue scelte: "Tutto ciò ch'è stato custodito nella memoria e filtrato dal pensiero - scrive - serve a render più forti le convinzioni del presente"».

La lettura ideologica della storia - del passato e del presente - che Zella Corona propone e che emerge non solo nei suoi libri ma anche - come può testimoniare chi l'ha conosciuta e frequentata pure nel suo privato - nell'attività ordinaria, corrente, della sua vicenda cagliaritana andatasi compiendo negli ultimi vent'anni, quella lettura critica, talvolta aspra e puntuta, presenta però spesso un cenno di comprensione umanistica verso quanto, movendo da scaturigini le più varie, perviene come istanza ed iniziativa di giustizia nella vita sociale. Un apprezzamento per il bene in quanto tale, al di là di ogni riserva di classe (e anche di fede religiosa).

È un passaggio delicato, questo, e merita di essere correttamente esposto: il suo riconoscimento, magari non proclamato - per un pudore che rinvia alla paura dell'incomprensione o della banalizzazione - va al bene (sinonimo di "giustizia" o di "liberazione") in quanto "fatto" oggettivo, mentre il suo giudizio rimane di indifferenza sulle forze che lo promuovono, sovente riconducibili alle classi da lei avvertite "altre" da quelle invece, per propria natura, "liberazioniste", affrancatrici dalle catene dello sfruttamento (tali ritenute, ovviamente, per lettura ideologica).

In ciò, Zella - per tanti versi apparentabile, come figura intellettuale e politica e per la conoscenza diretta delle culture del terzo mondo, a una Joyce Lussu - da questa si differenzia sensibilmente. E anche perché riesce a trovare lei stessa, proprio nell'impegno quotidiano, il modo concreto di provarsi a... cambiare il mondo: insegnando "cultura generale" ai ragazzi delle comunità di recupero (comunità "di vita", non terapeutiche), proponendo loro - in un dialogo mai facile ma comunque necessario - una infinità di problematiche da investigare e di temi da sviluppare. Per educare le coscienze, per alimentare una consapevolezza civile, politica e sociale.


L'essere stata per quattro decenni docente presso le scuole dello Stato, l'aver formato, nella riflessione storica e filosofica, i liceali di quasi tre generazioni - dagli anni della guerra a quelli della tempesta brigatista, passando per le fasi fortunatamente di bonaccia patria, dalla ricostruzione morale e materiale postbellica allo sviluppo dei consumi di massa, al pacifismo giovanile degli anni '60, fino alle incertezze anche economiche del decennio successivo - la porta a scorgere nella semina "culturale", e dunque pedagogica e scolastica, il terreno primo, sebbene non l'unico, anche del recupero di senso esistenziale da parte di tanti giovani, vittime dello sbandamento etico e valoriale come dei prosciugamenti d'interesse provocati della droga.

C'era stata — per dire della complessità degli apporti formativi nella sua famiglia - l'eco di memoria di un vescovo - un prozio - che aveva governato per sei anni, dal 1900 al 1906, la diocesi di Ogliastra, regione contermine a quella comprendente il nativo Sarrabus: monsignor Giuseppe Paderi Concas, già rettore a Villaputzu, parroco a Ilbono, canonico penitenziere e poi teologo del capitolo di Tortolì. E anche preside del seminario, e "salvatore" dal collegio salesiano di Lanusei tentato di trasferirsi altrove... Figlio di contadini ed allevatori, monsignore aveva conosciuto le difficoltà del popolo più umile, e non aveva mancato di riferirne allo stesso pontefice, ragguagliandolo appunto non soltanto circa l'andamento delle catechesi parrocchiali o della partecipazione ai sacramenti, ma pure del così frequente «scarsissimo raccolto» e dei danni provocati dalla «terribile fillossera».

Di lui adolescente si ricordava e "celebrava", in casa Corona—dove al padre di sentimenti anarchici faceva valido contrappeso una madre ligia alla pratica religiosa la sgroppata pedibus a Cagliari, quando, con un compagno divenuto poi medico, aveva pensato ad un lavoro che gli consentisse di proseguire negli studi, e anche, ma di un'età matura, quella certa omelia che l'allora canonico aveva tenuto, in sardo, dall'altare di Santa Maria Maggiore, alle molte centinaia di pellegrini isolani convenuti nella capitale, nel lontano 1897...

Ecco il leit motiv della vita di Zella: ancora la scuola, il sacrificio per le acquisizioni dello studio, e la prossimità al popolo più umile e nel bisogno, non importa di quale genere, se spirituale o materiale. L'impegno comunitario documentato anche nella sua opera postuma ha rivelato quelle antiche premesse, sedimentate nell'interiorità personale più che ricordate come definizione di episodi ammaestrativi, nell'età successiva.

Personalità di spicco, Zella Corona, anche nelle lettere. Non sufficientemente conosciuta e dunque rimasta incompresa dai circuiti editoriali, dai recensori, dai curatori di antologie, e dunque anche, inevitabilmente, dal grande pubblico. Come non dedurlo dalle citazioni soltanto a margine a lei riservate, in appendice e magari soltanto per accidente, così per le sue Storie di un rione chiamato Paradiso o per il suo Quinto moro, in Tutti i libri della Sardegna, 100 schede per capire un'isola "difficile", a cura di Manlio Brigaglia, pubblicato dalle Edizioni della Torre nell'anno 1989, o in Scrittori sardi del Novecento, l'antologia curata da Giovanni Mameli per laEdiSar, ancora nel 1989? o, peggio ancora, dall'assenza completa in altre antologie critiche, come Romanzieri sardi contemporanei, a cura di Giuseppe Marci, uscito nel 1991 per i tipi della Cuec; o L'altra Letteratura, Scrittori Sardi Contemporanei, a cura di Renzo Cau, che è assai più recente, rimontante al 1999...

Verrà il momento del giusto riconoscimento, giorno tardo ma ineluttabile. E con il riconoscimento per la scrittrice verrà pure quello per il popolo dei suoi personaggi, dei cui mondi più intimi o delle cui vicende di vita non è stata, mai, fredda raccontatrice, ma appassionata testimone.


Fonte: Gianfranco Murtas
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