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Gianfranco Murtas

Divagando su Stampace. A proposito della lettura (storica e architettonica) fattane da Antonello Angioni

di Gianfranco Murtas

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«Sassari, Bosa, Callari e Stampace, / Arestan, Villanova e l’Alighiera, / che le sei parti e più dentro al mar giace…».

Il Dittamondo di Fazio degli Uberti, che risale agli anni di poco successivi alla morte di Dante, guarda alla Sardegna richiamando i nomi delle sue città più importanti. E Cagliari è colta nella pluralità delle sue espressioni urbane così come al poeta essa è giunta chissà da quale particolare fonte: certo è che l’opera – vent’anni di fatica – finisce prima d’esser completata per la sopraggiunta morte dell’autore ormai sessantenne. Così a quasi un secolo dalla distruzione di Sant’Igia e dell’assassinio (per mano pisana) del giudice Chiano, a poche decine d’anni dalla erezione delle torri e delle prime fortificazioni castellane da parte del nuovo padrone della città e del giudicato. L’asse politico-economico di Cagliari s’era allora consolidato fra i palazzi di governo cresciuti a Castel di Castro e le strutture portuali di Lapola disciplinate nelle loro attività dal Breve Portus Kallaretani.

Sui fianchi di quell’asse si svilupparono allora due appendici urbane con «differenti caratteristiche sociali ed economiche»: «quartiere artigiano» Stampace, «borgo rurale» Villanova. Stampace, in particolare, «era abbastanza popolata ed aveva anche diverse chiese: Sant’Anna, Santa Margherita, San Giorgio, Sant’Efisio, Santa Restituta, visitate nel 1263 dall’arcivescovo di Pisa [legato pontificio di Urbano IV, papa francese] Federico Visconti… In epoca pisana, nel Castello si entrava attraverso le tre porte ferrate, munite di saracinesche e ponti levatoi e protette da fossati e antemurali. Alle prime luci dell’alba le sue viuzze si animavano: da Villanova arrivavano i carri degli ortolani mentre da Stampace e Marina si riversavano nella rocca un numero consistente di bottegai, artigiani e pescatori che offrivano i loro beni e servizi. Questi erano i veri cagliaritani». Così scrive Antonello Angioni nel suo Profilo storico della città di Cagliari che reca in copertina la mappa cittadina disegnata a metà Cinquecento da Sigismondo Arquer per la Cosmographia universalis di Sebastian Munster, al quale sarebbe da attribuire il merito – come ha ben osservato di recente, in un bellissimo articolo su L’Unione Sarda (“La condanna di Arquer all’oblio”, 4 dicembre 2018), Maria Antonietta Mongiu che ne riversa una parte sull’Arquer stesso – d’aver imposto «nella storia urbana la preminenza dell’urbs sulla civitas, ovvero la preminenza della città come concentrato di costruzioni il cui schema concettuale è abitato da numeri, lettere, segni grafici, a sinesi di una forma immaginata e di una che misura le cose. Una pedagogia spaziale più accessibile delle intermediazioni delle Bibliae pauperum». 

Bisogna dire che se siamo arrivati alle guide, anche alle guide dei territori di Cagliari edizioni 2019, quasi centosessant’anni dopo la celebratissima Guida dello Spano, da lì dovremmo forse partire, almeno idealmente… I luoghi costruiscono gli uomini, gli uomini fanno i luoghi, li conservano, li rinnovano, talvolta li feriscono od abbruttiscono, altre volte li impreziosiscono, comunque li rendono testimoni e coprotagonisti della storia che supera le generazioni. I quartieri educano e formano caratteri e sensibilità e sono a loro volta portati a protagonismo civico e politico di più ampie e complesse realtà urbane.

Mi sembra, considerando tutto questo, un contributo importante, di bella qualità, di lettura gradevolissima e largamente informativo, l’ultimo lavoro di Antonello Angioni in distribuzione in queste settimane nelle librerie cittadine e candidato a una approfondita presentazione domani lunedì 15 luglio nei locali della Fondazione Siotto, in via dei Genovesi a Cagliari. Stampace / la storia e le storie, uscito per i tipi della GIA editrice nella collana “Memoria di Sardegna”, è il terzo dell’autore, dopo Castello / i palazzi, le famiglie / le strade, le chiese (del 2011) e La Marina (del 2013) che replica il sottotitolo: I palazzi, le famiglie / le strade, le chiese. Terzo, s’intende, della collana, ché i titoli finora pubblicati da Angioni sono una decina e più, per non dire dei suoi contributi pubblicistici – svariate centinaia –, sempre di grande valore contenutistico e bella scrittura. (Prima parentesi: dei libri, il più bello di tutti – se vale qui il gusto mio personale, che crede d’incontrare l’utile sociale – è proprio il sopra richiamato Profilo storico – asciutto, discorsivo e tutto fatti… senza foto di distrazione o alleggerimento e anche impreziosimento –, che meriterebbe di essere portato nelle scuole cittadine e letto in classe dai ragazzi, commentato capitolo dopo capitolo ogni volta da qualche specialista della fase storica particolare per le doverose contestualizzazioni, ed anche, perché no?, dall’autore stesso che certo si presterebbe, propenso come è ad un approccio sempre dialogico e discretamente pedagogico con i più giovani).

Un bel libro, Stampace / la storia e le storie, di formato quadrato e carta lucida che valorizza al meglio le quasi 160 fotografie diffuse lungo le 290 pagine del testo: merito di Maurizio Artizzu, porgitore dell’immagine e cronista lui stesso degli eventi illustrati – metti le processioni di Sant’Efisio o della Settimana santa, così come le manifestazioni carnascialesche dell’inverno (quelle ex-GIOC) – ma soprattutto documentarista di quel tanto di patrimonio materiale, d’architettura ed arte, di monumentale e botanico, d’antico e moderno, di sacro e profano che, soltanto passeggiando come facevano Francesco Alziator ed Antonio Romagnino, puoi cogliere, capire e gustare. Questa volta Artizzu ha offerto il suo apporto in esclusiva; nelle due uscite precedenti, per Castello e Marina cioè, aveva condiviso i meriti con Fabrizio Aiana e Luca Farris, e con altri ancora.

E a proposito di accompagnamento fotografico. Converrà rilevare che una fruttuosa simbiosi testo-foto, pur con altro approccio e con il limite, o la virtù, del bianco/nero, l’ebbero anche le due uscite della serie dei quartieri di Antonio Romagnino, nei primissimi anni ’80: allora, per l’editrice Electa, furono Luciano D’Alessandro e Gianni Berengo Gardin ad offrire il corredo, peraltro tutto concentrato in una sezione semiautonoma del volume (o dei volumi: rispettivamente Cagliari, Castello. Passato e presente d’un centro storico, del 1982, e, anteprima, 1981, Cagliari, Marina. Memorie ed immagini per un recupero del vecchio quartiere). Mentre in una logica tutta descrittiva dell’umanità palpitante in bixinaus e sottani, in laboratori o botteghe, in larga prevalenza sulle schermate di palazzi e chiese, era stato Villanova un paese in città – Villanova, il quartiere “gemello diverso” di Stampace – pubblicato nel 1985 da Attilio Della Maria con brevi testi di Paolo De Magistris, Enrico Milesi e Giorgio Pellegrini.

Una capillare diffusione infratesto delle immagini fotografiche – anch’esse in stretto bianco/nero – ha avuto invece Castello. Il cuore storico di Cagliari, che Cenza Thermes pubblicò per Zonza editore nel 2007: case e uomini, antico e moderno (più antico che moderno) nella sequenza dei passi, in un andare e venire lungo le strade dell’isoscele in permanente bisogno d’aria e luce fino agli accessi perimetrali sui bastioni, sul Fossario da una parte, a Santa Croce dall’altra, verso Stampace, ed al vertice di piazza Indipendenza, sotto la signoria della torre di San Pancrazio.  

Le passeggiate come virtù praticata

Sono preziose tutte le pagine del fototesto firmato oggi da Angioni (ed Artizzu) dedicate alla memoria indelebile e sempre ammirata di Francesco Alziator, pagine documentate nello sviluppo descrittivo da ben 423 note (la prima riferita all’opera di Giuseppe Cossu – funzionario regio in materia d’economia rurale nel Settecento sabaudo –, l’ultima ai Misterius di Mauro Dadea, giovane e valentissimo archeologo autore di un’abbondante produzione scientifica) e proposte al lettore con una scrittura piana, insieme rapida e precisa, esito di un’arte ben collaudata. Ché Antonello Angioni è un autore esperto che veramente ha lasciato (meglio: sta lasciando) alle biblioteche della città e della Sardegna intera una sequenza di contributi notevole – lo voglio ripetere – per numero oltre che, va da sé per il valore dell’uomo e dell’intellettuale che svetta, accompagnando il professionista forense conosciuto e rispettato, per la originalità dell’accostamento.

Certo di passeggiate cagliaritane che sono l’occasione per tante messe a punto fra storia e cronaca, fra passato e presente, fra magno e mignon, nell’arte e nella politica, nella letteratura e nella scienza, nella religione e nel sociale o nel militare, ne conosciamo diverse: con rimbalzi dalla stessa toponomastica magari, oppure seguendo proprio i tracciati che, tolti dalla loro ripetitività quotidiana, recuperano il respiro degli anni, dei secoli e talvolta perfino dei millenni. E che si tratti di uomini o di pietre non importa, l’importante è il conforto della compagnia che ci danno gli uomini o le pietre se degli uni e delle altre noi riusciamo a cogliere l’unicum della loro “esserci”: le memorie e i significati, i perché e i come, delle pietre dell’anfiteatro romano o delle angustie tutte morali e tutte liriche che associarono fra loro (nel momento e nel sempre) Lucio Cassio Filippo e Atilia Pomptilla, delle geometrie dell’ospedale del Cima come delle devozioni commosse (e santamente interessate) alla Vergine Immacolata della piazza del Carmine…

Le Passeggiate cagliaritane di Antonio Romagnino come quelle (semiserie e meglio distinte per quartiere) di Giuseppe Luigi Nonnis fanno il paio con gli scritti toponomastici di Giampaolo Caredda (Le strade di Cagliari) e naturalmente con quelli di Dionigi Scano (Forma Karalis), con le descrizioni alziatoriane riunite ne L’Elefante sulla Torre (titolo derivato da un corposo inserto che il professore firmò ne L’Unione Sarda del 10 marzo 1957) e con quelle di Cenza Thermes di Cagliari, amore mio. Fino a tornare addirittura a Giovanni Spano e alla sua Guida – rassegna di monumenti e chiese d’una Cagliari tutta monumenti e chiese… – , e magari – per gusto acrobatico – a Sigismondo Arquer, ancora a lui! ed al suo Sardinia brevis historia et descriptio: «Cagliari, la città più importante della Sardegna (qui rappresentata con un disegno aderente alla realtà, per quanto è stato possibile) – è Arquer stesso che precisa –, si divide in quattro parti: quella centrale, che è cinta da un muro fortissimo, viene detta propriamente Cagliari; quella che invece è rivolta verso oriente è chiamata Villa Nova, in latino Novum Oppidum; la parte che guarda poi verso il meridione e il mare Mediterraneo viene detta La Lapola o la Marina e quella che volge a occidente è denominata Stampace. Queste tre parti sono come sobborghi e appendici della città cagliaritana. Di tutte ora illustrerò gli edifici principali…».

E ancora: «Questi i luoghi più notevoli del sobborgo Stampace: A – La piazza e il luogo di ritrovo di Stampace; B – Santa Chiara: clausura delle monache; C – La parrocchia di Stampace». 

Tre soli riferimenti rispetto agli otto della Marina (fra bastioni, piazze, vie, chiese, ospedali e luoghi di supplizio), ai sei di Villanova (mura perimetrali e porte, chiese, monasteri e fonti d’acqua), addirittura ai 22 di Castello (facilmente immaginabili). Eppure avrebbe potuto aggiungerne, Arquer, anche fuori le mura: se non l’anfiteatro romano (ancora sepolto dalla terra), magari Sant’Agostino vecchio, chiesa e convento, prima della demolizione per la gran novità sorta sull’altro fronte del Largo, sui limiti occidentali di Lapola… Anche se, va detto, il meglio, o il meglio da noi oggi conosciuto a Stampace, è spagnolo o piemontese: basti dire di San Michele e di Sant’Anna imponente come una basilica sorta sopra l’altra assai più modesta Sant’Anna romanica.

In principio era Alziator

Ho accennato poc’anzi ad Alziator, e l’occasione è buona nuovamente per celebrare il professore tanto amato. Mi affianco così ad Antonello Angioni, col quale condivido il culto dell’inarrivabile arte storico-poetica dell’autore de La città del sole, de I giorni della laguna e di quant’altro. Arrivato a dirigere L’Unione Sarda nel 1954, Fabio Maria Crivelli – allora giovanissimo, appena 33enne – ebbe l’opportunità, grazie ad Antonio Ballero, il capo redattore e reggente la direzione dopo la partenza di Giulio Spetia, di far società, attraverso lui, con Francesco Alziator: sgambettarono tutti e tre, da allora, e per il giovane direttore (di gamba lunga oltrettutto) fu più facile che per i suoi battistrada, alla scoperta di Cagliari per il dritto e il rovescio, per colli e mezzi colli e valli e piane, rive e foreste, per aree centrali d’alta densità abitativa ed altre d’incipiente urbanizzazione… Un ripasso per il professore e l’anziano cronista, una scoperta meravigliata per il direttore-esploratore di nuova residenza: la Cagliari degli anni ’50 e primi ’60 ancora lavorava su se stessa rimodellandosi dopo l’avventura terribile dei bombardamenti di guerra. Ballero si sarebbe presto ritratto, per ragioni anagrafiche, dal servizio corrente al giornale, limitandosi a pregevoli ma saltuarie collaborazioni, Alziator divenne allora, invece, collaboratore fisso del giornale cui aveva cominciato a dare i suoi articoli fin dal 1928, quando la sua età era proprio ancora quasi adolescenziale, e dal Dettori egli era appena approdato in facoltà di Lettere ancora allogata nel palazzo del rettorato.

Così negli anni dal 1954 (e ancora più marcatamente dal 1956) al 1976, alla vigilia della morte cioè, la sua collaborazione al giornale di Terrapieno (e al suo fratello settimanale L’Informatore del lunedì) si fece assolutamente intensa e frequente. In quel contesto si situano anche gli articoli, lunghi per il più e saporosi tutti quanti senza eccezione, anche su Stampace, la sua vita materiale e sociale, le sue chiese, le sue devozioni, le sue manifestazioni tanto spesso sopra le righe, la virtù dei suoi vicinati domestici… Su Stampace, o anche su Stampace, sarebbe tornato anche, e forse avrebbe chiuso, il 26 settembre 1974 condividendo la pagina – l’uno per la storia l’altro per il corrente – con un giovane e brillante cronista allora al debutto in redazione: Giorgio Pisano. “La vecchia anima di Cagliari”, “In attesa della ruspa”, “Il centro è da salvare”, “La decadenza di un quartiere” i titoli dello speciale.

(Quell’articolo – meriterebbe ricordarlo – sarebbe stato riprodotto da Vittorio Scano sull’Almanacco di Cagliari del 1978, in quella prima edizione orfana del professore che all’Almanacco aveva collaborato fin dal primo numero effettivo, nel 1967, con un articolo dal titolo “Le meraviglie di Cagliari”. Ma a Stampace Alziator dedicò davvero un’infinità di scritti per la divulgazione: “Nata dai disastri della guerra la più bella strada di Stampace” (via Santa Margherita), “Pala Banda, nome da preistoria: un rione che ha conservato il cuore antico”, “Pregano i cappuccini sul colle dei Santi”, “Maledetti stampacini!”, curiosissimo “Saint Tropez come Stampace”, ecc., nel 1958, nel 1959, nel 1962... per dire soltanto della stampa quotidiana cittadina).

Appunto nella sua edizione del 10 marzo 1957 Crivelli “regalò” sei pagine tutte intere ad Alziator (o, potrebbe dirsi, si regalò e regalò ai lettori de L’Unione sei pagine tutte intere di Alziator), un inserto con il titolo generale “L’isola in cui viviamo” e il sottotitolo “Quaderno di saggi e pretesti di Francesco Alziator”. Sedici pezzi, uno dei quali – corredato da una suggestiva fotografia della torre pisana presa dal basso e per tutta la sua altezza, titolato appunto “L’elefante sulla Torre”. Nel novero pure un omaggio all’eroe d’arte di Stampace, Giuseppe Antonio Lonis cioè, e un omaggio (invero appena accennato, volutamente discreto) al gioiello più bello e caro di tutto il quartiere: il Cristo crocifisso ligneo del primo Trecento, proveniente dalla distrutta chiesa di San Francesco al Corso ed allora da neppure cento anni accolto (qui giuntovi per vie traverse) in Sant’Anna. 

E per restare, ma concludendo, nella compagnia di Alziator, ancora una breve nota par giusto riferirla proprio alla riscoperta di Fazio degli Uberti e del suo Dittamondo, ereditandone gli stimoli, per dir così, nientemeno che da Pasquale Tola che di tanto si occupò nella introduzione al suo celebre CodexDeplomaticus Sardiniae uscito nell’anno stesso della unità nazionale. Merito di Alziator è stato dunque, collocato negli anni della sua piena maturità intellettuale, il rilancio degli studi su un poeta didascalico che, in parallelo (ovviamente inferiore) a Dante, portò la Sardegna all’attenzione delle lettere italiane, e dentro quel contesto Cagliari, anzi… la multicagliaritanità della capitale isolana, tamburellando la sequenza tardo-giudicale, del consolato pisano e del subentro aragonese.

I 103 versi del dodicesimo capitolo inserito nel terzo libro del Dittamondo sono tutti sardi e le molte Cagliari vi hanno la loro parte, pur se – osserva Alziator in un bellissimo e dotto articolo uscito sul n. 9 di Frontiera annata 1968 (“Tradizione colta e tradizione popolare nelle pagine sarde di Fazio degli Uberti”), e già in una densa anticipazione su L’Unione Sarda del 2 agosto 1965 (“Fazio degli Uberti parla ai fiorentini della nostra Isola: un ‘servizio’ sulla Sardegna di seicento anni fa”) – la fonte sarebbe «di seconda o terza mano» o comunque integrerebbe una «informazione incolta».

Certo è che le distinzioni territoriali dell’area urbana cagliaritana, che avrebbero avuto successivamente rilievo anche nel governo amministrativo atomizzato, con i sindacati di quartiere appunto, furono allora, già dal primo Trecento, un fatto obiettivo e come tale registrato.

Le pagine di Sorgia e Todde

Di quella ripartizione amministrativo-territoriale hanno avuto modo di trattare diffusamente due fra gli storici più insigni del nostro Novecento, come Giancarlo Sorgia e Giovanni Todde in vari scritti e infine, insieme, in Cagliari sei secoli di amministrazione cittadina, uscito nel 1981 col patrocinio del Lions club cagliaritano.

Vorrei ricordare, vagando per passim, alcune righe propriamente riguardanti Stampace. Così puntando al Quattrocento e alla definizione datane come del quartiere «dei dieci santi»: «quasi ogni sua strada faceva capo ad una chiesa o ad un oratorio: per citarne solo qualcuna, via Santa Margherita, via San Giorgio, via Sant’Efisio, via Santa Restituta (detta anche “s’arruga de is Barbaraxinus” perché vi trovavano alloggio i rivenditori ambulanti dell’artigianato interno isolano e i carrettieri che trasportavano a Cagliari la neve, appositamente conservata per consentire la preparazione della richiesta “carapigna”), via di Sant’Antoneddu (oggi Carlo Buragna) e via San Paolo (oggi Siotto Pintor).

«Poco oltre le mura che limitavano quel perimetro abbastanza contenuto, incominciava praticamente la campagna con gli orti e i giardini dove oggi sono la via Sassari e il Largo Carlo Felice, per estendersi verso la zona di Palabanda […], dell’Annunziata (su Brugu) e Sant’Avendrace».

Fu la mancata applicazione del Coeterum di Giacomo II motivata dal persistente stato di guerra con gli Arborea, ad impedire l’effettiva parità di status fra i sardi gli iberici, e quindi ai cagliaritani di Stampace (o di Villanova o di Lapola) di abitare a Castello ed essere ricompresi nell’amministrazione civica: di qui il processo di formazione dei sindacati di quartiere, ciascuno facente capo alla parrocchia di territorio: Sant’Anna per Stampace. Si definirono progressivamente le competenze di bassa amministrazione: rifacimenti di selciati, manutenzione di strade e cimiteri, sorveglianza annonaria, ronda notturna, ecc. Così fin verso la metà del Settecento, dopo l’esaurimento della fase aragonese ed anche spagnola, e dopo già un cinquantennio di governo Savoia. E comunque una certa distinzione fra il governo cittadino e quello delle tre appendici proseguì anche successivamente – ne danno abbondante conto Sorgia e Todde – e andrebbe detto che così funzionò ancora in costanza di regno d’Italia, cioè dopo il 1861: per alcuni adempimenti amministrativi e igienico-sanitari (ad esempio le vaccinazioni) e per gli stessi censimenti decennali della popolazione valse la territorialità. 

Come guide all’appartenenza

Naturalmente è nella conoscenza, più o meno approfondita, di tutti la fatica benemerita di Luigi Colomo o Giulio Molco (quale fu il suo più frequente pseudonimo introdotto quand’era giornalista cattolico, in forza a Il Corriere dell’Isola sanjustiano) passato dall’integrismo religioso al fascismo: rischio che mi sentirei, in fraternità, di invitare Antonello Angioni a sventare tempestivamente, lui che nacque orgoglioso e generoso gramsciano, comunista critico, e fattosi col tempo allettare, nel dibattito pubblico, dalle civette della nostra destra (sempre rozza e portatrice del nulla ideale e valoriale). 

Dense e gradevolmente spumeggianti di figure e situazioni le pagine di Cagliari… che scompare, dato alle stampe nel 1926 – l’anno della rimozione dell’erma di Giordano Bruno dalla piazzetta Mazzini e anche dell’incendio fascista della tipografia cattolica – e fortunatamente ristampato in anastatica da Edinsar nel 1992: la città articolata territorialmente per quartiere prima che descritta nelle sue trasversalità civili, sociali e culturali di varia natura: “Chiese e altri monumenti che non ci sono più”, “Istituti di credito e cantiere navale”, “Giornali, giornalisti e mecenati”, “Le scuole”, “Compagnia della grana”, “Circoli e filarmonici”, “Il carnevale”, “Acqua potabile, illuminazione e stabilimenti balneari”, “Occupazioni, abitudini, carattere del cittadino cagliaritano”, “Usanze e dialetto”, insomma il tanto o tantissimo che poi variamente, non con repliche ripetitive però, ma con approcci di sentimento e di scrittura originali, era entrato già nella sequenza delle Guide, da quella celebratissima del Corona del 1894 (in bis regionale nel 1896) alle precedenti (del 1872 e del 1886 invero ridottamente stradali) ed alle successive, sua ancora quella del 1915, o di mano di altri, metti di Pasquale Cugia quella del 1902, e nel 1911… Così fino ad arrivare alla Guida curata da Antonio e Ludovica Romagnino nel 1992 e ristampata con il titolo Cagliari nel 2007, e credo ancora ristampata di recente. Notazioni, quelle delle prime guide e anche delle altre, che rimbalzano inevitabilmente da un titolo all’altro, ma ogni volta con un taglio differente che riflette l’autore o il curatore, e dà come un senso di sorpresa alla novità in uscita. 
In questo bel quadro metterei anche la Guida della città di Cagliari che lo stesso Antonello Angioni ci offerse nel 2002 – guida da riposata lettura domestica più che per l’accompagnamento nel passeggio (date le dimensioni e il peso del volume). Una guida articolata in ben 38 scene zonali riunite nelle tradizionali quattro aree, anzi cinque perché giustamente l’autore ha incluso, come sviluppo di Stampace ma con una sua relativa autonomia, anche Sant’Avendrace, Tuvixeddu e Santa Gilla (e non si dimentichi che nei censimenti della popolazione una voce specifica aveva, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, proprio Sant’Avendrace con le sue pertinenze lagunari, così come, all’estremo opposto, San Bartolomeo); una guida arricchita da svariate panoramiche tutto luce, ma soprattutto ritmata nel notiziario storico e nelle descrizioni d’ambiente ed architettura, anche dei quartieri moderni –“La Vega, Sa Duchessa e Monte Claro”, “Da viale Ciusa a Monte Urpinu”, “L’archivio storico del Comune e la Biblioteca comunale di studi sardi” (al tempo in via Newton), “San Benedetto”, ”San Lucifero, San Saturnino e piazza Repubblica”, “Bonaria”, “S. Elia, San Benedetto, La Palma e Le saline”, “Lo stagno di Molentargius e il Poetto”, “San Michele e Is Mirrionis” – … fino alla bibliografia – che pare essa stessa un compendio materiale da esplorare nei titoli o negli anni di uscita – per dire la progressione degli studi – oltreché negli autori.

Negli anni fra il 1985 e il 1995 – fra l’ultima sindacatura De Magistris e la prima Delogu – il Comune di Cagliari, poggiandosi sull’editoriale d’arte milanese Silvana, esitò quattro bellissimi (e cercatissimi) libri monografici sui quattro quartieri all’insegna di Cagliari Quartieri storici. Fu un lavoro scientifico d’alto livello, impegnativo delle migliori risorse dell’Archivio storico comunale, dell’Università, dell’Archivio di Stato e delle Soprintendenze, con presentazione di tavole storiche e dettagliate planimetrie ricongiungenti passato e presente e numerose schede illustrative dei manufatti monumentali di varia natura e vocazione, chiesastici militari o accademici, amministrativi o industriali, alloggiativi o giudiziari, scolastici o museali ecc. , il tutto integrato dagli apporti di alcune suggestive collezioni fotografiche private. Stampace fu il quarto volume, uscito proprio nel 1995. A firmarne i testi furono Tatiana K. Kirova, Franco Masala, Maria Antonietta Mongiu e Michele Pintus, mentre le fonti archivistiche vennero prodotte da Ester Gessa Maggipinto e Marina Vincis e i materiali iconografici da Giuseppina Cossu Pinna. La prefazione, di lato a quella del sindaco, fu assicurata, con il surplus del sentimento di stampacino doc, dall’assessore alla Cultura (e a lungo redattore e poi anche direttore de L’Unione Sarda) Gianni Filippini.

A dir adesso del Municipio

Il Filippini assessore comunale di radici stampacine suggerisce adesso altri accostamenti fra la municipalità, e il palazzo della Municipalità, e il quartiere che nella sua dimensione più lata comprende (o ha compreso) l’anfiteatro romano e l’orto botanico, il santuario del santo dei sardi e, per lunghi decenni, la maggioranza delle facoltà universitarie, l’ospedale civile e gli antichi pastifici, le cripte e lo storico Partenone celebrato da Lawrence, le centrali gesuitiche, salesiane, cappuccine, carmelitane, paolotte e quelle bancarie (e camerali) e postali, i rigogli popolari tanto dello spirito efisiano quanto di quello carnascialesco, il presepio meccanico di fra Lorenzo da Sardara e quello sardo della GIOC, le ferrovie e altro ancora…

Ma certo guardando il palazzo Bacaredda vien da pensare proprio a Bacaredda, a Bacaredda stampacino pure lui – figlio di padre stampacino e di madre lapolese –, battezzato in Sant’Anna il 23 dicembre 1848, quel fatidico 1848, l’anno delle costituzioni, l’anno dello statuto albertino, l’anno del primo consolidamento della fusione perfetta del regno di Sardegna con gli stati di terraferma… «Ego infrascriptus Par.s Ecclesiae Par.lis S. Annae vici Stampacis Civitatis Caralis Baptizavi infantem medius quartus natum…». Vivrà, Bacaredda, nel quartiere anche negli anni dell’età matura, negli anni della professione (avvocato e professore universitario) e dell’amministrazione o del mandato parlamentare, anche se è vero che studio ed abitazione nel corso del tempo s’alternarono fra tutte e tre le appendici, passando appunto da via Gio.Maria Angioy a viale Umberto (poi Regina Margherita), da via Manno a via San Giovanni… 

Certo è che Stampace offerse a Bacaredda sindaco, nel suo limite più prossimo al porto e alla stazione delle Reali, l’area in cui impiantare il cantiere del nuovo municipio: quel municipio (con la minuscola) che doveva rappresentare il Municipio (con la maiuscola) definitivamente emancipato dagli ottimati castellani e affidato agli esponenti del ceto borghese che nel porto e nelle sue negoziazioni individuavano come il simbolo dell’età moderna, del rischio economico come sola fonte (e legittimazione) del reddito e della ricchezza, dell’occupazione e, sperabilmente, del benessere diffuso. 

Certamente molto di Stampace, a leggere pazientemente le sue numerose pagine, si ritrova in Efisio Bacaredda che si firma Emilio Bonfis nella sua Cagliari ai miei tempi: scritta prima che il sindaco-mito prendesse possesso (democraticamente bisognerebbe dire: la responsabilità) del governo cittadino, ancora nel palazzo di Città, di fronte alla cattedrale di Santa Maria. Sono le riflessioni sullo stato e il futuro possibile o probabile di Cagliari vedendolo con gli occhi di chi è stato testimone della fusione perfetta e si duole del perduto status di capitale e della tarda modernizzazione che non compensa il declassamento… Però non vede bene, o non vede tutto bene l’ormai anziano funzionario ministeriale ritiratosi dal servizio dopo aver migrato da Cagliari a Firenze e Genova (luogo di migrazione temporanea dello stesso figlio, che in continente si farà laico e fieramente liberale). Perché il Partenone saprà sostituire degnamente le baracche messe in tre, cinque file dalla piazza Yenne fin giù, verso l’ex baluardo di Sant’Agostino, per soddisfare con l’abbondanza le … primarie passioni – quelle grastronomiche – dei cagliaritani! Sarà cioè smentito Emilio Bonfis alias Efisio Bacaredda. 

La visita di David H. Lawrence e della sua Frieda segnerà, a trentacinque anni dalla sua inaugurazione, il trionfo della novità allora ineunte e non creduta, ma coinciderà altresì, per sorte di calendario, con la scomparsa proprio di Ottone Bacaredda. In quel commovente 1921 (l’anno che aveva registrato la visita cagliaritana anche di monsignor Angelo Giuseppe Roncalli), tutto si preparava al peggio: la surroga di Bacaredda da parte di Gavino Dessì Deliperi avrebbe avuto il respiro di un anno e qualche mese soltanto, sarebbe stato poi il duce del fascismo, in visita a Cagliari nel giugno 1923, a commissariare il Comune e ogni altra libertà civile.

Del teatro e d’altro (Carnevale e Sant’Efisio) nel quartiere raddoppiato

Le sante provocazioni che il nuovo titolo offerto da Antonello Angioni alla lettura dei cagliaritani che amano la loro città (ma alla lettura anche degli altri che Cagliari desiderano comunque conoscerla intus et in cute) sono infinite, sicché le tentazioni alla divagazione o all’affabulazione, a rischio perfino d’incontrollo, finiscono per essere innumerevoli. Anche perché molti temi rifluiti nel libro quadrato e prezioso ora all’attenzione sono stati già trattati o anticipati nelle altre produzioni dell’autore, e non mi riferisco soltanto alla Guida.  

Si pensi al carnevale. Questo l’incipit della parte tutta cagliaritana del saggio di Angioni 23-24enne, datato 1982, Carnevale in Sardegna: «Da alcuni anni nel capoluogo isolano è tornato il Carnevale. Dopo un lungo periodo di letargo, gli attivisti della Gioventù Operaia Cattolica Italiana – GIOC, hanno riscoperto l’antica tradizione, restituendo al tempo stesso ai cagliaritani un’occasione di sano divertimento, di allegria e di felicità. La sfilata delle maschere e dei carri allegorici parte dalla via Azuni, nel cuore del quartiere di Stampace. Qui, all’interno della vecchia città che quasi tutti dimenticano e lasciano morire, i preparativi della mascherata mantengono ancora intatto il loro fascino. Partendo dalle gradinate dell’antica chiesa di Sant’Anna, il corteo percorre la piazza Jenne, il largo Carlo Felice, la via Roma…». 

Tutto ritorna, e dallo stesso autore pagine sul carnevale cagliaritano le troviamo – brevi ed eleganti nella loro sobrietà, rielaborazione leggera e matura delle passate – in uno dei capitoli centrali di Cagliari magia nei secoli, 2007, bel contenitore dei motivi di fascino della città e bel… dono naturale di un qualsiasi cagliaritano che volesse accogliere nel suo spirito cittadino un amico metti continentale o straniero… (d’ottimo rilievo anche qui il corredo fotografico di Enrico Spanu, Alessandra Zorcolo, Enrico Locci, Andrea Nissardi, Roberto Ferrante, Mario Garbati, Maurizio Artizzu, Carla Pidotti e Antonio Scrugli).

Oltre alle fantasiose esibizioni carnascialesche, ecco poi i riti penitenziali della Settimana Santa – un intero capitolo è loro dedicato in Magia, o anche in Magia –, ecco le processioni dei “misteri” e di s’Incontru pasquale, le partecipazioni addolorate ed oranti, poi gioiose e redente di associazioni e confraternite e devoti ora in Sant’Anna ora in San Michele (si pensi ai “misteri” del Lonis portati, insieme con il simulacro della Vergine, nel giro delle sette chiese). Ed ecco poi ancora la kermesse insieme religiosa e profana, popolare, di Sant’Efisio. 

Il tema si affaccia ovviamente a ripetizione, ancorché con ottica ogni volta diversa per il diverso contesto, nella produzione storico-divulgativa di Antonello Angioni. Ed è proprio nella missione divulgativa “di qualità” che l’autore m’è parso essersi voluto assumere, saldando insieme le attese del pubblico locale e quelle della crescente area di simpatia di cui Cagliari va circondandosi in cerchie sempre più larghe (benedetto fu, come réclame anche internazionale, quello scudetto del 1970, anche se certo non tutto nacque allora!), che si pone la sua cura alla tematica efisiana. Sant’Efisio patrimonio dell’umanità (cofirmato con il compianto Giampaolo Lallai e prodotto, con il patrocinio comunale, in edizioni multilingue fra il 2007 e il 2013) va in questa direzione, di lato anche a La via di Sant’Efisio (datoci nel 2004 in collettanea con Pupo Gorini, Pietro Muggiano ed Elisabetta Pinna).

Proprio a queste chicche tutte cagliaritane – appunto alla sagra di calendimaggio ed al presepe sardo della GIOC, come al carnevale e ai riti della Settimana Santa – Antonello Angioni dedica alcune pagine, le conclusive (riunite sotto il titolo comune di “Le tradizioni”), del suo libro stampacino cogliendo in tali manifestazioni di popolo l’autenticità sentimentale di una città per tanti versi distratta o confusa nella maggior liquidità sociale, con riferimenti appannati, che pare essere un triste segno dei tempi…

Ma in questo gioco del mantice di un’ideale fisarmonica tutta cittadina – il gioco degli attraversamenti circolari di molta della produzione storico-letteraria del nostro autore – metterei, per gli intrecci felici ed opportuni che collegano titolo a titolo, anche Cagliari va a teatro che, con sottotitolo Le attività di spettacolo tra cronaca e storia, è uscito per le Edizioni della Torre nel 2012. Perché Stampace ritorna anche qui, senza con questo nulla voler rubare a Castello col suo Teatro Civico o alla Marina col suo Politeama Margherita, e magari neppure a Villanova col suo teatrino di San Mauro dove mostrarono tutta la loro valentia i Medas (c’è ancora in circolazione un bel libretto, delicato e affettuoso ma altrettanto documentato e corredato, di Vito Biolchini: I Medas. Storia di una famiglia d’arte).

Minore di quella degli altri quartieri, certamente, ma la storia teatrale di Stampace un suo rango ce l’ha avuto anch’essa. La ricorda, questa storia, lo stesso Angioni appunto nel suo Cagliari va a teatro, riferendo come «nel 1840, lungo l’attuale via G.M. Angioy (all’altezza della piazza del Carmine) – per iniziativa del capocomico lombardo Ludovico Chini – venne allestito un teatro di tipo popolare interamente in legno e privo di copertura: il Teatro Diurno di Stampace. Il nuovo ritrovo – grazie alle rappresentazioni di commedie di Goldoni, Verga, Giacosa, Praga, Scribe, Sardou ed altri prestigiosi autori – ebbe notevole successo…». E più in là: «Frattanto al Diurno di Stampace agli spettacoli di prosa si alternavano esibizioni di giocolieri e uomini forzuti. Spesso si trattava di spettacoli popolari e talvolta i testi traevano spunto da drammi o delitti passionali realmente accaduti…».

Data notizia anche della successione dei cartelloni di numerose stagioni, l’autore si focalizza sugli eventi del 1848-49. Si pensi: nella grande storia nazionale la prima guerra d’indipendenza e, a Roma, un Goffredo Mameli di sangue cagliaritano che sacrificava la sua vita per la Repubblica Romana di Mazzini, Saffi ed Armellini, nella storia regionale la Sardegna entrava a pieno titolo nell’ordinamento costituzionale degli Stati di terraferma dei Savoia: «E’ in questo particolare frangente che il Diurno di Stampace (chiamato anche “Nazionale”) riprese vigore al punto che la compagnia che lo gestiva…, sull’onda del successo, assunse anche l’impresa del Teatro Civico ove, nell’autunno del 1849, ripresero gli spettacoli d’opera col melodramma tragico I masnadieri di Giuseppe Verdi…».

Ma l’avventura teatrale si replicò, a Stampace, negli anni ’70 inoltrati – ad unità nazionale ormai compiuta, e a smantellamenti della piazzaforte militare quasi conclusi –, su iniziativa di Michele Carboni, imprenditore omnibus che nella chiesa ormai sconsacrata di San Nicolò – quella voluta due secoli prima dal viceré il principe Pignatelli, in scioglimento di un voto ed edificata fra l’attuale via Sassari e la piazza del Carmine – allestì e per tre anni pieni condusse una sorta di Diurno in replay, «alternando prosa, lirica, balletto e spettacoli di marionette».

Toccò ancora a Stampace ospitare, se non le primissime, certamente fra le prime programmazioni cinematografiche, all’inizio del Novecento, e fu all’Eden Theatre, in una sala ricreata apposta nel nuovo palazzo Vivanet. 

Ma ancora se ne potrebbe aggiungere: giusto alla fine del primo decennio del secolo nuovo – il Novecento tecnologico e moderno, eppure ancora tanto compromesso sentimentalmente con il tempo che l’aveva preceduto – operò in via Siotto Pintor (al civico 32), nel cuore di Stampace alto, un teatrino intitolato a Gioacchino Rossini. Quando se ne parlò, sulla stampa, fu riferito che a prodursi su quel palcoscenico, con numeri di varietà, monologhi e più complessi copioni, erano i “luigini” di Sant’Anna. Sarebbe arrivata, tardiva però – e bisognerebbe capire perché –, la smentita di don Giuseppe Uras (uno dei parroci collegiati e presto destinato alla cattedrale, dove gli sarebbe capitato di dover un giorno battezzare nientemeno che… Paolo De Magistris e suo fratello Luigi oggi cardinale di Santa Romana Chiesa!): nessuno della parrocchia, né clero né i “piccoli Luigini”, avrebbe avuto «niente a che vedere» con gli spettacoli del Rossini… 

Talvolta con cambio di nome ma per il più con novità piena dell’impianto, funzionarono ancora, press’a poco in quegli stessi anni, il “salon-théatre” Moderno ed il cinematografo Ideale, entrambi nella via Sassari. Presenze più o meno effimere, ma ciò nonostante di una certa presa nella stagione che toccò loro di vivere. Per dirne una: durante le feste cosiddette di calendimaggio, nella settimana efisiana, si sarebbe tenuto, nello spazio dell’Ideale, un festival proprio a beneficio dell’oratorio prossimo venturo. La lotteria, per la quale si sarebbero raccolti da molte parti ninnoli, statuette, lavori di piccolo artigianato femminile, ecc., si propose come l’occasione più propizia per raggiungere l’obiettivo… 

Iniziative sociali, o socio-religiose, affidate alle vincenziane dame di carità e alle signore della buona borghesia laica, ma non soltanto questo: ogni sera alle 20 spaccate lo spettacolo accoglieva pubblico d’ogni tipo e gusto per l’applauso a ginnasti, acrobati e pantomimi, alla donna cannone e all’uomo più forte del mondo (Achille Montagna, il vincitore dei campionati italiani ed europei). 

Il teatro ha recato sempre, a Cagliari, un’impronta stampacina. Senza vanagloria – la vanagloria dei primati senza senso in questo o quel campo – potrebbe dirsi che il carattere stesso degli stampacini, secondo il cliché del “cuccuru cottu” che per essere tale (cliché cioè) comunque dalla storia viene interamente e veramente, si è prestato all’accoglienza del gran gioco dello spettacolo…

E si pensi anche al secondo dopoguerra e agli anni ’60, ’70 e successivi ancora: si pensi alla funzione del Cinegiardino di viale Trento, o del Massimo, o si pensi alle stagioni liriche ospitate all’anfiteatro romano… 

Ma potrebbe dirsi, insistendo con le associazioni si tema – dello spettacolo in questo caso – dei meriti sportivi dello Stallaggio Meloni e poi del campo di via Pola, ancora restando nei perimetri larghi di Stampace…

I percorsi suggeriti come un viaggio nel tempo

 Stampace di Antonello Angioni è proposto come una passeggiata per i rioni e microrioni) del quartiere, con gli allunghi verso le zone che, come nell’espansione della fisarmonica, guardano verso occidente e verso nord, verso l’area della stazione ferroviaria (limite di Stampace basso) e verso Palabanda e in direzione di Sant’Avendrace. La piazza Yenne (già San Carlo) è il punto di partenza, una volta scesi da Castello per le scalette di Giacobbe: da lì puoi subito raggiungere la monumentale parrocchiale supercupolata e con tanto di scalinata, e puoi raggiungere le chiese medievali (con tanto di conche ipogeiche) alle sue spalle: Santa Restituta e Sant’Efisio, puoi raggiungere il gioiello barocco di San Michele arcangelo con l’ex noviziato gesuitico riconvertito dalle leggi eversive a ospedale militare (ma ora dismesso) e, in capo a sa ruga ‘e su monti, l’altro gran gioiello d’architettura del quartiere – ottocentesco questo, ma precedente l’unità d’Italia – vale a dire l’ospedale civile del Cima realizzato come una raggera. Là attorno altri compendi, ora chiesastici ora sanitari, per combinazione oggi tutti o quasi coinvolti in un processo di riconversione: la Clinica medica intitolata al professor Aresu diventata già ormai facoltà universitaria dei dipartimenti di lingue e letterature straniere, la Clinica pediatrica intitolata al professor Macciotta svuotata per il nuovo piazzamento nel Policlinico di Monserrato (come la stragrande maggioranza dei reparti del Civile e come le facoltà scientifiche prima allogate nel bellissimo palazzo delle Scienze), l’asilo San Giuseppe (all’ombra del gran capannone intitolato allo stesso santo) in restyling anche d’uso secondo le nuove politiche della fondazione che riunisce le ex Opere pie.

In salita, poi, vai a Buoncammino, fra bastioni e villini, fra caserme (la Fadda e la Carlo Alberto) e l’ex carcere dei triboli – dominariu delle sconfitte insieme dello stato e della società –, fra la Biblioteca militare e la quasi millenaria chiesa binavata di San Lorenzo (già San Pancrazio, già Vergine di Buoncammino), pertinenza della cattedrale.

Procede la passeggiata, stavolta in discesa, verso la chiesa dei cappuccini e tutto quanto le ha fatto storicamente, fra Ottocento e Novecento, compagnia: gli stabilimenti degli istituti dei Ciechi e dei Sordomuti e dell’Infanzia abbandonata – oggi tutti in mano all’Università –, l’ospizio Vittorio Emanuele II e l’albergo del povero, giusto in faccia all’anfiteatro romano, in faccia anche al primo presidio universitario di Legge ed Economia… e più giù ancora verso l’Orto botanico e, ad esso prossimo, le rovine della villa di Tigellio poeta latino… 

Ecco finalmente il corso Vittorio Emanuele, un concentrato di molte cose e una prima missione da compiere: avviare i cagliaritani che amano Sassari a scarpinare, in direzione, nel lungo rettilineo, oppure qui accogliere, provenienti dall’altro capo del lungo rettilineo, i sassaresi che amano Cagliari… Non attraverso il Corso e le sue materiali proiezioni, ma in scomode vetture al traino di locomotive volenterose ma lente sferraglianti su binari, da nord a sud e da sud a nord viaggiavano gli studenti cagliaritani e sassaresi, gli uni per visitare la città degli altri, agli inizi del nuovo Novecento, e si inneggiava alla ospitalità reciprocamente offerta, senza ombre di svilente municipalismo! Bei tempi andati.

Ancora palazzi e palazzine, ville e una chiesa, una sola chiesa – l’Annunziata – dopo l’abbattimento delle altre, di San Francesco e San Bernardo cioè, cisterne (fortunatamente preservate nel sottosuolo di una cartoleria) e la modesta ma resistente storica Ecca manna, accesso da su Brugu a Palabanda e viceversa… 

Al Largo, finalmente – un altro finalmente! – con gli stabilimenti delle banche antiche e moderne, con la sede solenne della Camera di Commercio, i palazzi Scano e Accardo (covante, quest’ultimo, la cripta agostiniana) e a chiudere, sul fianco opposto alla Rinascente, il palazzo civico intitolato ora al sindaco-mito, con le sue sale e la doppia scalea della corte, dove un tempo, fino ai rovinosi bombardamenti del 1943, figurava la lapide incisa da Francesco Ciusa per conto della colonia veneta in Sardegna, in ringraziamento dei fanti della Brigata Sassari liberatori dal tacco di Cecco Beppe… Gran bel municipio con le sue tele, i pezzi di scultura (dominante ancora Francesco Ciusa, ma la compagnia degli artisti fornitori è tutta di alto livello), l’arazzo Spiernick e tanto altro. Adesso con il supplemento dello spazio detto Search, dei sotterranei già parzialmente riconvertiti a sede degli Amici del libro ed ora destinati ad accogliere mostre e manifestazioni culturali di varia natura.

Lungo i fianchi della piazza del Carmine, e prima degli inoltri nel prolungamento della via Roma (segmento stazione ferroviaria), con l’ex pastificio Costa (oggi assessorato regionale alla Pubblica Istruzione), ecco la sfilza dei palazzi della borghesia imprenditoriale d’inizio secolo, dagli Chapelle ad Alfonso Aurbacher e Sante Boscaro, Efisio ed Antonio Cocco (già presidente camerale) ed Oliviero Olivieri (stabile oggi di faticata proprietà comunale): case signorili identificabili, al tempo, come status symbol della nuova classe dirigente, case in parte abitate dai proprietari stessi, in parte messe a reddito per il ristoro degli onerosi investimenti; dirimpetto il palazzo delle Poste, risalente agli anni del regime di dittatura, al 1932 per la precisione, e sui due lati verticali il palazzo Rocca Ancis (sulla via Maddalena) progettato dal Simonetti e, sull’opposto, le scuole elementari Satta (attive dal 1904 ma così battezzate dal 1924, nel decennale della morte del grande poeta nuorese) e la sede del TAR e del Commissario di governo, un tempo anche sede del Provveditorato alle Opere Pubbliche.

Siamo adesso sulla verticale della via Sassari, parallela alla via Angioy, strade entrambe – invero relativamente antiche anch’esse rimontando, secondo certa cartografia (anche quella fascicolata in Forma Karalis), al XVIII secolo od ai primi del XIX – che, parallele al Largo e trasversali al Corso, costituiscono gli snodi principali di Stampace basso, secondo quadrante del quartiere spinto verso il porto: una sequenza di edifici anche qui di qualche pregio architettonico e comunque di molta storia (speciali quello della cappelleria Martello anche per i grandi giardini retrostanti, e quello dirimpettaio Marini Fantola, che rimanda alla famiglia di Efisio Marini, perché rivenienti da Ignazio e da Giulia, unica sorella del medico pietrificatore andata sposa a Francesco Cara, figlio del notissimo famigeratissimo Gaetano, accusato dei traffici di falsi bronzetti nuragici centocinquant’anni fa…). Storie di case e di famiglie, come anche nella via Angioy o di “su conduttu”, d’altronde: si pensi soltanto a casa Alziator, la casa degli avi Meloni prima, quella di Cristiana e Boreddu spaziante nell’attico vicino al cielo adesso…

La via Mameli, partenza dal Largo (così dalla metà degli anni ’50, con l’abbattimento di casa Signoriello), o da via Angioy, o magari (in progressivo arretramento) da via Sassari e andando giù giù fino alla MEM – nello spazio che era del mercato detto di via Pola e prima ancora del campo di gioco del Cagliari ante-Amsicora – conduce agli estremi del quartiere in direzione di Sant’Avendrace, giusto dove s’alzano il palazzo della Regione Autonoma e il plesso del liceo classico Siotto Pintor. Si chiude nella via Nazario Sauro (dove un tempo sorgeva anche lo studio di Francesco Ciusa), che ha una parallela battezzata anch’essa dallo stringente humus dell’irredenza patriottica repubblicana e socialista: intitolata a Cesare Battisti che a Cagliari era legato da tanti motivi pubblici e privati. 

La via Mameli permanente cantiere edilizio è la prima parallela (in basso) del Corso; la seconda è l’alberatissimo viale Trieste (già viale San Pietro, radunato di magazzini dell’ingrosso delle più varie merci e derrate alimentari fino a qualche decennio fa) che, muovendo dalla piazza del Carmine, arriva in innesto al viale Sant’Avendrace. Si tratta del sito in cui pure giunge, da un livello superiore, il viale Trento in quanto prosecuzione del corso Vittorio Emanuele dal punto stesso in cui dalla chiesa dell’Annunziata si risale per il viale Merello e verso la piazza d’Armi, signoreggiata dalla facoltà di Ingegneria e dalla torre della casa dello studente, di lato ai dipartimenti umanistici di sa Duchessa.

Sono palazzi, anche quelli del viale Trieste – e pari pari si direbbe delle ville di viale Trento – marcati tutti dai fregi della belle époque cagliaritana, della miglior stagione bacareddiana cioè. L’elenco sarebbe lungo, rappresentando i nomi dei proprietari la nomenclatura economica e professionale, amministrativa ed accademica della Cagliari di cento e centoventi anni fa: Picchi e Basso, Tocco e Balletto, Campagnolo e Satta Semidei e Merello… E così nel viale, appunto, Merello e suoi dintorni: Devoto e Coppola, Pernis… 

Soltanto un flash, la passeggiata personale

Seguendo le indicazioni offerte dall’autore di questo… inebriante Stampace, mi provo – ma ora in estrema sintesi, ché non mancherà occasione per tornare in argomento – a espormi in un tracciato più privato, personale, ché anch’io sono, per tanti processi di vita, stampacino. Santa Chiara (già Santa Margherita) e l’omonimo mercato – opera, se ben ricordo, delle giunte Leo e Palomba (in parallelo al dolente abbattimento del Partenone) – lungo tanti anni rifocillatore della mia famiglia (per l’eroica fatica settimanale di mia madre) mi riportano idealmente alle celle del monastero che ospitò, nel Settecento, anche la sorella clarissa di fra Ignazio da Laconi: viveva e pregava lì una piccola comunità di religiose che fu sollevata dalla più atroce miseria tanto più dopo la morte del santo, ché ben poteva suor Agnese intercedere sul fratello pietoso patrono e l’obolo per l’intercessione invocata da molti si traduceva allora in grazia per i sobri pasti quotidiani delle claustrali, pane ed ortaggi, frutta e sale. 

I palazzi Marcello e Nobilioni – in singolare adiacenza le abitazioni dei due sindaci chiamati all’ufficio municipale, fra il 1907 e il 1911: ultime o fra le ultime giunte, le loro, nella sede ancora castellana, prima della nuova e duratura amministrazione laica e progressista di Ottone Bacaredda, che nel 1911 avrebbe tenuto forse il suo miglior discorso politico in Consiglio comunale, fissando per la politica cagliaritana il passaggio dal liberalismo – fosse anche il liberalismo cosiddetto organizzatore – alla democrazia, nel segno della storia. (Ne consiglierei la rilettura ad Angioni, oggi chiamato a sostenere un esecutivo dal segno politico per me, minoritario mazziniano e mameliano, assolutamente oscuro).

Passo dopo passo, piazza dopo piazza, palazzo dopo palazzo o chiesa dopo chiesa ritornano memorie personali o memorie di letture, riprendono volto e voce i personaggi che ci hanno preceduto nel pellegrinaggio terreno: Bacaredda e gli eroi della nostra tarda belle époque sarda e cagliaritana, gli Scano e i Satta Semidei, i Cocco Ortu o gli Aurbacher e gli Chapelle, i Campagnolo ed i Picchi, e Boscaro e Cocco, Marzullo e Congiu e magari Pattarozzi, Birocchi e Fantola e Marini, Balletto e Faggioli, Vivanet e Doglio, Gioda ed i Pernis ed i Binaghi, e altri cinquanta, altri cento e più di cento nelle fabbriche e nei cantieri, negli uffici e negli studi d’ingegnere o d’avvocato, nelle amministrazioni pubbliche e nelle chiese pure, fra i padri della Compagnia di Gesù a San Michele, i religiosi del Carmelo, quelli di San Giovanni Bosco e quegli altri del cappuccio francescano, e i parroci della collegiata a Sant’Anna, mitico il monsignore Mario Piu fra tutti gli altri, parroco sempre lui per mezzo secolo e più, mentre cambiavano gli arcivescovi sulla cattedra: da Balestra si passava a Rossi, da Piovella a Botto… 

Il mandato canonico a don Piu, cui si deve molto anche dell’impianto salesiano sorto si fronte all’orto botanico e all’irta salita del viale detto degli Ospizi ancora nei primi decenni del Novecento fu don Silvio Canepa a prepararlo, avviando egli quei grandi lavori di decoro e abbellimento della parrocchiale che soltanto la guerra con le sue distruzioni avrebbe cancellato: don Silvio era fratello minore del vescovo di Nuoro, monsignor Luca, un magistrato convertito già da adulto, pur se ancora giovane, e fatto subito graduato del clero cittadino e poi presule per due decenni in Barbagia, e in affaccio perfino ne Il giorno del giudizio di Salvatore Satta! e fratello di un altro singolare personaggio, un poeta mazziniano e garibaldino, ateo e infelice, avvocato e giornalista d’impronta bacareddiana, morto infelice a soli 37 anni. La storia e le storie, sottotitola il suo libro Antonello Angioni, e bisogna dire che le storie poi sfuggono al territorio e si fanno trasversali, non più rionali ma cittadine…

Nella storia e nelle storie, nelle carte degli archivi parrocchiali intendo dire, potrebbe ricomprendersi anche la protesta che i parroci antichi di Sant’Anna elevavano ogni volta che un residente della Marina moriva all’ospedale civile e il presidente collegiato di Sant’Eulalia s’incaricava lui di celebrare i funerali e incassare il diritto di stola… Un diritto di stola territoriale, rivendicava invece il parroco di Sant’Anna infischiandosi, certamente ripagato, della fraternità sacerdotale. Il clericalismo soffocava il vangelo e tutto era normale.

Ma la storia e le storie, tutto nell’umano è un chiaroscuro. Così quando si ripensa alla chiesa di Sant’Antonio da Padova (oggi sede anche del santuario di Sant’Ignazio) tornano a galla la memoria di quell’ingiusto esproprio eversivo del 1866 e la memoria della gestione per converso temperante, delle amministrazioni civiche succedutesi negli anni a Cagliari, del marchese Edmondo Roberti – bisnonno materno di Paolo De Magistris, del cardinale Luigi e degli altri fratelli – come del marchese Enrico Sanjust di Neoneli ma poi anche di Varsi, Sini ed Orrù, di Salvatore Marcello (salariano) e dell’avversario Francesco Cocco Ortu, Emanuele Ravot già rappresentato, chissà se a ragione, nei Goccius de is framassonis e ancora di Gaetano Orrù e Ottone Bacaredda, di Giuseppe Picinelli quando Bacaredda, dal 1900 al 1904, sarà deputato a Roma… 

Bovio e la Massoneria

Tutte quelle schede storico-architettoniche che Angioni ha steso con ogni diligenza e supporto documentario (preziose le notizie derivate dai decreti di vincolo delle Soprintendenze), tutte quelle fotografie che illustrano interi e dettagli dei palazzi – del municipio e degli edifici a lato (come il Vivanet) o retrostranti – mi riportano, sentimentalmente, a quel che manca: a Bovio che, spalle a Verdi, dal 1905 e per una trentina d’anni, onorava lo square delle Reali divenuto poi, dopo la guerra e l’abbattimento della dittatura, piazza Matteotti. Giovanni Bovio, filosofo del diritto, parlamentare e grande oratore del Grande Oriente d’Italia, l’oratore di Campo de’ Fiori nel 1889 bruniano, il maestro più autorevole ed ascoltato dai repubblicani d’Italia dopo la morte di Mazzini, in tempi di monarchia e di liberalismo autoritario (si pensi a Crispi e a Di Rudinì)… Bovio, il suo busto, meglio, poi abbattuto, s’è scritto dai fascisti forse alla vigilia della seconda guerra mondiale. Un duplicato in gesso pesante fortunatamente esisteva nella loggia Sigismondo Arquer, saccheggiata dai questurini fascisti nel novembre 1925: oggi quel doppione, opportunamente restaurato dopo il recupero dai magazzini comunali, fa la sua figura a palazzo Sanjust. Nemesi storica.

Le schede di strade e piazze, palazzi e giardini, chiese e banche ed istituti d’ogni vocazione mi suggeriscono corse nel tempo, combinazioni fra personalità ed eventi… Sottotraccia, ad esempio, mi viene di pensare a quanta Stampace vi sia nella storia della Massoneria cagliaritana: nata alla Marina (all’ospedale Fatebenefratelli ed in via Sant’Eulalia) e sviluppatasi a Castello (nel palazzo Villamarina), con una certa permanenza anche a Villanova (nella via Gesù Maria), la Libera Muratoria cittadina ha avuto la prevalenza delle sue sedi proprio a Stampace: dal 1896 al 1907 a palazzo Vivanet, prima del fascismo nel corso Vittorio Emanuele, qui – di lato a S’Ecca Manna – ancora dal 1950, in via Portoscalas dal 1958, a palazzo Chapelle dal 1960 e fino al 1977…

Le sedi associative (e quelle fraternali vanno ricomprese nella categoria) costituiscono uno degli elementi che spiega molto, già dalla dismissione della piazzaforte militare e dall’abbattimento delle mura perimetrali dei quartieri storici, dello sviluppo dello spirito cagliaritano, propriamente civico, perché documenta la mobilità interna – appunto da quartiere a quartiere – dei membri di sodalizi impegnati nelle attività sociali: quelle attività che costituirono per cinquanta o sessant’anni, fino alla dittatura, l’ordinario quotidiano della città. E dunque mi suggestiona rivedere anche queste figure dei massoni – dei maggiori e dei minori (misurati per ruolo professionale, non certo per virtù personale) – che attraversano la città ogni settimana per raggiungere i passi perduti e il tempio rituale: Gioda e i Pernis, Angelo Garau e quanti altri faticheranno meno, sono stampacini… 

Stampace come territorio edificato che rimane testimone del fluire delle generazioni, ché le case sono fatte per la gente, come le chiese, come il mercato e gli uffici delle amministrazioni, come scuole e come gli ospedali, come le strade e gli spazi alberati… E certo è la gente, la cittadinanza, sono le famiglie, le persone d’ogni età, sono giovani e vecchi, bambini in esordio di vita e al gioco e bambini o ragazzi già inseriti nella disciplina della scuola, massaie e professori, assessori ed elettori, sono tutti loro il protagonista collettivo, ora palese ora segreto, della vita sociale che si sviluppa nel quadrato o trapezio più remoto di Stampace alto e nelle zone di espansione che erano prima campagna e tratturi. Finalmente dissepolto l’anfiteatro romano, dopo millecinquecento anni di sonno profondo, in combinazione con il nuovo orto botanico trasferitosi dall’area di sa Butanica in Villanova; rientrati dopo gli ingiusti decenni di esilio in Is Stelladas i frati di Ignazio, ora affaticati a costruirsi in nuovo convento e il nuovo seminario serafico… Di lato, sul fianco sinistro, il convento antico confiscato dalle leggi dell’esproprio anticlericale per farne un’accoglienza dei mendichi. Da poveri a poveri, nel casamento sostenuto dalla filantropia cittadina celebrata poi nei marmi e nei busti (quanti anche di massoni! come documentato anche nel roll up presentato, nelle scorse settimane, per Monumenti Aperti, a palazzo Sanjust). 

Di lato al Ricovero di mendicità (oggi sotto gestione Caritas), quello che è attualmente il caseggiato di Scienze Politiche e ieri era l’Istituto dell’infanzia abbandonata era sorto, per volontà della loggia intitolata a Sigismondo Arquer, il dormitorio pubblico, intitolato a re Umberto I, di cui Cagliari aveva bisogno. Fu donato al Comune nel 1915 e trasferito subito alla Croce Rossa Italiana per l’urgenza di un ospedale chirurgico negli anni della grande guerra… Ancora Stampace! ancora Stampace che dell’opera artistica di uno scultore del valore di Franco d’Aspro – dignitario massimo del Rito Scozzese – si è valsa per impreziosire, com’è ancora oggi, le sale e gli spazi pubblici di diverse istituzioni: dal municipio alla Banca d’Italia, dalla Camera di Commercio all’ex Clinica medica, dall’ospedale civile all’ex Medicina legale… e dalla Deledda alle forme del lavoro di fatica (pesca e miniera, pascolo e agricoltura) in Sardegna, da Delcroix ad Ippocrate o al professor Aresu, dai chirurghi Garau e Ligas al protomedico cinquecentesco cagliaritano Giovanni Tommaso Porcell.

In conclusione

Certo possono chiamarsi divagazioni, e tali sono. E’ il merito maggiore, credo, del lavoro di Antonello Angioni. Perché dai luoghi da lui biografati – mi piace adoperare questo verbo ancorché riferito a strade e case e monumenti – scattano i rimandi. E’ la dote delle schede proposteci in questo Stampace che, naturalmente, favoriscono una messa a punto di conoscenze talvolta (o spesso) non approfondite: valgono per un inquadramento fra i prima e i dopo, valgono per le caratteristiche proprie, architettoniche o artistiche o monumentali dei manufatti che devi acquisire con maggior precisione per fartene più prossimo ed esperto, per poter comparare.

Non saprei davvero più quanto in politica, ma certamente per la trasparenza della passione e la resa della sua fatica di ricerca e scrittura, Antonello Angioni è oggi, fortunatamente per lui e per quelli che lo conoscono, lo stimano e gli vogliono bene, quello che era da ragazzo. Anche nell’impressione alla Dorian Grey – ma un Dorian Grey tutto e integralmente virtuoso, s’intende! – egli è quello di quarant’anni fa e lo è nella freschezza del suo porsi, del conversare e concludere, anche se è certo che quarant’anni di professione legale, impegnativa e di altissimo livello, e quarant’anni di studio abituale, gradito compagno di vita, lo hanno fatto un uomo e un intellettuale del miglior rango a Cagliari e in Sardegna. E buon per lui e buon per noi se questo possiamo dire senza interesse alcuno alla piaggeria. 

Si potrebbe e dovrebbe scriverla una memoria sulla storia di scrittore di Angioni, partendo da quel pamphlet del 1982. Un gioco – un bel gioco – e un impegno gravoso, di studio delle carte e di scarpinate alla Alziator e alla Romagnino durato finora quarant’anni, con prospettive di raddoppio.

Dovremmo poter sommare alle fatiche editoriali quelle pubblicistiche del nostro autore, e dell’amico. I grandi titoli li ho citati quasi tutti: resterebbero da ricordare La Sardegna / i colori, i profumi, le passioni, del 2005, sempre per la GIA editrice, La falesia e il veliero: itinerario storico geografico e letterario attraverso le coste della Sardegna, del 2016, pubblicato dalle Edizioni della Torre. Una citazione speciale mi parrebbe di dover fare per La congiura di Camarassa, gustoso romanzo storico pubblicato ora è più di dieci anni, nel 2007, dal Nostro, e prova (superatissima) del suo ecclettismo; sulla stessa linea All’ombra di Carlo V / feudatari e viceré / lotte politiche e conflitti di potere nella Cagliari del Cinquecento, uscito da Condaghes nel 2012.  

La sua produzione pubblicistica e la partecipazione ad opere collettanee è troppo vasta per poterla qui richiamare nel dettaglio. Mi sembrerebbe invece utile riepilogare le collaborazioni offerte negli anni ad una rivista che purtroppo ha cessato le pubblicazioni lo scorso anno: l’Almanacco di Cagliari. (E avrei sognato – posso dirlo? – che fosse proprio Antonello Angioni a rilevare quella testata dismessa con grande onore da Vittorio Scano. Certamente egli avrebbe saputo riunire i mezzi finanziari necessari all’intrapresa, ed ancor più avrebbe potuto costruire una redazione per il rilancio o, meglio, la prosecuzione… Peraltro lo stesso Almanacco ha costantemente seguito l’attività editoriale di Angioni, con recensioni uscite nel 2004, 2006, 2008, 2011 e 2012 a firma di Giovanni Rossi e Donatella Orrù, Fabrizio e Fausto De Santis, e Paolo Fadda). 

Omaggio personale, all’ombra dell’Almanacco perduto

Ha dunque per me un valore del tutto simbolico e affettivo poter concludere questa galoppata fra cose, ricordi e sentimenti stampacini, elencare i titoli degli articoli che Antonello Angioni ha consegnato all’esperta mano impaginatrice di Vittorio Scano (si vedrà, fra l’altro, la zoomata proposta su alcuni dei maggiori giuristi isolani via via scomparsi: tema appassionante l’avvocato e l’uomo di diritto, ma anche il biografo che sa “umanizzare” anche… l’intelligenza e la cultura pura):

1986, La sconfitta del campanile: l’area urbana di Cagliari / un obiettivo cui sono legate le possibilità di crescita della città e del suo hinterland

2005, Il giorno dei confetti: dal 15 al 22 maggio 2004 si è svolta in città la mostra “Invito a nozze… 

2009, Grinta e abilità: un politico sardo di notevole caratura / l’on. Antonio Maxia

2010, Intransigente quanto coraggioso: Francesco Coco, il magistrato sardo assassinato dalle brigate Rosse

2011, Giurista di vaglia e uomo probo: il 23 febbraio 2010 la facoltà di Giurisprudenza della nostra Università ha intitolato un’aula al prof. Antonio Ferdinando Basciu

2012, Tra codici e politica: un prestigioso sardo del Novecento / il magistrato tempiese Antonio Azara

2013, Studioso insigne: Franco Ledda, l’illustre docente di diritto amministrativo scomparso nel Duemila

2014, Giurista doc: un grande docente di diritto civile, in cattedra a Cagliari dal 1939 al 1975 / Lino Salis

2015, Da Monte Urpinu alle Alpi: storia del cagliaritano Renzo Frau, padre dell’omonima, celeberrima poltrona

2016, Gentile, riservato, inflessibile: Carlo Piana, l’illustre magistrato deceduto a Cagliari lo scorso febbraio

2017, Sotto la lente del potere: i documenti d’archivio ci permettono di conoscere il giudizio sui sardi formulato da vari viceré sabaudi in carica dal 1720 al 1848

2018, Ricerca scientifica, impegno civile e politica: Nereide Rudas, la scienziata della mente deceduta in città nel gennaio 2017


Fonte: Gianfranco Murtas
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