Don Spettu, la profezia come impegno. Liberi per coscienza, e quella volta trattando del giovane clero...
di Gianfranco Murtas

Sono adesso passati dodici anni dalla nostra perdita amara quanto poche altre nei circoli comunitari, di religione e di solidarietà sanitaria, della Sardegna e in specie di Cagliari. La morte di don Efisio Spettu, di un uomo ed un prete entrato con delicatezza ma anche con pieno e vigoroso carisma nella vita personale di molti moltissimi, e tanto più negli spazi della umanità toccata dalla malattia – la stessa che avrebbe infine chiamato anche lui a renderle conto – arrivò straziando la diocesi di Cagliari e le altre isolane, ed orfanando noi suoi più prossimi, svuotandoci di energie mentali, forse disorientandoci e però anche istruendoci. Quanto istruendoci!
Era stato ordinato presbitero, don Efisio 24enne licenziato in teologia, reduce dalle esperienze di studio e di vita (anche di vita sportiva, nel calcio e nel salto in lungo: 5,42 nel 1957!) di Cuglieri, nella sua Quartucciu, nella Quartucciu e nella parrocchia di San Giorgio che era stata di Raffaele Piras vescovo di Atri e Penne nel Pescarese all’inizio del Novecento. Quella parrocchia in cui bambino era cresciuto buon chierichetto del canonico Giovanni Tronci, per calarsi undicenne – per il triennio delle medie e il biennio ginnasiale – nell’austero e monumentale seminario al tempo ancora in via Università, nel capoluogo. Prete fatto meno d’un mese dopo la morte dell’amato Giovanni XXIII (e con quanta passione avrebbe presentato quarant’anni dopo, nella bella comunità di Mondo X del padre Morittu, un mio lavoro proprio su papa Roncalli e la Sardegna!), ed appena una settimana dopo la elezione di Paolo VI al soglio di Pietro.
(Viaggiando con i ricordi personali, ripenso adesso ai suoi “gemelli”, tutti già in benedizione anch’essi: Pietro Aresu, Aldo Piga, Bruno Porcu, Luciano Vacca, Piero Villasanta alla prima S. Tonsura nel novembre 1959; gli stessi per i ministeri dell’ostiariato e lettorato nel maggio 1961 ed ora però già a Cuglieri, essi tutti studenti del primo anno di teologia; ancora gli stessi con in più Vincenzo Fois per l’esorcistato e l’accolitato nel dicembre 1961; soltanto con Pietro Aresu per il suddiaconato nel dicembre 1962, e per il diaconato venti giorni dopo, per mani rispettivamente dell’arcivescovo indiano di Ranchi Pio Kerketta e del nuovo metropolita di Sassari Paolo Carta…).
Tanto era venuto dopo, sui fronti principali nei quali avvertì di potersi meglio esprimere, direi di poter/sapere materializzare le sue molteplici vocazioni: nella pedagogia (sugli scopi del vivere e le vie di raggiungimento degli obiettivi: religione e umanità e dignità civile fusi in un solo fascio) e nell’accompagnamento che egli sentiva come un flusso biunivoco, quello del dare e insieme del ricevere, meraviglioso scambio pur fra le mille inevitabili amarezze (e qualche sconforto), con chi alla malattia era inchiodato e con la malattia pur continuava ad avanzare nella propria missione, così creando sempre nuovi campi di pensiero e di sentimento sociale.
Ripensarlo professore al Dettori (vent’anni! dal 1964 al 1984) ed animatore/educatore (e direttore spirituale) in seminario – sempre fra adolescenti in formazione e giovanissimi al loro esordio nel teatro di responsabilità proprio dell’età adulta – e ripensarlo assistente nella fraternità/paternità (mai mai mai scivolata nel paternalismo!) dell’Unitalsi, a Lourdes e in Sardegna o nelle quotidiane visite presso le corsie dell’ospedale Businco, ripensarlo mente libera – comunionale sempre ma libera sempre – negli assetti organizzati della chiesa diocesana, cofondatore e tanta anima per trenta e più anni della creativa comunità di San Rocco e sostenitore degli apripista sestesi Franca e Dionisio e altri preziosi con loro, e protagonista amato/disamato, sciolto ma disciplinato, portatore del nuovo antico, quello conciliare! nell’istituzione (che è storica non meno che mistica), negli adempimenti larghi ma orientati del rettorato presso il seminario regionale, iniziatore anche del grande complesso edilizio ai piedi del colle San Michele… ripensarlo nella varietà e complessità dei suoi studi sardi e romani (per la pastorale sanitaria al Camillianum nel 1970-71, e insieme per la teologia spirituale alla Gregoriana) così come degli impegni e delle relazioni, anche e quante! quelle discrete e personali personalissime, segrete perfino e sincere fino a profondità inimmaginabili quando nell’altro avvertiva l’idem sentire e l’accosto trasmutava la gentilezza in empatia plenaria e naturale… ripensarlo così, il nostro Efisio, è come non averlo mai perduto… ed è cosa che ci fa bene.
È bello ripensarlo, don Efisio, con la sua umanità prorompente, di zampillante sincerità anche nelle occasionali ruvidezze, è bello ripensarlo estrapolando dall’immaginario film della sua vita i fotogrammi lourdais (meritò il titolo di cappellano della Grotta nel 1990) o di lui sintonico con l’ecumenismo planetario di Taizé e insieme compagno della piccola, microscopica comunità degli hanseniani di Is Mirrionis. È bello anche ripensarlo e rivederlo, ragazzo sedicenne costretto a ripetere, per indisciplina, la prima liceo a dominio gesuitico in stagione pacelliana…
Il 29 maggio 2015, ed in intreccio con qualche censura patita qua e là – da breve tempo monsignor Miglio si era presentato a noi e già ci aveva deluso –, postai nel blog di Enrico Lobina un articolo (“La questione della formazione del clero diocesano a Cagliari in una drammatica lettera di don Efisio Spettu del 2010”) che portava un documento importante a firma dell’allora ex rettore del Regionale: si trattava della lettera da lui indirizzata a tutti i vescovi della Sardegna ai quali faceva dettagliatamente noto la deriva, alla quale egli dolorosamente diceva di assistere soccombente, del seminario regionale negli ultimi anni della sua direzione e ancora in quelli successivi. Una deriva sofferta dalla maggiore istituzione formativa del giovane clero isolano per le decisioni autoritarie e sgradevoli dell’arcivescovo di Cagliari del tempo, successore di quel monsignor Alberti (e predecessore di Miglio) del quale a più riprese egli era stato stimato stimatissimo collaboratore.
Il mio sforzo fu quello di inquadrare la vicenda del seminario regionale – che da vicino seguivo perché interna agli studi che allora (ma tuttora!) andavo (vado) compiendo sulla Chiesa sarda dell’Otto- Novecento, sempre meglio conosciuta ed esplorata grazie anche ai numerosi rapporti personali e confidenziali intrattenuti da mezzo secolo con i protagonisti od operatori delle diverse agenzie neppure soltanto cagliaritane, fra curia, parrocchie, associazionismo e stampa… Presi posizione anch’io, mentre ancora con la pubblicazione di libri ed articoli od iniziative convegnistiche mi sforzavo di progressivamente dar corso a nuove occasioni di analisi e confronto dialettico sulle dinamiche ecclesiali, che ho creduto sempre rilevanti nel loro incastro con le complessità sociali e civili.
In questo 12° anniversario della scomparsa dell’indimenticato amico e maestro mio, sento di doverlo onorare ancora una volta, don Efisio Spettu, rievocando una pagina – ma invero fu un capitolo, anzi un libro, anzi un’enciclopedia – rivelatrice della sua vita tanto intima, di riflessione esistenziale e vocazionale cioè, quanto “pubblica”, se tale può dirsi d’una lettera a sua firma notificata, con tanta frustrata speranza, ai diversi responsabili delle comunità diocesane della Sardegna, i più dei quali non si mostrarono all’altezza del ruolo di riceventi positivi, non mostrarono coraggio intellettuale né schiena dritta, e invece si palesarono soccombenti al più penoso conformismo, non maestri esemplari ma impiegati del sacro. Meritando disistima, almeno la mia.
Tutto qui. Eccomi perciò a riproporre il documento che fu testimonianza d’un sentire prima che d’una responsabilità, e il mio accompagnamento. (Se il caso, proporrò successivamente – come documento per la storia della Chiesa locale di questo inizio di secolo e di millennio – anche quant’altro da don Spettu ebbi fiduciariamente proprio per la pubblicazione, e cioè per la condivisione, e con riferimento sempre alle vicende del suo amatissimo seminario regionale).
Una comunione che si sostiene con la critica
Il presente articolo riprende alcuni dei temi affacciati nei giorni scorsi su questo sito di Enrico Lobina (e in precedenza su quello di Fondazione Sardinia curato da Salvatore Cubeddu, nonché fin dal 2010 su quello di Vito Biolchini) in ordine al malessere vissuto dalla Comunione ecclesiale isolana tra un recente passato ed un bruciante oggi, come i casi di Villamar e Mandas rivelano. Assolutamente nuovo è il documento che ho creduto utile presentare, nella circostanza, ad autorevole supporto delle mie argomentazioni, primo di una serie di inediti, inizialmente destinato (così questo come gli altri) ad un libro-intervista che era in preparazione con don Efisio Spettu, già rettore del Seminario regionale della Sardegna. Da esso emerge come causa (non esclusiva) di un clima nel quale ben possono germinare, fra i pizzi scenografici della controriforma cinque-secentesca, episodi sgradevoli come quelli citati di Marmilla e Trexenta, o della pasticciata guerra sotterranea in cattedrale (con documentati ed abbondanti antecedenti, nello stesso duomo, risalenti agli anni ’80 e ’90 e radicati sul conflitto fra il Capitolo dei canonici e la parrocchia), ecc. un costume clericale autoreferenziale, e dunque non evangelico, distaccato dagli interessi veri della comunità e avverso ad ogni intelligenza critica e propositiva.
Le problematiche poste all’attenzione della cronaca sono la punta di un iceberg del malessere grave che colpisce da anni la Chiesa sarda e quella cagliaritana in particolare. Non di recenti origini, ma certamente aggravatosi negli anni del (rovinoso) governo pastorale dell’arcivescovo Mani. Si ricordino le polemiche accesesi per il trasferimento d’autorità di don Mario Cugusi o per l’arrogante rifiuto della ordinazione di un diacono accusato, e poi discolpato, di diffamazione ai danni di un parroco romano, quelle per gli spropositati costi sopportati dalle casse pubbliche in vista dell’allestimento di un college “cinque stelle” al posto del seminario diocesano risalente ai primissimi anni ‘60, quelle per le esose tariffe praticate in occasione dell’amministrazione dei sacramenti (come avvenne, con clamore, a Serri, ecc.).
Di tanto pagò le conseguenze lo stesso don Spettu, di fatto rimosso dalla direzione del Seminario regionale a lui affidata nel 1992. Egli vanamente tentò, rivolgendosi sia ai vescovi locali che ai vertici vaticani, di segnalare i veri e propri abusi, anche giuridici, nella amministrazione del processo formativo dei sacerdoti e la vera e propria decozione dello slancio evangelico dei giovani preti, fra i quali non mancavano gli immaturi e di debole identità (meritevoli di sostegno e rinforzo in una intensa prossimità amicale, non certo di essere spediti all’altare, all’ambone o al confessionale dopo un sessennio di studi lontano dalla propria terra e dalla propria gente). E non sarà forse un caso, io ritengo, che fra gli ordinati negli ultimi lustri si sia accresciuta la tendenza malata del “lefebvrismo” più reazionario, in sacrestia e in piazza.
Debbo spendere qui due parole sulla figura, nobile e cara, di don Efisio Spettu. Egli è stato uno degli esponenti più in vista del presbiterio cagliaritano e sardo per un intero mezzo secolo, come animatore di comunità ecclesiali e assistente dell’UNITALSI, come cappellano dell’ospedale Oncologico e, come ho ricordato, rettore, dopo che educatore, del Seminario regionale in capo alla Conferenza Episcopale Italiana. Non se ne è parlato, opportunamente, nella circostanza dolorosa della sua morte – avvenuta, nel suo stesso ospedale, domenica 14 luglio 2013 –, ma può oggi dirsi pubblicamente esser stato istruito, in Vaticano, il fascicolo della sua promozione vescovile, prima che una corrente arida e senza fede, dalla stessa Chiesa sarda, ne ottenesse il fermo e l’archiviazione. Si erano profilate per lui le sedi possibili di nuovo ministero, giusto undici d’anni fa, fra Ales, Iglesias ed Ozieri. Lo avremmo perduto, nella consuetudine, come cagliaritani, altri lo avrebbero acquistato con vantaggio non misurabile ma comunque su un profilo di eccellenza: circa gli aspetti umani, che tutti gli altri ricomprendono, circa quelli culturali e pastorali, anzi della fraternità che accompagna rispettando i tempi e i modi di ciascuno. Ha lasciato una impronta della sua personalità nelle diverse comunità sociali ed ecclesiali da lui frequentate o addirittura promosse, resterà nel tempo una figura grandemente positiva di cui gli storici della Chiesa sarda dovranno tener conto nella ricostruzione di diversi passaggi del secondo Novecento e dell’esordio del nuovo secolo. Si spera che noi tanti che abbiamo del materiale documentario sulla sua persona e la vastità e ricchezza del suo ministero possiamo conferirlo a un superiore ambito perché gli sia intitolata una associazione/fondazione o comunque un centro che combini al meglio socialità e cultura, il patrimonio morale della comunità cagliaritana di San Rocco, dell’UNITALSI, dell’assistenza sanitaria in teoria e in opera, del Seminario regionale restituito a una funzione comunionale fra le diocesi isolane.
Amicizia ed intimità consolidate nell’arco di oltre tre decenni ci portarono, già nel 2010 e l’anno successivo, ad impostare un lavoro insieme: un libro-intervista volto a ricostruire pagine significative della storia ecclesiale isolana. Ne davano spunto il quarantesimo del trasferimento del Seminario regionale e della Facoltà teologica da Cuglieri a Cagliari (avvenuto nel 1971, quando arcivescovo di Cagliari e presidente della CES era il cardinale Sebastiano Baggio) – trasferimento cui egli aveva concorso non certo dalle retrovie, rinunciando ad avanzamenti negli studi specialistici alla Gregoriana, condotti in stretta connessione con la sua missione cagliaritana – e il suo cinquantesimo di messa che si approssimava, e che dolorosamente avrebbe coinciso con la sua scomparsa.
Fu in quel contesto che, riunendo memorie e documenti tante volte – per trent’anni! – oggetto dei nostri incontri di studio, spirituali ed amicali, iniziai a raccogliere da lui, riordinate, le informazioni che egli riteneva dovessero essere condivise circa talune modalità scriteriate del governo diocesano di Cagliari i cui effetti si scaricavano sui minimi nella scena. Perché sempre è così, nulla rimane – né il bene né il male – senza effetti. E gli effetti sarebbero stati, sono stati, in un ancor più accentuato ed ancor più supponente leaderismo nei vari contesti parrocchiali o curiali, nella incapacità di procedere ad armoniche intese secondo le direttive di un Concilio Plenario rimosso, dopo che da Mani, anche da Miglio.
Anticipammo il capitolo relativo alle vicende del Seminario regionale, istituzione (affidata ai padri gesuiti) operativa dal 1927 con l’intenzione di meglio associare, in una comunità educante, non soltanto in un collegio di studio e disciplina, i giovani chiamati al sacerdozio cattolico provenienti dalle varie diocesi sarde, superando così passate divisioni fra i campanili talvolta perfino in sconveniente reciproca concorrenza. (Parte rilevante di quelle prime conversazioni al registratore rifluì in un articolo mio uscito sul sito di Cresia del 2 agosto 2011 e, con maggiore espansione argomentativa, nel quaderno “Don Efisio Spettu e la Chiesa come progetto di comunione” del 2013. Aggiungerei che un contributo illuminante, sulla stessa linea, don Spettu stesso fornì, la sera del 13 giugno 2011, nel convegno che l’associazione Cresia, il MEIC e altri organizzarono all’Ostello della Gioventù di Cagliari nel decennale della conclusione del Concilio Plenario Sardo. Io fui chiamato a svolgere la relazione introduttiva ed egli, dopo l’arcivescovo Tiddia, i professori Turtas, Pinna e Bandinu, don Mario Ledda ecc., intervenne con un discorso la cui registrazione audio-video si trova su internet nel sito di Fondazione Sardinia: parlò per undici minuti, il sorriso sempre sulle labbra ma lo scoramento evidente nel tono della voce per dover ripetere per l’ennesima volta, vox clamantis in deserto, la sua denuncia e il suo appello).
L’evoluzione anche culturale connessa all’evento del Vaticano II, l’assegnazione dei seminari alla competenza delle Conferenze vescovili regionali (in devoluzione dalla Santa Sede), le linee deliberative del Concilio Plenario Sardo chiusosi nel 2001 marcarono insieme il radicamento della istituzione seminaristica nel territorio largo, interdiocesano cioè, e la responsabilità diretta dei vertici episcopali chiamati, in una regione ecclesiastica, a fare comunione, partendo proprio dalla formazione del giovane clero, o da una sua formazione all’altezza dei tempi e delle complessità sociali presenti.
Paradossalmente, giusto quando si trattò di dare sostanza a questo indirizzo, tutto si rovesciò: l’arcivescovo Ottorino Pietro Alberti, che pur fra molti errori (a mio soggettivissimo parere sempre argomentato ed a lui per primo notificato) aveva mantenuto, per l’alto sentire e il profilo intellettuale, un’immagine di dignità alla Chiesa sarda, venne avvicendato da don Giuseppe Mani, fiorentino di provenienza (e, ritengo, pensione) militare e precedenti servizi come ausiliare a Roma. Gli fu assicurato – lo raccontava amabilmente il cardinale Canestri – che l’ufficio metropolitano di Cagliari gli sarebbe valso, quasi per automatismo, la presidenza della CES già nel 2003; i vescovi optarono però, pressoché alla unanimità, per l’arcivescovo di Oristano Pier Giuliano Tiddia, segretario generale del Concilio Plenario Sardo, giurista dotto e uomo di mediazione. Forse lo smacco – ma è solo un’ipotesi – portò il nuovo presule cagliaritano a pensare tutto in chiave locale, infischiandosi – è il verbo giusto, giusto e deprimente – dell’interesse comunionale isolano, intanto sfrattando il Regionale dall’ala del mastodontico complesso di San Michele, senza averne stretta necessità, e non pazientando quel tanto che ancora serviva, allo stesso Regionale, per avere la disponibilità della sua nuova sede ancora in costruzione. In secondo luogo, sottraendo progressivamente alla comunità del Regionale la componente cagliaritana e dislocandola o al Seminario diocesano con l’ufficio proprio degli animatori oppure alle università romane. In terzo luogo misconoscendo la autorità anche canonica del rettore, e procedendo ad ordinazioni presbiterali senza tener conto del parere di questi, responsabile primo della équipe educativa, come invece imposto dal codex.
Allorché la maggioranza dei vescovi sardi, sia pure per una incollatura sul concorrente, votò il nome di don Mani per la presidenza della CES, alla fine del 2006 – dato il ritiro dell’arcivescovo Tiddia – tutto si aggravò ancor più, per il vero e proprio insulto che il presule fiorentino-cagliaritano rivolse al suo ufficio istituzionale: perché, diretto riferimento del Seminario regionale e gran cancelliere della Facoltà teologica, di entrambe le istituzioni fu nei fatti, paradossalmente, l’avversario. Ciò si mostrò sia montando, in ambito diocesano, un seminario parallelo e concorrente (impropriamente Maggiore), cosiddetto vocazionale, sia disperdendo fra la Gregoriana, la Lateranense, il Collegio Capranica, il Seminario Lombardo e quello Francese ecc. nella capitale, e perfino a Friburgo in Brisgovia – per allargare ancor più menti ed orizzonti di dottrina – il plenum dell’alunnato.
Nella logica del concavo/convesso, se dunque alla diocesi di Cagliari era toccata, per merito del suo arcivescovo, l’ingloriosa medaglia dell’estraneazione dalle sorti del Seminario regionale e della Facoltà teologica, alle altre era spettata, per merito dei rispettivi ordinari (ma qualche eccezione ci sarà pur stata), la passiva presa d’atto d’un inquadramento gregario, o cadetto. A Cagliari potevano studiare i chierici provenienti/destinati ad Ales o Tempio o Nuoro, Oristano e Lanusei – evidentemente di serie B –, a Roma e Friburgo i cagliaritani, prenotati ai parrocati maggiori e magari alle cattedre lasciate forse vacanti (in ipotesi) dai professori della Compagnia di Gesù.
Don Spettu considerò questi fatti miserevoli, ne rilevò nel tempo, oltreché la stravaganza istituzionale e la malvagità dell’esempio, il danno operativo che la Chiesa sarda e, vorrebbe dirsi, la società sarda ne avevano e ne avrebbero avuto. Dopo averne trattato fino allo sfiancamento con il suo arcivescovo, ne parlò documentatamente ai vescovi in Conferenza, ne parlò a Roma a due cardinali, ne scrisse perché restasse traccia per la storia. Ancora non smise nel 2010, benché ormai fuori, emarginato dal suo arcivescovo/presidente. Le sue ragioni rimangono.
È ben vero che il nuovo arcivescovo Miglio ha imposto dei correttivi, e la diocesi di Cagliari ha ripreso a indirizzare al Regionale (e alla Facoltà di via Sanjust) i suoi chierici iscritti ai primi anni del corso teologico, ma resta al vertice della Chiesa cagliaritana una indolenza perdente che, continuando a mettere in non cale norma e spirito del Concilio Plenario Sardo, manifesta fastidio ad ogni contributo critico, sfugge al confronto delle idee e delle esperienze, tarda a comprendere e a rimediare come i casi appunto di Villamar e Mandas dimostrano.
Ecco la lettera, datata 9 settembre 2010, indirizzata da don Efisio Spettu agli «Eccellentissimi Vescovi componenti la Conferenza Episcopale Sarda» ed a ciascuno di essi recapitata:
«Sono trascorsi pochi anni da che il mio ministero ha preso una strada diversa. Dal 2006 non sono più Rettore del Seminario Regionale. I miei ultimi anni da Rettore sono stati piuttosto difficili, soprattutto a causa del conflitto con il mio Vescovo, conflitto che ha avuto come sfondo proprio il Seminario, la diversa visione che di questa struttura hanno i documenti della Chiesa, a cui mi appellavo, e Mons. Mani.
«Sono andato via con grande sofferenza, come quando si è costretti ad abbandonare qualcuno o qualcosa cui si tiene molto, qualcosa cui si è dedicato la vita o una parte notevole di essa. Qualcosa che si è amato e si ama tanto. Questo è stato il mio rapporto con il Seminario al quale ho dedicato vent’anni del mio ministero, 14 come Rettore del Regionale, dal 1992 al 2006, e 6 come animatore dei teologi dal 1971 al 1977, quando il Seminario fu trasferito da Cuglieri a Cagliari. Gli anni diventano ventisette se si aggiungono i 7 come padre spirituale del Seminario Diocesano.
«Un tempo lungo che ha visto decine di giovani, alcuni giovanissimi altri meno, percorrere un cammino che per molti si è concluso con l’ordinazione, ma che rimane, credo, nella storia privata di ciascuno come periodo importante che segna profondamente la persona.
«Sono andato via con amarezza non senza avere fatto presente a più riprese la china sbagliata che, ai miei occhi, il Seminario stava prendendo, una china che l’avrebbe portato in breve tempo al depauperamento e alla fine alla spoliazione del suo ruolo, del suo significato.
«Avevo fatto notare che il Seminario Regionale nato per essere, secondo le parole di vari documenti, Istituzione a servizio dell’evangelizzazione e della pastorale, “al fine di incrementare la comunione tra le diocesi dell’Isola”, veniva ridotto a un mero collegio per alcuni seminaristi, mentre una gran parte di essi venivano spediti in altri siti a completare o iniziare il lungo cammino di discernimento e di preparazione al presbiterato.
«Tutto ciò senza tener conto che “L’importanza di questo organismo regionale si coglie ancor più oggi, quando la complessità della missione evangelizzatrice e la comunanza dei problemi pastorali della Sardegna, pongono ai sacerdoti più che mai l’esigenza di un’impegnativa formazione comune” (La Chiesa di Dio in Sardegna all’inizio del terzo millennio – Atti del Concilio Plenario Sardo, cap. VI, n. 42, §§ 1 e 2, pag. 66). Svuotare il Seminario ha significato svilirlo del suo ruolo, privando anche la Facoltà Teologica della Sardegna di giovani validi e della possibilità di un confronto proficuo e produttivo a molti livelli.
«L’avvio a questa operazione è stato dato dalla decisione della Diocesi di Cagliari, presa senza nemmeno una parola, una spiegazione. Vorrei ripercorrere in sintesi la storia di questa “spoliazione” cominciata nel 2003, coincisa con l’arrivo a Cagliari di Mons. Mani.
«Sembra assurdo, ma dopo solo otto giorni dal suo ingresso in Diocesi, due giorni dopo aver incontrato l’equipe educativa del Seminario, senza discuterne e nemmeno farne parola, ha trasferito tre seminaristi del sesto anno nel Seminario Arcivescovile, promuovendoli all’istante animatori dei pochi ragazzi ivi presenti. Un quarto veniva spedito a studiare a Roma, anche questo senza alcuna preventiva consultazione. I tre del sesto anno, successivamente, sono stati ordinati diaconi (novembre 2003) ed in seguito presbiteri (maggio 2004), senza che mi venisse richiesto il parere, previsto dalle norme del Diritto Canonico (can. 1051). Quella prima incursione in Seminario ci ha lasciato increduli per la forma e la sostanza.
«Abbiamo cercato in tutti i modi di farci ascoltare, di discutere un metodo che sembrava discutibile. Non si rivendicavano poteri di nessun tipo, ma collaborazione, coinvolgimento, attenzione ad una struttura educativa che non pretendeva di essere unica ma parte di una comunione cui si è creduto.
«A febbraio del 2005, nel corso di una assemblea della CES cui ero stato invitato, avevo mostrato le tante perplessità che come équipe educativa sentivamo, soprattutto nei confronti di una avvertita distanza tra noi e le proposte di Mons. Mani. La nuova costruzione, i cui lavori furono avviati nel 2000, non era stata ancora consegnata, i problemi non riguardavano solo la logistica, ma soprattutto il ruolo che veniva via via svuotato di importanza.
«All’inizio dell’anno 2005-2006 altri sette seminaristi venivano trasferiti a Roma. È stato allora che ho pensato di ricorrere a Roma, informando della situazione che stavamo vivendo la Congregazione per l’Educazione Cattolica, e su suggerimento di Mons. Romeo, all’epoca Nunzio Apostolico in Italia, anche il Card. Re, allora Prefetto della Congregazione per i Vescovi.
«Cosi il 5 settembre 2005 ho incontrato i responsabili della Congregazione per l’Educazione Cattolica ed ho illustrato loro il pro-memoria preparato per il Card. Grocholewski, Prefetto. Subito dopo ho incontrato il Card. Re.
« È stata questa una decisione sofferta, presa per obbedire alla mia coscienza che mi fa ritenere doveroso un servizio di fraternità e di verità. In quell’incontro esprimevo perplessità, disagio e timori. Speravo che qualche decisione venisse presa, che si riflettesse su quanto stava avvenendo, che in qualche modo si mettesse fine a qualcosa che appariva sbagliato, contro le norme e anche contro il buon senso.
«Successivamente in una lettera inviata il 4.10.2005 alla CES, al suo presidente, Mons. Tiddia, e a tutto l’Episcopato sardo, ho descritto la nostra situazione facendo notare l’aperto contrasto con quanto previsto in importanti documenti.
«In essi viene detto che tutti “i seminari regionali italiani” sono stati trasferiti dal 1966 per volontà del Papa “alla diretta giurisdizione delle relative Conferenze Episcopali Regionali”, con “l’impegno di ogni singola Conferenza Episcopale di considerare il Regionale come il proprio Seminario Maggiore con obbligo da parte dei Vescovi cointeressati di inviare ad esso i propri alunni” insieme all’obbligo che “nella Regione dove esiste un Seminario Regionale Maggiore non deve sussistere alcun Seminario Maggiore Diocesano” (Criteri e suggerimenti pratici – lettera circolare della Sacra Congregazione n. 472/66 del 6 luglio 1966).
«Contro questa previsione, scrivevo, “complessivamente i seminaristi di Cagliari che sono o andranno a studiare a Roma sono dieci: quattro frequenteranno il terzo anno di teologia, uno il quarto, cinque il sesto, due dei quali già sacerdoti, ordinati nel corso del quinto anno – che sono impegnati come animatori nel Seminario minore o nella comunità vocazionale diocesana. Sono dodici i seminaristi dell’Arcidiocesi di Cagliari destinati ad altre sedi e non mi pare ragionevole che il Seminario Regionale possa fare a meno di un numero così grande di alunni della Diocesi più estesa della Sardegna. […] Un solo seminarista della Diocesi di Cagliari è stato iscritto al primo anno e farà parte della nostra comunità”.
«Esprimevo in quell’occasione il timore che oltre a privilegiare gli studi romani quelle decisioni tendessero soprattutto a staccarsi dal Regionale per formare un Seminario parallelo, con alunni iscritti alla Facoltà Teologica.
«Nel frattempo la nomina di Mons. Mani a Presidente della CES, avvenuta nel dicembre 2006, da cui in modo particolare il Seminario Regionale dipende, faceva sperare che si potesse riequilibrare la situazione, invertendo la rotta. Pensavo che, al di là dell’impegno pastorale legato alla realtà diocesana, la responsabilità di presiedere la Conferenza Regionale potesse risolversi nella ricerca di quella comunione ecclesiale tra le diocesi che, secondo gli intenti del Concilio Plenario Sardo, dovrebbe essere incrementata. Cosi purtroppo non è stato.
«Oggi siamo arrivati al culmine: nel corso dell’anno accademico che sta per cominciare nessun seminarista e nessun presbitero “cagliaritano” farà parte del Regionale. Verrà a mancare, cioè, una presenza che, dal 1927 al 1971 a Cuglieri e, dopo il trasferimento a Cagliari dal 1971 fino agli anni 2003/2004, è stata importante e molto numerosa. Quest’anno, inoltre, i seminaristi saranno 42, il numero più basso mai raggiunto nella storia del Seminario Regionale Sardo. Che tristezza.
«Sono presbitero della Chiesa che è in Cagliari, il Seminario ha fatto parte in maniera rilevante del mio ministero. Il futuro di quella comunità mi interessa, anzi mi appassiona ancora adesso, la sua sorte non mi lascia indifferente anche se sono chiamato ad un’altra realtà. Quanto è successo mi addolora e mi interroga. Quale ragione ha spinto il nostro Pastore a creare un’altra agenzia educativa, parallela? Chi ha consultato per prendere tale decisione, visto che parroci, presbiteri e tanti altri erano e sono contrari? È possibile che, come sembra, sia stata una decisione presa in perfetta solitudine, senza la consultazione di “saggi presbiteri” che Mons. Mani spesso cita?
«Certo, il Codice di Diritto Canonico prevede (can. 237) la possibilità di un Seminario Maggiore Diocesano, ma lo stesso Codice prevede anche (can. 242) la Ratio della formazione sacerdotale “emanata dalla Conferenza Episcopale sulla base delle norme fissate dalla suprema autorità della Chiesa e approvata dalla Santa Sede”, le cui norme “siano osservate in tatti i seminari, sia diocesani sia interdiocesani” (can. 242, § 1).
«I tanti documenti ufficiali, papi, vescovi, clero, il Concilio Plenario Sardo, con le loro norme, le direttive, le circolari, in questi 83 anni hanno tutti dato un’indicazione sbagliata? Solo Mons. Mani vede giusto? Chi controlla? La sua è stata forse una, preventiva, mancanza di fiducia nei confronti delle persone, Rettore e animatori non di sua scelta, che si trovavano a dirigere quella realtà?
«L’amarezza negli anni è cresciuta, così come è cresciuto il disagio nei confronti del mio Vescovo.
«L’impressione è che Mons. Mani si ritenga assolutamente autosufficiente, che non abbia bisogno di collaboratori, ma di meri esecutori. Che abbia difficoltà a discutere e non solo con il popolo, ma anche con chi dovrebbe essere anche formalmente consultato.
«La mia esperienza è stata di essere sempre e inesorabilmente “scavalcato” nel senso che sono stato spesso cancellato nella mia funzione di Rettore, un ruolo di responsabilità e di servizio alle persone che non può essere di mera esecuzione della volontà altrui. In Diocesi chi ha difficoltà ad eseguire, chi non si allinea, viene sistematicamente emarginato. Questo è apparso eclatante anche per quanto riguarda il Seminario Minore che, in sette anni, ha contato tre rettori ed attualmente ne è privo, disattendendo anche in questo caso il Codice (cann. 238 e 239).
«Che dire oggi, a distanza di anni, in un momento difficile per la Diocesi di Cagliari e soprattutto per il suo presbiterio?
«Questa conclusione, lo svilimento del Regionale, il suo effettivo dimezzamento, come già detto, mi rattrista e mi ha spinto a scrivere, a prendere ancora posizione in nome di quei ventisette anni intensamente dedicati a questa realtà di Chiesa che sento sempre fortemente mia.
«Le mie parole, Eccellenza, non sono di denuncia o di rivendicazione. Vogliono essere un servizio alla verità, anche se scomoda da dire e da accogliere.
«Solo la verità rende liberi, permette di vincere il timore dell’emarginazione, supera il pregiudizio e la tentazione molto umana di vivere solo il proprio privato con i suoi problemi e le sue fatiche. Da presbitero, ma prima ancora da cristiano, amo la Chiesa, la sento mia, partecipo alla sua vita e soffro delle sue difficoltà.
«Nell’affidarLe queste mie riflessioni, colgo Eccellenza l’occasione di salutarLa cordialmente e di chiedere la Sua paterna benedizione».
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