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Gianfranco Murtas

Don Mario Cugusi, quella preziosa relazione sulla chiesa del Santo Sepolcro e la sua Arciconfraternita

di Gianfranco Murtas

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Nello scorso luglio, dal 17 al 26, avevo creduto di accompagnare il giubileo anagrafico e quello religioso di don Mario Cugusi – 75 anni l’età registrata nei libri dello stato civile, 50 gli anni di messa – con una serie di articoli che, per il più, riprendevano interventi pubblicati, sulla stampa o nei libri, dallo stesso don Mario su diversi argomenti e soltanto li introducevano e contestualizzavano per una migliore ricezione. Certissimamente si è trattato, da parte mia, di una raccolta parziale (e forse troppo frettolosa) ma comunque, intendendo presto riunire in un quaderno il disperso comunque censito, ho pensato di aggiungere adesso un altro contributo di valore a firma dello storico parroco di Sant’Eulalia e, da un decennio circa, parroco del SS. Salvatore in Serdiana.

Si tratta di “L'Arciconfraternita della Morte della Chiesa del Santo Sepolcro di Cagliari”, la relazione da lui presentata nel 2006 a Fordongianus, nel quadro dei convegni organizzati, fra il 2003 ed il 2007, dall’Associazione Culturale “A. Cuncordia” con sede proprio in Fordongianus e abile presidenza di Giannetto Oppo, sulla fascinosa tematica de “Il culto dei morti in Sardegna e nel bacino del Mediterraneo”. Questo anche il titolo della pubblicazione degli Atti, uscita per i tipi di IRIS edizioni (Oliena) a cura della stessa benemerita Associazione e di Dolores Turchi, notissima studiosa barbaricina e scrittrice di vaglia.

Ecco di seguito il testo della relazione presentata da don Cugusi nella seduta che vide la partecipazione anche degli antropologi Massimo Centini ed Enrico Cardesi.


Della chiesa cagliaritana del Santo Sepolcro

Prima di parlare dell'Arciconfraternita del SS. Crocifisso e dell'Orazione o della Morte è importante fare la conoscenza del sito nel quale questo sodalizio ecclesiale cinquecentesco fu fondato.

Le indagini archeologiche effettuate negli ultimi quindici anni nel quartiere antistante il porto di Cagliari, oggi chiamato Marina e anticamente Llapola o La Pola, hanno costretto gli storici a rivedere radicalmente la fisionomia di Karales, non soltanto quella più conosciuta e cioè la Forma Karalis di Dionigi Scano, ma anche tutte quelle ricostruzioni date per affidabili fino agli anni del primo dopoguerra, che attribuivano al quartiere della Marina un ruolo periferico nell'ambito della Cagliari romana e sotto il profilo urbanistico e sotto quello culturale, quasi fosse un quartiere meno nobile e senza radici.

Soprattutto gli scavi sotto la chiesa parrocchiale di Sant'Eulalia, che con i suoi 800 metri quadri circa di area archeologica è oggi il percorso archeologico urbano più vasto in Sardegna, ma anche le più recenti indagini stratigrafiche effettuate nell'area del Santo Sepolcro, la chiesa cioè dell'Arciconfraternita di cui parleremo, hanno modificato in modo rilevante questa concezione urbanistica circa l'importanza del quartiere della Marina nella Cagliari romana.


Le indagini archeologiche cui si è fatto cenno attestano che non soltanto il quartiere del porto non era periferico rispetto al cuore della città, localizzato tra l'odierna piazza Yenne e quella del Carmine, ma in epoca tardo antica, in una città policentrica, il quartiere della Marina conobbe una nuova urbanizzazione e forse costituiva il centro "direzionale" della nascente Chiesa cristiana. Le grandi strutture altomedievali emerse nello scavo sotto la parrocchiale, che potrebbero essere state parti di un grande complesso monastico, insieme all'immensa quantità di reperti di epoca paleocristiana rinvenuta nel sito, documentano l'importanza del luogo nei primi tempi della diffusione del Cristianesimo (delle duemila cassette di reperti rinvenuti una buona parte sono ascrivibili all'epoca paleocristiana).

Riprendendo il discorso sul sito dell'Arciconfraternita della Morte, appena sei anni fa, nel giugno del 2000, quando la chiesa del Santo Sepolcro ospitò la sede della Parrocchia per consentire il migliore svolgimento dei lavori di restauro della parrocchiale, mentre si stavano effettuando dei lavori di deumidificazione nei locali della Sacrestia del Santo Sepolcro, appena dopo la rimozione dei pavimenti, riemersero in una successione di poche settimane l'una dall'altra, prima una vasca battesimale e poi una ricchissima stipe votiva, forse facente parte di un tempio pagano databile I-Il sec. d. C., quest'ultima ben databile per l'abbondanza dei reperti rinvenuti, la prima invece solo grazie a confronti con manufatti simili.

Si ripete nel Santo Sepolcro quanto si ipotizza possa essere avvenuto nell'area archeologica sotto la parrocchiale di S. Eulalia, dove è stato rinvenuto un tempietto tardo punico con tanto di ricca stipe votiva: siamo di fronte ad un classico dell'archeologia in generale, non solo in Sardegna, e cioè la continuità nella destinazione d'uso dello spazio.


Per quanto riguarda lo scavo nella chiesa del Santo Sepolcro, ovviamente quello riguardante il Battistero, pur non avendo restituito reperti che consentano una precisa datazione (a parte il tratto di "Giordano" che appariva appena rimosso il pavimento), rifacendoci all' organizzazione che la Chiesa andava dandosi, soprattutto dopo l'editto costantiniano, si possono comunque avanzare delle ipotesi.

I raffronti con altri battisteri, soprattutto con quello della Basilica di S. Giovanni in Laterano, cattedrale di Roma, e con quello rimesso in luce negli scavi recenti sotto il duomo di Aosta, entrambi datati grazie ai materiali o anche ad altre fonti (IV sec. d. C.) conducono a qualche ipotesi.

Il battistero nei primi secoli del Cristianesimo era proprio (ed esclusivo?) delle chiese cattedrali, essendo il Battesimo oltre che momento sacramentale di iniziazione alla pienezza dell'esperienza della fede anche momento di "scrutinio", strumento di controllo da parte dell'Autorità ecclesiastica dell'ortodossia della fede di chi chiedeva di essere ammesso nella Chiesa.

Questa digressione per sottolineare l'importanza del sito nel quale, in modo embrionale e informale nel 1519 e in modo ufficiale e canonico nel 1564, sorgerà l'Arciconfraternita del SS. Crocifisso e dell'Orazione o della Morte.

L'area dove sorgeva il Battistero (e forse non distante la prima cattedrale di Karales) fu abbandonata, come tutta la città antica nei secoli VIII -XII, anche se questa tesi classica trova oggi giustificate obbiezioni, e fu costruita la città lagunare, la città giudicale di S. Igia.

Il sito cadde forse in abbandono ma sicuramente, come vedremo, non si perse memoria dell'importanza di questo.

A partire dal Duecento, con la costruzione della Cagliari pisana e poi catalano-spagnola, nel luogo del Battistero paleocristiano fu costruita una chiesa romanica di cui si è trovato un superstite elemento architettonico nella cripta cimiteriale, rinvenuta nel 1996, durante i lavori di deumidificazione e restauro della chiesa.

  

Diversi studiosi hanno avanzato l'ipotesi che questa chiesa romanica possa essere stata la sede dei Templari a Cagliari. Tenendo conto dell'importanza dell'Ordine di cui si tratta, delle enormi possibilità finanziarie dello stesso, del fatto che già nel 1635 lo storico spagnolo Bonfant nel suo "Trionfo dei Santi in Sardegna" sostiene che la chiesa sarebbe sorta sopra un monastero dei Templari che a loro volta avrebbero costruito sui ruderi di un monastero distrutto dai saraceni e risalente ai tempi del papa Gregorio Magno e del fatto che anche in documenti cinquecenteschi la chiesa è presentata con la sua titolatura più antica, quella cioè del Santo Sepolcro, l'ipotesi non è da escludere. Nella bolla di fondazione dell'Arciconfraternita si legge che il Vescovo di Cagliari Antonio IV Parragues de Castillejo dona alla neoeretta Arciconfraternita la chiesa di San Puccio, popolarmente conosciuta come chiesa del Santo Sepolcro.

Si potrebbe pensare che gli spagnoli col loro arrivo portarono anche i loro santi: dal 1371 la chiesa parrocchiale ebbe come titolare S. Eulalia e in una chiesa prestigiosa, soprattutto per il suo passato, introducono la devozione al patrono della Spagna, S. Giacomo ("Puccio" sarebbe infatti il vezzeggiativo abbreviato di lacopuccio).

Un'altra ipotesi legherebbe la dedicazione della chiesa a S. Puccio dalla devozione a questo santo introdotta a Cagliari dai Pisani.

Ciò nonostante il popolo continuò a chiamarla col suo nome antico, col titolo con il quale fu edificata: chiesa del Santo Sepolcro, e questo appunto condurrebbe all'Ordine del Tempio. L'impianto della chiesa risale al primo Quattrocento: dello stile originario in cui fu costruita conserva la capilla major, con le cinque gemme pendule raffiguranti in quella centrale la Risurrezione del Signore e nelle altre quattro gli evangelisti.

La chiesa nasce ad una navata e sulla navata si aprivano in origine dieci piccole cappelle, cinque per parte, non comunicanti tra di loro.

La radicale trasformazione della chiesa avvenne nel corso del secolo XVII, sacrificando due delle cappelle del lato sinistro per realizzare la grande cappella della Pietà (chiamata ancora oggi volgarmente "cappellone").

Va detto che in questa chiesa del Santo Sepolcro godeva di grande venerazione il simulacro raffigurante la Madonna che regge sulle ginocchia Gesù deposto dalla croce: il più antico simulacro raffigurante questo momento della vita della Madonna è quello oggi "intronizzato" in questa grande cappella, mentre un altro, più recente e più "michelangiolesco" è oggi collocato nel Museo del Tesoro di Sant'Eulalia.

Per quanto riguarda la statua più antica della Pietà, opera forse di un intagliatore itinerante legato a gusto stilistico e spiritualità teutonici, forse intagliata per essere appoggiata a qualche parete, [essa] ebbe da sempre grande venerazione. E già nel primo impianto della chiesa in stile gotico-catalano esisteva una cappella dedicata alla Pietà.

La statua però, giudicata poi "rozza" e "volgare", in base al decreto del Concilio di Trento che nella polemica antiprotestante esigeva certi canoni stilistici perché i simulacri potessero essere esposti alla venerazione dei fedeli nelle chiese, non avendo superato questo esame avrebbe dovuto essere bruciata.

I devoti di questa chiesa però anziché mandare al rogo la statua la riposero in qualche angolo nascosto della chiesa e una volta scemato il rigore iconoclasta tridentino la riproposero alla devozione e avendole riconosciuto anche interventi miracolosi le dedicarono una nuova cappella, ben maggiore della precedente. Promossa dalla Arciconfraternita della Morte, proprietaria della chiesa, con la sponsorizzazione del "viceré" Antonio Lopez de Ayala, grato alla Madonna per la guarigione della figlia Abelanna, e con il contributo di duemila reali concesso dal devotissimo re spagnolo Carlo II, si diede avvio alla costruzione della nuova cappella.

Fu fatto arrivare da Napoli l'architetto che in quella città realizzò dentro il duomo la cappella dedicata a S. Gennaro, furono abbattute le due cappelle centrali di sinistra e, ampliando in profondità lo spazio, scavando parte del costone roccioso che vi si appoggiava, fu realizzata la cappella e poi l'altare e la "macchina scenica" in cui intronizzare l'antico veneratissimo e miracoloso simulacro della "Virgen de la Piedad".

La lapide che si trova all'ingresso della cappella ci ricorda che questo avvenne il primo marzo 1686: fino all'immediato dopoguerra il primo giorno di marzo si festeggiava con particolare solennità la festività religiosa della Pietà.

L'Arciconfraternita della Morte 

Con molta probabilità, quando l'Arciconfraternita fece i lavori sulla cappella della Pietà (lavori da far risalire al tempo del governatorato in Sardegna del viceré Lopez de Ayala che va dal 1682 al 1686), in quelli stessi anni sarebbe stata realizzata anche la sottostante cripta cimiteriale, cappella di sepoltura esclusiva dei confratelli e consorelle del sodalizio.

Questa cripta fu realizzata modellando una preesistente cavità naturale della quale l'Arciconfraternita era proprietaria fin dal 1519: il notaio Oriol, come si legge in un atto conservato nel nostro Archivio, cede ai coniugi Pietro Mainas e Talasia Maxion, abitanti nel quartiere di Villanova, un cortile e la grotta attigua siti nei pressi dell'ospedale di S. Antonio.

Sarebbe proprio lo spazio dove ora sorge la cappella della Pietà la prima sede di questa nuova Associazione ecclesiale che, come stava avvenendo in tante altre città europee, nasceva con lo scopo peculiare, seppure non esclusivo, di seppellire i morti poveri. Il forte radicamento nel territorio, la composizione personale dell'Arciconfraternita con una significativa presenza delle famiglie più importanti della Cagliari del tempo insieme alle notevoli risorse finanziarie, che ben presto riuscì a darsi, attribuirono al sodalizio grande prestigio.


 


Il privilegio della sepoltura nelle cripte risparmiate nell'area sottostante l'edificio della chiesa, il prestigio della chiesa stessa (ancora oggi molto amata dai cagliaritani doc), la grande ricchezza di opere lignee e pitture oltre al prezioso arredo liturgico di argenti e tessuti, facevano dell'Arciconfraternita del SS. Crocifisso o della Morte una delle più prestigiose tra le tante sorte o che via via si formeranno soprattutto nella Cagliari del Seicento.

In questa maniera si spiega anche l'immenso patrimonio immobiliare posseduto dall'Arciconfraternita: in tutte le strade della Marina fino alla metà dell'Ottocento esistevano case di sua pertinenza, così come ne possedeva in tante altre parti della città e nei paesi vicini come Quartu, Quartucciu, Monserrato, Selargius, Settimo e perfino a Pimentel.

L' appartenenza al sodalizio era inoltre incoraggiata dalle tante indulgenze di cui godeva, concesse o ribadite e ampliate nel tempo, in primis l'estensione a tutti i confratelli e consorelle dell'Arciconfraternita cagliaritana di quelle concesse a Roma alla similare Compagnia della Basilica di S. Giovanni in Laterano alla quale la nostra era aggregata.

Insieme alla concessione di privilegi e indulgenze, che soprattutto in seguito al Concilio di Trento appena concluso e alla polemica anti-protestante erano sempre più condizionate alla vita spirituale e sacramentale, recita di preghiere, confessione e comunione ma anche visita alla chiesa in particolari circostanze e festività, era la possibilità della sepoltura dentro la chiesa che incentivava la richiesta di ammissione all'Arciconfraternita.

Forse perché polarizzava eccessivamente la vita religiosa della città provocò al sodalizio anche palesi ostilità soprattutto in neonate altre Confraternite.

Sollecitati da Roma i Vescovi Parraguez prima e Melano nel '700 dovettero intervenire per "proteggere" l'Arciconfraternita contro chi cercava di contrastarne le attività, come le processioni della Settimana Santa, le 40 ore o le processioni eucaristiche con il viatico ai malati della città.

In questo clima non proprio di grande pace religiosa tra le varie organizzazioni ecclesiali è da contestualizzare "il privilegio della scure", il permesso concesso con bolla di abbattere la porta della chiesa qualora il suo rettore si fosse rifiutato di concedere all'Arciconfraternita di celebrarvi le esequie. Particolarmente curato dall'Arciconfraternita era il rito della sepoltura, in stile "barocco", seppure non sfarzoso ed effimero, ma sicuramente celebrato con tinte piuttosto lugubri.


Le due cripte tinteggiate quasi avessero pareti di tela nera con le ossa incrociate e il teschio che appare ovunque e la morte graffita sulla volta della cripta scavata in roccia, raffigurata con i suoi simboli ammonitori come la sua regalità espressa dal manto e dalla corona, la fugacità della vita raffigurata dalla clessidra alata, la falce che non risparmia nessuno come ammonisce in modo lapidario il forte NEMINI PARCO, sono alcune espressioni di questo stile barocco.

Anche gli abiti dei confratelli, in tela ginestra nera, avevano una placca di tela in cui era raffigurata la morte.

Il rito della sepoltura, prima dello "intierro", prevedeva anche la realizzazione di un catafalco realizzato in varia maniera, con materiale più nobile per i defunti più benestanti, in terra e legno per quelli poveri, con la forma del catafalco ora a mausoleo, ora a piramide, ora a tempietto, o ad arco trionfale, o a obelisco o in altre fogge simboliche e il tutto circondato da una miriade di lumi che ardevano intorno alla bara a formare una vera camera ardente. Questi catafalchi ovviamente erano momentanei, mentre esempi di catafalchi duraturi possono essere i due mausolei in marmo realizzati a S. Eulalia e a S. Michele per i nobili Coppola e Dessì e va pure aggiunto che le iscrizioni che ne ricordavano la memoria non erano certo improntate a cristiana modestia.


Fonte: Gianfranco Murtas
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