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Gianfranco Murtas

Don Tarcisio Pillolla nella memoria di un amico

di Gianfranco Murtas

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Vien tanto da pensare alla persona e alle attività di don Tarcisio Pillolla, vescovo emerito di Iglesias, ora che non c’è più. E verrà il momento, speriamo, di pagare i debiti verso la sua amicizia, quella palese e pubblica, e quella segreta e strettamente personale. Ora che è morto, dopo aver vissuto la sua vita operosa, intensa, di sapienti riversamenti in quella di un’infinità di altre persone, come sempre è di coloro che stanno sul moggio per vocazione di testimonianza, non certo per ardore di protagonismo, mi limito ad altro e a poco.

Fu nel 1974, quando morì Bruno Josto Anedda per un brutto cancro, che mettemmo a fuoco, dialetticamente, le nostre posizioni. Anedda, lo scopritore benemerito dell’inedito Diario di Giorgio Asproni, il ricercatore storico della facoltà di Scienze politiche, il direttore della Tribuna della Sardegna e il redattore RAI del Gazzettino Sardo, il segretario regionale del PRI e fautore della politica repubblicana in Sardegna – la politica del centro-sinistra lamalfiano, quella della programmazione economica e delle autonomie regionali sostenute da un forte senso partecipativo alle più alte motivazioni dello Stato democratico –, Anedda mi aveva preceduto in un certo percorso insieme di formazione intellettuale (e religiosa) e di presenza civile. Un’inquietudine nobilissima aveva rimesso in discussione molti paradigmi della sua vita e l’amore consapevole al risorgimento nazionale visto dal fronte mazziniano meglio ne aveva illuminato le crescenti riserve sull’antiliberalismo miope ed antistorico del movimento cattolico organizzato in Italia, dall’Opera dei congressi in qua, passando per l’Azione Cattolica e i Comitati Civici, ecc. Era ferragosto quando, in quel 1974, salutammo, nella parrocchia di San Carlo Borromeo, Bruno Josto Anedda emancipatosi dalle letture democristiane della storia dell’Italia moderna ed approdato con chiarore argomentativo alle rive della democrazia laica di minoranza. E io azionista, alla sua sequela (seppure, in fatto di fede, con altri attracchi) mi presentai all’altare per servire la messa di don Tarcisio Pillolla, amico da sempre (nei giri associativi della Chiesa cagliaritana) di Bruno Josto. Vi furono allora fra noi – fra monsignore e me –,  colloqui gravi su quel che poteva essere o non essere compatibile fra indirizzi religiosi e militanze civili e politiche. Marcammo quella distanza che sempre ci accompagnò ma mai incise nella convinzione che ciascuno aveva della buona fede e della serietà del pensiero dell’altro.




Anticipo soltanto una confidenza delle molte che fra Cagliari e Iglesias e Cagliari di nuovo non mi negò anche sui campi piuttosto riservati della vita ecclesiale e anche clericale. Quando fu fatto vescovo ausiliare, ordinato nel giugno 1986, e non potendo assistere io alla cerimonia perché in missione a Pisa, pubblicai un polemico articolo – giusto in quella data, l’8 giugno – rispetto a certe omissioni sociali che mi era parso di rilevare nel governo dell’arcivescovo Canestri, e sulla scia di altre (naturalmente senza mai negare le innumerevoli e importanti iniziative della Chiesa cagliaritana in ogni tempo ed a pro degli sventurati d’ogni classe). Concordai la pubblicazione con l’amico direttore de L’Unione Sarda, Fabio Maria Crivelli. Da lì si sviluppò un lungo dibattito sulle pagine del giornale. Mi pare si espressero almeno una quindicina di voci, fra cui lo stesso sindaco De Magistris, il professore cristologo e amico Salvatore Loi, ecc.

Don Pillolla che pur poteva sentirsi ferito dalla mia (educata) scimitarra, non soltanto per la sua partecipazione al governo diocesano (era già vicario generale) – e dunque per la ipotizzata (?) sua correità nelle diserzioni –, ma proprio per la data scelta per quella provocazione pubblica fu il primo a difendermi dagli ostili, ben avendo compreso che quello era – intanto sul piano personale – non un insulto ma un dono d’amicizia, ma poi anche argomentando che si trattava dell’espressione di una intenzione tutta al positivo, non certo demolitrice.

Ma fece di più, mentre i chiericotti, che non mancano mai in queste situazioni mostrandosi ogni volta più papalini del papa, si stracciavano le vesti, mi propiziò un incontro con l’arcivescovo Giovanni Canestri – l’imputato (?) numero uno – il quale mi accolse non nello studio (vale a dire l’ambiente delle ordinarie udienze) ma nelle sue stanze privatissime, intrattenendomi fra l’altro nel mezzo dei titoli della sua corposa biblioteca e soprattutto i testi della sua formazione, offrendomi spontaneamente la sua confidenza ed assegnandomi infine, con mille gentilezze e il dono di una biografia di Sant’Agostino, un incarico fiduciario: la lettura critica del suo dossier sulle cosiddette “microrealizzazioni di carità”. Incarico che espletai sollecitamente, non risparmiando le sciabolate su alcune resistenti inflessioni clericali (bocciate le solite metafore del “gregge”, esortai a riformulazioni tipo “popolo di Dio”, più in linea con il Concilio) e proponendo, e ottenendo, di integrare il tutto con un impegno esplicito di appoggio ecclesiale alle campagne di raccolta del sangue per i nostri talassemici.




E aggiungo – riferendomi adesso più direttamente a don Tarcisio – che allorché, scendendo sul personale in occasione di un qualche incontro in ufficio o a casa, gli chiesi perché aveva accettato nel 1986 la promozione episcopale e invece l’aveva rifiutata nel 1982, ebbi da lui questa risposta, che pure fotografava, con estrema umiltà, quel “se stesso” più intimo e consegnandone la verità all’allora giovane suo amico e interlocutore: “il vescovo deve essere uomo di unità, deve saper unire in una superiore armonia le diverse sensibilità e tendenze presenti nella diocesi affidatagli, ed io proposto alla guida di quella diocesi sapevo di non possedere quel tratto caratteriale, quella propensione mediatrice che qui, come ausiliare dell’arcivescovo metropolita, insomma come numero due invece che come numero uno, non mi è richiesta in quella misura”. Press’a poco questo fu il discorso.

Ripresi con lui l’argomento quindici anni dopo, ospite alla sua tavola nell’episcopio di Iglesias, e dopo un’altra bella chiacchierata nello studio austero, che ricordo anche piuttosto buio, del palazzo che accompagna la cattedrale di Santa Chiara. Aveva accettato la preposizione-servizio alla Chiesa iglesiente perché intanto l’esperienza maturata accanto a monsignor Canestri prima ed a monsignor Alberti dopo ne aveva mitigato alcune asprezze del… polemista nato, piuttosto rigido su questioni di dottrina e anche sull’ortoprassi, poi perché la realtà del Sulcis-Iglesiente, con quel di più di “sociale”, e di sociale storico, che sapeva connotare quella comunità residente, lo avrebbe portato più naturalmente ad occuparsi di vita vissuta e ferialità – il dramma del lavoro mancante dopo la chiusura delle miniere – piuttosto che di dogmi e catechismi.

Ebbe anche, quella lunga conversazione sviluppatasi fra i passaggi dello studio e quelli più rilassati della convivialità, altri svolgimenti che mi rivelarono appieno la sua capacità, forse appresa chissà per miracolo, forse più probabilmente modulata o plasmata nel tempo, di una certa autocritica anche metodologica (quella a cui l’assertivo seminario cuglieritano dei primi anni ’50, pur virtuoso per mille altri aspetti, non educava), non tanto personale quanto del modello di Chiesa, a rischio di ingessamento, che egli aveva fatto proprio. Si tratta di materia delicata – quella della libertà di coscienza portata alle estreme conseguenze, contro ogni fastidioso clericalismo risolvitutto – e ne vorrei trattare in altro contesto, certamente e ancora per dare onore al caro monsignore che volle darmi, per lunghi anni, il calore della prossimità perfetta, ed umile… cento volte mio autista (!) e consolatore nei momenti miei di più tremendo e sconfortante lutto.

Onore, onore a lui.

In veritate e charitate    

La consacrazione episcopale di don Tarcisio Pillolla avviene domenica 8 giugno 1986 per le mani del suo ordinario Giovanni Canestri: coconsacranti l'arcivescovo di Oristano Pier Giuliano Tiddia e l'emerito di Cagliari Giuseppe Bonfiglioli. Presenti al rito anche tutti gli altri presuli a capo delle diocesi isolane.




Don Pillolla è prete, nel 1986, da 32 anni. E nativo di Pimentel, classe 1930 (11 luglio). Ha frequentato, in paese, la parrocchia di Nostra Signora del Carmine, le scuole medie e il ginnasio al seminario di Cagliari, e filosofia e teologia - fino al dottorato (che seguirà di poco l'ordinazione) - al regionale di Cuglieri. E qui è stato ordinato diacono il 20 dicembre 1953 da don Lorenzo Basoli, vescovo di Ogliastra, e sacerdote dall'arcivescovo Paolo Botto il 4 luglio 1954 nella basilica di Bonaria (il 1954 è anno mariano, nel centenario del dogma dell'Immacolata). Ciò nel maggior quadro della solennità estiva della Vergine patrona. Con lui, quel giorno, sono altri cinque confratelli come lui provenienti da centri rurali dell'hinterland cagliaritano e dalla provincia.

A ottobre ha sostenuto in Curia il primo esame "super universa re morali", e come tutto il clero giovane ha iniziato, in Curia, la sequenza degli esami novensili (sul programma indicato nel calendario liturgico) o di novelli confessori, di cui dà l'agenda, puntualmente, il Monitore Ufficiale, raccolta per lo più degli atti (appunto) ufficiali delle diverse diocesi sarde curata dal can. Lai Pedroni. (Così anche è data la turnazione degli esercizi spirituali per il clero, nella casa di Cristo Re in via Tuveri, sotto la direzione dei Padri Gesuiti: adempimenti inderogabili per i secolari, impegnati a una formazione permanente secondo pratiche e norme severamente presidiate dall'ordinario diocesano).

Il 10 febbraio 1956, come accennato, ha discusso con don Francesco Sole, ordinario di Sacra Scrittura nella Facoltà teologica del Sacro Cuore, una tesi sul pensiero di Alfred Loisy, esponente di punta del modernismo (titolo della tesi, pubblicata nel 1972: Il Cristo della storia soltanto uomo o anche Dio?). E intanto fa pratica di "trincea" nella parrocchia di Sant'Avendrace, a Cagliari.

Il 1° marzo 1958, a due mesi dalla presa di parrocato a San Lucifero da parte di don Giuseppe Lepori, ne diventa il vice. Sono entrambi giornalisti, pur se lo stacco generazionale non meno del carattere li fa diversi anche nella scrittura. Asciutto e didascalico, con qualche slancio avvocatesco il giovane, piuttosto propenso a enunciati letterari l'anziano. Entrambi convinti della portata educativa e responsabilizzante dell'informazione diocesana. Nello stesso 1958 don Lepori ha lasciato la direzione del Quotidiano Sardo (da lui assunta nel 1950) e don Pillolla ha assunto quella del nuovo settimanale diocesano Orientamenti (in "fabbrica" come Orientamenti d'Apostolato già da due anni), tenendola per un decennio e oltre (fino al febbraio 1972). Sul giornalismo cattolico (e sui suoi limiti prudenziali ad intra e, talvolta, d'attacco ad extra) manterrà sempre un'attenzione vigile e acuta. (Sul numero unico in vista dell'arrivo a Cagliari del cardinal Baggio, nel 1969, scriverà: "Da diverse parti si è auspicato che Orientamenti superando certe forme di presunto trionfalismo diventi più decisamente la palestra per un dibattito sulla problematica post-conciliare, soprattutto nell'ambito diocesano, e in cui tutti possano far sentire la propria voce. La proposta è buona e accettabile a condizione che l'oggetto del dibattito sia costituito da idee autentiche e non da luoghi comuni o frasi fatte e che l'esclusione del trionfalismo non riguardi solo una qualità ma tutte, compresa quella che fa ostentazione di... antitrionfalismo"). 

Ha diviso il suo ministero fra la parrocchia – curando particolarmente le confessioni oltre che la formazione spirituale dei gruppi - e un vasto fronte che comprende, in misura eminente, l'insegnamento e l'assistenza spirituale ai malati. Ha iniziato a tal riguardo, per nomina dell'arcivescovo, alla clinica Villa Elena che, per essere di proprietà di famiglia non credente, costituisce per lui come l'occasione della scoperta di una vocazione ardita, quella del dialogo con i "lontani". Sua caratteristica, quella del dialogo con i "lontani". Sua caratteristica, confermata sempre nella varietà delle situazioni avvenire, sarà infatti questa presenza di sacerdote intellettuale che si colloca, in un mix originalissimo, sul fronte dell'intransigenza (e spesse volte della polemica) dottrinaria e, insieme, su quello dell'incontro e della comprensione profonda della passione esistenziale di chi alla Chiesa, e perfino al soffio religioso, si sente estraneo.

Ha tenuto l'insegnamento di lettere italiane nel seminario diocesano (a Dolianova e poi a San Michele) e di religione in varie scuole pubbliche e parificate - dal Commerciale Pietro Martini alle Magistrali Francesco De Sanctis, dall'Assunzione (istituto gestito da suore) al Centro Assistenti Sociali. Nel divenire del tempo ha retto l'assistentato ecclesiastico della Gioventù Femminile di Azione Cattolica, e poi della FUCI, come quello dei maestri cattolici (riuniti in associazione, l'AIMC) e delle ACLI provinciali.

In ambito strettamente ecclesiastico, fin dai primi anni '70, ha coperto la cattedra di Teologia Morale presso l'Istituto Superiore di Scienze Religiose aggregato alla Facoltà Teologica appena trasferita da Cuglieri al capoluogo. Con speciale continuità e abilità pastorale ha offerto l'accompagnamento spirituale ai villeggianti nell'area costiera cagliaritana, in anni in cui la Sardegna ha preso ad essere con sempre maggior forza meta turistica. E dal 1970, a dimostrazione del suo eclettismo sacerdotale, ha assunto l'incarico novizio di cappellano dell'Ospedale Oncologico di Cagliari.

Incaricato da monsignor Giuseppe Bonfiglioli, che molto lo stima, della cancelleria arcivescovile (1973), dal 1975 è entrato a far parte del Capitolo metropolitano, dove per svariati anni svolge l'ufficio di penitenziere. E anche promotore di giustizia (e revisore per la stampa) del Tribunale diocesano per le cause di nullità matrimoniale. Dopo la riforma del codex (1983), ha aggiunto alla lista anche la presenza nel Collegio dei consultori.

Vicario generale del nuovo arcivescovo Giovanni Canestri (nel gennaio 1986 ha sostituito nell'incarico monsignor Pier Giuliano Tiddia, intanto trasferito alla sede metropolitana di Oristano), dopo pochi mesi è promosso vescovo ausiliare.

La necessità di provvista episcopale, in altre diocesi isolane, al compimento del primo lustro degli anni '80, lo aveva già candidato al vescovado di Ales, ma è noto - per rimbalzo del sottotraccia (trattandosi di materia assolutamente riservata) - che egli declinò, per pura umiltà, l'offerta. Obbedirà alle rinnovate pressioni allorché lo si vorrà vescovo ausiliare della maggior diocesi isolana che egli conosce nel profondo. In una intervista che rilascia il 7 giugno 1986 alla Nuova Sardegna dirà dei maggiori problemi aperti, e anche delle iniziative in programma, nella Chiesa di Cagliari: "esiste un preciso piano pastorale, i cui punti principali sono la conversione, la catechesi, la carità e le vocazioni. Assistiamo infatti a un inesorabile invecchiamento del clero diocesano per fortuna attenuato da una timida ma beneaugurante ripresa delle vocazioni con il seminario che sta cominciando a riempirsi. Nel campo caritativo poi c'è da segnalare l'iniziativa a favore dei più poveri, in questo aiutati anche dalla presenza delle suore di Madre Teresa".

La nomina papale è del 3 maggio 1986. Assume il titolo della Chiesa di Cartenna (antica e scomparsa diocesi della Mauritania). Nel suo stemma - in cui giocano i simboli che meglio combinano l'adorazione eucaristica alla devozione mariana (l'ostia e la stella), la pratica della lettura e della predicazione biblica (il Vangelo aperto) e i rimandi alla sua terra - figura il motto, tratto dalla seconda lettera di Giovanni apostolo, "In veritate et charitate", che costituisce il leit motiv della sua personalità di uomo e cristiano.

Il rito di consacrazione, come detto, avviene nel pomeriggio dell'8 giugno 1986, presente l'intero collegio dei vescovi isolani (con i consacranti sono i monsignori Isgrò, Melis, Cogoni, Meloni, Piseddu e l'emerito di Sassari Carta). Nelle navate della basilica s'addensano ben tremila fedeli. La Polifonica Cagliaritana – cappella della cattedrale – accoglie il neovescovo ("scortato" dagli amici don Piero Monni e don Ninetto Vacca, parroco della sua San Lucifero) al canto dell' "Ecce sacerdos magnus". I rappresentanti del presbiterio secolare e regolare, delle religiose e dei movimenti laicali porgono il saluto della Chiesa locale nelle sue varie componenti e anticipano quant'altri riconoscimenti e auspici verranno dall'altare e fuori.

Il "Veni Creator", la lettura del Vangelo, l'omelia dell'arcivescovo Canestri, l'invito ad essere "forte come un diamante e dolce come una mamma" (secondo la nota espressione augurale del curato d'Ars per ogni pastore di anime) preparano i passaggi forti della liturgia, con l'interrogatorio sulla fede e l'imposizione delle mani da parte del consacrante e degli altri vescovi presenti.

Seguono il canto delle litanie dei santi (mentre il candidato è prostrato a terra), l'unzione del capo e la consegna di quanto è distinzione simbolica della dignità episcopale: anello, mitria e bacolo, dopo che dei Vangeli.

Per tredici anni, fino al 1999, don Pillolla svolge, con lealtà e diligenza piena, le funzioni vicarie accanto agli arcivescovi residenziali: fino all'estate del 1987 è al fianco di monsignor Canestri; dal gennaio 1988 – dopo una parentesi di amministrazione apostolica di cui lui stesso è incaricato dalla Santa Sede – collabora con monsignor Alberti, proveniente dalle diocesi unite di Spoleto e Norcia.

Il 3 luglio 1999, a seguito del trasferimento a Ivrea (per succedere al suo maestro monsignor Bettazzi) di don Arrigo Miglio, vescovo di Iglesias, don Pillolla deve fare i bagagli e misurarsi con la più difficile delle sue imprese ecclesiali: ha 45 anni di esperienza sacerdotale, 13 di episcopato, 69 di età. Prende possesso della sua nuova sede il 5 settembre.

Suoi dirsi (e se n'è detto più sopra) che un temperamento non diplomatico e talvolta perfino tranchant non sarebbe compatibile con il carisma tipico del vescovo, vale a dire il suo saper essere espressione e anzi motore di una robusta unità comunionale fra le componenti più varie di una Chiesa che, se gusta le proprie interne differenze, pure per esse si espone a rischio continuo di divaricazione.

In questo senso, il caso di don Tarcisio Pillolla si candida – vincendola alla grande – alla prova sul terreno concreto della pastorale diocesana. Consapevole della debolezza della funzione politica svolta da un ceto dirigente impari alla drammaticità sociale sofferta del territorio, lancia l'idea di un forum civico, come luogo di incontro, dialogo, confronto e decisione di componenti non soltanto politico-partitiche o amministrative del Sulcis-Iglesiente ma anche della società civile, della scuola e delle professioni.

Nella molteplicità delle sue attività, combinando, se possibile, senza separatezze, le cure della "macchina" clericale (vocazioni, seminario – dieci gli ordinati nel settennio – sacerdozio parrocchiale: con pratiche di comunione spirituale e aggiornamento culturale e pastorale) a quelle del territorio con le sue più varie esigenze ed impellenze, sembra di dover rilevare una sua più efficace e apprezzata presenza nel mondo del lavoro e del crescente precariato industriale del vasto bacino minerario; in quello della scuola – da cui viene e dove ha consolidato importanti esperienze – nel quale sono frequentissimi i suoi contatti con ragazzi e giovani e i loro formatori; in quello infine della solidarietà e, tanto più, della malattia (dove certo contano le conoscenze e competenze maturate negli anni del servizio all'Oncologico e nelle cliniche Villa Elena e Sant'Antonio). Ma potrebbero aggiungersi le cure alla famiglia (con l'istituzione del Consultorio), alle marginalità (anziani, tossicodipendenti, carcerati, ecc. con una variegata offerta di servizi da lui promossi), e così via.

Strumento valido di raccordo fra bisogni sociali e offerta ecclesiale è il periodico Sulcis-Iglesiente Oggi, che egli - esperto di comunicazione - lancia inizialmente (il 19 marzo 2000) come pagina speciale sul settimanale cagliaritano NuovOrientamenti e che successivamente emancipa a formato autonomo.

Al compimento dei 75 anni presenta al papa le dimissioni dal suo ufficio. Dopo alcuni mesi – il tempo dell'insediamento del suo successore, l'arburese don Giovanni Paolo Zedda, domenica 17 giugno 2007 – lascia per tornare a Cagliari, dove ha casa e dove ha trascorso pressoché l'intera sua vita.

Nel saluto ai suoi diocesani, il 3 giugno, ha detto: "ho cercato di favorire un clima di comunione in seno al presbiterio, tra le diverse associazioni, i gruppi dei movimenti e ho avuto grande rispetto per quanti sono alla ricerca di Dio e per quelli che non hanno avuto il dono della fede". Poche parole che replicano e suggellano i tratti del suo sacerdozio fin dalla sua ordinazione.




Fonte: Gianfranco Murtas
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