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Gianfranco Murtas

E’ uscito il terzo volume di “Colligite fragmenta”. Tonino Cabizzosu firma la nuova raccolta dei suoi commenti ai libri biografici dei protagonisti del Vaticano II. Riflessioni d’attorno

di Gianfranco Murtas

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La prima riflessione che m’è venuta da fare, accogliendo e sfogliando, prima di una lettura intera delle 270 pagine di “Colligite fragmenta”. Saggi recenti sul Concilio, vol. III – lettura per me in bis, dato il consolidato l’abbonamento a Voce del Logudoro dove gli articoli qui ripresi erano (quasi tutti) usciti in tempi anche piuttosto vicini – riguarda l’autore.

Vien facile, o doveroso, domandarsi, infatti, il perché di tanta insistenza da parte dell’autore, professore emerito di storia della Chiesa nella facoltà Teologica della Sardegna, sugli studi e gli approfondimenti della tematica conciliare: né soltanto della tematica in generale nella sua fase elaborativa e direi dibattimentale, nella grande basilica, ma di essa come calata, anzi incorporata nelle esperienze meditative ed ecclesiali, intellettuali e sociali dei suoi protagonisti non importa se non tutti di prima fila: intendo, di qua dai pontefici, fra vescovi, teologi e clero territoriale, religiosi delle mille corporazioni e la gran massa – pessima parola! – dei laici.

Vale domandarselo, prima di arrivare a conclusioni, riesplorando, seppure sommariamente, buona parte della sua imponente produzione storiografica che, con titoli espressamente rivolti all’evento Concilio, con capitoli in opere biografiche del pari rivolte all’opera magna di papa Giovanni e papa Paolo e con contribuiti conferiti ad opere collettanee o a cappello di raccolte di propri articoli e saggi brevi (Ricerche socio-religiose sulla Chiesa sarda tra ’800 e ’900…), ha messo a fuoco anche – ed è stato il valore aggiunto – l’originalità (ma anche i limiti) della partecipazione sarda alle fatiche riformatrici sostenute dall’episcopato mondiale nel quadriennio 1962-1965.

Mi vien da ricordare in primo luogo i due volumi I vescovi sardi al Concilio Vaticano II (rispettivamente Fonti e Testi), venuti dalla cagliaritana Arkadia nel 2013 e 2014 a fare da singolarissimo pendant a quel (preziosissimo e discutibilissimo) I vescovi sardi al Concilio Vaticano I – il concilio piino del 1869-1870, il concilio che sancì il primato pontificio e l’infallibilità del successore di Pietro in pronunce ex cathedra su questioni di morale e religione, il concilio cui parteciparono i presuli di Nuoro ed Ales ed anche quello, anziano e (parve) più critico o prudente di Iglesias – che Ottorino Pietro Alberti aveva dato alle stampe nel 1963 per i tipi della romana Libreria Editrice della Pontificia Università Lateranense (dove l’allora giovane monsignore isolano insegnava discipline antropologiche).

Ma certo, ho detto, le presenze ora pubblicistiche o convegnistiche, ora solennemente editoriali sul Concilio Ecumenico datosi corso in quei primi anni ’60, Tonino Cabizzosu non se le è risparmiate nel tempo. La materia è entrata – mi sia consentita questa preferenza e per i rimbalzi temporali perfettamente registrati – in tutti e quattro i volumi di Per una storia del seminario regionale di Cuglieri (1927-1971), usciti fra il 2017 e il 2021; è entrata alla grande in Diario Mulas – raccolta di intime riflessioni di vita e di appunti d’ordinario quotidiano di un presbitero colto ed inquieto – ed anche, e sotto diversi aspetti, nel contributo o saggio breve “Alcuni aspetti dell’insegnamento teologico a Cuglieri dal 1927 alla vigilia del Vaticano II” in Iuventuti docendae ac educandae, uscito con la curatela abbinata a quella di Luciano Armando nel 2007 (Cagliari Aisara) per gli ottant’anni della facoltà Teologica della Sardegna…

Ma quanto altro del Concilio giovanneo e paolino, per le atmosfere diffuse e per le deliberazioni assunte e recepite nelle (allora) undici diocesi isolane, ha fatto rifluire, Cabizzosu, nelle citate sue periodiche Ricerche socio-religiose (1999, 2004, 2009, 2017 e 2021) e così anche nelle raccolte biografiche Pastori e intellettuali nella Chiesa sarda del Novecento (2010) e Donna, Chiesa e società sarda nel Novecento (2011)! Da questi ultimi titoli, in particolare, emergono numerosi i ritratti di personalità assolutamente anticipatrici, nonostante la relativa marginalità nostra di sardi, e sul fronte missionario e su quello ecumenico oltreché d’inquietudine riformatrice, che originalmente introducono alla novità dell’umanesimo cristiano ri-pensato e ri-nutrito di fede e insieme di storia dai quasi tremila vescovi riuniti in assemblea a San Pietro.

C’è tanto Concilio nei volumi dedicati da Tonino Cabizzosu a presuli come il suo (ordinario ozierese) Francesco Cogoni e come il suo (vescovo ordinante) Paolo Carta, così come a sacerdoti frequentati e dunque conosciuti nel loro prismatico talento intellettuale e sociale, come don Francesco Amadu e don Francesco Brundu o don Emilio Becciu (che al giornalismo catechetico offerse gli ultimi vent’anni della sua vita), o ancora don Giuseppe Ruju (che gli anni del Concilio li trascorse fra la Berchidda di Predi Casu, Pattada e l’amatissima Berchiddeddu), ecc. ed a quanti altri, laici e suore, in diocesi – nella sua diocesi che era stata di Bisarcio e nella nuova identità aveva superato il bicentenario accompagnata dalla sua “buona stampa” (Voce del Logudoro soprattutto) – hanno cercato di traghettare con la testimonianza difficile il messaggio facile.

C’è tanto Concilio tradotto nel servizio scelto per la vita nella biografia di don Salvatore Casu, presbitero cagliaritano che galoppò lo stesso sviluppo “modernista” di monsignor Botto, così come da parte delle congregazioni religiose e degli istituti secolari vocati quello all’insegnamento e quell’altro alla prossimità primaria nella carità (si pensi alle vincenziane, alle filippine, alle giuseppine, alle evaristiane, ecc.).

C’è tanto Concilio, ancorché spesse volte preso per… la tangente, ma sempre brillantemente, anche nel remotissimo Chiesa e società in Sardegna (1870-1987). Appunti per la storia, in cui ormai più di trent’anni fa, ricollegandosi alla scuola di Giuseppe De Luca e Gabriele De Rosa, Cabizzosu annunciava la propria storiografia come si sarebbe sviluppata nel tempo e presentava, classificati per aree tematiche, qualcosa come 120 interventi usciti in prevalenza su L’Osservatore Romano. Concilio anche lì, e sia pure per la tangente, e nel tanto mi piace ricordare “Concilio Plenario della Chiesa in Sardegna alla luce dell’ecclesiologia del Vaticano II”, perché traccia come un ponte fra l’universale e il particolare, il particolare attuativo che s’abbevera alla fonte cattolica e ad essa idealmente restituisce l’originalità di una esperienza.

(Ma anche – mi sia consentita questa digressione, significativa forse soltanto per me, ma montarne la socializzazione non sarà forse cosa inutile! – tracce di itinerari personali che dal lontano approdano, chissà con quanta fatica, a mete impensate io le ho ritrovate in alcuni interventi – uno per L’Osservatore Romano, l’altro per un convegno di studi in Cagliari – su don Agostino Saba, già dottore dell’Ambrosiana, e prolificissimo studioso, e dal 1953 vescovo di Nicotera e Tropea: perché fu lui, poco prima del trasferimento alla sede metropolitana di Sassari, ad elaborare, su incarico di papa Giovanni XXIII, il primo regolamento del Concilio! Lo scrisse utilizzando una umilissima macchinetta dattilo e nel segreto degli scantinati dell’episcopio calabrese, digitandolo in una sola copia: appunto quella per il papa!).

C’è tanto Concilio – non va dimenticato – nella confessione della stretta appartenenza personale che il prete di Illorai divenuto cattedratico di gran nome e riconosciuta rispettabilità nazionale sulla scia di un maestro come padre Giacomo Martina, ha voluto consegnare alla carta evidenziando alcune tracce documentarie del proprio tragitto umano, culturale ed ecclesiale: Percorsi di fede e ricerca scientifica di un presbitero sardo (Cagliari 2008, e speriamo in un prossimo aggiornamento).



Accompagnò l’iscrizione alla sua prima media, nel collegio vescovile di Brugnato, in Liguria, compagno fra ottanta compagni adolescenti e preadolescenti, al ricordo televisivo della apertura conciliare: una fascinazione con ravvicinata replica nel microcosmo ozierese, all’ordinazione (ancora con l’antico rito) di due giovani illoraesi, don Gavino e don Marcello… Proseguì poi, ancora per le medie e la quarta ginnasiale, dai salesiani a Lanusei e la quinta – proprio quando il Concilio chiudeva – al Mandrione romano, primo vero affaccio alla universalità della capitale italiana e del cristianesimo ivi radicatosi da duemila anni. Poi il liceo (dal 1967) a Cuglieri, in quella Cuglieri attraversata dalle prime inquietudini postconciliari…

E’ forse anche e soprattutto in questi appunti autobiografici confidati con libertà e insieme con discrezione, che si esplicita la “felicità” di una collocazione che l’autore trova per sé e gusta nel tempo, in essa scorgendo le motivazioni e le cadenze, meglio le dinamiche della sua missione religiosa ed ecclesiale. Le trova nella logica ecumenica imposta sì dalla storia mondiale giusto al cruciale decennio della sua formazione – tempo di contestazione giovanile in America e in Europa e di nuovi equilibri fra le nazioni – ma scelta anche da una franca rilettura evangelica, nella liturgia radicata nell’essenzialità dell’altare e del calice, nella combinazione feconda fra cultura e socialità da cui viene – questa è la mia considerazione o conclusione ripensando a Paolo VI – la nozione di “promozione, promozione umana” che emancipa quella detta, e pur sempre benedetta, dell’assistenza.

Protagonisti, il sentimento musivo, la comunionalità

Quello che offre Tonino Cabizzosu in quest’ultimo suo libro è certamente la silloge di cento suoi brevi articoli di commento ad altrettante letture di saggi biografici o di epistolari o di ricerche di varia natura (diplomazia e politica incluse) usciti in specie in quest’ultimo decennio (sono una settantina, ma gli altri trenta della rassegna li precedono di poco), ma è anche un lavoro di rilettura complessiva – includendo in essa non soltanto le funzioni ministeriali in opera ma anche il raggio mondiale delle esperienze culturali/ecclesiali socializzate – dell’evento Concilio nelle sue ricadute personali, anche di autentica conversione, come pure e semplicemente evenemenziali. Ma per un di più: per la fertilità del suo contributo alla storia del mondo andato, nel corso del secondo Novecento, ad una più larga decolonizzazione del cosiddetto Terzo Mondo e a nuovi rapporti fra nord e sud del pianeta, alla rovine delle dittature comuniste in Europa, alla fine della guerra fredda a rischio nucleare, ecc. Certo non salvando la Terra né ingessandola in una illusoria ed impossibile e mai raggiunta né raggiungibile perfezione – basti la cronaca d’oggi e di ieri a darne conto (non solo per le guerre ma altresì per la salute dell’ambiente) – ma comunque mettendo in campo, insieme con i suoi valori e le sue esperienze di umanità, non soltanto di fede o di dogma, la Chiesa-popolo: la Chiesa-popolo (e ministeriale in necessario, necessarissimo affiancamento) “esperta di umanità” come la avvertì Paolo VI nella sua celebre Populorum Progressio.

Le ricordiamo le parole del grande pontefice: «La situazione attuale del mondo esige un’azione d’insieme sulla base di una visione chiara di tutti gli aspetti economici, sociali, culturali e spirituali. Esperta di umanità, la Chiesa, lungi dal pretendere minimamente d’intromettersi nella politica degli Stati, "non ha di mira che un unico scopo: continuare, sotto l’impulso dello Spirito consolatore, la stessa opera del Cristo, venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità, per salvare, non per condannare, per servire, non per essere servito". Fondata per porre fin da quaggiù le basi del regno dei cieli e non per conquistare un potere terreno, essa afferma chiaramente che i due domini sono distinti, così come sono sovrani i due poteri, ecclesiastico e civile, ciascuno nel suo ordine. Ma, vivente com’è nella storia, essa deve "scrutare i segni dei tempi e interpretarli alla luce del Vangelo". In comunione con le migliori aspirazioni degli uomini e soffrendo di vederle insoddisfatte, essa desidera aiutarli a raggiungere la loro piena fioritura, e a questo fine offre loro ciò che possiede in proprio: una visione globale dell’uomo e dell’umanità».

Direi che in questo possono riannodarsi le nuove sensibilità che il Concilio degli anni ’60 – frutto tempestivo e, insieme, maturo delle volontà suscitate dalla comprensione dei “segni dei tempi” – ha sviluppato fra meridiani e paralleli, tanto da indurci oggi, con serenità di spirito, a superare ogni contrasto nella lettura ermeneutica della fantastica riunione episcopale: se «rottura novista» o «riforma nella continuità». E proprio quelle sensibilità hanno generato il «Cortile dei gentili» di cui fu maestro milanese – ancorché allora nella formula della «Cattedra dei non credenti» – il cardinale Martini e che papa Benedetto in un discorso alla curia romana, nel Natale 2009, illuminò d’intelligenza e profezia: «Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come sconosciuto».

Sono parole, queste, che Cabizzosu, indugiandovi nella parte finale della sua bellissima introduzione a Colligite III, accosta con spirito problematico e che mi pare saggio riprendere in tale quadro: «Ratzinger, da fine teologo, mise in evidenza il fascino di una citazione del testo scritturistico, trascurata dai più, ma ricca di suggestioni per i contenuti ideali in essa presenti. In quel Cortile si incontravano e si incontrano cristiani e “gentili” i quali, come ha sottolineato il cardinal Gianfranco Ravasi, rimanendo fedeli alla loro idealità, possono porre in atto un dialogo in cui riconoscere che l’altro non è un avversario ma un valore in sé in quanto portatore di valori volti a mettere al primo posto i temi ultimi: domande circa la vita e la morte, bene e male, amore e dolore, verità e menzogna, trascendenza e immanenza, sulle principali questioni dell’etica, dell’economia, della scienza, della tecnica, della pace, della giustizia, della salvaguardia del creato.

«Intesa in tal senso la proposta di Papa Benedetto del Cortile dei Gentili, purtroppo velocemente messa da parte, può offrire spunti per focalizzare tematiche importanti per la vita della Chiesa e della società. L’icona del Cortile dei Gentili è una di quelle immagini cariche di suggestioni e di spunti che dovrebbe spingere, in ambienti accademici come in quelli più semplici della vita comune, a creare forum di credenti e non credenti, intellettuali o ricercatori di valori aventi come denominatore comune il desiderio di approfondire le questioni antropologiche fondamentali per riflettere sulle ragioni del credere e del non credere, con massima attenzione all’ascolto delle ragioni dell’altro e al confronto sereno e costruttivo. La convinzione di base, quasi il motore trainante, è data dal fatto che urge interrogarsi sulle radici etiche comuni tra credenti e non credenti, sulle ripercussioni etiche degli sviluppi della tecnologia nella medicina, nell’economia, nella finanza…

«In questo nostro periodo di diffusa incomprensione comune, urge camminare in questi orizzonti nuovi di confronto, di ascolto, di ricerca. Bisogna superare il dualismo attuale: il mondo dei credenti trova sempre maggiori difficoltà a comprendere il linguaggio della società odierna secolarizzata e scristianizzata; il mondo secolarizzato stenta a comprendere, anzi non comprende più, il linguaggio religioso e sacrale, che spesso è autoreferenziale e chiuso in uno stretto ambito degli iniziati. In questo contesto l’eredità del Concilio Vaticano II costituisce uno scrigno prezioso da cui estrarre cose antiche e nuove».

Prospettive illuminanti in cui mi sembra di scorgere l’eco di riflessioni che sono state anche di grandi coscienze consapevoli delle urgenze storiche (eppure sempre poco amate da ampie schiere delle gerarchie romane) – penso ad Hans Kung e penso al nostro Ernesto Balducci teorico dell’ “uomo planetario” – e che, ne sono convinto, troveranno irresistibile attuazione nel giro di poche generazioni.

Grandi questioni che in un modo o nell’altro, esplicitamente o surrettiziamente, entrano nella pubblicistica e nella saggistica teologica di questi tempi ed entrano anche in diversi dei titoli esplorati da Cabizzosu nella sua rubrica di recensioni librarie per lunghi anni brillantemente tenuta in Voce del Logudoro.

Io anche, con tutta modestia s’intende, mi riallaccio ancora, come già altre volte ho fatto, alla sollecitazione di passi in avanti decisi e diffusi che tanto più al clero si chiedono, aderendo così ad una certa prefigurazione che dallo stesso papa Bergoglio è venuta di un tempo (che forse è già presente) chiamato a registrare processi evolutivi non più lineari ma di radice paradigmatica. Tanto, tantissimo che era stato considerato male dalla dottrina tradizionale, tanto più nella bioetica – campo cruciale che comprende ovviamente anche la cultura dell’ambiente –, è oggi da considerarsi positivo o almeno degno di una amichevole conoscenza: può valere nel campo complesso dell’etica familiare e sessuale, in superamento deciso e definitivo della storica ed ipocrita sessuofobia clericale, del controllo delle nascite, dell’aborto, dei rapporti prematrimoniali, della fecondazione assistita, della convivenza non sacramentata, del divorzio, della omosessualità (e sue varianti o declinazioni), delle famiglie allargate e arcobaleno, delle adozioni intricate, dell’accanimento terapeutico, del fine vita, ecc. Materie tremende! tremende queste e cento altre, ma tutte da affrontare con l’umiltà di chi sa di non sapere press’a poco nulla e s’induce, per ogni avanzamento, alla ricerca critica e all’ascolto altrui.

Quanto poi dalla genetica, dalle neuroscienze e anche dalla paleontologia raccogliamo oggi di provocatorie domande cui la mitologia dell’eden (e del peccato originale) non sa rispondere se non con artifici dialettici, e quanto dall’astronomia indagatrice delle galassie, dei buchi neri, del pluriverso già pensato da chi venne mandato al rogo dell’Inquisizione nello stesso secolo di Galileo… quanto di nuovo noi scopriamo dall’esito della ricerca umana, quanto delle stesse formulazioni teistiche siamo chiamati a rivedere i fondamenti e le coordinate… quanto tutto questo richiede nuovi inquadramenti dottrinali, quanto questo appare necessario e sempre più urgente per salvare l’essenziale: il senso di sé, il senso missionario della vita di ciascuno.

Misuro, in questa crescente incertezza sui fondamenti del passato e sul profilo di quanto nel nuovo è progressivamente conquistato, anche taluna distanza dal Concilio (figlio anch’esso della storia) e da certe letture calate a valle, nelle comunità di quel mondo che crede e prega senza il sale del dubbio o della responsabile personalissima esplorazione: sessant’anni dacché, proprio di questi tempi autunnali, s’aprì, solennissima e magnificente, la prima sessione dei lavori ecumenici non sono passati invano, non potevano passare invano. E se i progressi scientifici vanno riposizionando la nostra realtà umana – la conoscenza della nostra stessa natura – in un quadro che è inedito per tanti aspetti, l’intelligenza della fede si deve ri-nutrire con strumenti che non sono soltanto quelli della Scrittura, nel concreto ancora oggi tanto spesso destoricizzata. Gli stessi riferimenti biblici che sovente, con pratica ripetitiva che paradossalmente affaccia un certo senso di blasfemia (come se davvero il pretuncolo lefebvriano abbia intervistato Domineddio avendo da lui il licet perché “Dio lo vuole!”), abbisognano, non soltanto nelle sale dell’accademia ma anche fra gli sgabelli degli oratori e del formativo catechismo parrocchiale (per non dire delle omelie delle messe e d’accompagno ai sacramenti), di un passo più leggero, più leggero per davvero! Galileianamente ci interroghiamo e interroghiamo, il Concilio ci ha incoraggiati alla schiena eretta nella comunionalità non nell’avversione, e quasi quasi riconosciamo ormai soltanto la cattedra dell’inquietudine e della ricerca benché ciò non possa distaccarci dall’amore partecipativo che resta la missione alta di ogni esistenza.

Un libro, un mondo

Le linee-guida, mentre procede la faticosa ricerca di senso che deve coinvolgere, in un’opera pedagogica di ampio spettro, l’umanità intera che sappia viversi come popolo largo, vanno riassumendosi, a me sembra, in quella sentenza della paolina Evangeli Nuntiandi (1975): «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri o, se ascolta i maestri, lo fa perché sono dei testimoni», che resta anche una indicazione pedagogica, di stile e di contenuto, alla quale occorre attenersi.

Leggi le pagine di Colligite III (numerose ma rapide, agili) e ti fai presto una idea di quanto prezioso e gustoso sia viaggiare nel mare della Chiesa e toccare cento, mille rive. Potrei dire qui che, elencando per categoria funzionale, o chiamala giustamente ministeriale, gli uomini del Concilio, della sua preparazione, della sua celebrazione, della sua elaborazione o rielaborazione nel tempo – da Pio XII ai papi delle convocazioni e a quelli delle sedimentazioni, alle innumerevoli eminenze-eccellenze a capo di sedi europee ed americane, di curia e di frontiera, agli avanzati “facchini” della Divina Provvidenza come don Giulio parroco di Rifredi – il paniere tematico s’espande con tutta naturalezza quanto neppure immagini. Vi trovi inclusi gli ebrei già catalogati perfidi e deicidi e ribattezzati quindi “fratelli maggiori” e l’America latina del peggior capitalismo militarizzato, la conversione di dom Hélder Camara e l’ospitalità di “quelli di Taizé”, l’ostpolitik e la mafia siciliana, il patriarcato di Costantinopoli e il partito comunista italiano, l’estremismo islamico ed il beato Rosmini delle “cinque piaghe”, la scuola popolare e la parresia di un prete-exprete, il terrorismo italiano e la dittatura cilena, il meridionalismo nazionale e le campagne pacifiste internazionali… Il campo largo della storia e del pianeta, potremmo dire.

Questo Colligite III, ma non di meno si sono presentati gli altri due che l’hanno preceduto, mi ha dato la gradevolissima impressione di uno smistatore dell’utenza che indirizza alla materia preferita, ma anche – e la preferisco – l’impressione di un’intelligenza partecipativa che sappia e voglia raccontare le complessità che tutti ci coinvolgono. Qui prendendo lo spunto da fatti di religione e però dimostrando come la religione si interpoli con quant’altro campo dell’umano abbia cittadinanza nella storia, nella meravigliosa storia contemporanea che è la casa comune.

Riprende i fili dei contributi particolari venuti dai… coprotagonisti – tali direi possano definirsi anche gli epigoni, i tanti a noi più vicini, se il Concilio è visto non soltanto come il blocco delle quattro sessioni episcopali ma come fluido riversamento dottrinale e pastorale, lo chiamerei umanistico, offerto ai continenti – e nel conto mette soprattutto, Cabizzosu, la famiglia clericale, perché è della e dalla famiglia clericale che si tratta e si prende, riservando una parte che si fa relativamente marginale, almeno sul piano quantitativo, ai laici e fra i laici al gran mondo femminile.



Converrà pensarci e pensarci non poco, andando non per aggiustamenti ma per… rivoluzioni. Li scorgi tutti nel libro: i papi e gli uomini del grande apparato di governo ora centrale ora nazionale, Casaroli e Tardini, Martini e Biffi, Dell’acqua e Silvestrini, Lercaro e Benelli, Laghi e Romero, Rodriguez Maradiaga e Bagnasco, Pavan e Bassetti, Vairo e Bello, Silva Henriquez e Braz de Aviz, Magrassi e Chenis… e quanti altri nel presbiterato attivo, grandi e grandissimi s’intende, Barsotti e Turoldo, Mazzolari e Milani, Dossetti e Guicciardini, Santoro e Facibeni, Arrupe e Puglisi… Giganti, i più. Giganti autentici, alcuni eroici perfino – si pensi a Romero –, uomini di profezia come Turoldo e Milani, come Tonino Bello e Carlo Maria Martini prefigurante un terzo Concilio, forse un concilio cristiano interconfessionale per l’umanità del terzo millennio.

Mi viene facile qui, già intanto sfogliando questo Colligite III cogliere nelle conclusive e riassuntive pagine dell’indice, ne abbiano esse consapevolezza oppure no, il gran peccato – ostinato peccato – dell’ordinamento ecclesiale al quale anche ho già fatto fugace riferimento: emerge dalla sequenza dei cento paragrafi riuniti nelle cinque sezioni (“Linee generali”, “Papi e Concilio”, “Vescovi conciliari”, “Sacerdoti, religiosi/e figli del Concilio”, “Laici del Concilio”) la certificazione di una certa fissità istituzionale ingiustificata a fronte tanto della missione quanto della storia che chiama (tutti i battezzati) alla partecipazione ed alla responsabilità.

Step conclusivo (o preliminare?): la questione della presenza femminile nella Chiesa

Voglio dire questo: se la Chiesa è un fatto integralmente di popolo invece che un fatto prevalentemente istituzionale e perciò clericale, suona male – continua a suonare male (ma s’intende che Cabizzosu non ne ha nessunissima colpa! la cosa vale anche nei canoni della messa) una elencazione che pone puntualmente all’ultimo posto proprio il popolo, quasi si trattasse di un fattore aggregato della grande composizione.

Dato quanto appena rilevato e considerato anche il virtuoso temperamento offerto nella voce “Religiosi/religiose”, in secondo luogo è da constatare quanto la presenza femminile – nonostante la prevalenza dimensionale nel corpo ecclesiale visto nella sua compiutezza – risulti, nel tutto, assolutamente marginale e marchi così, e denunci, uno dei principali e perniciosi limiti della Chiesa cattolica “storica” come la conosciamo: la giustapposizione cioè dell’elemento clericale a quello ecclesiale.

Prendo proprio lo spunto da quanto Cabizzosu espone in questo suo ultimo volume e che, a sua volta, riprende – direi ancora fotografa –, attraverso la vasta produzione editoriale passata al suo commento, la realtà di Chiesa quale ancora oggi si presenta alla nostra osservazione: scontati ovviamente i risultati di genere riferiti a papi e vescovi, ci si provi a frugare nei capitoli “Sacerdoti, religiosi/e figli del Concilio” e “Laici del Concilio”: i protagonismi femminili s’affacciano mi pare cinque volte su 29 chiamate: alludo a madre Anna Maria Canopi, ad Adriana Zarri, alle missionarie salesiane in Argentina (fra la Patagonia e la Terra del fuoco), alle “nascoste” ed alle “inquiete” tutte d’inizio Novecento (raccontate nei libri di Maria Chiaia e Federica Maveri).

E anche quando sia possibile recuperare qualche evidenza dai due precedenti volumi che con felice intuizione figurativa l’autore aveva titolato Colligite fragmenta (il primo uscito nel 2019, il secondo nel 2021, anche essi come il presente editi dalla Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna col marchio PFTS University Press) il quadro non cambia. Perché, a voler ridurre tutto a pochi numeri, direi che la presenza femminile resta confinata, almeno apparentemente, nella irrisorietà: ad una sola recensione, alla recensione di un solo libro, impaginata nella sezione “Laici e Concilio” e precisamente all’articolo “Il Concilio più largo. Laiche, laici, non cattolici. La presenza delle donne in Concilio” (riferito ad uno studio di Paola Poli) ed a cinque riferite invece alle consacrate (sezione “Religiose e Concilio). Qui Cabizzosu ha accolto la carmelitana scalza Emanuela Ghini, due volte la benedettina madre Maria Giovanna Dore, le benedettine madre Maria Emanuela Manca e suor Maria Annunziata Sedda, la trappista Maria Pia Gullini.

Quanto e come, poi, nel secondo volume della trilogia? La misura è la stessa: un capitolo con cinque contributi (“Donne e Concilio”) e il riferimento all’operaia giuseppina madre Maria Agnese Tribbioli (cui il nostro autore dedicò nel 2008 un importante studio in due volumi: Coraggio sempre e amore grande!), alla domenicana suor Ancilla Beretta, alla laica gonnesa Tina Garau. A buona integrazione l’autore ha volto due altri articoli: “Madri del Concilio. Ventitré donne al Vaticano II” e, forse eccentrico riguardo al Concilio ma importante per altri aspetti, “Donne sugli altari. Le canonizzazioni femminili di Giovanni Paolo II”.

Questa mia preliminare rassegna critica – la cosa è di tutta chiarezza – non contesta ma, al contrario, dà implicito merito al lavoro di Tonino Cabizzosu che, volendolo o non volendolo, registrando comunque un dato di fatto, rivela con crudezza l’improprietà storica della Chiesa cattolica come dimidiata fra un voler essere e un saper essere nei termini comunitari, per non dire comunionali, perché la clericizzazione, associando il dato carismatico (ministeriale) ai ruoli di governo (o di “potere”), ha inevitabilmente, nell’arco di due millenni, estromesso le donne dalle più significative aree di responsabilità ecclesiale.

Sia ben chiaro che non voglio per nulla sostenere un femminismo d’accatto, nel range ecclesiale. Questioni come il sacerdozio femminile di cui spesso si parla – altro sarebbe il diaconato – le considero piuttosto di retroguardia, non di progressismo, perché mi pare ignorino il rischio di imprigionare anche le donne in una clericizzazione dalla quale invece la Chiesa, che pur ha necessità vitale di una dimensione ministeriale, deve emanciparsi. L’orientamento dell’attuale pontificato pare colga questa necessità che va ad esprimersi in una più larga e diffusa responsabilizzazione del laicato. Si ha notizia di numerose confidenze venute da papa Bergoglio di lato ai discorsi e agli scritti pubblicati: smontando, sì bonariamente ma anche con fermezza argomentativa, le pressioni ricevute, già ai tempi del suo episcopato argentino, per l’ordinazione presbiterale di qualche eccellente catechista («Lasciategli fare il catechista, ché lo fa così bene…»).

Neppure deve, all’eccesso opposto, e senza considerare la natura profonda della Chiesa definita dal Concilio “popolo di Dio” che non va con nessun bilancino a stabilire artificiosi equilibri di potere fra generi uomo-donna così come fra culture etniche o appartenenze continentali, ignorarsi l’importanza che nel mondo cattolico – direi nella galassia cattolica – hanno le congregazioni religiose femminili operative, con professionalità crescenti (seppure con numeri in calo verticale), chi nell’educazione scolastica (anche della prima infanzia) chi nell’assistenza sanitaria o carceraria chi nella Caritas e nei servizi alla socialità, ecc. Neppure sono trascurabili, pur restando sempre confinate in limiti ancora storicamente ingiustificati, le presenze femminili nei ruoli docenti degli istituti teologici e delle facoltà universitarie, ecc.

Ad una maggiore orizzontalità delle partecipazioni, secondo la metafora paolina (prima lettera ai Corinzi) del corpo con molte membra, dovrebbe corrispondere una formidabile declericizzazione e ancor più un diverso modello di presbitero che non necessariamente dovrebbe essere il capo-presidente della comunità, potrebbe esserlo e potrebbe non esserlo a seconda delle situazioni; quanto poteva essere utile e forse obbligato un tempo, potrebbe non esserlo oggi e neppure in futuro. Altre volte, confrontandomi con l’amico don Angelo Pittau, proposi un apprendistato in terra di missione tropicale per i giovani preti ordinati da noi: insieme con un sentimento di comunità piena essi forse riporterebbero in patria, giusto dove è invece cresciuta, con la relativa diffusa agiatezza materiale, la malapianta dell’individualismo e della deresponsabilizzazione, la furia contro ogni burocrazia sclerotizzata e inutile e perfino contraria al decoro del gran servizio alla fraternità vissuta. Distante la missione ecclesiale e presbiterale dalla carriera dei classici impiegati postali o catastali, garantiti da promozioni successive e con in supplemento lo stipendio e la casa…

Ci sarebbe da pensarci. Il Concilio è come se avesse liberato le menti abilitandole ad ogni sperimentazione nella logica della fraternità praticata. La varietà delle esperienze rivelate dai cento coprotagonisti della scena religiosa e consegnate ai libri recensiti da Tonino Cabizzosu incoraggia molto a tentare un… impossibile che invece è ben possibile.

***

Scrivo queste note mentre continuano a giungere, drammatiche, le notizie da Kiev e dalla Ucraina tutta. Sia maledetto chi ha scatenato l’inferno ed ha provocato la morte e la sofferenza di tanti innocenti. (Ed ancora una volta abbiamo la plateale dimostrazione della nullità liberale degli esponenti della destra italiana, pagana e imbrogliona, da cui insistenti sono venuti, negli anni, gli accarezzamenti ad un pericoloso dittatore nato).


Fonte: Gianfranco Murtas
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