Emilio Lussu sardoAzionista: «Per una repubblica democratica, non socialista». Quel discorso del 5 maggio 1946 al teatro "Eden" di Cagliari
di Gianfranco Murtas
Credo non possa esserci democratico di sentimento progressista che non ami, in Sardegna ovviamente più che altrove, Emilio Lussu. E lo ami per l’umanità che ne ha costituito il primo tratto identitario personale e per la passionalità della sua battaglia politica certo non esente da incertezze e cadute ma riconosciuta – anche da chi politicamente ne è stato distante (come io stesso per molti aspetti) – come necessaria e preziosa alle sorti storiche della patria emancipatasi dai lacci della dittatura.
È una figura pubblica complessa quella di Lussu e qui non indugio ad analizzarla dal mio (soggettivo) punto di vista. L’ho fatto in molti articoli e in svariati libri negli ultimi quarant’anni, perfino in qualche convegno a lui dedicato, memore anche di un incontro personale con lui, nella sua abitazione cagliaritana, nel 1972. Ma la ricorrenza di calendario – il 75° del referendum istituzionale che portò l’Italia dalla monarchia alla repubblica – mi ha spinto a ritornare ed a riproporre un importante discorso del Capitano sempre sardista ma fattosi anche, nei passaggi dell’antifascismo, gielle ed azionista con vocazione socialista.
All’Eden di Cagliari, parlò meno d’un mese prima del referendum e della votazione per l’Assemblea Costituente: parlò davanti a centinaia di cittadini ed elettori, certamente non tutti sardisti lanciando le sue parole d’ordine. Chiarendo che non intendeva caricare di contenuti dottrinari la Repubblica sognata – non socialista né, tanto meno comunista (Stalin era padrone di mezzo mondo dopo la fine della guerra e stava per estendere la sua rete sull’intero est slavo) – e che, se il federalismo non fosse entrato nelle priorità delle scelte della rinata democrazia, certamente il principio autonomistico – non di decentramento, ma proprio di regolamentata autonomia politica – avrebbe dovuto imporsi come elemento innovatore e di trasformazione dell’intero apparato statale.
Il sogno, anzi il progetto: «… una Repubblica Democratica, nella sua costituzione e nelle sue leggi fondamentali, nella sua legislazione penale, civile, commerciale, nella legislazione sociale, industriale, agraria, bancaria, nella sua cultura superiore e popolare, nella sua organizzazione del lavoro e nella difesa dalla miseria, una Repubblica Democratica che tutto può realizzare se si articola nella sua nuova struttura, per cui lo Stato non è più un dispotismo centrale burocratizzato, incompetente spesso, lento sempre e registratore impotente d'ingiustizie sistematiche, ma un centro armonico di coordinazione della multiforme attività generale delle varie parti geografiche e dei vari settori economici del Paese…»;
«La Repubblica comunista non la vuole nessuno, e tanto meno il Partito Sardo d'Azione... E neppure Repubblica socialista. Noi del PSd'A, che siamo venuti alla lotta politica inizialmente con i combattenti attorno ai lavoratori della terra, agli operai e intellettuali, e siamo stati e siamo un movimento socialistico di emancipazione umana nel lavoro e tendiamo alla fine d'ogni oppressione sociale e politica dell'uomo sull'uomo, reclameremo alla Costituente uno Stato democratico, capace di realizzare i postulati sociali e politici del nostro tempo, democraticamente, nella legalità democratica che comporta la critica, che comporta minoranze, e in cui la legge discende dalla volontà liberamente espressa dalla grande maggioranza dei cittadini…»;
«L'Autonomia della Sardegna va collocata nel grande quadro di questo Stato democratico nazionale. Ma noi abbiamo coscienza che anche alla nostra volontà e alla nostra azione politica è legata la democrazia in Italia. Lo Stato repubblicano nazionale sarà anche una nostra conquista...»;
«Una costituzione federale dello Stato italiano darebbe spontaneamente la soluzione del cosiddetto problema politico meridionale… Se l'esigenza dello Stato federale è sentita da pochi, quella dello Stato autonomistico è sentita da tutti i partiti, sia pure in differente misura…»;
«… per noi il decentramento non significa nulla. O peggio, significa la negazione dell'autonomia. Il decentramento discende dall'Autonomia, ma non la sostituisce… Il decentramento è una concessione di natura burocratica che cade dall'alto: l'Autonomia è una conquista e una riforma di natura politica, costituzionale. Il decentramento non esige la trasformazione dello Stato, l'Autonomia la presuppone…».
Sia pure con la moderazione consigliata dalle circostanze, Lussu ormai dai tempi dell’esperienza gielle si professa socialista: e sostenendo una linea socialista ha provocato la rottura, appena tre mesi prima del discorso dell’Eden, del suo partito nazionale, quello al quale il Partito Sardo gli ha consentito di abbinare la sua militanza politica certificata – caso unico ed eccezionale – dalla doppia tessera: sardista e azionista. Ed a quel congresso di febbraio, celebratosi a Roma, Ferruccio Parri ed Ugo La Malfa e molti altri con loro – fra gli altri, dei sardi, Stefano Siglienti – hanno dovuto abbandonare i lavori: non serviva un altro partito socialista oltre al PSIUP ed al PCI, essi sostenevano non a torto.
Ridotto così il Partito d’Azione ad essere un partito socialista (destinato nel giro di un anno a confluire in un PSIUP appena ridiventato PSI per la scissione dei saragattiani), Lussu vive o vivrà in proprio, per due o tre anni, una contraddizione: eletto alla Costituente, con Pietro Mastino, nella lista sardista, si iscriverà al Gruppo Autonomista di Montecitorio inclusivo anche dei sette azionisti e di un valdostano; nel 1948 – quando già il Partito d’Azione non esisterà più (per l’intervenuta confluenza nel PSI) – combatterà, a luglio, nel congresso sardista della Manifattura Tabacchi, essendo senatore di diritto iscritto, ancora con Mastino e Oggiano, nel Gruppo Democratico di Sinistra e realizzerà la scissione del Partito Sardo d’Azione socialista, mentre a dicembre uscirà dai Democratici di Sinistra, a Palazzo Madama, per confluire nel Gruppo del PSI; e nel 1949, con il suo Partito Sardo d’Azione socialista parteciperà – obiettivamente concorrente anche della lista del PSI – alle elezioni regionali di maggio, riuscendo eletto in Consiglio (ma poi rinunciando al seggio evidentemente incompatibile con quello senatoriale), ed a novembre – soltanto a novembre – metterà fine alla sarabanda di sigle e militanze, confluendo formalmente, con tutto il PSd’A socialista, nel PSI ed ottenendo da Pietro Nenni la tessera socialista del 1919, come a dire che il sardismo e anche il movimento dei combattenti fin dal primo momento avrebbero meritato di qualificarsi socialisti!
Sicché, prefigurando questi sviluppi, nella primavera del 1946, in quel discorso al teatro cagliaritano di via Roma, sostiene la piena compatibilità dei postulati socialisti con quelli del federalismo, ribattendo così all’accusa di contraddizione che gli aveva opposto Ugo La Malfa e anche assorbendo la tradizionale avversione – forse avversione più che indifferenza – alla cultura autonomista o regionalista (per non dire federalista) del partito di Nenni e Basso, ma anche di Pertini e degli ex azionisti come De Martino e Lombardi, ecc.
Si direbbe che, ancora in quel tempo, il Partito Socialista ignori il problema. Eppure non è così – risponde Lussu anticipando, e dandolo per scontato, quel che invece non avverrà: l’estensione alla Sardegna dello statuto speciale siciliano da parte del governo su parere favorevole della Consulta Nazionale. Quando invece capiterà che lo sforzo in tal senso dei consultori azionisti – appunto Lussu con Mario Berlinguer, Francesco Fancello e Stefano Siglienti – sarà frustrato dal no che dalla Sardegna stessa, dalla Consulta Regionale sulla prevalente pressione invero del PSd’A (diviso anche in questo) più che dei socialisti, verrà, obiettando – forse giustamente in punto di logica ma non di buon senso (o pragmatismo) – che se si vuole uno statuto autonomistico questo non può essere confezionato e quasi ottriato da terzi!
Aggiunge poi: «Alla Costituente, noi sosterremo una struttura organizzativa dell'ente Regione, che di più s'avvicini a quella che si avrebbe in Sardegna se lo Stato italiano fosse organizzato federalisticamente. E ciò è logico ed ispirato al più sereno buon senso. La Sardegna non è una regione qualsiasi dello Stato italiano: è un'isola, molto lontana da Roma e dal continente italiano. La sua lontananza dalla Capitale, che oggi regola tutti i nostri affari, crea un isolamento esasperante, tale da influenzare morbosamente anche la psicologia di parecchi fra di noi».
E ancora: «Per noi tutti, è pacifico che la legislazione penale, civile, commerciale e sociale, dovrà essere unica per tutta l'Italia, e che allo Stato centrale, di cui peraltro noi saremo parte, spetterà la esclusiva competenza sugli affari d'interesse generale nazionale. Ma non sarà pacifico per tutti gli altri la costituzione del Demanio Regionale Sardo, composto dalle ricchezze giacenti in Sardegna, ivi compreso l'attuale Demanio dello Stato. E non sarà pacifica l'Autonomia doganale… La grande resistenza ci sarà opposta, più che dagli uomini e dai partiti politici, dalla Burocrazia… I mandarini cinesi, cinquant'anni fa, erano ancora convinti di essere i più geniali e dinamici amministratori della terra».
Descrive la bellezza naturale della democrazia pluralista - «I partiti politici… sono un prodotto naturale della società presente. Essi rappresentano interessi sociali e politici ben definiti e definite aspirazioni ideali… Chi pretendesse far sparire o unificare tutti i partiti sarebbe fuori dalla realtà della vita. I partiti sono gli strumenti della lotta politica e non spariranno che con la fine della lotta politica: cioè mai» – e conclude, Lussu, riferendosi alle difficoltà presenti nella scena internazionale che l’Italia, con Alcide De Gasperi, cerca di affrontare al meglio e con la massima dignità: «Io penso che nessun governo potrà firmare il trattato di pace, se questo fosse un'insopportabile ingiustizia per il popolo italiano che ha sacrificato tutto se stesso per collaborare con gli Alleati alla vittoria comune. Penso anche che i nostri rappresentanti alla Costituente dovranno contribuire a far sì che i nostri rapporti internazionali non ci portino a una politica di blocchi la quale non potrebbe avere che la guerra come conseguenza. L'Italia ha bisogno di ricostruire nella pace».
Ma contrariamente a quanto Lussu immagina, motivando nel 1949 la sua contrarietà al Patto Atlantico, non sarà dal neutralismo che l’Italia potrà risorgere ma nell’alleanza occidentale, non gratuito ma necessario, con l’America da cui verranno i fondi del Piano Marshall (mentre in Sardegna dalla Fondazione Rockefeller verrà lo sradicamento malarico)…
Cittadini e compagni!
Queste elezioni politiche per la Costituente e per il referendum istituzionale, rappresentano, dopo l'unità nazionale, il più grande avvenimento storico al quale son legati l'avvenire e le sorti della democrazia in Italia. Quella che andiamo compiendo è una rivoluzione legale: esattamente come l'avvento della seconda Repubblica in Francia. E per la prima volta, nella nostra storia, ciascun cittadino - uomo o donna - è sovrano partecipe della sovrana ricostruzione dello Stato.
Perciò, ai rappresentanti dei partiti è fatto obbligo di un linguaggio responsabile, più politico che elettoralistico, più meditato che agitatorio, per cui i candidati non parlano di voti ma esprimono la propria coscienza alla moltitudine popolare che deve esprimere individualmente la sua. Non si chiede niente di quello che non si può avere. Non si promette niente di quello che non si può dare. Non si porta insomma corruzione demagogica nella vita del Paese. Questa è infine una competizione d'interessi e d'aspirazioni ideali, al di sopra degli uomini con nome e cognome e stato civile, al di sopra del bene e del male di ciascuno. Parlando, a nome del PSd'A, io sento queste esigenze morali e politiche, e le sento non solo da sardo, ma da italiano, e da europeo, cittadino d'un mondo sconvolto dalla guerra e chiamato a ricostruire la sua vita nella collaborazione universale dei popoli liberi.
Non vi sono grandi partiti e piccoli partiti, ma idee, idee che sono grandi o piccole, a seconda del contenuto che le suscita, per cui possono essere attuali o superate, parassite o apportatrici di liberazione e di vita, stagnanti e immobili oppure dinamiche o motrici; in una parola: idee vive oppure morte.
E non vi sono idee rinchiuse in una regione: il pensiero e la civiltà moderni non consentono tali limitazioni. Un'idea chiusa è un cadavere sepolto in una tomba. Nella misura in cui un'idea circola ed è compresa oltre il cerchio originario degli uomini e del territorio che le hanno dato vita, essa esprime la sua attualità e la sua verità.
Quando noi parliamo di autonomia, non intendiamo solo affermare l'inderogabile esigenza della trasformazione dell'organizzazione amministrativa e politica in Sardegna, cioè del nostro autogoverno, nel quadro della unità nazionale e dello Stato italiano, con la fine delle ingiustizie di cui l'Isola è vittima da secoli; ma reclamiamo anche una radicale trasformazione autonomistica di tutto lo Stato: i mali vanno soppressi qui e altrove, per noi e per tutti. E siamo consapevoli che la nostra autonomia più facilmente si otterrà, e ottenuta, più facilmente e durevolmente potrà essere salvaguardata in Sardegna se dei principi autonomistici sarà permeata tutta l'organizzazione dello Stato e la coscienza dei cittadini. Potrebbe il Canton Ticino sopravvivere come cantone autonomo federato, se il resto della Svizzera non fosse organizzato autonomisticamente e federalisticamente?
Ma, parlando d'autonomia, già da 25 anni (e ho qui presente la grande anima di Camillo Bellieni), noi portavamo, così come portiamo oggi, un'aspirazione autonomistica che era nuova nella democrazia italiana.
Autonomia che è autocoscienza dell'uomo diventato libero e uguale giuridicamente e socialmente, autonomia che è dignità umana, libertà e iniziativa, che diventa, portata dalla coscienza dei cittadini nelle intraprese individuali e nelle organizzazioni e negli istituti collettivi, del comune, della lega, del consorzio, delle cooperative, della regione, la base della vita sociale e dello Stato, per cui questo diventa coordinazione e sintesi e cessa d'essere padrone e despota.
Autonomismo è antitotalitarismo. Noi autonomisti siamo questo tutto: e autonomia e autonomismo, realtà sarda e tendenza dello spirito assieme: particolare ed universale. Non fummo noi, dopo l'altra guerra, che ci chiamammo sardisti: furono i nostri avversari. Da quel momento «sardisti» è diventato sinonimo di «autonomisti». Noi lietamente accettammo l'appellativo che i nostri avversari ci dettero, e lo facemmo nostro: così come pare abbiano fatto in Inghilterra i wigs e i tories, che furon poi i liberali e i conservatori. Ma noi nascemmo, come partito politico, autonomisti, e siamo autonomisti; autonomismo non ha mai cessato di avere quel suo primo significato originario, che fu il suo atto di nascita. È per questo che il nostro autonomismo diventa parte integrante, e io aggiungo, necessaria delle correnti democratiche e socialiste italiane ed europee nei paesi a civiltà occidentale, con le quali per altro si sente strettamente affine, sino a potersi con esse confondere, questa nostra democrazia sorta in Sardegna dopo l'altra guerra. Per questo, dovesse per ipotesi il nostro movimento confluire in altri movimenti politici, in affini movimenti italiani ed europei, noi non perderemmo mai questa nostra impronta e questa nostra esigenza autonomistica. Per questo ciascuno di noi, dovunque egli si trovi, in Calabria o nelle Puglie, negli Abruzzi o in Toscana, in Liguria o nel Veneto, e prenda parte alla vita locale e vi combatta per la democrazia, si sentirà sempre autonomista. E autonomista rimarrà chi viva in Svizzera, in Francia o in Inghilterra. Per questo io sono rimasto autonomista e l'autonomismo ho portato, durante quest'ultimi 20 anni, in «Giustizia e Libertà» e nel Partito d'Azione.
Mi sia permessa una parentesi: debbo dichiarare che, se nella mia vita io non avessi fatto altro che dare la mia azione politica a «Giustizia e Libertà» e al Partito d'Azione, io potrei dire d'averla degnamente spesa. Comunque possono essere giudicati, e in politica tutto è in vario modo giudicabile, «Giustizia e Libertà» e il Partito d'Azione hanno scritto una pagina, a difesa della libertà e della democrazia, che rimarrà nella coscienza e nella storia del Paese.
I nostri avversari, alcuni in perfetta buona fede, credono di metterci nel più grande imbarazzo quando ci dicono: «E che sarete mai voi il giorno in cui la Sardegna avrà ottenuto l'Autonomia?». Che cosa saremo noi? Noi saremo e continueremo ad essere autonomisti. Allo stesso modo con cui un democratico non cesserà d'essere democratico il giorno in cui dalla Costituente avremo ricostruito in Italia lo Stato democratico. E così dopo la proclamazione della Repubblica i partiti che reclamano oggi l'instaurazione di un regime repubblicano non cesseranno d'essere repubblicani. Una conquista politica non si esaurisce con l'atto della vittoria. Essa reclama ogni giorno un'azione di difesa e di consolidamento, deve permeare di sé la vita sociale e politica, deve progredire e non retrocedere, deve ogni giorno comprendere e far sue le nuove esigenze della società che le esprime, e dell'esperienza che le impone, deve costantemente esser la fiaccola che una generazione consegna all'altra, che i padri tramandano ai figli. Goethe ha poeticamente espresso questa perenne necessità della lotta e dello spirito, alla fine di un atto del Faust: «Libertà e vita merita colui che per essa combatte ogni giorno». Autonomia, per noi, è libertà.
Allo stesso modo, i nostri avversari credono di confonderci, quando dicono: «Autonomisti siamo tutti». Incomincino intanto col dimostrarlo.
Con questa coscienza, che è anche italiana, europea ed universale, il PSd'A affronta la campagna politica. Esso non si sente estraneo a nessuno degli avvenimenti che sovrastano alla ricostruzione dell'Italia e che toccano il problema della pace nell'Europa e nel mondo.
È in queste difficoltà e sciagure, le più grandi che l'Italia traversa dopo l'invasione dei Barbari e la caduta dell'Impero Romano d'Occidente, che noi siamo stati chiamati a ricostruire lo Stato e la democrazia. Non si ricostruisce un bel nulla, se non si ricostruisce lo Stato.
Pertanto, innanzi tutto, si pone il problema: Monarchia o Repubblica? La coscienza del Paese, dalle Alpi alle Isole, ha già risposto.
Oggi, non si tratta già di discutere la necessità che sia conservata la Monarchia o instaurata la Repubblica, con ragioni teoriche astratte. Il problema è diventato puramente politico e storico. Vi sono dei periodi nei quali un paese non può che avere un regime monarchico e dei periodi nei quali il regime monarchico non risponde più né agli interessi né ai bisogni né alle aspirazioni del Paese.
Il Paese ha già chiaramente espresso il suo pensiero attraverso i partiti politici. I partiti politici organizzati, attorno ai quali gravita l'immensa maggioranza, la totalità quasi, del popolo italiano, hanno dato la loro risposta colle elezioni amministrative parziali. E la risposta è stata: Repubblica.
Dopo le elezioni amministrative, v'è stato un avvenimento che ha un'importanza decisiva per l'avvenire del Paese: il 1° Congresso Nazionale della Democrazia Cristiana a Roma. Su quasi un milione di rappresentati al Congresso, 740.000 hanno votato per la Repubblica e 254.000 per la Monarchia.
Questo partito, su cui si può discutere molto a lungo per la sua composizione sociale e per certi suoi indirizzi fanaticamente confessionali, nella propaganda, specie nel Mezzogiorno e nelle Isole, che preoccupano tutti i democratici e per primi moltissimi democristiani, ma che è numericamente un grande partito, un partito di masse, e che è un partito d'ordine e non un partito di disordine, dopo anni di tentennamenti e di dubbi, ha dato finalmente la sua risposta. E la risposta è stata: Repubblica.
Per capo d'anno, facendo gli auguri all'on. De Gasperi, Presidente del Consiglio e capo della Democrazia Cristiana, io gli dicevo: la Democrazia Cristiana ha in pugno le chiavi con cui può chiudere o aprire le porte del disordine permanente in Italia. Ebbene: io credo che esso le ha chiuse.
Votando per la Repubblica, le ha chiuse. Poiché, per cambiare un regime come quello che la monarchia sabauda rappresenta in Italia, in mezzo a tanta accensione di spiriti e distruzione e miseria e fame, non bastano poche migliaia di voti di maggioranza repubblicana: è necessaria una grande maggioranza, affinché la parte monarchica messa in minoranza riconosca senza riserve la volontà sovrana della Nazione ed entri anch'essa nel nuovo ordine repubblicano. La seconda Repubblica si affermò in Francia, dopo il crollo del secondo Impero, per un solo voto di maggioranza e non vi fu nessuna reazione. La Repubblica fu accettata pacificamente, senza eccezioni. Ma erano passati già 6 anni dal disastro militare e dal crollo politico, la pace era consolidata nei trattati e negli spiriti, i debiti di guerra erano stati pagati e sanate le ferite che la grande avventura aveva portato nel territorio nazionale.
Ma nelle presenti condizioni, l'Italia ha bisogno di una grande maggioranza repubblicana.
Questa grande maggioranza è rimasta anche dopo il Congresso Nazionale del Partito Liberale. Il quale non è più il grande partito dell'epoca prefascista, che è anzi un molto piccolo partito, numericamente non molto più grande in tutta l'Italia di quello che è il PSd'A in Sardegna, a tinte liberali alla superficie, conservatore e reazionario alla base, ma che ha un notevole peso politico in Italia e nell'opinione degli ambienti politici all'estero.
Durante le elezioni amministrative, in seguito alla uscita dal Partito Liberale dell'ala sinistra repubblicana, noi eravamo portati a ritenere che il partito fosse ormai tutto per la Monarchia. Il Congresso di Roma ha dimostrato che v'è ancora un terzo del partito che rimane repubblicano.
E così, viene ad aumentare la grande maggioranza generale che il 2 giugno voterà per la Repubblica.
V'è, dopo, tutto questo, parecchia gente, vecchi fascisti, nuovi fascisti, qualunquisti, antidemocratici, monarchici arrabbiati che continuano a dire quanto ci hanno ripetuto per oltre un anno inveendo contro i partiti facenti capo alla coalizione del CLN: «I partiti politici non rappresentano il Paese: essi costituiscono il Paese ufficiale. Il Paese vero, il Paese reale, siamo noi».
Lo stesso linguaggio parlavano i fascisti in Francia e nel Belgio, prima della guerra.
Ebbene, s'è visto alle elezioni amministrative. L'Uomo Qualunque, che non aveva fatto che coprire di contumelie i partiti della democrazia dichiarandoli senza seguito, l'UQ che vantava un milione e mezzo d'inscritti con un esercito di simpatizzanti, ha avuto in tutta Italia la maggioranza in 23 su circa 6.000 comuni, e tutta la concentrazione di destra monarchica 65.
È che la Monarchia è condannata definitivamente dalla coscienza del Paese, così come è condannato il fascismo.
La Monarchia, causa dei nostri disastri e della nostra rovina, condannata dal Paese, se vuole per un momento, l'ultimo della sua vita, servire il Paese, non ha che una sola cosa da fare: accettare serenamente il verdetto storico della grande giuria popolare, e andarsene.
Solo così, l'ordine, la pace interna, la ricostruzione materiale e morale e sociale del Paese, la ricostruzione della sua democrazia, saranno possibili.
Ma vi sono i gruppi reazionari che non vogliono arrendersi all'evidenza della Storia. Essi non sognano che la reazione, la reazione a tutti i costi, anche a costo di rovinare definitivamente l'Italia. E attorno a gruppi fascisti, i residui fanatici di un regime da cui traevano privilegi e vita grassa, tentano turbare la legalità che è necessaria per il libero responso del Paese, che è necessaria per la Costituente, e complottano e s'affannano a creare disordini, con la speranza di far rinviare le elezioni del 2 giugno e di rialzare le sorti monarchiche.
Basta vivere un solo giorno a Roma, centro di intrighi politici, quartier generale di tutti gli avventurieri sbandati che lavorano per ridare un'organizzazione e riafferrare il potere, per constatare che esiste un pericolo nella capitale e altrove.
C'è da attendersi più di un colpo di mano, come quelli avvenuti a Milano, a Roma e altrove, più d'un colpo di scena con abdicazioni e controabdicazioni, provocazioni armate in più parti e molte altre cose ancora, con cui si tenterà di rinviare o di sabotare le elezioni del 2 giugno e tentare di salvare così la Monarchia che si sente perduta. Ma le elezioni avverranno il 2 giugno e nessun avvenimento potrà impedirlo.
Al Partito Sardo d'Azione, ai vecchi e ai giovani, non dimentico dell'ottobre del 1922, io, se gli anni mi hanno conservato ancora un prestigio, dico questo: se degli avventurieri, volontari o mercenari, tentassero turbare, con azioni collettive illegali e violente, l'ordine legale democratico, dal quale solo dipende la vita della Nazione, il Partito Sardo d'Azione deve tenersi pronto, psicologicamente e nella sua organizzazione politica e sindacale, a levarsi come un solo uomo, qui nella nostra città e in ogni comune dell'Isola, per sostenere, se fosse necessario, il governo democratico, che è, in questa provvisoria fase della ricostruzione dello Stato, il solo governo legittimo; per sostenere, se fosse necessario, le forze armate e della polizia alle quali sono affidati i difficili e gravosi compiti della tutela dell' ordine e che - noi ne siamo tutti certi - saranno fedeli, con devozione filiale, alla volontà suprema della Nazione.
Da così grande disordine creato dal fascismo e dalla guerra e che assume proporzioni bibliche in ogni campo, morale, sociale, materiale e politico, noi siamo chiamati a ricostruire l'ordine, l'ordine democratico, con i suoi istituti e le sue leggi, voluti in comune e in comune accettati e difesi.
La Repubblica deve adempiere questo suo dovere storico.
Non è una repubblica qualsiasi quella che noi reclamiamo: una repubblica qualsiasi può valere una monarchia qualsiasi.
È una Repubblica Democratica, nella sua costituzione e nelle sue leggi fondamentali, nella sua legislazione penale, civile, commerciale, nella legislazione sociale, industriale, agraria, bancaria, nella sua cultura superiore e popolare, nella sua organizzazione del lavoro e nella difesa dalla miseria, una Repubblica Democratica che tutto può realizzare se si articola nella sua nuova struttura, per cui lo Stato non è più un dispotismo centrale burocratizzato, incompetente spesso, lento sempre e registratore impotente d'ingiustizie sistematiche, ma un centro armonico di coordinazione della multiforme attività generale delle varie parti geografiche e dei vari settori economici del Paese: uno Stato autonomistico. In questo Stato, la Sardegna, che è un'isola, deve possedere una sua organizzazione particolare.
È una Repubblica Democratica che, sopprimendo tutti i centri di parassitismo e di privilegio capitalistico che hanno finora esercitato un monopolio ai danni della generalità dei cittadini e influenzata sinistramente tutta la vita politica nazionale che ci ha portato al fascismo e alla guerra, potrà fare appello a tutte le oneste energie del lavoro e all'iniziativa privata.
Perché noi siamo e saremo alla Costituente per la radicale riforma industriale e agraria che investirà i grandi complessi capitalistici viventi esclusivamente di protezionismo, di vincolismo e di sovvenzioni statali, e il latifondo e le terre incolte e la grande proprietà terriera, senza mai danneggiare i superiori e generali interessi della produzione, sulla quale l'Italia di oggi non può permettersi di giocare.
Movimento popolare il nostro che ai lavoratori di ogni categoria, operai e intellettuali, contadini e pastori accomuna gli artigiani e i piccoli padroni d'aziende e i proprietari coltivatori diretti, fa suoi gli interessi di questi ultimi come quelli degli operai, dei contadini e dei lavoratori tutti, ma afferma anche la esigenza che la media azienda e la media proprietà terriera siano rispettate e difese: esse, che sono forze vive e non parassite della produzione, costituiscono l'indispensabile apporto all'opera della ricostruzione nazionale. Noi sosterremo che, nell'interesse sociale, talune grandi imprese d'importanza sociale passino alla collettività sia con gestione pubblica statale, sia con gestione regionale o municipale: le industrie elettriche e quelle minerarie ci appaiono non potersi sottrarre a questa riforma.
Ma la riforma agraria, reclamata già dall'altra guerra e riconosciuta oggi urgente, in minore o maggiore misura, da tutti i partiti della democrazia, appare come fondamentale in tutta l'Italia, e non solo nel Mezzogiorno e nelle Isole. È il grande problema della terra, del pane e della nuova civiltà rurale. Non ci si avvia alla democrazia, se non si risolve il problema. Che la grande proprietà compia il sacrificio richiesto nei limiti del giusto, e contribuisca a dare terra a quelli che vi lavorano dall'infanzia alla vecchiaia e non ne possiedono un palmo, e ad arrotondare o a rendere economicamente produttiva la piccola proprietà di quanti più che sfruttare la terra sono da essa sfruttati. Piccole aziende individuali, cooperative, consorzi, relativo sostegno finanziario col credito: ecco i punti. Che i bambini dei nostri buoni contadini non muoiano di fame, come spesso avviene in Sardegna e nel Mezzogiorno d'Italia, e che la terra diventi fonte gioiosa di vita. Che la coltura della terra, attraverso le multiformi caratteristiche regionali e le differenti colture e gestioni, esprima questa nostra ricca capacità di formare una libera democrazia rurale, non indegna cornice alla moderna vita cittadina.
Non Repubblica comunista dunque, come, per spaventare gli ingenui, vanno divulgando i fascisti, i monarchici e i reazionari d'ogni risma. La Repubblica comunista non la vuole nessuno, e tanto meno il Partito Sardo d'Azione. La Repubblica comunista, oggi, poiché i massimi dirigenti del Partito Comunista non sono certo degli irresponsabili, non la vogliono neppure i Comunisti. E neppure Repubblica socialista. Noi del PSd'A, che siamo venuti alla lotta politica inizialmente con i combattenti attorno ai lavoratori della terra, agli operai e intellettuali, e siamo stati e siamo un movimento socialistico di emancipazione umana nel lavoro e tendiamo alla fine d'ogni oppressione sociale e politica dell'uomo sull'uomo, reclameremo alla Costituente uno Stato democratico, capace di realizzare i postulati sociali e politici del nostro tempo, democraticamente, nella legalità democratica che comporta la critica, che comporta minoranze, e in cui la legge discende dalla volontà liberamente espressa dalla grande maggioranza dei cittadini. Il 2 giugno e alla Costituente noi saremo per questa Repubblica Democratica.
L'Autonomia della Sardegna va collocata nel grande quadro di questo Stato democratico nazionale. Ma noi abbiamo coscienza che anche alla nostra volontà e alla nostra azione politica è legata la democrazia in Italia. Lo Stato repubblicano nazionale sarà anche una nostra conquista.
Per noi, la Costituzione ideale è quella federale: nostro ideale è il Federalismo. La Repubblica svizzera ci offre l'esempio inconfondibile giuridico-politico dell'organizzazione che noi vorremmo dare allo Stato nazionale italiano. La Sardegna autonoma e federale avrebbe, nella Repubblica italiana federale, il posto che il Cantone ha nella Repubblica federale svizzera.
Da tale formazione costituzionale dello Stato italiano, in cui ciascuna regione o gruppo di regioni affermerebbe liberamente la sua individualità e svilupperebbe le iniziative nelle varie economie, del lavoro e della cultura, la sua capacità di risolvere i problemi locali e soddisfare alle sue aspirazioni particolari, deriverebbe un centro statale armonico di coordinamento e di guida ed una solidarietà nazionale infinitamente più cementata.
Né l'affermazione che tale organizzazione dello Stato è facilmente possibile in Svizzera perché quello è un piccolo paese, può avere un valore convincente. Gli Stati Uniti d'America sono un grande paese, uno dei più vasti del mondo, eppure l'organizzazione federale si rivela sempre più magnificamente efficiente.
Una costituzione federale dello Stato italiano darebbe spontaneamente la soluzione del cosiddetto problema politico meridionale. Non solo la Sicilia, ma tutte le regioni del Mezzogiorno, la Calabria, la Puglia, la Lucania, la Campania e anche l'Abruzzo e il Molise sono in una situazione di secolare abbandono, di arretratezza, di sfruttamento e di miseria, come la Sardegna. Anche là, come qui, beni comunali incamerati da privati, demanio statale composto di spoliazioni locali, boschi distrutti con operazioni commerciali e industriali di fredda rapina, risparmi assorbiti dal Nord, iniziative soffocate dal prepotere burocratico centrale, sperequazione nelle imposte, analfabetismo, tubercolosi e anche malaria.
Il problema meridionale è certo un problema che reclama, come qui, soluzioni sociali, ma è prevalentemente problema che troverebbe nella organizzazione federale dello Stato il suo più rapido avviamento alla soluzione.
Ma la corrente federalistica è debole in Italia: oltre uomini politici e studiosi isolati e gruppi minori, solo parte del Partito d'Azione e il Partito Repubblicano, che è numericamente un piccolo partito, lo fanno esplicitamente proprio.
Se l'esigenza dello Stato federale è sentita da pochi, quella dello Stato autonomistico è sentita da tutti i partiti, sia pure in differente misura.
È bene dire che anche le istanze autonomistiche sono più nel generico che nel concreto.
Per me, per esempio, è stata una certa sorpresa constatare che l'on. De Gasperi, nel discorso pronunziato al Congresso della Democrazia Cristiana, ha parlato di decentramento e non di autonomia. Eppure, già dopo l'altra guerra, egli era a fianco di Don Sturzo sostenitore della tesi autonomistica che aveva, nel Partito Popolare di allora, gli oppositori fra i moderati rappresentati dall'on. Meda che capeggiava la destra, e che erano solo per il decentramento. E dopo la caduta del fascismo si è pronunziato sempre per l'autonomia, anche nelle riunioni del Consiglio dei Ministri. Egli, certo, non mancherà di chiarire maggiormente il suo pensiero fra poco.
Comunque, per noi il decentramento non significa nulla. O peggio, significa la negazione dell'autonomia. Il decentramento discende dall'Autonomia, ma non la sostituisce. Per esempio: la Sardegna autonoma sarà decentrata nella sua amministrazione interna, ma non sarà decentrato lo Stato italiano. Lo Stato italiano dovrà basarsi su larghe autonomie e non su vasti decentramenti. Il decentramento è una concessione di natura burocratica che cade dall'alto: l'Autonomia è una conquista e una riforma di natura politica, costituzionale.
Il decentramento non esige la trasformazione dello Stato, l'Autonomia la presuppone.
Anche il Partito Socialista, nel suo manifesto politico per le elezioni del 2 giugno, non parla d'Autonomia. E non ne ha parlato neppure al Congresso di Firenze. Si direbbe che il Partito Socialista ignora il problema. Eppure non è così: perché anche nel Partito Socialista vi sono correnti autonomistiche e uomini che hanno posto la questione da anni. Non v'è incompatibilità fra socialismo e autonomismo, e non v'è neppure incompatibilità fra socialismo e federalismo: i socialisti svizzeri e i socialisti austriaci sono federalisti.
In compenso, tutti i partiti, alla Consulta Nazionale, si sono dichiarati favorevoli all'Autonomia, nell'esame che si è fatto del progetto d'Autonomia presentato dalla Consulta Siciliana. E anche il Governo, nel ricevere il progetto e nel mandarlo all'esame della Consulta Nazionale, ha dimostrato di essere favorevole: l'on. De Gasperi lo ha detto esplicitamente.
Il progetto d'Autonomia per la Sicilia, presentato dalla Consulta Siciliana al Governo e da questo alla Consulta Nazionale per averne il parere, è il risultato di un compromesso. È stato infatti discusso e approvato, nel dicembre scorso, dai rappresentanti di tutti i partiti alla Consulta Siciliana e dagli esponenti della cultura e dell'economia locale. Presentemente è all'esame delle commissioni riunite alla Consulta Nazionale (Affari politici e amministrativi, Giustizia, Finanze e Tesoro) e se ne avrà la conclusione nella riunione del 7 maggio. Io, impegnato come sono in Sardegna, non potrò assistervi, ma vi saranno presenti i consultori sardi Fancello, Berlinguer e Siglienti, i quali sull'Autonomia la pensano esattamente come noi. Il progetto sarà approvato ed esteso anche alla Sardegna, come Berlinguer ed io, membri della Giunta nominata dalle tre Commissioni riunite, avevamo proposto, nell'attesa che la Costituente regoli meglio la nostra Autonomia.
V'è una sostanziale differenza fra il progetto siciliano e quello presentato alla Consulta Sarda dal Partito Sardo d'Azione. Il progetto siciliano è inspirato a criteri autonomistici e compilato in modo tale da poter essere accettato da tutti i partiti e dai tecnici in Sicilia; il nostro si ispira invece a criteri federalistici. Si può pertanto discutere a lungo, ma vi saranno sempre divergenze. Alla Costituente, noi sosterremo una struttura organizzativa dell'ente Regione, che di più s'avvicini a quella che si avrebbe in Sardegna se lo Stato italiano fosse organizzato federalisticamente. E ciò è logico ed ispirato al più sereno buon senso. La Sardegna non è una regione qualsiasi dello Stato italiano: è un'isola, molto lontana da Roma e dal continente italiano. La sua lontananza dalla Capitale, che oggi regola tutti i nostri affari, crea un isolamento esasperante, tale da influenzare morbosamente anche la psicologia di parecchi fra di noi. Così si spiegano certe irritazioni psicologiche che, portate sul terreno politico, diventano delle vere e proprie aberrazioni.
Tale situazione esige si porti finalmente un'adeguata soluzione all'organizzazione costituzionale dello Stato nei rapporti con l'Isola. Noi facciamo affidamento sulla comprensione e sulla sensibilità di quelli che saranno i rappresentanti alla Costituente, consci della giusta causa dell'Isola nostra che ha sempre dato all'Italia, nelle grandi ore, sacrifizi senza lamenti.
Se sapremo essere uniti, noi otterremo sicuramente l'Autonomia, ma è evidente che avremo parecchie difficoltà da superare.
Per noi tutti, è pacifico che la legislazione penale, civile, commerciale e sociale, dovrà essere unica per tutta l'Italia, e che allo Stato centrale, di cui peraltro noi saremo parte, spetterà la esclusiva competenza sugli affari d'interesse generale nazionale.
Ma non sarà pacifico per tutti gli altri la costituzione del Demanio Regionale Sardo, composto dalle ricchezze giacenti in Sardegna, ivi compreso l'attuale Demanio dello Stato. E non sarà pacifica l'Autonomia doganale, per quanto economisti insigni, ai quali nessuno può addebitare scarso attaccamento alla Nazione e agli interessi dello Stato, riconoscano in essa la necessaria premessa della rinascita della nostra Isola.
La grande resistenza ci sarà opposta, più che dagli uomini e dai partiti politici, dalla Burocrazia. La Burocrazia sarà dura a mollare. Centralizzata fin dalla formazione del Regno, sempre più centralizzata in seguito, dal fascismo portata fino al dispotismo dichiarato, essa non si spoglia in un sol giorno del suo abito e del suo spirito. Anche funzionari, ottimi per dignità di vita, per intelligenza, competenza e responsabilità nel lavoro, sono ormai diventati vittime involontarie e inconsapevoli del sistema. Chi comanda, oggi, è ancora questa Burocrazia, pesante e onestamente soddisfatta. I mandarini cinesi, cinquant'anni fa, erano ancora convinti di essere i più geniali e dinamici amministratori della terra.
Sarà, per noi, una seria battaglia da combattere e da vincere.
A quelli che mi rimproverano di non aver profittato del mio prestigio, appena rientrato in Sardegna dopo la liberazione di Roma, per unire tutti i sardi in un movimento unico autonomistico, anche se insurrezionale, che sarebbe stato coronato dal successo, io mi permetto di rispondere: Non si riunisce un bel nulla di niente in un movimento unico.
I partiti politici non sono un'invenzione della malvagità o dell'ambizione degli uomini: sono un prodotto naturale della società presente. Essi rappresentano interessi sociali e politici ben definiti e definite aspirazioni ideali, e ogni cittadino vagheggia un partito a sua immagine e somiglianza. Chi pretendesse far sparire o unificare tutti i partiti sarebbe fuori dalla realtà della vita. I partiti sono gli strumenti della lotta politica e non spariranno che con la fine della lotta politica: cioè mai.
Solo un partito dittatoriale può con una minoranza o con una maggioranza impadronirsi del potere e subito dopo sterminare col ferro e col fuoco i cittadini che non si sottomettano al suo dispotismo: ma un partito di democrazia può fare tutto tranne che questo. Noi siamo attaccati alla libertà come l'edera all'albero, e nessuno può seriamente rimproverarci di tradire l'ideale della nostra vita.
Né si gioca con l'insurrezione: l'insurrezione non è un divertimento ginnastico. Non si fanno insurrezioni che nei momenti soggettivamente e oggettivamente favorevoli al successo.
Io mi scuso se debbo ricordare qui una certa mia competenza, sia pure esclusivamente teorica. Durante gli anni di un mio riposo forzato, in un sanatorio svizzero, una decina di anni fa, ho scritto un libro, destinato a pochi lettori: Teoria dell'Insurrezione. Ve ne risparmio l'esposto.
Si poteva tentare l'insurrezione durante il fascismo e durante la guerra, posto che i due fattori richiesti coincidessero, ma non dopo l'occupazione alleata. Dalla liberazione di Roma (epoca del mio arrivo in Sardegna) in poi, chi avesse parlato d'insurrezione sarebbe stato un irresponsabile. Credo sia sufficiente ricordare gli avvenimenti di Grecia.
Io mi debbo dichiarare felice che la Sardegna non abbia giocato avventure del genere e che abbia risparmiato all'Italia, nel periodo più tragico della sua vita, altre e maggiori ferite.
Qualcuno pare non voglia dare nessuna importanza a queste considerazioni e addita la Sicilia per rimpiangere quanto non s' è saputo fare da noi.
Là, in Sicilia, s'è vista l'unità di tutti i siciliani in un partito unico! I separatisti, che volevano il partito unico, si son trovati isolati contro tutti i partiti. Peggio ancora. Non solo non sono riusciti a unire tutti i siciliani, ma hanno finito col dividersi loro stessi. Oggi, si trovano scissi fra la destra e la sinistra del movimento: la destra ha i monarchici e i conservatori e fa capo all'on. Finocchiaro Aprile, la sinistra inquadra i repubblicani a tendenze democratiche. E per le elezioni per la Costituente hanno presentato due liste in contrasto, anche nella circoscrizione di Catania in cui il separatismo era il più forte. Solo a Palermo v'è lista unica, ma là il loro seguito è scarso.
Il movimento insurrezionale dell'EVIS, rientrando nella legalità, ha trovato le file dei separatisti non aumentate ma diminuite. Parte s'era già iscritta nella Democrazia Cristiana e parte nel Partito Liberale. Il 2 giugno ci darà il bilancio di un'azione politica molto discussa e discutibile.
Io mi sento con la coscienza tranquilla e credo d'aver servito, con la mia condotta, gli interessi dell'Isola e di tutta l'Italia.
Alle difficoltà generali in cui versa l'Italia, è nostro dovere non aggiungerne altre.
La situazione internazionale dell'Italia è grave, diciamo pure gravissima. Proprio oggi, l'on. De Gasperi rappresenta l'Italia alla Conferenza di Parigi: lo accompagnano anche tutti i nostri voti.
La pace sarà ancora rinviata e sarà il Governo che si darà la Costituente, che sarà chiamato a firmare per l'Italia. Quale sarà l'avvenire?
Io penso che nessun governo potrà firmare il trattato di pace, se questo fosse un'insopportabile ingiustizia per il popolo italiano che ha sacrificato tutto se stesso per collaborare con gli Alleati alla vittoria comune.
Penso anche che i nostri rappresentanti alla Costituente dovranno contribuire a far sì che i nostri rapporti internazionali non ci portino a una politica di blocchi la quale non potrebbe avere che la guerra come conseguenza. L'Italia ha bisogno di ricostruire nella pace.
Le difficoltà d'ordine internazionale si aggiungono a quelle interne che non sono meno gravi. Tutto è in crisi: la vita morale, materiale e politica del Paese. Noi porteremo il contributo della nostra azione per superarla con tutta la nostra decisione.
La libertà sarà minacciata per lungo tempo. Noi siamo chiamati a difenderla, ogni giorno, questa libertà, questo bene supremo, questa infinita luce della vita, per la quale (rievoco l'espressione di Carlo Rosselli, mio compagno e fratello, ucciso or son nove anni dai fascisti francesi e italiani non lontano da Parigi), per la quale vale la pena di combattere e anche di morire.
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