Gonnosfanadiga, il gemello diverso di Norbio nella rassegna fotografica di Marco Sardu
di Gianfranco Murtas
Sabato 9 dicembre 2006, un’autentica assemblea popolare. Oltre duecento gonnesi (e anche numerosi villacidresi) partecipano alla presentazione dell’ultima fatica di due autori già conosciuti e amati dal pubblico – vien strano chiamarlo così – del medio Campidano: Angela Maria Fadda, cidrese con ascendenze gonnesi, e Marco Sardu, gonnese che ha eletto Villacidro a sua patria di lavoro e relazioni sociali: Gonnosfanadiga, Figli del Linas è volume fotografico di grande formato, autentica biografia per immagini del paese – il paese del Rio Piras – tra fine dell’Ottocento e l’intero Novecento.
Fra gli intervenuti, dalla tribuna, per offrire il contributo della propria riflessione suscitata da un’opera tutta tesa sul filo della memoria per immagini e letteraria, oltre al sindaco e vice sindaco di Gonnos, anche il consigliere regionale Siro Marrocu, e – molto applauditi – i professori Benedetto Porcella e Licinio Contu. La serata è allietata da alcune letture – dalle didascalie del libro alla “Leggenda di Sardus Pater” di Giuseppe Dessì – proposte dai bravissimi Giampietro Orrù e Raffaella Nioi, della Compagnia teatrale “Fueddu e Gestu” di Villasor.
Ripenso a quell’evento intelligente e sentimentale. Ho avuto l’onore e il piacere di essere chiamato a coordinare gli interventi ed anche a svolgere la relazione introduttiva, interamente mirata al rapporto storico ed attuale fra Villacidro e Gonnosfanadiga, dato anche che Figli del Linas è il… gemello diverso di Risalendo la Fluminera, quadro storico, film storico anzi, di Villacidro.
Tornare in argomento è per me, anche oggi, ancora una volta, un modo per celebrare la memoria cara di Marco Sardu – amico valoroso e generoso – che un mese e qualche giorno fa ci ha lasciato, dopo aver affrontato, con coraggio, tante e prolungate sofferenze.
Ecco di seguito il testo della mia relazione in occasione della presentazione del libro da lui e da Angioletta Fadda curato con pazienza e infinito amore alla sua e nostra comunità.
Fra il paese d’ombre e quello delle antiche leggerezze
Se avessimo l’occhio, o la sensibilità del poeta potremmo azzardare una lettura anche simbolica dell’evento che ci riunisce oggi qui: cogliendone lo spunto in una coppia di autori – lei villacidrese, lui gonnese – che celebrano il territorio convissuto, dedicando prima – 1989 – un corposo e prezioso volume di 289 fotografie di grande formato al paese di lei – e nasce così Risalendo la Fluminera. Fotomosaico di Villacidro – ed offrendo oggi – diciassette anni dopo – al paese di lui un lavoro di ricerca, per molti versi analogo con le sue 325 istantanee, e altrettanto gustoso e suggestivo. Che suscita emozioni ed irrobustisce quel senso di filiazione che gli umani istintivamente e culturalmente (cioè per educazione) avvertono verso la propria terra. Ed ecco quindi questo Gonnosfanadiga. Figli del Linas.
Quindi a me pare bello vedere in questo percorso personale e di famiglia di Angioletta Fadda e Marco Sardu come una rappresentazione, intima e di buon volere, di un’altra associazione, direi creaturale, prima ancora che culturale o di risvolto economico, fra il paese d’ombre/Villacidro e il paese delle antiche leggerezze/Gonnosfanadiga.
Si è sempre detto – e certamente c’è molto di vero in questo, che – tanto più in Sardegna – ogni municipio, o campanile, sia una repubblica autonoma, orgogliosa e forse anche gelosa del proprio e dell’altrui.
Di Villacidro e Gonnos – che sono territori finitimi – potrebbero ricordarsi almeno sette od ottocento anni se non di contrapposizioni, certo di distinzioni, di separatezze come fra stato e stato, tant’è vero che sono menzionati, in qualche libro di storia, i toponimi dei punti di controllo armato di confine (da “sa guardia de su lillu” a “sa guardiedda”, ad altri ancora): da quando i cidresi facevano capo al giudice di Cagliari (curatoria di Siliqua) e i gonnesi a quello di Arborea (curatoria di Bonòrzoli – o Bonòrcili – identificabile nella Uras di oggi); e a continuare – lungo i secoli del feudalesimo aragonese-spagnolo e successivi ancora, tutti penosamente contrassegnati da sequenze epidemiche che trasformavano il territorio in un immenso cimitero –, dacché i cidresi divennero il cuore del marchesato dei Brondo di Castelvì e i gonnesi dovevano obbedienza al marchese di Quirra, Carroz-Centelles – sede in Tortolì e dominio fra Ogliastra e gran parte del territorio diocesano di Ales.
Bisognerebbe pensarci, a questa nostra storia in cui i nostri avi erano soltanto “cosa”, carne al servizio dei potenti: sudditi non cittadini, atomi eterodiretti non soggetti portatori di responsabilità sociale.
Forse allora neppure i monaci greci cui competeva, nella prima fase e comunque per lunghi secoli, l’opera di evangelizzazione della Sardegna riuscivano del tutto nella missione comunionale, che è cosa che va oltre la dimensione della pacificazione tra vicini. Certo è che in quel tempo altomedievale, fino a tutto il traversamento giudicale, la santa religione con la sua espressione delle chiese campestri, poteva costituire un collante d’identità. Ripeto: poteva, ma è problematico che lo abbia voluto, o ci sia riuscita. Si ripensi, nella semi-montagna, a Santu Miali – o Miabi – gonnese un tempo, cidrese (per quel che ne resta) oggi: là officiava un monaco bizantino con tanto di ottixeddu a valle.
Bisognerebbe studiarla bene questa storia lontana del quotidiano delle nostre comunità ad egemonia spirituale bizantina, fino al definitivo passaggio d’obbedienza alla chiesa di Roma. Per capire quanto l’istanza religiosa funzionava da regolatore dei rapporti sociali ed anche economici fra “villa” e “villa”.
Io non so se ci azzecco, ma sento che poteva esserci, o avrebbe potuto esserci, anche Santa Barbara – panegiricata dai monaci greci – a unire, in quel primo e lontano tempo, Villacidro e Gonnos. Santa Barbara è una santa africana, tunisina (di Nicodemia), del III secolo, decapitata – secondo la leggenda – da suo padre, che sarebbe poi stato incenerito da un fulmine; il suo culto in Sardegna è stato certamente portato dai religiosi bizantini e si è affermato soprattutto, ma non soltanto, nel meridione dell’Isola. Protettrice di architetti ed artiglieri, minatori e fabbricanti di fuochi ed armi, le sono state dedicate chiese in molti paesi e frazioni. Fra essi anche Villacidro e Gonnos, oltre che Ingurtosu di Arbus e Monteponi d’Iglesias, Nebida e Bacu Abis, ecc. I santi bisognerebbe sempre sfruttarli, quando si prestano alla condivisione.
Le nostre chiese, con demolizioni e ingrandimenti a più fasi, sono come un racconto materiale della storia secolare delle comunità. Gli impianti originari di gran parte di esse rimontano addirittura al XIII o XIV secolo: a Villacidro – soltanto un oratorio con tetto a capanna – l’esordio è del 1350 circa; a Gonnos – 5 m. x 10 – la data più remota documentata è di appena qualche decennio successivo; si trattava di piccoli manufatti, come due o tre stanzette di casa-tipo d’oggi… Ricorderei, a tal proposito, un bellissimo saggio/ricerca di Efisio Cadoni, uscito alcuni anni fa, sulle chiese, ripercorse in itinerario, della diocesi alerese: Fra i due millenni: il paesaggio dell’uomo.
Passano cento, duecento anni, magari passano anche pestilenze che assottigliano la popolazione, la disperdono, ne riuniscono al suo spegnimento le forze salve per una nuova ripartenza… Non ci sono più soltanto agricoltura e pastorizia, nell’economia che procede per separatezze fra territorio e territorio, fra feudo e feudo; ci sono adesso gli artigiani d’arte, protagonisti di un dinamismo interterritoriale nuovo, ed essi mitigano le distinzioni e le rivalità.
Dobbiamo immaginare il gran fervore nel fare di esperti muratori e falegnami, scalpellini e marmisti, cui si aggiungeranno poi gli artisti, proprio nell’area che più ci interessa, nel Sei-Settecento: Guspini, Gonnos, Villacidro. Quando nelle periferie dei due poli urbani della Sardegna – Cagliari e Sassari – che allora avevano le dimensioni press’a poco dell’attuale Villacidro: 12/15.000 residenti – iniziavano le campagne di scavo per trovare le tombe dei protomartiri cristiani e legittimare la primazia di un arcivescovo sull’altro. E’ il tempo dei rifacimenti delle nostre chiese, con gli abbellimenti delle cappelle laterali e dei campanili. Chiese che, andrebbe aggiunto, nel nostro territorio come ovunque, funzionavano anche da centro di snodo sociale e da cimitero, e in tempo di pace e soprattutto di colera.
Separatezze e mitigazioni. Nella storia moderna è cresciuta, fortunatamente, la dose delle mitigazioni contro le separatezze. C’è stata anzi – almeno dacché possiamo raccogliere una memoria quasi diretta dai nostri avi più immediati – una relazione positiva, cordiale, feconda, virtuosa, in quella società che era più povera di quella d’oggi e i commerci dell’agricoltura al netto della sussistenza, scendevano e salivano fra comunità un tempo definite di “villa” o di “oppidum”, o ci si inseriva – come avveniva fino a sessanta o settant’anni – nello stesso flusso di lavoro alla volta delle miniere di Ingurtosu e Montevecchio, per conquistarsi un salario, un pane, le risorse per mantenere la casa e crescere i figli che restavano in paese…
La fraternità si è celebrata spontaneamente, nell’ultimo secolo e mezzo, nella comunanza di vita, anche oltre gli orari della galleria, anche in quelli del riposo (mai, purtroppo, dello svago).
Nei tempi più recenti, naturalmente le ragioni di competizione restano sempre di più confinate all’ambito sportivo o agonistico – quando le squadre delle varie discipline giocano nella stessa categoria – ma per il resto l’aggregazione scolastica, fin dalla prima adolescenza, e la pur (e più) prosaica autoconvocazione collettiva nelle città-mercato realizzano una santa miscela di provenienze e residenze.
Mi pare proprio che, nella società d’oggi, il sentimento differenziatore della identità locale non s’insinui più nel microcosmo comunale – se non per il particolare monile o il costume della tradizione, magari anche per qualche lemma o inflessione del vocabolario paesano – ma prenda aggregati più larghi, di comprensorio e comunque muova da uno spirito né d’attacco né di rivalsa ma semmai di positivo confronto.
Chiudo questo cappello, per fatto personale, nel senso che debbo denunciare le ascendenze ed i legami con Gonnos, nella logica che ho prima affacciato. Cagliaritano figlio di arburesi, quattro intensi anni di vita a Villacidro mi fanno sentire mio questo territorio, anche di questo gonnese, se è vero – per sovrappiù – che di Gonnos era mia nonna putativa Sardu: Barbara Sardu, scomparsa assai più che novantenne una trentina d’anni fa.
Percorrendo con l’occhio la sequenza delle immagini fotografiche offerte dal libro di Angioletta Fadda e Marco Sardu, ed indugiando sulle didascalie – tutte accurate eppure anche, di necessità, tutte incomplete (perché a completarle dovrebbe essere la memoria collettiva che speriamo si materializzi attorno agli autori, da oggi in poi, per arricchire il loro libro di un contributo amichevole) – anche a me fa emozione ricollocare idealmente i miei cari, specialmente questa figura di gonnese «allampanata, tutta ossa e nervi» ma portatrice di un «fascino sovrano» che io bambino scorgevo allora ed a cui, approfittando di un passaggio di serata, vorrei dopo tornare.
«Iaia Barbara Sardu, gonnese dei miei ricordi»
Vorrei identificare in Barbara Sardu, mia nonna putativa gonnese – già più che ottantenne quando la incontravo bambino ad Arbus, nel mese di vacanze estive –, le gonnesi che s’incontrano nelle pagine del libro di Angioletta Fadda e Marco Sardu. E proponendo il suo ricordo a voi è per me come rendere giusto omaggio ai vostri vecchi, quelli stessi che si affacciano o stanno sull’ideale sfondo delle istantanee di questa raccolta fotografica. E’ un rendere omaggio a una generazione di sardi che hanno faticato tutta la vita per rendere la nostra vita, ancorché essa sia stata difficile, meno difficile della loro.
Si sa che le matrigne sono… matrigne; non sempre, forse, ma spesso. E Barbara Sardu era stata matrigna verso mia madre bambina, che però l’aveva comunque sempre rispettata e anche amata.
Il nome di Gonnosfanadiga – anzi Gonnos e basta – io l’ho avuto nelle orecchie e negli occhi le sue case quando passavo con la corriera, fra Arbus e San Gavino, capolinea ferroviario Cagliari. Ma chi mi dava spessore di umanità dei gonnesi era proprio quella donna leggera, sempre in nero, terzogenita di una famiglia di agricoltori.
In iaia Sardu ritrovavo quel tanto di infantile che le rimaneva dentro rivelandone le difficoltà della vita che l’avevano costretta a crescere troppo in fretta per fare più che per essere. Lei era della classe 1875, venuta al mondo… un lustro soltanto dopo la presa di Roma, con papa regnante ancora Pio IX e re Vittorio Emanuele II al Quirinale, tre anni dopo la morte di Mazzini, mentre Garibaldi, pur infermo, era ancora rispettato dominus di Caprera.
Aveva lasciato, poco più che ventenne, il suo paese – lei sola fra le sorelle – per cercare la miglior fortuna del lavoro nel circondario. Era stata accolta ad Arbus da certi benestanti che abitavano a un passo dalla parrocchiale e dalle altre istituzioni del luogo. Prestante ed instancabile, aveva progetti di futuro. S’era legata a un giovane minatore, che avrebbe sposato presto. Egli stava costruendosi casa in quella medesima zona; s’erano guardati e piaciuti; gli incontri, frequenti per quell’andare e venire al cantiere, avevano accompagnato il fidanzamento. Era poi venuto il matrimonio, e il primo parto nel 1908 e uno secondo, sfortunato, dopo pochi anni.
Invedovata nel 1917, a Barbara Sardu era toccato di prendersi carico pieno della famiglia ad Arbus: piccola compagine ma bisognosa di tutto, in un tempo che, seppure parco e quasi di sussistenza per la gran parte della popolazione, era sfrontatamente avaro con i più poveri che non godevano di quasi nessuna protezione sociale da parte dei governi. Erano stati, quelli fino al 1924, anni di pesanti difficoltà. Non erano passati che pochi giorni dalla morte di suo marito che la suocera le aveva fatto giungere una impellente richiesta di soccorso. Non avrebbe più dovuto pensare a mantenere soltanto sé e la figlia, ma dal suo lavoro ricavare risorse utili anche all’anziana zia Antioca Piras Tomasi.
Madre e figlia – la figlia bambina – avevano da subito fatto cooperativa… Avevano offerto le loro braccia alla campagna, aiutando i contadini del paese nella mietitura del grano nelle altre mille necessità del ciclo agrario. Poi si sarebbero allargate al piccolo commercio dello zafferano e dell’olio, acquistato rispettivamente a San Gavino ed a Gonnosfanadiga, e rivenduto in paese e magari a Ingurtosu.
Ogni qualche settimana e per lungo tempo avrebbero macinato chilometri, anzi decine di chilometri a piedi, alla fine però si sarebbero legittimamente autopromosse imprenditrici, socie ideali di una virtuosa cooperativa di mediazione. Da Arbus a Gonnos e ritorno, con le damigiane piene sul capo, da Arbus a San Gavino e viceversa, cariche dell’altro grave fardello, e quindi verso e da le frazioni minerarie… insomma erano distanze, e la strada non tranquilla ed ancor meno comoda. Ma il lavoro era ed è sempre una benedizione del Cielo: dona dignità alla persona e indipendenza alla sua economia…
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