I Baccaredda/Bacaredda e gli altri con loro. Storie nostre cagliaritane (parte prima)
di Gianfranco Murtas
Avevo proposto, ora non è molto (cf. “Agostino e Caterina, Gaetano e Maria, Efisio ed Efisia, Ottone finalmente… i Baccaredda nel loro tempo. Visita al monumentale, fra i colombari e le fosse d’una memoria perduta”, Giornalia, 30 luglio 2022) un breve pellegrinaggio fra le tombe dei Baccaredda/Bacaredda (e dei loro affini) raccolte nel nostro monumentale – che un tempo fu una meraviglia d’arte – di Bonaria. Di ciascuna avevo cercato di fornire le giuste ubicazioni ed anche qualche rapidissimo cenno biografico delle figure che la nostra pietà di cagliaritani potrebbe/dovrebbe onorare celebrandole insieme con la personalità eccellente di chi, per tre lunghi decenni, dedicò ogni sua energia al servizio dell’interesse civico. Intendo ovviamente il sindaco Ottone Bacaredda, del quale ancora ricordiamo il centenario della scomparsa avvenuta il 26 dicembre 1921 a seguito di dolorosa e prolungata malattia.
Avevo anche fatto riferimento alle memorie familiari scritte cui s’era dedicato, in tarda ed anzi estrema età, ormai ennuagenario, il prefetto Efisio Ottorino, primogenito di Ottone. E da esse, quando possibile ed utile, integrate da acquisizioni per ricerche compiute presso varie fonti (d’archivio anagrafico civile e d’archivio storico diocesano, diverse anche edite ma rimaste inesplorate) vorrei qui estrapolare quanto possa restituire i tempi ed i colori della vita dei più cari al sentimento del sindaco-mito, così fra le ascendenze come fra la sua discendenza purtroppo ormai integralmente perduta alla Sardegna…
Ho richiamato, in altra circostanza, i nomi dei bisnonni: Agostino e Caterina Manca. Da loro vennero Gaetano che fece famiglia con la ligure Maria Parma – nonni di Ottone dunque –, Rafaele che la fece con Efisia Marini ed Antonio, sacerdote in quel di Genova e sfortunatamente caduto nella epidemia colerica del 1855 – prozii di Ottone.
Sacerdote fu anche l’unico figlio di Rafaele ed Efisia: Agostino classe 1825, dunque zio paterno di Ottone: prete-intellettuale che, distintosi fra gli allievi del can. Spano vagheggiò la svolta neoguelfa nel 1848 ed operò successivamente, da parroco collegiato, a Sant’Eulalia, nello stesso quartiere della Marina in cui, nella via Dettori (già di Santa Teresa, prospiciente il liceo e l’antica chiesa gesuitica), abitava con i suoi.
Perché, sia chiaro fin dall’inizio, i domicili familiari e quelli di lavoro dei Baccaredda – insisterò stavolta, come dai registri canonici, sulla doppia c – giostrarono, nel recinto urbano di Cagliari, fra i quartieri della Marina e di Stampace. Sarebbe stato lui, il sindaco, all’inizio degli anni ’10 del Novecento, a lasciare e Stampace e la Marina per… migrare a Villanova, nell’estrema propaggine di quella via-biscia che taglia latitudinalmente l’intero quartiere fino ad arrivare a La Vega ed all’aggregato di Is Stelladas in direzione di Pirri.
Da Gaetano e Maria Parma vennero, dopo Efisio – il primogenito che, andato sposo di Efisia Poma-Brouquier di Liapola, sarebbe stato il papà di Ottone –, anche Gaetana (a nozze con Pietro Ravot) ed Antonio (per una vita intera a Napoli dove fece famiglia con la sfortunata Giusta Ferreri). E con loro anche Ignazieddu e Adelaide che avrebbero meritato riguardi a parte.
Ottone marito e papà
A 26 anni, dopo una vita che era stata, fino ad allora, piuttosto… errabonda, segnata dai continui trasferimenti familiari imposti dalle assegnazioni d’ufficio al padre Efisio funzionario della Intendenza di finanza (da Sassari a Ventimiglia, da Alessandria a Vercelli, a Sassari nuovamente e dopo a Cosenza, per qualche anno a Cagliari ma per rimbalzare nel 1871 in Toscana e poi in Liguria… ed avrebbe continuato Efisio con la sua Efisia, ma ormai senza più il figlio rientrato e radicatosi finalmente nella città natale, a girare ancora per capoluoghi di provincia, da Avellino a Siena), Ottone fece famiglia a Genova. Sposò una genovese, di poco più giovane di lui, che aveva però anch’essa, nel patrimonio di esperienze dei suoi, un sentire migrante, quanto meno a riferirsi ai commerci di cereali condotti con l’Europa slava ed in particolare con il meridione russo, nonché agli uffici consolari di Piemonte prima, d’Italia poi gestiti in quel pezzo di continente fra Europa ed Asia, ad un passo dalla penisola di Crimea e ad oriente del mar Nero.
Dal matrimonio celebrato nel febbraio 1874 (con il consigliere d’appello Vittorio Emanuele Kuster ne fu testimone, voluto dallo sposo, Giovanni De Francesco, fondatore e direttore, a Cagliari, de L’Avvenire di Sardegna e già prima responsabile de Il Corriere di Sardegna, testata questa come quella cui il giovanissimo Bacaredda aveva offerto numerose volte la sua collaborazione) nacquero quattro figli. I primi tre a Genova – Efisio Ottorino, perché ancora la famigliola manteneva la residenza nel capoluogo ligure, Katia e Antonina forse perché la gestante, giunta in vista del parto, ritenne più confortevole per lei accovacciarsi nella protezione domestica di madre e zie –, il quarto, Aldo (e Michele Efisio Rosolino), a Cagliari: ma fu creatura sfortunata, Aldo, che visse alcuni giorni soltanto, cinque giorni nell’estate 1884, nascendo (il 29 agosto) e morendo (di prima infelice mattina il 3 settembre) nella casa di piazza Yenne 11, la casa che Efisio sr. aveva lasciato nella disponibilità del figlio tornato definitivamente in Sardegna per avviarvi la sua professione legale e quella di docente universitario.
Quel nome – Aldo – sarebbe stato recuperato, e può immaginarsi con quali sentimenti, dal secondogenito di Efisio Ottorino e Vittoria Boy Pes di San Vittorio sua moglie: nato a Roma, sede di quel ministero dell’Interno in cui, nel mezzo delle sue missioni prefettizie ed in replay a quelle di suo nonno nella carriera finanziaria, Efisio Ottorino aveva preso ufficio. Nacque Aldo nel 1902, dopo la morte (improvvisa e crudele) delle sorellina Elena e prima di un’altra dolorosa dipartita famigliare: sarebbe toccato allora a Livio, il terzogenito, cadere piccolino di tre anni soltanto. Nel 1907 fu la volta di Mario, padre di quell’avv. Carlo che ha voluto assistermi oggi, con squisita gentilezza di cui gli sono grato, nella ricostruzione delle vicende della sua famiglia.
Aggiungerei sul punto – ma per tornarvi in seguito con particolari – che tanto Aldo quanto Mario, nipoti del nostro sindaco-mito, furono docenti universitari: il primo ordinario di dermatologia e direttore della clinica (a Palermo inizialmente, a Genova e per lungo tempo dopo), il secondo ordinario anch’egli e direttore dell’istituto di chimica industriale e applicata (dapprima a Bari quindi stabilmente a Pisa)…
Di Gaetano negoziante e di sua moglie Maria Parma
Il viaggio comunque conviene compierlo scendendo da li rami, magari partendo da Gaetano Baccaredda, nonno di Ottone, del quale così scrive il pronipote Efisio Ottorino che non lo conobbe di persona e dunque dovette riferirsi a notizie apprese in casa ed a quanto letto nelle memorie di suo nonno Efisio sr.: «Negoziante in Cagliari. Di carattere dominante, di severi principi derivati da un’educazione spagnola, di cuore eccellente. Se per natura severo, con qualche intermittenza andava facendosi indulgente specialmente col figlio Antonio, molto vivace e pieno di talento. Oltre che di buon cuore, onestissimo sino allo scrupolo. Aveva ingegno; pratico del mondo, avrebbe dovuto fare fortuna se non fosse stato di quella cattiva stella che costringe gli uomini più avveduti a rimanere tapini. Lasciò ai figli un nome onorato e da tutto il paese ammirato come esemplare, nonostante le sue debolezze. Era religiosissimo, rigido osservante delle pratiche religiose che esigeva anche dai familiari. Tormentato per lunghi anni da una affezione al fegato, e per quanto di robusta costituzione, alla fine dovette soccombere. Anche il soggiorno di Genova, dove lo esortò a venire il figlio Efisio, e le nuove cure in detta città valsero a salvarlo. Volle ritornare a Cagliari ma non giunse a rivedere i suoi figli dacché il piroscafo depositò il suo corpo alla Maddalena. Morto in mezzo al mare!
«Di lui, non nascondendone i difetti ma riconoscendone le virtù e i meriti, disse diffusamente il figlio Efisio nei suoi appunti: “La figura di mio padre l’ho sempre dinanzi agli occhi. Non vi è pittore che possa dipingerlo come io me lo dipingo col mio pensiero, con quei palpiti che agitano l’animo mio che par che facciano rivivere la sua persona. E come se lo avessi presente, un certo fremito mi invade pensando a lui, attesa la mia natura piuttosto convulsiva e talvolta timida in tutto ciò che si riferisce allo imperio di mio padre, che se era dominante, non era poi tremendo. Soleva presentarsi quando meno si attendeva e come un’ombra atterriva: era una specie di ombra di Banco che mi seguiva ed osservava. In questo modo io mi annichilivo ai suoi sguardi ed avrei allora voluto essere lontano da lui: eppure, dileguata l’ombra minacciosa, io tornavo ad essere figlio affettuoso per questo mio povero padre. Appariva egli severo in casa ma era un uomo, come dissi, di buon cuore ed onestissimo sino allo scrupolo. Aveva egli ingegno pratico del mondo e certe idee filosofiche liberali che non derivano da ignoranza scolastica ma da cultura naturale con intuizione di mente svegliata, che anche senza volerlo apriva gli occhi leggendo bene nel cuore degli uomini, prezioso dono di natura. L’uomo di genio (e mio padre ne aveva) è soggetto a stranezze che si scostano dalla generalità degli uomini comuni. L’educazione di casa non poteva essere più severa in fatto di moralità e di religione. Mio padre esigeva che intervenissi alla chiesa ma mi obbligava a portarmi di tanto in tanto da un confessore, molto pratico in fatto di coscienza ed altrettanto malizioso e costui, mi piace ricordarlo, era il canonico Oppo, già presidente della parrocchia di S. Anna. La furberia dell’amico confessore lasciava campo anche alla mia, perciò mi astenevo da quelle denunzie che mio padre teneva nocive e di quei peccati che in casa capitavano più spesso ai ragazzi intraprendenti e golosi. Mio padre veniva ad essere informato del più essenziale ed io ero contento. Dopo la confessione dovevo essere comunicato col pane celeste e mistico. Con questo io mi concentravo e riflettevo. Un Dio, dicevo fra me stesso, deve penetrare nel mio corpo senza farmi sentire il menomo dei grandi benefizi che sogliono ripromettere i sapienti della Chiesa? Niente affatto, io sentivo che non mi commoveva. Per assicurare intanto mio padre che la buona pratica aveva il suo effetto ero accompagnato da una specie di controllo[re], e questo era un certo Priamo, un soggetto tra il gaglioffo ed il maligno. Io pessimo nell’agire santamente scandalizzavo il mio compagno controllo[re], che inviperito dalle mie espressioni mi denunziava e questa denunzia importava dispiacevoli conseguenze. Poi veniva il compensativo”».
Vien da pensare all’uomo, alle sue relazioni d’ambiente, alla sua incombenza affettiva e pedagogica in casa. Mi ci approccio con delicatezza, perché è infinitamente di più quel che non sappiamo di quel che invece conosciamo.
Intanto si tratta di collocarlo, Gaetano, nel suo tempo. Manca la certezza documentaria, ma l’attendibile approssimazione lo fa nascere a Cagliari nella metà degli anni ’90 del Settecento. Si pensi alla Sardegna d’allora nel più vasto continente: a rivoluzione francese appena consumata, a stella di Robespierre già declinante, ad ascesa dell’astro napoleonico appena avviatasi, a fuga dei Savoia e ad approdo nell’Isola già quasi messi in agenda (ad un lustro soltanto dal fallito tentativo di colonizzazione transalpina a mezzo della flotta dell’ammiraglio Truguet)…
La Sardegna di mezzo milione d’abitanti soltanto è ancora feudale in quel passaggio di secolo, senza strade di collegamento, tanto meno ferroviarie, senza infrastrutture civili neppure le più elementari, né dighe né cimiteri… I centri abitanti sono pulviscolo sparso sul territorio forestale, l’economia è primaria, si campa d’agricoltura e di pastorizia, l’analfabetismo è denominatore comune fra città e compagna, fra costa e montagna, fra nord e sud… gli ordinamenti amministrativi sono precari e mutevoli fra consigli comunitativi e prefetture, così fino a quando il feudalesimo sbaracca e dopo cinquecento anni sarà tutto da rifare…
E la capitale sarda in quegli anni che, dopo il congresso di Vienna, la grande storia avrebbe definito della restaurazione e dell’alleanza trono-e-altare? Ne ha scritto, si sa, Carlo Brundo in Cagliari Antica e Moderna (all’interno di Ricordo dell'esposizione agricola-industriale sarda, 1871), e il suo sguardo s’è volto proprio allo scavalco di secolo e ai decenni immediatamente seguenti, fino ad arrivare alle statuizioni della fusione perfetta: «La città era… piccola, uggiosa e malinconica; chiusa per ogni dove da cinte, muraglie, forti, contrafforti; divisa materialmente da porte, che si chiudevano di notte con tanto di catenaccio; guardata da ogni parte, ad ogni passo, come una cittadella in stato d’assedio, da corpi di guardia, e percorsa da pattuglie… Assomigliava ad un castellaccio del medio evo trapiantato nel bel mezzo del secolo XIX, e, a rendere più evidente l’anacronismo, non mancavano certo né i ponti levatoj, né le saracinesche, né i fossi, né vi era difetto di bravacci, che andavano a busca di avventure… Il popolino rissoso, pettegolo e, in buon dato, anche crapulone, preferiva il dolce godere e i gustosi manicaretti alla noja degli affarucoli, contento del poco pur di spassarsela allegramente… Patrimoni considerevoli sparivano in breve tempo, ingloriosamente; si sciupavano in pranzi, in merende, in gozzoviglie».
Erano quasi trentamila i cagliaritani residenti, allora. Quasi trentamila, inclusi preti, frati e suore – un esercito non meno numeroso delle guarnigioni di Castello e delle appendici a presidio della piazzaforte, ché Cagliari era allora una piazzaforte militare al centro del Mediterraneo! variamente disputato da francesi e inglesi –, quasi trentamila che campavano, come famiglia, dei redditi provenienti dai commerci più vari, e tanto più dalle transazioni con la campagna provinciale ed i navigli in porto, e dagli stipendi degli uffici a scendere da quello regio/viceregio…
Ecco la città descritta, con quattro efficacissime pennellate, dal Brundo e dallo stesso Emilio Bonfis, alias Efisio Baccaredda il padre del futuro sindaco, autore di tante sprizzanti pagine riunite sotto il titolo di Cagliari ai miei tempi, uscite nel 1884 (ma di lui bisognerebbe ricordare sempre anche La Sardegna sotto il reggimento del Piemonte e dell’Italia)… Cagliari città lenta e ancora spagnolesca eppure anche dinamica: dinamica nella conclusione dei suoi affari mercantili a prevalenti oneri della campagna d’intorno, dei centri agricoli della provincia… Cagliari città burocratica e commerciale, parassitaria l’avrebbe qualificata qualcuno, come il Baudi, lui capace di pesare e misurare equilibri e squilibri fra il mercato di consumo cittadino e le fatiche lavorative dell’hinterland e dei paesi rurali anche più lontani.
In questa città così fatta crebbe Gaetano Baccaredda e fece famiglia con Maria Parma, ligure di Lavagna. Dovevano essere proprio gli anni del congresso di Vienna e del riscatto dei Savoia regnanti “sardi” tornati a Torino e allargatisi a Genova dopo la definitiva sconfitta napoleonica.
Lei era arrivata a Cagliari «giovanissima» e «bella, bionda, candida, con gli occhi cerulei», di sé aveva rivelato soprattutto una bontà d’animo «pari a quella d’un angelo», come lasciò scritto il figlio Efisio. Il quale la collocò, evidentemente con i suoi – in Sardegna chissà perché –, «dapprima in campagna nella villa Mameli», quindi «in una casa all’imbocco della via Dritta (quartiere di Castello)», infine «in località preziata»… Quella «località preziata» doveva essere la piazza San Carlo, poi Yenne in cui il marito fissò abitazione e negozio.
(Io coltivo una pista di ricerca sui Parma venuti a Cagliari intorno al 1810 – chissà, azzardo, se per compiti militari, per uffici viceregi o, più probabilmente, per affari commerciali –, mi ci vorrà tempo per vedere se ne avrò risultati. E intanto ho rilevato che proprio da Lavagna un’altra Parma, un’altra giovane donna, venne in Sardegna – ma a Sassari –, circa un secolo dopo: era una vincenziana, suor Emilia Luigia, classe 1886 figlia di Pietro fumista e di Anna Canepa; confessò la vocazione nel 1909, fece il postulato nell’ospedale di Sampierdarena e il seminario a Torino, prese l’abito nel 1910 venendo assegnata all’ospizio San Vincenzo di Sassari; pronunciò i voti nel 1914. Infine, ormai anziana, nel 1970 raggiunse la casa provinciale delle Figlie della carità a Cagliari. Qui visse cinque anni, essendo colta dalla morte nel marzo 1975. Una Parma collegata per parentela alla sposa di Gaetano Baccaredda, alla nonna paterna del prossimo sindaco Ottone?).
All’ombra di quella grande storia dalla coppia timorata di Gaetano e Maria vennero i figli: Efisio proprio nel 1818 quando, a… trentatré anni dacché erano stati innalzati, giusto lì a Stampace, a soltanto cento o duecento metri da casa Baccaredda si liberava dai ponteggi la fabbrica di Sant’Anna e la parrocchiale affidata a un collegio di parroci entrava finalmente in piena funzione.
Don Giovanni Oppo, il presidente della Collegiata del quale cui fa menzione Efisio Baccaredda rammentando la severità della propria educazione religiosa e le intese paterne con il parroco, ebbe a lungo, da allora, la responsabilità dell’ufficio ecclesiastico che resse fino al 1858, quando l’arcivescovo Emanuele Marongiu Nurra – esiliato in quel dell’isola Tiberina a Roma (Stato Pontificio) per essersi opposto all’abolizione delle decime ed aver scomunicato i funzionari governativi incaricati del censimento fiscale – lo chiamò in cattedrale come suo alter ego, leggi vicario generale. Deceduto infatti il can. Domenico Agostino De Roma, reggente la diocesi per conto del suo presule ridotto al confino, il buon praeses parochus stampacino rispose alla maggior responsabilità affidatagli naturalmente sempre in chiave di avversione allo stato liberale come si andava allora lentamente configurando. Così, pur dopo le messe d’impetrazione ed i Te Deum di ringraziamento per l’andamento della seconda guerra d’indipendenza, non mancò, il canonico, di mobilitare clero e fedeli attorno alla parola di Pio IX che nella Maxima animi nostri aveva denunciato un indebolimento delle difese di sovranità del suo stato. Poi su altro ancora ebbe da dire, sull’Italia fatta da Cavour nel 1861 con Roma capitale annunciata (e sottratta al papa-re), sulle decretazioni del Sillabo antiliberale nel 1864, ecc.
Gli altri figli di Gaetano e Maria giunsero, dopo Efisio, nell’arco d’un decennio. Dapprima toccò ad Ignazieddu, creatura sfortunata, che si consumò appena decenne. Venne il turno quindi di Gaetana, nel 1823: avrebbe avuto buona vita e dal marito Pietro Ravot, cancelliere di corte d’appello, numerosi figli, e morì nella sua abitazione del corso Vittorio Emanuele nel 1890. Ecco poi Antonio, l’intellettuale di casa, nato… due volte, come scherzando raccontava lui stesso, perché i quinque libri ne avevano registrato la venuta al mondo alla fine del 1824 e ancora nel febbraio 1825: anche la sua vita sarebbe stata segnata da molte sofferenze e da molti lutti domestici, nella Napoli dove risiedette a lungo, funzionario dello Stato pure lui, deceduto nel 1908. Ultima della serie fu Adelaide (che, divenuta adulta, «poteva dirsi una vergine per la bontà eccezionale e per l’aspetto amabile»): il parto di Maria Parma si presentò allora particolarmente travagliato e fu la causa della morte prematura, a soli 28 anni, della puerpera.
Si tratta dunque di immaginarla la vita in casa di Gaetano Baccaredda e dei suoi figli rimasti orfani di madre da piccoli. Qualche soccorso è da supporsi sia venuto dal parentado, magari dalla cognata Efisia Marini moglie di Rafaele Baccaredda, lei madre di un solo piccolo, di Agostino destinato al sacerdozio, nato nel 1825… Le abitazioni delle due famiglie, se le stesse degli anni successivi, erano piuttosto vicine, pure se l’una a Stampace – vicina alla porta omonima, alla base di sa Costa – e l’altra alla Marina, in via Dettori o di Santa Teresa, dirimpetto alla preziosa chiesa gesuitica (poi espropriata dallo Stato) e al collegio dei padri della Compagnia (pure espropriato per farne il liceo).
Gaetano negoziante. Ci s’intenda. Il termine indica sì la titolarità di un lavoro commerciale, magari con tanto di bottega o di scagno, ma anche, più in generale, l’applicazione a combinar affari, modesti magari, e di varia natura… E comunque una bottega o uno scagno, forse una officina di lavorazione del sevo animale o vegetale, doveva averla, Gaetano, se nel 1834 – il documento rinvenuto è quello del 5 dicembre – poteva precisare le condizioni di fornitura di candele alla municipalità.
E’ ipotizzabile che Gaetano Baccaredda si fosse aggiunto in quel periodo a quel pungo di operatori che, a Cagliari, trattavano il genere per le necessità della città ma anche di altre zone dell’Isola: tali Todde e Bonu, Castegliano e Costa e Musu producevano e commerciavano candele e sevo. Il mercato era ballerino, scosso da qualche non commendevole convenienza speculativa, con la scusa magari della penuria dell’olio d’oliva e di lentischio e la richiesta di privativa o di agevolazioni nell’approvvigionamento del sevo…
Gaetano faceva la sua parte e precisò, quella certa volta, le sue condizioni o almeno le sue pretese: desiderava fabbricare candele di sevo con l’anticipo di 500 lire, con la clausola secondo cui dovevano gli officiali regi «non bonificare al progettante le candele invendute, se il prezzo è minore di soldi 4 per libbra, oppure corrispondergli il tanto di meno del prezzo suddetto di soldi 4». (Ne riferisce Francesco Carboni in La forza del lavoro e del denaro, Cagliari, Arkadia, 2011).
Di Rafaele e sua moglie Efisia Marini…
Prossimo per età a Gaetano è suo fratello Rafaele, di professione conciatore – tale viene dichiarato nell’atto comunale di morte avvenuta, all’età di 77 anni, il 29 gennaio 1872. Sposatosi con Efisia Marini (fu Francesco e fu Antonia Arrais), casalinga, ebbe da lei un solo figlio, Agostino, nato nel 1825 e fin da ragazzino avviatosi alla carriera ecclesiastica. Come detto, la famiglia aveva casa in via Dettori (già Santa Teresa), popolata da botteghe artigiane e in particolare da modesti laboratori di sarti e calzolai. (E’ lo stesso Dionigi Scano, nel suo celebrato Forma Kalaris, a richiamare come “calle de los Sapateros” – via degli Scarpari – quella strada, o parte di quella strada che dalla via Baylle arriva alla chiesa, o ex chiesa di Santa Teresa ed all’annesso stabilimento già gesuitico divenuto liceo-ginnasio Dettori. E non a caso sono proprio uno scarparo ed un sarto vicini di casa a denunciare a palazzo di Città la morte di Rafaele.
Proprietario viene segnalato nell’atto di morte di sua moglie, tre lustri dopo. Dunque conciatore e proprietario, è da credersi così al pari di suo fratello negoziante e proprietario Gaetano. Le attività commerciali e quelle artigianali spesso si combinano reciprocamente e l’ambiente in cui si negoziano gli affari, o si producono manufatti è, in genere, di proprietà del titolare che, di norma, può poi contare su vari collaboratori. Nel caso manca, allo stato, una conoscenza della connotazione aziendale di Rafaele conciario (attività probabilmente derivata dal padre) così come manca quella di Gaetano candelaio, ma di entrambi potrebbe senz’altro immaginarsi una più che dignitosa presenza sul mercato locale.
Dati gli input educativi che Efisio Baccaredda attribuisce a suo padre (e che egli ha subìto in quel di Sant’Anna), sembra credibile che il modello sia condiviso anche da Rafaele, tanto più che il figlio di questi se non è entrato in seminario, al Tridentino di via Università, a dieci anni, per gli studi finalizzati alla ordinazione presbiterale, certamente ad uno sbocco ecclesiastico sta pensando iscrivendosi in facoltà di Teologia. Il riferimento religioso per la coppia Rafaele-Efisia è però non la collegiata stampacina, ma naturalmente, in ragione del domicilio nel quartiere della Marina, quella di Sant’Eulalia. Ed è qui, infatti, che la vedova dispone un legato dell’annua rendita di cento lire destinato al suffragio (potrebbe immaginarsi) della propria anima oltre che di quella del coniuge perduto all’inizio del 1872, testimonianza forse anche di una prossimità al mondo dei “prediletti” della Congregazione del SS. Sacramento che nella parrocchia è radicata. (A dare la notizia dell’autorizzazione concessa al parroco di Sant’Eulalia di accettare il legato è il Bollettino del Ministero di Grazia e Giustizia del 1887).
D’altra parte, si sa, infatti, che la Congregazione ha, per storia e ramificazione, una presenza che potrebbe definirsi di coagulo fra la popolazione fedele ed il suo clero parrocchiale: i nomi di avvocati e medici ma anche di artigiani e commercianti riempiono gli elenchi dei “prediletti”, cioè dei soci congregati ed una pista che meriterebbe di essere esplorata è l’eventuale appartenenza di Rafaele Baccaredda all’arciconfraternita che parrebbe fondata addirittura nei decenni mediani del XVI secolo.
… e del loro figlio don Agostino
Rafaele ed Efisia hanno un figlio: è Agostino che già nell’agosto 1843 (a diciotto anni) consegue il baccellierato in teologia, alla cui facoltà s’è iscritto adolescente. Il percorso è dato: nell’anno accademico 1844-1845 (e precisamente il 3 settembre 1845), ventenne appena, il giovanotto conferma tutta la sua valentia conseguendo la licenza, e l’anno successivo - accademico 1846-1847 – la laurea: titolo della tesi discussa l’8 ottobre 1846 ed “approvata con tutti i voti favorevoli” – come recita il verbale accademico – è De consensu ad contrahendum requisito.
Di speciale interesse pare la considerazione in cui il can. Giovanni Spano tenne il giovane Baccaredda. I faldoni dei manoscritti del canonico, che dell’università fu anche il rettore, e conservati presso la biblioteca governativa (universitaria) di Cagliari, contengono fra l’altro l’orazione di presentazione dello studente agli esami di licenziatura, naturalmente in rigoroso latino.
Ritroviamo il dottor Agostino Baccaredda 23enne nel 1848, l’anno dello statuto albertino, l’anno della cacciata dei gesuiti dal regno di Sardegna, da Cagliari e da Sassari, rei di predicare e complottare contro l’idea italiana ed a sostegno pervicace del temporalismo pontificio. Agostino è con i giobertiani. Eccolo allora cofirmatario de L’Amico al Popolo ed al Governo, un «giornale politico scientifico economico industriale e di utili varietà» che uscì a Cagliari, in 27 fascicoli, nel biennio 1849-1850 (ottobre 1849-aprile 1850, data del ritorno di Pio IX al suo trono teocratico con annessa ghigliottina) e la cui raccolta integrale ci è assicurata dalla Biblioteca Universitaria di Cagliari. «Il Sovrano favore giusta i più sani principii di giustizia ci chiamava col nuovo regime costituzionale ad un’Era novella […]. Tutti senza distinzione di fortuita nascita siamo fatti partecipi alla reggenza, e governo dei Popoli, per cui diventando obbligatorio […] il principio di essere aggiornati di quanto si compete all’esercizio di buon Cittadino, curar dobbiamo quel tutto, che al nobile fine, ed al suo più adequato disimpegno ne mena». E in conclusione: «Ecco in breve manifestata la fede politica, e le promesse di questo nuovo periodico, il quale al postutto intende tentare la poco battuta via di procurare il bene senza fare il male»: questo il programma.
Meriterebbe aggiungere che gli articoli della serie non sono firmati e soltanto qualche volta siglati. D’incerta attribuzione (se cioè al giovane teologo cagliaritano nel novero dei fondatori) è un pezzo relativo ad un prete bosano arrestato nella primavera 1850: la sigla è T.P.B. (teologo Baccaredda e la P in luogo della A di Agostino potrebbe essere un banale, ma neppure raro, errore del compositore tipografico).
Partecipò, il teol. Baccaredda giovanissimo ma già potentemente indirizzato al disegno neoguelfo (crollato poi con le vicende della Repubblica Romana, la fuga e il ritorno di Pio IX, in azione sempre la mannaia del papa-re sul collo degli oppositori), insieme con Raimondo Falqui – che con Vincenzo Brusco Onnis aveva partecipato alla esperienza del Nazionale cagliaritano – e con i medici/pubblicisti Raffaele Tocco e Giacomo Puxeddu (quest’ultimo già direttore del Giornale medico-chirurgico-farmaceutico dell’Isola di Sardegna), e gli avvocati P. Marras e F. Pinna. Nella direzione collegiale compare anche tale C. Corona: partecipò è, data la sua qualificazione di dottore in teologia, la sua presenza nel novero dei redattori/direttori del periodico lascia credere anche ad una certa condiscendenza dello stesso ufficio arcivescovile al programma affacciato.
Nel suo numero di saggio L’Amico al Popolo ed al Governo, stampato appunto, e non a caso, nella Tipografia Arcivescovile di Cagliari, quel programma è dichiarato con nettezza: «senza avvilirsi “Amico” del Governo lo farà avvertito dei bisogni delle giuste lagnanze del Popolo: “Amico” del Popolo gli manifesterà i bisogni e le giuste lagnane del governo: il vero senso delle governative disposizioni», e il riferimento è naturalmente al governo di Torino.
Meriterà certo di tornare in argomento, meglio recuperando, insieme con le maggiori coordinate ambientali, il contributo specifico del giovane teologo cagliaritano. Per adesso basti qui ricordare l’opzione politica, o politico-culturale della testata cui egli si dedica, bene evidenziata da Laura Corda nella sua scheda infra I giornali sardi dell’Ottocento, a cura di Rita Cecaro, Cagliari 2015.
Di Agostino Baccaredda occorre rilevare lo scarto temporale, piuttosto anomalo e con diverse ipotesi interpretative, fra il completamento degli studi teologici e l’avvio “curricolare” della sua carriera ecclesiastica, anche precisando che egli ricevette la tonsura ed i quattro ordini minori insieme con il suddiaconato nel settembre 1856 (dieci anni dopo la laurea in teologia!), il diaconato nel dicembre dello stesso anno, il presbiterato nel marzo 1857.
Allo stato non sono in grado di aggiungere altro, che pur sarebbe interessante puntualizzare. Anche perché far riferimento al 1857 significa molte cose sotto il profilo degli assetti di vertice della Chiesa diocesana e di quella sarda in generale. Chi fu il vescovo che ordinò – e dove? nel seminario Tridentino è più probabile – don Baccaredda? Si trattò con maggior probabilità di monsignor Giovanni Battista Montixi, dal 1844 ordinario di Iglesias e di provenienza cagliaritana. Bisogna infatti ricordare che una dopo l’altra le sedi episcopali sarde furono, a partire dal 1850, scoperte rimanendo tali per lungo tempo: esiliato l’arcivescovo monsignor Marongiu Nurra nel 1850, erano già scoperte le diocesi di Bosa (dal 1846) e di Bisarcio/Ozieri (dal 1847), lo sarebbero state presto quelle di Ogliastra (dal 1851) e di Ampurias e Tempio (dal 1855). I vescovi isolani in campo nel 1857, idonei per proprio carisma ad officiare una ordinazione presbiterale, erano dunque, oltre a Montixi – che presto avrebbe avuto la supplenza in tutte quante le dieci diocesi sorelle a quella d’Iglesias per la scomparsa, via via, anche dei colleghi superstiti – i presuli di Oristano (Saba), Sassari (Varesini), Alghero (Ardoino) ed Ales e Terralba (Vargiu).
Ordinato prete, fu allora che don Agostino ricevette dal vicario generale della diocesi di Cagliari, can. Domenico Agostino De Roma, il suo primo incarico: quello di cappellano della chiesa di Santa Lucia e della relativa arciconfraternita nel quartiere della Marina, così per otto anni. Alla fine del 1863 – e siamo adesso in contesto di regno d’Italia, non più di Sardegna – egli ebbe un beneficio nella parrocchiale di Sant’Eulalia (precisamente si trattò di quello fondato nel 1780 dal negoziante Antonio Fais). E campò con quello. Diverso tempo dopo e per quattro anni (dal 1877) fu promosso coadiutore parroco nella storica collegiata. Morì nel primo pomeriggio del 23 novembre 1881, all’età di soli 56 anni: conviveva, nella casa di via Dettori, con la madre ormai vedova da quasi un decennio, la quale lo avrebbe seguito nella tomba nel 1886.
Potrebbe ricordarsi che a denunciare allo stato civile la morte del sacerdote, le cui spoglie furono poi tumulate nella cappella della Congregazione del SS. Sacramento nella Marina, presso il camposanto di Bonaria, fu proprio suo nipote Ottone, che allora ancora non aveva iniziato la propria carriera politica e, padre già di tre bimbi, esercitava l’attività forense in mix con quella di docente universitario.
Don Antonio Baccaredda, prete anche il prozio
Detto dunque di Gaetano Baccaredda e Maria Parma, nonni di Ottone, detto di Rafaele Baccaredda ed Efisia Marini, prozii di Ottone, e detto anche (per necessario allungo) dell’unico figlio di questi ultimi, del rev. Agostino cioè, vorrei qui completare il quadro delle ascendenze mediate accennando a don Antonio, fratello di Gaetano e Rafaele, e dunque prozio di Ottone.
Si tratta di una figura che, al momento, risalta soltanto dalle note domestiche stese in vecchiaia dal prefetto Efisio Ottorino il quale rimanda anche ad altre carte familiari al momento non disponibili. I tentativi che ho esperito presso l’Archivio storico diocesano di Genova non hanno dato risultato, anche per la sbrigativa cura (tale m’è parsa e fastidiosa) alla corrispondenza per l’oggetto da parte del responsabile di quell’importante compendio documentario ecclesiastico.
Di lui il nipote Efisio Ottorino scrive che morì di colera a Genova nel 1854. E può bastare questo a spiegare la causa fatale sol che si pensi a quante migliaia e migliaia di morti si ebbero nella Francia meridionale e nell’intero stivale italiano a partire proprio dalla Liguria e dal Piemonte, ma fino a raggiungere anche la Sardegna, Sassari e Nuoro (allorché Giorgio Asproni cedette la propria abitazione come ospedale di supplemento) e Cagliari (che riempì allora il suo cimitero “extra muros” di San Paolo), da quella epidemia che ebbe da noi il suo picco nel 1855.
Ignoriamo (o ignoro) se don Antonio Baccaredda fosse prete secolare o piuttosto religioso, sappiamo per certo, invece, che egli ebbe corrispondenza, e credibilmente anche una certa personale frequentazione, con la famiglia del nipote Efisio (figlio di suo fratello Gaetano e padre di Ottone) allorché questa risiedette a Ventimiglia. Lasciata la sede di Sassari – dagli uffici giudiziari cui era inizialmente applicato Efisio sviluppò la sua carriera, all’interno del contesto già di perfetta fusione, nella burocrazia finanziaria della Intendenza – fu la volta, infatti, della Liguria e, in particolare, di Ventimiglia (con riferimento di capogruppo a Nizza). Dovette essere quella, ne potremmo dedurre, una permanenza di quattro o cinque anni. E a Ventimiglia visse il piccolo Ottone fino forse ad arrivare alla prima classe delle scuole primarie. Il bimbo era vivace, forse troppo vivace agli occhi dell’anziano sacerdote, che ad Efisio indirizzò diverse lettere, anche trattando, naturalmente con discrezione, della educazione del piccolo. Il manoscritto domestico del prefetto Efisio Ottorino registra, perché ordinate in uno speciale faldone, le missive del 5 aprile, del 28 giugno, del 7 settembre 1854.
Fu proprio nella prima di queste lettere che il reverendo mandò, da Genova, i saluti anche a «il fiero Ottorino», non mancando di commentare e… ammonire i genitori: «Questa cara creatura è piena di grazia e di spirito ma troppo vivo per cui vuole a tempo essere moderato ora che è tempo onde trovarlo più docile crescendo in età. Colla ragione e senza asprezze voi vi [?] giacché ha per voi della deferenza e dell’amore ingenuo».
La foto di copertina
La foto di copertina, del tutto inedita, presenta Ottone Bacaredda ormai anziano, nei primi anni della grande guerra, insieme con il nipote – figlio della figlia Antonina andata a seconde nozze con l’avv. Guido Imperi e presto vittima della febbre spagnola – cui fu dato il nome del nonno: Ottone.
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Scrivo queste note mentre continuano a giungere, drammatiche, le notizie da Kiev e dalla Ucraina tutta. Sia maledetto chi ha scatenato l’inferno ed ha provocato la morte e la sofferenza di tanti innocenti. (Ed ancora una volta abbiamo la plateale dimostrazione della nullità liberale degli esponenti della destra italiana, pagana e imbrogliona, da cui insistenti sono venuti, negli anni, gli accarezzamenti ad un pericoloso dittatore nato).
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