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Gianfranco Murtas

I Baccaredda/Bacaredda e gli altri (molti altri) con loro. Storie nostre cagliaritane (parte terza)

di Gianfranco Murtas

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Ne ho già accennato. Efisio Baccaredda – padre di Ottone – ebbe quattro, tra fratelli e sorelle. A lui, classe 1818, era seguito Ignazio – Ignazieddu in famiglia – che purtroppo morì quando era ancora soltanto un ragazzino. Doveva essere il 1830 o il 1831 ed ormai la prole di casa Baccaredda-Parma s’era già tutta completata nella rassegna anagrafica, presso la casa di piazza Yenne. Era poi venuta Gaetana, classe 1823, che dal nonno paterno aveva preso il nome e, giovane poco più che ventenne, avrebbe sposato Pietro Ravot, impiegato alla Corte d’appello e fratello dell’(allora) futuro sindaco Emanuele (figli – secondo quanto dedotto dagli archivi anagrafici – dell’avv. Pietro Maria e Francesca Tocco).

(Quest’ultimo, il «rovanellu papadori costituiu» dileggiato dai Goccius de is framassonis, il mandato amministrativo – tanto quello provinciale quanto quello comunale – se l’era, invero, già gustato in età relativamente giovane: dal 1861 al 1865 a Palazzo di Città, ancora dal 1861 e rapsodicamente fino al 1887 quello provinciale dei mandamenti di Sanluri e Lunamatrona, in abbinata per qualche tempo con la vicepresidenza del Consiglio. Andato a riposo come procuratore generale di Catania dopo esserlo stato a Torino, e purtroppo vedovo della sua Rachita, se n’era tornato nella sua Cagliari e con maggiori ambizioni era rifiondato in municipio conquistando, nel 1884 e per mille e più giorni, la sindacatura).

Dopo Gaetana era stata la volta di Antonio, classe 1824, destinato a una bella carriera anche lui, come Efisio, nell’amministrazione delle Finanze (e inizialmente delle Dogane), e, facendo famiglia, radicandosi prima a Roma poi a Napoli, neppure negandosi a dar corso ulteriore alla stampa di numerose opere di buona letteratura, così come aveva cominciato in Sardegna.

Infine era toccato ad Adelaide di cui, in verità, poco o pochissimo si sa, se non che la sua nascita provocò ferali conseguenze sulla puerpera ancora giovane, 28enne appena. Dovrebbe aver fatto famiglia anche lei, ma ignoro, allo stato, il nome del marito e quello dei figli, nonché la data e il luogo della sua.

Di lei e della maggiore Gaetana così scrive, nelle sue note familiari, il fratello Efisio le cui parole sono riprese, molti anni dopo, dal prefetto Efisio Ottorino, primogenito di Ottone: «Le donne della famiglia morirono dopo aver lasciato molti figli. La prima che soccombette fu la cara Adelaide, una donna che poteva dirsi una vergine per la bontà eccezionale e per l’aspetto amabile. Soccombette l’altra più tardi, Gaetana, maritata Ravot, di molto spirito e con idee fantastiche: ma era travagliata da numerosa famiglia che amava assai ed il marito ebbe sempre cura della consorte sino alla fine e ciò non è poco merito».

E intanto bisogna immaginarla questa famiglia stampacina di Gaetano Baccaredda tanto più quando perde, ancora giovane, nel 1828, la moglie Maria. Perché Efisio, il maggiore, ha soltanto dieci anni, Ignazio neppure otto, Gaetana cinque, Antonio quattro, appena due e anzi neppure due Adelaide. Produttore e commerciante di candele e di qualcos’altro, è credibile che Gaetano abbia potuto contare subito sull’aiuto di sua cognata Efisia Marini, la moglie di Rafaele Bacaredda – conciatore e negoziante lui stesso con casa alla Marina, nei pressi della chiesa di Santa Teresa e del collegio gesuitico – che figlio da accudire ne ha soltanto uno, Agostino classe 1825, pressoché coetaneo dei cuginetti…

Ma crescono, studiano, arrivano a farsi famiglia i figli di Gaetano e Maria Parma. Agostino invece si iscrive alla facoltà di Teologia, su a palazzo Belgrano, e farà… politica, combattendo nel 1848 con i giobertiani, per l’unità d’Italia secondo lo schema immaginato dal campione religioso degli antigesuiti che fu presidente della Camera e ministro e anche capo del governo di Torino. Come il suo Gioberti si farà poi prete, ordinato diocesano nel 1857, Agostino Salvatore Efisio e passando fra cappellanie e parrocati (anche di Sant’Eulalia) chiuderà la sua giornata nel 1881. I suoi cugini no, essi facendosi adulti (tranne il povero Ignazio Antonio Tomaso) vivono le complessità lavorative e quelle domestiche di tutti, carriere da intraprendere e magari residenze da trasferire, ed affetti ed amori cui concedersi e figli da crescere, come nei turni ordinari della vita sociale…



Di Gaetana e Pietro Ravot

Sono rapporti piuttosto stretti quelli che associano fra loro le distinte famiglie Ravot, quella di Pietro (e Gaetana Baccaredda) e quella di Emanuele (e Rachita Piu), e le altre ancora, di Marianna sposata Pinna Pabis, ecc. Fratelli e sorelle, cugini di cognome Ravot mettono in campo il meglio che possono, tanto più nella burocrazia pubblica, in quella Cagliari ottocentesca che vive tutti i travagli del secolo, quella che registra i passaggi dal Regnum Sardiniae al Regno Italia, che registra le guerre dell’indipendenza nazionale, l’unità e la progressiva armonizzazione degli ordinamenti, anche quelli dell’Isola con gli altri dei territori metropolitani, mentre si sviluppa, fra tanti stop and go e mille insufficienze, la rete ferroviaria che collega il capo di sotto e quello di sopra… Cagliari ha smesso, nel 1865, di essere una piazzaforte militare ed ha visto abbattere le secolari mura e porte divisorie fra quartiere e quartiere ed ampliare il suo scalo portuale e riorganizzare le scuole primarie, medie e superiori… La città si è gradualmente trasformata godendo perfino dei nuovi servizi dell’illuminazione pubblica e della distribuzione idrica, che conosceranno altri e più decisivi processi evolutivi nel primo Novecento, con la pubblicizzazione che s’associa alle iniziali costruzioni delle case operaie e alle grandi opere pubbliche che non rispondono soltanto ai bisogni dell’estetica civica, ma a quelli sociali delle nuove generazioni che salgono nel tempo…

Gaetana Efisia Maria muore 67enne nel 1890 (pochi mesi dopo che suo nipote Ottone ha preso la sindacatura a palazzo di Città), suo marito Pietro Ravot la seguirà, involandosi dalla casa del corso Vittorio Emanuele – a cento, duecento metri soltanto da quella di Gaetano Baccaredda della piazza Yenne – nel 1897. Certamente molti eventi privatissimi si susseguono, nel tempo familiare che non è dato schedare, fra nascite nuove e lutti dolorosi, fra matrimoni tra famiglie ed affermazioni professionali dei giovani che incalzano nella storia: Ugo, Aurelio, Fanny (sposata Marini)… e gli altri, fratelli-cugini Claudio ed Emilio, Ernesto e Gustavo (i castellani figli di Emanuele con casa in via dei Genovesi).



Di Antonio jr. e Giusta Ferreri

Maggior spazio ruba, nelle annotazioni ammirate del fratello Efisio e del pronipote Efisio Ottorino, Antonio – anzi Antonio Francesco Matteo –, il quartogenito di Gaetano e di Maria Parma, che il primo nome l’aveva preso dallo sfortunato zio prete operativo in quel di Genova. Cagliaritano anche lui e anche lui nato nella casa di piazza Yenne. Nato quando? Ci giocava egli stesso nel raccontare le sue avventure (o disavventure) anagrafiche. Così nel suo testamento olografo del 15 marzo 1906: «Ho avuto sempre il sinistro presentimento di essere seppellito vivo: intendo dire di morire due volte, l’una di morte apparente e l’altra di morte reale. Forse questa mia lugubre fissazione fu pensata dalla mattia del caso, per via del quale nei registri della Curia Arcivescovile di Cagliari, mio luogo natio, figuro nato due volte distinte: l’una il 2 dicembre del 1824 e l’altra il 22 febbraio 1825. La vita doveva perciò riuscirmi doppiamente grave e penosa: difatti la sorte prodigò su me e sulla santa e sventurata mia famiglia ogni sorta di travagli e di disdette». Gli morì la moglie, Giusta Ferreri, «modello di saviezza e di bontà, dopo lunghi anni di letto per grave infermità». (Era la zia paterna di tre fratelli notissimi nel mondo medico, in quello forense e nella burocrazia pubblica dell’Italia ancora crispina e giolittiana: Gherardo, che fu professore e direttore della Clinica otorinolaringoiatrica di Roma; Angelo Livio, avvocato principe della capitale, che sposò la figlia del gen. Ponzio Vaglia aiutante di campo di Sua Maestà Vittorio Emanuele III e fu anche autore di un apprezzato memoriale – Dai ricordi di un vecchio avvocato romano, Roma, ed. Sommaruga 1885 – e di alcune opere drammaturgiche; Enrico, dirigente della Corte dei Conti). Così in casa di Antonio Baccaredda e, per quanto le ragioni professionali avessero incrociato Cagliari e Roma, anche casa Ferreri.

Al riguardo si consideri infatti che all’avv. Angelo Livio Ferreri e al suo studio legale nella capitale andrebbero ricondotte diverse cause impegnative Cagliari e la sua Amministrazione negli anni della sindacatura di Ottone Bacaredda. Le stesse biblioteche pubbliche sarde, fra il capoluogo regionale e Sassari e Nuoro, custodiscono, insieme con alcune opere di varia tematica firmate dall’avv. Ferreri (da Per Catalogna e Andalusia: ricordo, 1890 a Arte e storia, 1942), copia di studi ed atti giudiziari: del 1898 Avanti la corte di cassazione di Roma, sezione civile per il municipio di Cagliari, resistente contro il r. ospizio Carlo Felice in Cagliari, ricorrente a difesa della sentenza emessa dalla corte di appello di Cagliari addi 6-23 giugno 1893… confutazione del ricorso, dell’anno successivo Comune di Cagliari contro Donzelli avanti la 4.a sezione del consiglio di stato: controversie sul concorso pel palazzo comunale, del 1901 (in riallaccio di causa), Studio dell’avv. Angelo Livio Ferreri, Roma, per il municipio di Cagliari contro il r. ospizio Carlo Felice in Cagliari: ricorso per cassazione contro la sentenza della r. corte d’appello di Roma in sede di rinvio in tema di diritti di proprietà, patronato, ufficiatura di chiesa…, del 1905 Avanti la Corte dei conti, sezione terza, per il comune di Cagliari contro gli eredi dell’esattore Barisonzo: udienza del 14 marzo 1905, e altro ancora.


Annota Efisio Ottorino riferendosi al prozio: «Diversi suoi figli morirono bambini. L’ultima delle figlie, Maria, bella, intelligentissima, amabile creatura, morì giovanissima. Con questa sventura il povero padre restò orbato di tutta la sua famiglia adorata. Egli si spense a Napoli il 10 luglio 1908 a 82 anni, nella casa Scimand, della quale fu ospite per lungo tempo, padrino della figlia Giusta che fu la sua consolazione, ispirandogli un affetto estremo».

E ancora: «Fu uomo di pensiero, di forte ingegno, di acuta sensibilità, di cuore aperto e generoso, di specchiata probità, di vasta umanistica coltura, conversatore piacevole, suggestivo, istruttivo. Già alto funzionario del Ministero delle finanze fu dotto geniale scrittore di cose sarde, di politica, di letteratura. In un necrologio del “Correre della Sera” di Milano, 23 luglio 1908, fu ricordato come “geniale romanziere il cui ingegno osservatore risalta in lavori giudicati come un quadro originale dei costumi della vita sarda”. Di un suo poderoso volume della etiologia dei costumi “Religione e politica” così scriveva, fra l’atro, Cesario Testa nella “Rivista Popolare” dell’onorevole Colajanni: “monumento di coltura universale modernissima, di libero pensiero, di instaurazione etica, capolavoro di polemica distruggitrice e riedificatrice” (“Unione Sarda” Cagliari 12 luglio 1908). E Giovanni Siotto Pintor (giurista, storico, magistrato, sen.) in una lettera familiare lo definiva “gentiluomo di squisita bontà, cittadino di adamantina virtù” (“Unione Sarda”, Cagliari, 12 luglio 1908)».

Né questo basta. Perché Efisio Ottorino richiama anche un’altra testimonianza, pià distesa e particolareggiata, direi documentata, quella di suo nonno Efisio sr., fratello di Antonio: «Il mio fratello è persona di molto talento e di cuore delicato. Nello studio riuscì a farsi onore dando luogo a pubblicazioni di opere lodevoli e, se non avesse dovuto al lavoro di impiegato governativo, nel quale riuscì a rendersi meritevole, avrebbe potuto essere scienziato coll’ingegno proprio e collo studio letterario e di scienze. Egli ebbe famiglia con poca felicità. La moglie può dirsi modello di saviezza e di bontà d’animo: ma essa soccombette per la debolezza di salute. Egli ebbe diversi figli che perirono bambini. L’ultima delle figlie, che si era sviluppata sino all’età press’a poco di 19 anni, era una giovinetta lunga che pareggiava la madre per statura: avea una capigliatura biondo chiaro ed era ben fatta con colorito roseo. Usava poche parole, sembrava un’inglese ma le sue poche parole le adoperava con straordinaria saviezza ed altrettanto era affettuosa, gentile e intelligentissima. Oh! questa era la povera Maria per la quale piansi ancor io sulla disgrazia patita da questa bella e cara ragazza e per quella maggiore sofferta da un padre veramente infelice, orbato di tutta la sua adorata famiglia, per cui gli occorse molta forza d’animo per non perdere la ragione. Ora egli campa come campano tutti i disgraziati! Noi due uomini della famiglia siamo i soli rimasti vivi in età abbastanza matura».

Già cavaliere dell’ordine della Corona d’Italia, Antonio fu nominato commendatore con premiale decreto reale, giusto a firma di Umberto I. Di lui, nelle note biografiche che già allora furono diffuse, si valorizzò l’arte narrativa con il tanto dei titoli consegnati agli editori, tanto più a Roma, negli anni della residenza presso la capitale, dall’Angelica al Vincenzo Sulis, dalla Crestaia all’Orlo dell’abisso a Nuvoloni

Una scheda bibliografica

Abbondanti i riferimenti biografici ben meritati da Antonio Baccaredda per l’imponenza della sua bibliografia variamente lodata da storici e critici e che lo stesso Giuseppe Della Marina, nel suo contributo al volume Ottone Bacaredda, pubblicato a cura del Comune di Cagliari, e con introduzione di Francesco Alziator, in occasione del cinquantenario della scomparsa del nostro grande sindaco, richiamò in una sua speciale nota, raccogliendola da Cesario Testa (così nella già richiamata Rivista Popolare di Napoleone Colajanni: «O sana e fiera e nobile tempra di isolano, sii benedetta! Quanti sono i libri della nuova Italia che non morranno, i libri che possono ancora (chi sa?) aver la virtù di scuotere gl’inerti spiriti giovanili, non fosse che con l’obbrobrio del raffronto, obbligandoli a pensare, a studiare, a combattere per trionfo della verità e della giustizia. Ma credete voi che i giornali ben pensanti della penisola ne terranno discorso? I libri, densi di pensiero e saturi di virtù, chi li legge? Avete ragione, o ragazzi d’Italia, scioperate. Pensano e lavorano, per voi, i vegliardi».



In Sardegna Digital Library sono elencate una ventina di opere di natura diversa e distribuite nell’arco di quasi sessant’anni: il dramma I misteri e un giuramento, uscito a Genova nel 1847; le scene storiche del sec. XVII Pier Maria, date alle stampe presso la cagliaritana Tipografia Timon nel 1848; il melodramma in tre atti Il mago, Tipografia Sarda, 1850, bissato come Melodramma giocoso con musica di Antonio Porcile, stampato nel 1856 dalla Tipografia Sarda; il nuovo dramma Marina Cera (purtroppo irreperito), 1850. Al 1851 dovrebbero riportarsi i due drammi Marito e giudice e Non aprite al sacrilego, che sarebbero stati rappresentati a Cagliari nello stesso anno. E ancora la novella sarda Angelica, Tipografia Derossi e Dusso, Torino, 1862; la storia domestica (irreperita anch’essa) La crestaia, 1864 e la Monografia sulla musica, 1870 (nel novero dei lavori irreperiti); il racconto Paolina, Tipografia del Commercio, Genova, 1869; il bozzetto storico Vincenzo Sulis, Tipografia dell’Avvenire di Sardegna, 1871 (ristampato nel 2005 a cura di Simona Pilia e introduzione di Giuseppe Marci, pubblicato dalla CUEC per il Centro di Studi Filologici Sardi); e ancora Il bene dal male, 1871, Sull’individualismo, 1874 (ma irreperito), Sull’orlo dell’abisso, Libreria A. Manzoni, 1881.

Più recenti sono la raccolta dei Nuvoloni: novelle, parabole e pensieri diversi, uscito a Roma dalla tipografia Dionisio Squarci nel 1887, e il saggio Religione e politica. Etiologia dei costumi, pubblicato a Napoli dalla Detken & Rocholl nel 1903. E con essi meriterebbero di essere citati anche alcuni articoli accolti da L’Avvenire di Sardegna: in due puntate il 10 e 11 marzo 1882 la recensione de La Sardegna sotto il reggimento del Piemonte e dell’Italia, uscita a firma di Emilio Bonfis, pseudonimo di Efisio Baccaredda suo fratello.

L’elenco comprende anche il romanzo inedito Il ragno e la mosca, segnalato da Egidio Pilia in un suo saggio sul Nuraghe (rivista letteraria in cui egli, fra il 1925 ed il ’26 ripetutamente tornò sulla produzione baccareddiana).

Importante, perché cospicua per numero e preziosa per profondità dell’elaborato, anche la rassegna critica che include, fra ieri e oggi e secondo un nota bibliografica di Simona Serra, Egidio Pilia e Raffaele Ciasca, Francesco Alziator e Raimondo Bonu, Luigi Spanu e Giuseppe Marci, Francesco Floris e P. Cadeddu.

Di speciale rilievo, a mio parere, sono i contributi – fra loro lontani oltre mezzo secolo – di Egidio Pilia e di Giuseppe Marci. Del primo ricorderei in particolare il capitolo “Romanzo storico sardo nella seconda metà dell’Ottocento”, nel suo Il romanzo e la novella, vol. I de La letteratura narrativa in Sardegna, Cagliari 1926; del secondo il saggio “Antonio Bacaredda tra romanzo storico e romanzo di costume” in La grotta della vipera, n. 52-53, autunno-inverno 1990 nonché l’introduzione alla ristampa del già citato Vincenzo Sulis. Bozzetto storico, a cura di Simona Pilia. (Anche qui, viaggiando fra critici e recensori i più diversi, merita rilevare il diverso atteggiamento rispetto alla… questione della “semplice c o doppia c” da attribuire all’autore.

In conclusione credo meriti una ripresa, sia pure per stralci, il redazionale che L’Unione Sarda pubblicò il 12 luglio 1908 riferendo, nella pagina della cronaca di Cagliari, la notizia della scomparsa di tanto autore:

«E’ morto a Napoli, nella grave età di 82 anni, il comm. Antonio Bacaredda, nostro concittadino, che i casi della vita tennero lunga pezza lontano dai patri lidi. Impiegato superiore al Ministero delle Finanze, a riposo, fu geniale scrittore di cose sarde, di politica e di letteratura. Di un suo recente poderoso volume sulla etiologia dei costumi (Religione e Politica 1903) così diceva Cesario Testa nella Rivista Popolare del Colajanni: “Una rude battaglia è quella combattuta con foga giovanile da un uomo di settantott’anni, da una sardo, dal Bacaredda.

«“Lo spirito audace di Ausonio Franchi, non destinato, per fortuna, a rincatocciarsi nella miserevole cocolla antica di Cristoforo Bonavino, pervade, con forme nuove e assolutamente originali, l’opera tutta quanta, monumento vero di coltura universale modernissima, di libero pensiero e di instaurazione etica, modello di stile nervoso e classico senza ridicolaggini, enciclopedia generosa e grandiosa, capolavoro di polemica distruggitrice e riedificatrice, dove non c’è una pagina su ottocento che non si legga senza ammirazione e profitto… Avete ragion, o ragazzi d’Italia: scioperate. Pensano e lavorano, per voi, i vegliardi”.

«Più bell’elogio di questo non può ripetersi sulla onorata tomba or ora dischiusa…».

«Caro Ottone…», lettere ad un nipote

A conclusione di questi rapidi richiami biografici di Antonio Baccaredda andrebbe detto che il manoscritto di suo pronipote Efisio Ottorino contiene nelle ultime pagine il testo di alcune lettere indirizzate dallo stesso Antonio a diversi suoi congiunti.

Esse sono… composite in quanto agli argomenti trattati – questo sembra facile dedurlo dalla rapida scorsa dei fogli – ma purtroppo appare assai difficoltoso renderne i testi nella loro completezza poiché la mano stanca di chi s’era dato il compito di riprodurli non ha saputo/potuto soddisfare l’obiettivo, offrendo al lettore d’oggi un segno grafico piuttosto confuso. E comunque, valendomi anche di competenti ausili, ho cercato di venirne a capo e cercherò qui appresso di darne conto (fra parentesi quadre evidenzierò le parole incomprensibili o proporrò quelle probabili anche per senso logico). Gli è, però e purtroppo, che le parti incomprensibili sono piuttosto ampie e la decisione di proporre testi così ampiamente monchi viene soltanto dal desiderio di testimoniare l’esistenza del documento (insieme con la speranza che un domani qualcuno possa meglio affrontare il problema):

«Baccaredda Antonio – Da lettere dello zio Antonio al fratello Efisio e al nipote Ottone Baccaredda: 1- “La reazione del 1815 procacciò all’Europa tristi giorni di abbassamento morale e politico, segnatamente all’Italia nostra, inchiodata alla sua croce di servitù da sette tirannelli, più o meno reazionari e feroci. Se non che fu troppo precipitosa e violenta la controreazione, che, avendoci trovati impreparati a coglierne i frutti salutari, [t?a]? ma con abominevole licenza (Roma 12.9.1893) (Efisio B.)


«2- La visita dei Sovrani a Cagliari mi ha fatto udire e leggere un profluvio di parole discordanti, e, le più dolorose e amare. Ho udito le leggendarie bestemmie, i vecchi strambotti, ossia i giudizi dati di seconda mano sulle cose nostre dalla gente che imparò a disprezzare la Sardegna da coloro tra i funzionari dello Stato che vi erano mandati o per punizione o per acquistare loro un titolo e rapidi ascensioni nella carriera. Si rinfrancescarono le passionate contumelie fomentate contro l’isola nostra dal loquace sofista di Arpino e dallo spirito epigrammatico, non sempre di buona lega, di Marziale. Si è voluto con gesuitica [zione?], ma nella segreta voluttà di umiliarci, menzionare quanto in Sardegna vi è ancora di barbaresco, di medievale, per poi amplificarlo, generalizzandolo a tutta l’isola. Ma se a codesta stregua e con simili metodi di giudizio dell’imperiale e alma metropoli d’Italia che fosse non di fratellanza fare lo stesso e peggio? Basterebbe che una capata in Trastevere o nella piazza Montanara e nei saggi confronti che diconsi al Campidoglio dalla piazza della Consolazione per mettere l’eterna e santa città al livello di un quale stazzo della Palestina o del Marocco. Senza dubbio almeno molti di coloro che si recarono in Sardegna mal prevenuti contro di noi avranno di molto modificato i loro giudizi e si saranno quindi persuasi che la gentilezza e l’onestà dei costumi non è [p?ta] [?tra] in Sardegna. Cagliari veramente si è fatta onore e con essa il molto degnamente lodato suo sindaco. Il nostro cognome è stato questa volta assai ventilato e costì e altrove né certo a suo disdoro. Avrei desiderato che Ottone Baccaredda, il quale seppe da gran tempo fare di se stesso il suo ritratto, nanti il suo ingegno, la sua cultura, la sua non comune abilità amministrativa per grado ancor superiore mercé la specchiata sua probità, non fosse stato incastonato da quel fervido e troppo zelante suo amico della Tribuna illustrata in una cornice di ampollosi e sbalestrati elogi, che troppo palesemente fecero sospettare della passione che condusse la sua penna poco corretta nell’arte adulatoria: onde tolse al suo cenno biografico la dovuta serietà. Avrei pur desiderato, e lo spero fermamente, che pari alle lodi, alle parole di gradimento e di ammirazione per Cagliari e il suo sindaco e soprattutto alle cordiali e ripetute strette di mano a lui fatte dal Sovrano, fosse stata la onorificenza a te conferita. Io non te lo nascondo, benché già in questo mio foglio non di scriverlo [?], mi aspettavo ben di più e meglio che la semplice commenda mauriziana, data a qualche altro sindaco della Sardegna che non aveva i preclari tuoi meriti e il nome tuo cotanto divulgato. Soprattutto come un raro modello di pubblico funzionario, che da due lustri dà splendida prova del suo tatto amministrativo e di un’onestà così rara, troppo rara fra i molti sindaci che affliggono la nostra povera Italia (Roma, 26.4.99 – a Ottone Baccaredda)


«3- (Torre del Greco 19.3.1903) – Carissimo Ottone! Ho letto nella Rivista di Roma la tua bellissima biografia. E’ quale può augurarsela qualunque galantuomo, non nato soltanto per far numero: è per giunta una brillante storia di servizio, la quale oppone a una breve carriera parlamentare, in risarcimento, una non breve sequela di riconoscimenti ed encomiabili atti di valore, che non sdegnerebbe nessun provetto e abile parlamentare di averne al suo attivo. Quanto io sia lieto di questo tuo esodo trionfale dalla vita politica a te non occorre che io manifesti: la misura di codesto mio stato d’animo ce l’hai esattissima nelle parole che ti scrissi quando tu vi esordisti, sebbene lusingato dal primo suffragio dei tuoi concittadini. Dunque un abbraccio ed un prosit di tutto cuore. La tua lettera di commiato agli elettori fa onore al tuo amore di figlio e al tuo carattere di cittadino. Non vi possono essere quindi né dubbi né commenti intorno alla opportunità e alla convenienza di cotesta tua deliberazione, la quale lascia perciò impregiudicato il tuo avvenire, dovunque a te piaccia di indirizzarvi la prora della nave delle tue legittime aspirazioni (a Ottone Baccaredda)

«4- Napoli 27.7.1905 – Illustrissimo Sig. Sindaco Ah! così va bene! Quale rivincita sulla politica! Tu dirai di no ed io risponderò di sì. Nella elezione a deputato vincesti come Pirro ad Ascoli Satriano (Foggia); in questa recentissima sindaco facesti come disse Cesare a Zela(?) [sic] Tapso (Africa): veni, vidi, vici. E sia lode ai cagliaritani, che per renderti giustizia hanno iniettato nelle loro vene, per solito assiderate, una buon dose di sincero e cittadino entusiasmo. Innegabile che tu sei e fosti sempre un uomo fortunato, ma è pur vero e verissimo che nella tua persona la fortuna procede con perfetta equazione al merito: e tal sia di te. Un abbraccio dunque e di cuore di tuo zio, che ha di che essere orgoglioso di te, che hai saputo farti amare, valere a ripetizione, senza santi tutelari e mecenati e senza aggiogarti al carro di nessuno. Ed ora che l’opera tua si manifesti, come già una volta, saggia e fattrice di cose belle e utili per la diletta nostra città natia.


«5- (Napoli, 31.3.1907) a Ottone Baccaredda. Carissimo nipote. E’ scritto: tu, anche nella disdetta, devi essere fortunato: e la sorte, che con una mano ti colpisce, coll’altra largamente ti blandisce e ristora. Il dibattimento, causato dalla tua querela è tutta una glorificazione per la tua persona ed è notevole questo, che fra i testimoni chiamati a tuo carico, si riscontrarono i più feroci tuoi apologisti. Del resto tu hai incontrato la sorte comune a coloro che più fruirono del favore popolare. Tu avesti in modo molto solenne e lusinghiero acclamazioni e trionfi di folle plaudenti e dovesti essere preparato che codesta folla medesima dovesse un dì esserti contraria e malevola. Cromwel, traversando appunto la folla, di cui i suffragi lo caricarono, diceva a un suo vicino: “ella applaudirebbe del pari se mi conducessero al patibolo”. La sentenza del tribunale fu quale la consentiva di essere il nostro codice penale come quello, che nella comminazione delle pene e soprattutto in ordine alla diffamazione è tanto grottesco che sarebbe compilato da Facanappa (maschera del teatro veneto di marionette) Povero Filangieri! Egli che scrisse pagine così dotte sopra questa materia! Non bisogna essere giuristi per scorgere che nel nostro codice penale si calpesta a dirittura non solo il buon senso, ma a dirittura il senso comune rispetto alla diffamazione! Raggiunta la prova non si ha il reato di calunnia ma la diffamazione persiste, stando alla definizione che di questa da lo stesso codice penale [?]. Cose da manicomio! Piacque altresì a me e a tutti l’articolo lodativo, che fu pubblicato sul N. 81 (13.3) dell’Unione Sarda ma esso scade assai nella parte che tocca la virtù segreta del non rubare e mi pareva al tutto una pisciata fuori dall’orinale quando, parlando della tua miseria (brutta parola e [inten?] menziona su ripossedere [?] il tuo reddito. In modo che la parola da [spes]? a te e che tu saprai proferirla collo spirito e col tatto che ti sono sovranamente [b]? Addio! Il tuo aff.mo zio Antonio».

Gli inediti

Mi parrebbe doveroso e utile al lavoro futuro degli studiosi che ameranno approfondire la conoscenza della personalità eccellente di Ottone Bacaredda e dei suoi tutti… Baccaredda (valga nuovamente marcare la differenza della semplice o doppia “c”!) – e naturalmente anche Poma e Rossi ecc. –, sottolineare ancora una volta che quanto ho riportato e vado riportando nella trentina di articoli biografici giù usciti o di prossima pubblicazione è il risultato di una ricerca che, ispiratami da Francesco Alziator, dura ormai da vent’anni, fra bibliografia – e spesso bibliografia dispersa e pressoché inesplorata – e ripassi d’archivio civile ed ecclesiastico, arricchitasi non poco dei documenti che la famiglia ha voluto generosamente, e sulla fiducia personale, fornirmi. Tutto è offerto qui gratuitamente, al solito, e fuori dunque da qualsiasi… concorso a premi, alla mia città di Cagliari. Mi permetto di aggiungere che, idealmente, in questo anno tremendo che ricorda il centenario dell’infausto avvento del fascismo al governo della patria (presto con una ricaduta fasciomora nel municipio di via Roma), associo il nome di Ottone Bacaredda – il leader liberale che s’accostò mazzinianamente alla democrazia – quello di Cesare Pintus, il grande sindaco repubblicano, azionista e, fino all’ultimo, leale amico di Lussu, che guidò la ripresa civile e sociale del capoluogo fra il 1944 ed il 1946.

***

Scrivo queste note mentre continuano a giungere, drammatiche, le notizie da Kiev e dalla Ucraina tutta. Sia maledetto chi ha scatenato l’inferno ed ha provocato la morte e la sofferenza di tanti innocenti. (Ed ancora una volta abbiamo la plateale dimostrazione della nullità liberale degli esponenti della destra italiana, pagana e imbrogliona, da cui insistenti sono venuti, negli anni, gli accarezzamenti ad un pericoloso dittatore nato).


Fonte: Gianfranco Murtas
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