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Franco Meloni

I racconti di Gianni Loy. Di Gulp, di campeggi alpini, di impegni sociali, culturali, politici. E di spensieratezza giovanile.

Il racconto di un campeggio in Val di Fassa consente di tornare con la memoria a tempi di impegni sociali, culturali, politici e di spensieratezza giovanile

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INCURSIONE IN VAL DI FASSA (Agosto 1969)​.

di Gianni Loy.

Formidabili quegli anni, avrebbe detto Mario (Capanna), ma basterebbe far riferimento anche a un solo anno, il 1969, per esempio, o a una sua porzione, anche piccola.

Il 1969 è stato un anno lungo e intenso. Nel voltarmi indietro, stento a credere che tante cose possano essere successe in pochi mesi. Eppure così è stato. La storia è breve, meno di 10 giorni: una scappatina in quattro, con nonchalance, nel mese di agosto. Per poterla comprendere, tuttavia, occorrono alcune premesse relative al contesto.

Parlo di noi quattro, di Antonello Demurtas, di Alberto Melis, di Francesco Zilio e del sottoscritto. A quei tempi, ci frequentavamo assiduamente, quasi tutti i giorni. Passavo a prendere Francesco nel primo pomeriggio, in Piazza Giovanni, lo strappavo alle crisi esistenziali con le quali si accapigliava quotidianamente. Lo prendevo a bordo della cinquecento bianca e, assieme al resto della compagnia, andavamo a far delle cose. A volte tutti stipati dentro, a volte gli altri seguivano con l’850 coupé di Alberto, un’altra classe. A dir la verità, a volte ci incontravamo anche la mattina, talvolta la notte. Insomma eravamo assieme davvero molto spesso. Quando studiassimo non riesco a ricordarlo; eppure, proprio in quell’anno, ho sostenuto gli ultimi esami di giurisprudenza, compreso il 18 in diritto civile, e preparato la tesi di laurea che avrei discusso nel febbraio dell’anno successivo.

Prima che cominciasse questa storia, assieme a qualche altro amico, avevamo terminato di girare un lungo documentario al liceo Dettori, dal titolo “Dove va la scuola?”. Tra riprese, interviste e montaggio, ci avevamo lavorato per diversi mesi. Fu presentato in aula magna all’inizio della primavera. Antonello, in cravatta, sembrava a suo agio nell’intervistare gli studenti, i professori e, soprattutto, il temuto preside, Pampurio. Nei primi sei mesi dell’anno erano usciti ben tre numeri di “Gulp”. Tutti e quattro facevamo parte della redazione. Francesco aveva scritto, tra l’altro, del rapporto tra studenti e operai e commentato, criticamente, la performance di Pierfranco Zappareddu che aveva messo in scena, nella facoltà di lettere, “Il mostro di Harlem”. Il gruppo teatrale si era risentito, la polemica era proseguita con una botta e risposta tra il Teatro Studio, e lo stesso Francesco, che non tornò indietro di un millimetro. Alberto aveva criticato i quotidiani locali che stigmatizzavano la violenza delle proteste senza dire una parola dei motivi che le originavano. Poi si era cimentato in una complicata riflessione sulle relazioni interpersonali che avevamo deciso di intitolare: “La maniera di perdere i lettori”.

Antonello si era cimentato sul tema, eterno, della riforma della scuola. Personalmente, avevo scritto due editoriali, dal titolo eloquente: “Un uomo alienato in una società malata” l’uno e “Se l’uomo esiste ancora” l’altro. Il terzo editoriale di quel primo scorcio dell’anno l’aveva firmato Francesco, camminava su di un binario simile: “Tra essere e fare: la fuga nell’alibi”. Mi convinse tanto che, qualche mese più tardi, lo citai, in nota, nella mia tesi di laurea.

In quei primi sei mesi, il giornale viveva una delle sue migliori stagioni. Nel mese di maggio, con un lungo articolo di Giammario Selis, denunciavamo l’operazione del Consiglio comunale di Cagliari che avrebbe voluto traferire gli abitanti di S. Elia per trasformare la zona in un quartiere residenziale. Una denuncia dura, esplicita che coinvolgeva anche la parrocchia. Il parroco di allora, aveva manifestato l’intenzione di querelare Giammario Selis per calunnia. Franco Oliverio, che già aveva una certa influenza nel quartiere, affrontò don Aramu, una sera, per convincerlo a cambiare idea. Stetti a spiare, da lontano, quel colloquio – con ovvia ansietà, visto sarei risultato coinvolto anche personalmente in quanto direttore del giornale -. Tutto andò bene. A partire dal mese seguente, anche Franco Oliverio avrebbe incominciato la sua collaborazione con il giornale.

Esisteva un filo in quella sorta di pazzia giovanile condivisa. Perché nei mesi successivi, dopo aver terminato un documentario dal titolo “Costruire il progresso” – che ci era stato commissionato, proprio così, da un ente di formazione professionale, il CNIOP – avevamo cominciato a girare, stavolta a colori, un filmato, rimasto incompiuto, dal titolo: “Un alibi per non morire”. Una scena, in particolare, mi fa ancora venire i brividi. Per riprendere dal basso, quasi sui binari, un treno che sfrecciava lungo i binari, vicino ad Elmas, abbiamo rischiato davvero. Uno di noi, sdraiato per terra lungo la massicciata, teneva la cinepresa, mentre un altro gli stava appoggiato sopra, con forza, per contrastare lo spostamento d’aria che il treno avrebbe provocato. Credo che i due fossero Francesco ed Alberto, il primo, probabilmente, girava la scena del passaggio del treno.

Talvolta anche la notte. Ricordo che per un periodo, assieme ad Antonello, bevevamo rhum. La cosa era insolita. Sia perché non era nostra abitudine bere superalcolici, sia perché mai avevamo preso in considerazione proprio il rhum. Magari semplicemente perché la bottiglia era capitata a portata di mano. Di sicuro, però, c’è che quel sapore dolciastro, per Antonello, aveva un sapore terapeutico. I suoi tormenti erano di altra natura rispetto a quelli di Francesco, appariva Patrizia sullo sfondo, ma sempre tormenti erano.

Per concludere con l’alcol, – ma dovrò tornare sul tema se, dopo tante premesse, riuscirò ad arrivare alla storia – ricordo che una sera Alberto, a casa sua, aveva messo a disposizione un’intera bottiglia di superalcolico per ciascuno dei presenti. Non credo che nessuno abbia terminato la propria dotazione, ma ricordo che, quando più tardi siamo andati a sbentiare al Poetto, ho visto apparire all’orizzonte la sagoma di un disco volante. Che gli Ufo non esistono lo so bene, nonostante, prima di Gulp, abbia diretto un giornale che si chiamava proprio “Il Disco Volante”. Il dubbio che mi è sempre rimasto è di altra natura: se davvero abbia visto qualche immagine, o riflesso, attraversare il cielo – all’epoca era frequente segnalare, e talvolta fotografare, apparizioni celesti la cui origine non era ben chiara – oppure se fossi tanto sbronzo da essermi sognato tutto.

Tutto ciò, tuttavia, rappresenta soltanto una parte degli avvenimenti dei primi sei mesi del 1969. All’epoca avevo tantissimi impegni all’Università, non intendo lo studio, ovviamente, ma il Movimento. Nel 1967 ero stato eletto presidente dell’organismo di rappresentanza degli studenti (ORUC), e avevo presieduto quell’organismo sino all’estate del 1968, dopo un buon risultato elettorale della lista che avevo capeggiato, gli “Universitari Democratici”, nata da una scissione dell’INTESA, l’Associazione studentesca di ispirazione cattolica, e democristiana, di cui avevo fatto parte dal momento della mia iscrizione all’università. Con l’esplosione del 1968 mi ero buttato a capofitto nel Movimento. Sino al 1968 avevo continuato a gestire l’Oruc senza che fosse costituita alcuna Giunta, non erano tempi, continuando a finanziare le attività dei Comitati di Facoltà (con un bilancio annuale di circa 9 milioni di lire) che, paradossalmente, venivano utilizzati proprio per favorire l’organizzazione del nascente movimento. Il Comitato di agitazione della facoltà di Giurisprudenza ed Economia si riuniva ancora nelle sede dell’Oruc, che durante il mio mandato era stata trasferita dalla via Roma alla via Santa Croce in Castello. Nella primavera del 1968 (il 27 marzo) l’assemblea degli studenti di giurisprudenza e scienze politiche, aveva deciso, per la prima volta, l’occupazione della facoltà. Non era stato facile, vista la forte presenza di studenti provenienti dalla borghesia cagliaritana, ma il fatto che molti di noi cattolici si fossero schierati a favore aveva reso possibile quella forma di lotta. Il Comitato di Agitazione delle facoltà di Giurisprudenza ed Economia era presieduto da Giuseppe La Sala, Pietro Maurandi e Maria Porrazzo. Assieme a Giuseppe Cocco Ortu fungevo da segretario di quel Comitato. Il Movimento era ancora un movimento. Anche i colleghi di ispirazione liberale, iscritti all’Agi, partecipavano. Non è un mistero che nella prima fase, non di rado, i volantini da diffondere nelle facoltà universitarie venissero ciclostilati nei locali della Giac diocesana, (Gioventù Italiana di Azione Cattolica) nella sede di via Logudoro.

Nei primi mesi del 1969, avevo attivamente contribuito all’occupazione della Facoltà di Giurisprudenza e Scienze politiche. Con l’occupazione, durata 20 giorni, chiedevamo appelli mensili, la possibilità di rifiutare il voto e di ripetere la prova, ma soprattutto misure volte a garantire il diritto allo studio. Nei gruppi di studio si affrontavano tematiche di carattere politico, visto che la contestazione, partita sulla base di rivendicazioni legate alla scuola, si era ormai trasformata in “contestazione globale”. All’ordine del giorno i temi relativi alla situazione economica, in particolare all’industrializzazione della Sardegna; quello della magistratura; il tema delle cosiddette istituzioni totali, come gli ospedali psichiatrici, i brefotrofi, le carceri. Durante l’occupazione si era registrato il primo scontro tra i rappresentanti del Movimento degli studenti e i partiti della sinistra, da molti ritenuti compromessi con il sistema e incapaci di partecipare a una lotta anticapitalista e antimperialista. Il movimento era fortemente proiettato sui temi dell’intera società e si confrontava con sindacati, partiti e con le esperienze di lotta che nascevano nel territorio. Gli studenti occupanti ebbero un confronto, tra gli altri, con il nascente Circolo culturale di Orgosolo, che già svolgeva un’importante opera si sensibilizzazione culturale ad avrebbe avuto un ruolo fondamentale nell’imminente rivolta di Pratobello contro l’occupazione militare delle terre.

Inoltre, mi rimanevano gli impegni legati al ruolo di dirigente della presidenza diocesana della Gioventù di Azione Cattolica, allora presieduta da Giampiero Lecis. Collaboravo con il Centro Studi, diretto da Agostino Chiesa. Mentre mantenevo tale impegno istituzionale, partecipavo al nascente movimento che sarebbe stato poi definito del “dissenso cattolico”. Una tappa fondamentale, a cavallo tra la fine del 1968 e l’inizio del 1969, era stata la partecipazione alle giornate di studio organizzate ad Assisi dalla Pro Civitate Christiana, dal 27 a 30 dicembre del 1968, dal titolo “La violenza dei cristiani”, aperta da una relazione di Franco Fornari. In quell’occasione avevamo conosciuto, tra gli altri, Enzo Bianchi, Ernesto Balducci e Giulio Girardi. Con quest’ultimo condividemmo un tratto del viaggio di ritorno, in treno. Da quell’incontro nacque una collaborazione con Gulp. Nel primo numero del 1969 comparve un suo articolo dal titolo: “I cristiani e i successi del sistema”. In occasione del convegno di Assisi tenne il suo primo concerto Francesco Guccini, cantò “Dio è morto”, brano censurato dalla Rai ma mandato in onda da Radio vaticana.

Nei primissimi mesi del 1969, tra l’altro, avevamo attivamente contribuito alle riflessioni sul tema sul tema del rinnovamento ecclesiale, innescate dal Concilio Vaticano II, diffondendo la lettera inviata al Papa da 700 Cristiani francesi e partecipando al dibattito organizzato sul tema, il 18 del mese di febbraio, nello Studium francescano di via Principe Amedeo.

La mia attività pubblicistica di quel primo scorcio del 1969 non era limitata al periodico Gulp, collaboravo al settimanale diocesano “Orientamenti”, all’epoca diretto dal don Tarciso Pillolla, ed avevo pubblicato sulla nuova Sardegna due reportage da Berlino. L’anno seguente sarei stato iscritto nell’albo dei pubblicisti.

Vi è poi un’altra esperienza che non può essere dimenticata perché indispensabile preambolo della storia che mi accingo a raccontare.

Tra la fine del 1968 e l’inizio del 1969 mi ero iscritto alla Democrazia Cristiana. E’ stata un’esperienza brevissima, durata meno di un anno, ma di straordinaria intensità. Avevo subito assunto incarichi nel movimento giovanile. Il comitato provinciale era allora presieduto da Gianfranco Porcina e quello cittadino da Andrea Olla. Ho partecipato attivamene a seminari ed assemblee in Sardegna in Italia ed anche all’estero, a Berlino, per la precisione. Dell’esperienza berlinese conservo un martelletto “rompivetro”, prelevato da un autobus, non ricordo se della Germania ovest o di quella dell’Est, e una bandierina, oltre a una manciata di ricordi. Avevo appreso una frase in tedesco, che significa: “Dov’è la più vicina chiesa cattolica?”. Ogni tanto rivolgevo la domanda a un passante, che cortesemente mi rispondeva, a volte con una lunga spiegazione. Io, che non comprendevo neppure una parola di quanto mi dicevano, fingevo di capire annuendo, ja, ja. Durante quell’esperienza, son venuto a contatto con la corrente che faceva riferimento alle Acli e con quella, di forze nuove, capeggiata da Ariuccio Carta, aveva una sede a Cagliari, in via Fara, che ho frequentato per qualche tempo. Ho conosciuto importanti uomini politici e giovani che lo sarebbero diventati. Ho conosciuto mestieranti di partito e splendide persone, che ho stimato sin dal principio e con i quali ho mantenuto rapporti di amicizia.

In quel tempo ho conosciuto anche Giorgio Cossu. Persona curiosa e intrigante. Quando doveva comprare un abito proponeva in cambio, al venditore, un proprio quadro. Per quanto ne posso capire, era un discreto pittore. Era anche un appassionato ciclista amatoriale; per questo, non di rado, si presentava malconcio e incerottato a causa di qualche caduta dalla bicicletta. Aveva il complesso della bassa statura: una volta, di ritorno da un convegno a Milano, mi aveva proposto una lunga e complicata deviazione solo per accompagnarlo a comprare, non ricordo in quale città, un paio di scarpe, col tacco nascosto all’interno, che gli avrebbero potuto regalare, all’apparenza, non so quanti centimetri in più. All’epoca, a fronte della crisi che investiva i partiti, Giorgio sosteneva la teoria della cosiddetta “battaglia dall’interno del partito”, mentre io già mi accingevo ad approdare verso altri lidi. E tanto altro. Ma non ha avuto fortuna, molti hanno approfittato della sua generosità, molti sono stati spietati con lui. Gli ho voluto bene e lo ricordo con affetto: ciao Giorgio.

L’esperienza nella DC che ha a che vedere con la storia è un’altra. Nella primavera del 1969 ho partecipato, a Roma, a due corsi di formazione residenziale il primo presso la Domus pacis, nella via Aurelia, il secondo in una delle sedi storiche della DC, una palazzina Liberty situata in Via della Camilluccia, che ospitava il Centro Studi Alcide De Gasperi, dove anni più tardi si sarebbe riunita la Direzione del partito per valutare le richieste delle Brigate Rosse che tenevano prigioniero Aldo Moro. E’ stato in quelle due prime occasioni che ho conosciuto Tonino Serra. Dopo una lunga e coerente militanza nella Democrazia cristiana, l’ho ri-incontrato, con piacere, trentadue anni più tardi, tra i banchi del Consiglio comunale di Cagliari, ancora con la stessa passione di allora.

Al termine di quei due corsi di formazione, sono stato chiamato a far parte del gruppo che avrebbe dovuto coordinare le attività di formazione per i giovani che si avvicinavano al partito, si sarebbero svolte durante l’estate.

Sarebbe stato, per me, un lavoro. Prima di recarmi a Roma, nella seconda metà del mese di luglio, ci sono state almeno altre due esperienze, di tutt’altra natura, che, tuttavia, hanno a che vedere con la storia. La prima: nel mese di maggio, in un momento di crisi avevo deciso, da un giorno all’altro, di mollare tutto e prendermi un periodo di riflessione solitaria. Ho passato, così, una settimana, da solo, girando in lungo e largo la Sardegna, seguendo, più o meno, un itinerario che, due anni prima, avevo percorso, con la stessa cinquecento bianca, CA 106776, assieme a mio fratello Mario, a Peppino Ledda e a Franco Meloni. Stavolta partivo senza tenda, solo con un vecchio sacco a pelo militare, il mantello di un frate francescano e poco altro. Pernottavo accanto alla cinquecento, parcheggiata in uno spiazzo qualsiasi, magari dopo una pizza e una birra nel paese più vicino. All’alba riprendevo il cammino, passeggiavo osservavo, riflettevo. Di quel viaggio conservo ancora qualche ricordo: il mantello del frate e una biscia. L’avevo catturata in Costa Smeralda e avevo deciso di conservarla. Memore dei ricordi di chimica del liceo, ero corso a comprare un barattolo a tenuta stagna e, in farmacia, un litro di formaldeide. Avevo preparato con cura il rettile, a distanza di mezzo secolo è ancora intatto.

La seconda: qualche settimana più tardi, assieme ad Alberto, ho raggiunto, mio fratello Mario, che si trovava accampato da qualche parte della Sardegna. E’ stato lì che ho conosciuto una sua amica, veniva da Monza, si chiamava Annamaria, trascorreva alcuni giorni di vacanze in Sardegna. Con lei una sorella minore, Elena, che collezionava bandierine, le ho regalato la mia piccola collezione, le bandierine di stoffa che ero solito acquistare durante i viaggi e legarle sull’imperiale della macchina. Con Annamaria, invece, diciamo che si è creata una reciproca simpatia.

Poi comincia la storia.

Il 21 luglio sarebbero incominciati i corsi di formazione della Democrazia Cristiana, distribuiti, per quanto ci riguarda, in due alberghi nei circondario romano. Giunsi nel continente il giorno prima, con la nave. Avrei dovuto prendere il treno per Roma soltanto all’indomani mattina, non ricordo perché, avrei quindi dovuto pernottare a Civitavecchia. Ho passato le prime ore della notte passeggiando lungo la marina vicina al porto. Era una giornata speciale. Gli astronauti americani stavano per sbarcare sulla luna. Mi son trattenuto a lungo in una modesta pizzeria, poco più di una baracca, dove ho assistito, credo per qualche ora, alla trasmissione della TV condotta da Tito Stagno e da Ruggero Orlando.

Poi ho ripreso passeggiare, a notte fonda, lungo gli spiazzi deserti che si affacciavano sul mare. Ricordo di essere stato avvicinato da un lavorante del luna park; mi ha offerto di ospitarmi, per la notte, in uno dei carrozzoni della carovana. Un’istintiva diffidenza mi ha spinto ad allontanarmi. Ho fatto rapido rientro alla stazione ferroviaria, dove avrei passato il resto della notte, come non di rado mi capitava, all’interno di una sala d’attesa.

Il giorno seguente sono arrivato nell’hotel che ospitava la prima parte dei corsi, probabilmente il Giulio Cesare, ma non sono sicuro. Ho incontrato i coordinatori del corso, Barbieri e Balzaretti. Quest’ultimo, con il quale sarei rimasto in contatto per qualche tempo, toglieva la sigaretta dalle labbra soltanto quando aveva necessità di portare il cibo alla bocca o doveva parlare. Lì ho ritrovato anche Tonino. E’ stata una grande esperienza. Si trattava di un lavoro, retribuito, ma ho anche continuato ad apprendere, ricordo ancora le lezioni del prof. Cesaro sul tema delle relazioni interpersonali.

Dopo il primo ciclo di attività formativa era previsto un intervallo, una settimana o poco più. Occorreva sfruttare quel tempo.

Il piano era già pronto. Alberto, Francesco e Antonello, mi avrebbero raggiunto con la cinquecento di quest’ultimo; insieme, avremmo raggiunto i nostri amici che campeggiavano in val di Fassa; poi magari, ci saremmo avvicinati a Monza per incontrare Annamaria, gironzolare un po’. Nel giorno convenuto passarono a prendermi, insieme ci mettemmo in marcia.

Comincia così l’avventura. I nostri amici erano accampati dalle parti di Alba di Canazei. Il campeggio era stato organizzato da Padre Agostino Pirri, direttore spirituale del Movimento Studenti, un’organizzazione cattolica che aveva rapidamente preso piede in città proprio grazie al carisma di quel frate. Aveva tentato di organizzare un campeggio già l’anno prima, ma senza successo. I ragazzi del movimento, prevalentemente liceali, trovavano difficoltà a ottenere il consenso dei genitori, soprattutto le ragazze. Così, Padre Agostino aveva dovuto rinunciare all’idea, o meglio, aveva dovuto ridimensionarla.

In alternativa al campeggio avevamo organizzato un viaggio di 15 giorni, in quattro, con la mia cinquecento: padre Agostino, Gianni Ibba, Antonello Demurtas ed io. In tenda, naturalmente, pernottando ogni giorno in una località diversa e cucinando con i nostri mezzi; abbiamo girato per mezza Italia, quella del centro nord. Avevamo dato a quel viaggio il nome di Raid nostalgia, perché sia io che Antonello, nell’occasione, saremmo passati, in alcune località, la val di Fassa e l’Alpe di Siusi, per far visita ad una fidanzata.

Nel 1969 padre Agostino era finalmente riuscito nell’intento, aveva portato un nutrito gruppo di giovani a fare esperienza di campeggio in val di Fassa.

Dopo una lunga corsa verso nord, siamo arrivati ad Alba di Canazei che già era notte. Abbiamo piantato la tenda in uno spiazzo qualsiasi, all’indomani ci saremmo spostati nel campo. Solo che il lungo viaggio e l’ora tarda non avevano esaurito tutte le nostre energie: perché non andare in avanscoperta, per localizzare il campo e dare un primo sguardo?

Antonello si tirò subito indietro. Era stanco, già pensava all’indomani, avrebbe incontrato Patrizia, e preferì riposare.

Seguendo le indicazioni ricevute, ci mettemmo alla ricerca del campo. Nonostante l’oscurità, dopo alcuni tentativi, individuammo le tende. Per prima cosa, avremmo dovuto verificare che si trattasse proprio del campo dei nostri amici. Ne avemmo conferma dopo una breve perlustrazione. Dormivano tutti.

Non ricordo di chi fu l’idea, ma è chiaro che, in questi casi, la responsabilità è sempre collettiva. Insomma, pensammo bene di infilarci nelle tende per sottrarre qualche effetto personale ai campeggianti addormentati, senza pensare a come sarebbe potuto andare a finire. In fondo erano nostri amici, nel momento in cui ci avessero scoperto, avremmo fatto insieme una risata e ci saremmo abbracciati. Ma le cose non andarono proprio così.

Dovevamo fare in modo di essere scoperti ma, allo stesso tempo, simulare che si trattasse di un furto. Ci infilammo in qualcuna delle tende. Alberto penetrò nella tenda dove dormiva Marco, mio fratello, sottrasse qualche oggetto. Continuammo, così, facendoci sempre più audaci, perché l’obiettivo finale era quello di svegliarli facendo credere loro di aver subito un furto.

Saranno state le due del mattino quando il silenzio della notte fu rotto da un urlo: – Ci hanno rubato tutto!

La voce era quella di Italo Deiana, il primo a darsi conto di quanto stava accadendo. In poco tempo si svegliarono tutti quanti, o quasi. Noi tre scappammo, ci sembrò che il gioco si facesse più divertente. Qualcuno afferrò dei bastoni, alcuni dei nostri amici, i più audaci, ci vennero dietro. La caccia durò a lungo. Udivamo le urla degli inseguitori e i comandi che si davano per organizzare la ricerca. Ma con il buio, a quell’ora della notte, era più facile nascondersi che trovare i fuggitivi. Il gioco aveva preso una piega che non avevamo previsto. Tutto sembrava tremendamente reale. Del resto, i nostri amici erano assolutamente convinti di aver subito un furto e di essere alla caccia dei malfattori. Ricordo, durante la fuga, di esser finito con i piedi nell’acqua di un torrente gelato. Del momento in cui venimmo allo scoperto, ricordo solo che l’incontro non fu come l’avevamo immaginato, non furono proprio baci e abbracci. Troppa tensione si era accumulata. Quello che, per noi, era un gioco, per loro non lo era affatto. Mi par di ricordare che fummo scoperti perché i nostri amici, nel perlustrare il territorio, individuarono la tenda dove dormiva Antonello, dove avevamo lasciato alcuni degli oggetti trafugati.

Il giorno dopo, ognuno fornì la propria offrì versione dei fatti. Marco, che la notte precedente russava come un ghiro, mentre Alberto, coricato al suo fianco, lo depredava, commentò così: – Ho sentito, mi sono reso conto che stava succedendo qualcosa.

Ogni esperienza confluisce inevitabilmente nel mare.

All’indomani, fummo svegliati dal proprietario del terreno dove avevamo piantato la tenda senza alcuna autorizzazione che pretendeva di aver subito un danno. Inesistente e inverosimile, per la verità. Ma per evitare complicazioni, consigliati da qualcuno dei nostri amici, finimmo per dargli mille lire a titolo di risarcimento.

Il giorno seguente, i nostri amici avevano in programma un’escursione sulla Marmolada. Si svegliarono di buonora e partirono, tutti.

Noi ci svegliammo più tardi. Dopo aver fatto colazione cominciammo a guardarci intorno. Quelle tende deserte, il silenzio. L’inazione non si confaceva al nostro carattere, almeno a quello d’allora. Osservammo la disposizione del campo. Ci sembrò che le tende fossero state disposte a casaccio, l’attendamento non aveva l’apparenza di quelli disegnati da Bonelli in Tex Willer. Insomma, non ci piacque.

Ripeto che, indipendentemente dal titolare dell’idea, la responsabilità è sempre collettiva. Decidemmo di smontare tutte le tende e di rimontarle secondo un’estetica che, a noi, pareva più congeniale.

Passammo quasi tutta la giornata a lavorare. Smontare le tende significava anche raccogliere i bagagli di ciascuno, non confonderli, e poi nuovamente rimontarle, una per una.

La nuova disposizione ci parve perfetta. Le tende disposte in semicerchio, con l’ingresso orientato verso uno spiazzo centrale. La cucina leggermente separata, fuori dal circolo, l’altare in posizione privilegiata, rivolto verso il campo.

Insomma, quando nel pomeriggio il lavoro fu terminato, ci sembrò di aver realizzato un buon lavoro. Si dice che Dio, dopo aver creato il mondo, riposò per un’intera giornata. La nostra impresa non era comparabile, pertanto riposammo molto meno, in attesa del ritorno dei nostri amici, convinti di stupirli per la sorpresa.

Arrivarono, poco dopo, stanchi per la lunga camminata. Contrariamente ad ogni nostra aspettativa, la loro reazione fu tutt’altro che positiva. Alcuni si adirarono sul serio. La disposizione che avevano dato al campo – mi pare che ad affermarlo sia stata Maria Manconi – rifletteva la loro personalità, avremmo dovuto rispettarla. Non ricordo i dettagli, ma il giudizio di alcuni dei nostri amici fu durissimo. Non potevamo, a discolpa, controbattere affermando che la nuova geometria del campo fosse più razionale o esteticamente più gradevole, non era quello il tema.

Non so come andò a finire, se vi fu una riconciliazione. Sicuramente qualche mugugno, o disagio, o imbarazzo, rimase.

Del resto, non so se dire “per fortuna”, ci saremmo dovuti trattenere soltanto per qualche giorno e il tempo, com’è noto, ha spesso il potere di cicatrizzare le ferite.

Non ricordo se la sera stessa, o il giorno successivo, alcuni di noi fecero parte della squadra che, nel campo di calcio di Canazei, sfidò una squadra di campeggiatori provenienti da Legnano. Alberto giura che l’incontro terminò 1 a 1. Gli credo, anche se ricordo, vagamente, solo il luogo dove si trovava il campo e il fatto che la partita ebbe luogo.

Durante quei due o tre giorni di permanenza non ci integrammo del tutto con i nostri amici. Non so se dipese dalle incomprensioni, chiamiamole così, del primo approccio, o dal fatto che eravamo dei visitatori occasionali, estranei alle dinamiche e all’organizzazione del gruppo. Antonello faceva un po’ storia a sé, visto poteva intrattenersi con Patrizia.

Ciò favoriva, almeno per alcuni di noi, l’acuirsi di quello stato d’animo che, all’epoca, chiamavamo semplicemente “crisi”. Ciascuno viveva il disagio in maniera differente. Io ne venivo fuori facilmente, con una certa ironia. Francesco, al contrario, soffriva intensamente. Per lui, la cosa era molto più seria.

Il giorno seguente, non ricordo perché, forse un’altra escursione alla quale non potevamo partecipare, ci trovammo ancora soli, almeno io, Francesco e Alberto.

Quella mattina, di buon ora, subito dopo la colazione, uscimmo per il paese alla ricerca di nuove emozioni. L’idea era stata di Alberto, l’aveva ripresa da una delle sue ultime letture: “I robot non hanno la coda”, un racconto di fantascienza di Henry Kuttner”. La responsabilità, come al solito, è comunque collettiva. Avremmo passato in rassegna i bar della zona. In ciascuno di essi avremmo domandato da bere seguendo l’ordine alfabetico. Ovverossia: Anisette nel primo bar, Ballantines nel secondo, Courvoisier nel terzo, e così via. Non completammo l’alfabeto, ovviamente, ma facemmo ritorno alla tenda piuttosto malconci, Francesco più di tutti.

Non lo racconto come goliardata, ne abbiamo fatto tante, molte le abbiamo dimenticate. No. Quest’ultimo, almeno quest’ultimo, è un ricordo di sofferenza. Dietro ogni gesto c’è uno stato d’animo. Il trascorrere del tempo, a volte, consente di apprezzare sfumature che nel momento dell’azione non vengono colte.

Dopo qualche giorno, abbiamo ricaricato i bagagli nella cinquecento di Antonello e abbiamo ripreso la strada. Con aria spavalda, ma con un po’ di amaro in bocca.

Alberto, che Dio gli conservi la memoria, ricorda che, su richiesta di Antonello, abbiamo fatto un salto in Svizzera per comprare qualche stecca di sigarette. All’epoca, acquistare sigarette a prezzo inferiore a quello del monopolio, sia che fossero di contrabbando, acquistate nel duty free di un aeroporto o all’estero, era qualcosa di cui ci si vantava, quasi uno status symbol.

Quindi abbiamo fatto un salto a Monza, giusto per salutare Annamaria, la ragazza conosciuta in Sardegna all’inizio dell’estate. Alberto, sempre lui, giura che i genitori ci invitarono a pranzo. Un pranzo a casa sua, alla base di risotto alla milanese, lo ricordo: ma lo associo a un’altra occasione, quando, da solo, raggiunsi Monza in corriera, partendo da Milano, dalla fermata del castello sforzesco.

Poi il ritorno. I tre compagni di viaggio mi avrebbero riportato a Grottaferrata, i corsi sarebbero ripresi nel grande Albergo Traiano, che non esiste più; lì avrei ripreso il mio lavoro.

Sulla via del ritorno, un giorno tentammo di cuocere un pollo sotterrandolo, dopo averlo ricoperto di frasche ed accendendo sopra il fuoco del bivacco. Il risultato fu disastroso. Arrivammo nel Lazio senza più un soldo. L’ultima notte del viaggio, dopo aver raccolto quanto ci rimaneva, discutemmo a lungo su come utilizzare quell’ultima, preziosa, somma. La scelta cadde sulla porchetta; la comprammo in un paesino dove si svolgeva una festa paesana.

Alberto, Francesco e Antonello, dopo avermi lasciato a Grottaferrata, avrebbero proseguito per Civitavecchia per poi imbarcarsi per Portotorres. Eravamo stanchi, affamati e senza più una lira. Decisi di invitarli, almeno per un giorno, nell’albergo di Grottaferrata. Li spacciai per corsisti arrivati con una giornata d’anticipo.

La cosa funzionò. Passammo dalla fame più nera a una giornata d’ozio con tutti i confort del grande albergo, serviti e riveriti. Gran parte della giornata la passammo in piscina. Ricordo che Alberto se la passò alla grande: spettacolari tuffi, a volo d’angelo, da un trampolino di oltre due metri. Anche noialtri, tre, nel nostro piccolo, con qualche tuffo “a coffa” e molto ozio, sdraiati a bordo vasca.

Poi l’incantesimo finì. Il giorno seguente ripresero la via del ritorno. Qualche settimana più tardi, mi raccontarono di aver davvero sofferto la fame durante il viaggio. Persero Francesco, probabilmente informarono della scomparsa anche il comandante. Lo ritrovarono più tardi, meditava nella parte di prua della nave, quella interdetta ai passeggeri. Furono tentati di malmenare un bambino che aveva buttato per terra una pasta appena addentata. A stento resistettero all’istinto di raccoglierla per mangiarla.

Dopo quella settimana tutto tornò alla normalità. Alberto, Antonello e Francesco fecero rientro a Cagliari e si rifocillarono. Io ripresi il mio lavoro. Non molto tempo dopo lasciai la Democrazia Cristiana e le sue residenze dorate. Ci ritrovammo. Quel sodalizio durò a lungo. A dir la verità dura ancora. Antonello lo sento raramente, ma sempre con molto con piacere. Lo immagino sempre elegante, in giacca e cravatta, con in mano il microfono di un geloso portatile, intervista i vecchi professori del Dettori. Con Alberto ho ripreso a giocare a padel. Non c’è niente da fare. Qualunque cosa faccia è sempre il più bravo. Ma credo che mi sopporti, visto che non mi ha abbandonato, almeno non ancora, per scegliere un compagno di doppio alla sua altezza. Mi vien in mente un precedente, non so se lo ricordi: una volta lui, campione assoluto di tennis tavolo, partecipò ad un torneo di doppio facendo coppia con me, che ero poco più che un principiante. Con Francesco mantengo una relazione speciale. La sua sofferenza, il suo sguardo interrogante, continuano ad accompagnarmi.

Premesso tutto ciò, la mia principale esperienza di quel lungo 1969, in realtà, è stata quella di scrivere poesie.

Ho sparso il sangue in mille rivoli

lungo le strade del mondo

consumando i palpiti.


Ritorno sulle tombe annerite

di secoli lontani

come le cose che furono.


Nelle labbra amare

non è scomparso il sapore

dei gesti, dei sorrisi, dei pianti.


Soltanto è lontano,

nella sabbia di polvere

avida di coprire i secoli.


Ho sparso il sangue in mille rivoli

lungo le strade del mondo

consumando i palpiti.


E quello che oggi spargo

che sapore avrà, domani,

quando tornerò a questa tomba?

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- L'illustrazione in testa è un quadro ispirato da una pittura di Gino Severini, autore Franco Meloni.


Fonte: Aladinpensiero online,
RIPRODUZIONE RISERVATA ©

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Franco Meloni

19 Ago 2020

GULP UN PO’ DI STORIA. Una decisa svolta politica di Gulp avvenne nel mese di aprile 1970, quando il giornale prese decisa posizione contro l’assalto fascista alla Facoltà di Lettere e Filosofia, svelando l’assoldamento di giovani sottoproletari di S.Elia, strumentalizzati dai picchiatori fascisti. Il Circolo dei giovani di Sant’Elia, animato da Franco Oliverio, registrò una serie di dichiarazioni di alcuni giovani di S.Elia, che, prezzolati quantunque ignari delle finalità dei fascisti, si prestarono all’operazione (le registrazioni furono pubblicate su Gulp dell’aprile 1970). L’assalto dei fascisti di cui si parla fu respinto e gli stessi ebbero la peggio nello scontro con studenti e professori della Facoltà, tra questi ultimi Girolamo Sotgiu. Con il numero di aprile 1970 entrano a far parte organica della Redazione Franco Oliverio (che già collaborava) e Mariano Girau. Ambedue tra gli esponenti più in vista dei “cattolici del dissenso” cagliaritani. Su Gulp la svolta politica fu evidenziata a partire dai numeri del 1971 con l’aggiunta del sottotitolo “CONTROINFORMAZIONE DI POLITICA E CULTURA”. L’ultimo numero di Gulp su stampato nel maggio 1974 (Franco Meloni).


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