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Gianfranco Murtas

Il Bovio berteggiato da un imbecille di coda a palazzo Sanjust, il Bovio coprotagonista d’un romanzo di Giorgio Todde nella saga mariniana

di Gianfranco Murtas

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«V’inculco silenzio, longanimità e fede. Le nostre deliberazioni non debbono essere note oltre quel termine: ciascuno deve informare l’ambizione sua ai comuni intenti; e dovete confidare più nel valore che nel numero. I nostri propositi non ci consentono indulgenza verso i manchevoli, e chi ha da essere mandato via, andrà!». Così Giovanni Bovio ammonendo la Fratellanza massonica napoletana, una volta che l’indisciplina di taluno parve ferire la credibilità di tutti… 

Ed è una ferita grave quella inferta, neppure soltanto di recente, all’educazione ed al buon gusto prima ancora che alla storia civica e alla Libera Muratoria cagliaritana di ieri e di oggi da un imbecille che ha mascherato il busto antico e prezioso di Giovanni Bovio – fra le dotazioni d’arte più importanti di palazzo Sanjust (la sede donata alla Fratellanza locale dal professor Vincenzo Racugno) – e così l’ha fotografato associandogli, di lato, un ignoto spiritato, palesemente smarrito nel pensiero. E tutto ha poi postato in internet, dove l’ho incrociato io buon ultimo e soltanto casualmente.

Ora il dossier fotografico, con molti allegati, viaggerà per sedi anche istituzionali, non soltanto associative – il Quirinale, gli uffici dei presidenti emeriti in Palazzo Giustiniani e la Camera dei deputati sono in elenco –, e racconterà di responsabilità e coperture non meno imbecilli (perché straordinariamente miopi) di quanto non sia stato il misfatto. Perché a corredo di tante fotografie irriverenti si sono posti messaggi d’insulto nientemeno che al presidente Mattarella ed al presidente emerito Napolitano: il tutto in partenza da una sala in cui affacciano i ritratti dei gran maestri del Grande Oriente d’Italia! Una infamia totale e, per me, sconvolgente.

Per il resto, e come servizio a chi ne sia interessato, continuo ad occuparmi di pagine di storia cagliaritana, e dei profili di personalità che hanno avuto parte nella relazione del prestigioso intellettuale che fu a lungo anche parlamentare – professore filosofo del diritto, deputato per ben 27 anni (tanti quanti ne coprì Giorgio Asproni, del quale fu ideale continuatore dal capitale 1876) e Grande Oratore del Grande Oriente d’Italia – con la Sardegna ed il suo capoluogo in particolare.

Promosso dai repubblicani, il busto di Bovio trovò subito il sostegno dei massoni cagliaritani, non soltanto fra quelli di fede repubblicana ma anche quelli di orientamento radicale e liberale, perfino monarchico. E una corona d’alloro e fiori della loggia Sigismondo Arquer comparve nel novero – con quelle della Federazione Repubblicana Sarda e della Gioventù Repubblicana Sarda, dell’Associazione Universitaria Anticlericale e degli Studenti delle Scuole Secondarie Sarde – che accompagnò il gran corteo mosso da palazzo Valdès (via Sulis) alla volta dello square delle Reali, quel certo pomeriggio di domenica 28 maggio 1905. Da Roma inviò allora la sua adesione alla cerimonia di scoprimento del busto realizzato da Pippo Boero anche Ettore Ferrari, prossimo Gran Maestro della Massoneria e docente del giovane scultore cagliaritano cui l’opera era stata commessa. Boero, repubblicano e massone (iniziato nel Tempio della romana La Regola e trasferitosi poi a Cagliari, fresco di “3° grado” nel giorno… del suo trionfo), da tempo aveva tratteggiato simpatiche caricature – quelle sì degne dell’intelligenza d’arte – dei VIP cittadini, fra i quali numerosi massoni. Ricordo al riguardo che nel novembre 2013 io stesso presentai a palazzo Sanjust quella galleria di tavole, con tanto di didascalia, unitamente al filmato sul monumento a Giordano Bruno (opera del Bozzano, autore anche del dettorino Dante Alighieri dello stesso 1913), di cui si evocava il centenario dell’inaugurazione nella piazzetta Mazzini. Boero fu prezioso sempre, e in Massoneria presto presentò anche suo fratello Gino, destinato a un gran futuro come musicista conosciuto ed apprezzato in tutt’Italia.

Le parole di Attilio Frongia, per Bovio e contro il sindaco

«Quando sarà tolto il drappo, e la figura buona del nostro maestro guarderà il popolo, di cui voi siete indegno rappresentante, che attorno gli si assieperà per fargli omaggio, non la guardate signor sindaco; quel marmo solo potrebbe in quel momento farvi arrossire.

«A voi, od operai, che il nostro maestro amò, e per il bene vostro sacrificò intiera la sua vita, a voi o studenti che siete all’avanguardia del progresso sociale, a voi o uomini civili di tutti i partiti, a voi – che ne siete degni – noi oggi lo consegniamo. Tenetelo caro».

Sono le parole che concludono l’articolo di fondo de La Scure del 28 maggio 1905. Titolo: “La consegna”, ciò che fa riferimento al dono che il comitato promotore del busto di Giovanni Bovio fa al Comune per le mani del sindaco – il comm. Giuseppe Picinelli (successore, dal 1900, del Bacaredda che ha retto il Municipio per giusto dieci anni e che sta per tornare al suo ufficio dopo una deludente esperienza alla Camera dei deputati: Picinelli non è amato dai “boviani” che lo accusano di non aver «trovato neppure un soldo per darci qual sussidio, forse perché i danari che amministra sono tutti spariti in mance ai carrozzieri in una recente visita ministeriale, o in elargizioni alle congreghe religiose»). 


Chi firma l’articolo è uno studente di giurisprudenza che nel suo paese – Arbus – è consigliere comunale repubblicano: Attilio Frongia (un giorno sarà padre di un valentissimo medico e sportivo assai noto nella Cagliari dell’hockey e poi anche dello scudetto di Gigi Riva, il dottor Augusto).

Richiama, il giovane Frongia, il dolore provato quando in città giunse, due anni prima, la notizia della morte di Giovanni Bovio: «Ricordo quel funesto meriggio d’aprile, in cui a noi pervenne la triste nuova che la natura aveva rievocato a sé la figura più bella, il carattere più puro dell’Italia e che fu gloria e vanto del partito nostro; e ricordo, nella umile, ma elegante stanzuccia, dove ogni giorno ci riuniamo per affratellarci sempre più in quella idea che ci apporta fastidi e noie, ma pure dolci speranze, ricordo quei visi sconvolti, quella mestizia profonda che ci invadeva, per la immane sciagura che ci aveva inevitabilmente colpiti. Nel cordoglio passava come luminosa visione tutta la sua grandezza che ci appariva in quel momento chiara, netta, precisa e come per dare conforto a noi stessi cercavamo di attenuarne il dolore raccontano dell’uomo, come se da tempo fosse passato alla storia, tutta la sua superiorità.

«Fu come uno scatto unanime. La sezione repubblicana si costituisca in comitato: si spediscano circolari per tutta l’isola e si raccolgano offerte per un busto che ricordi le dolci sembianze sue. L’annuncio fu grave: sapevamo che avremmo dovuto combattere contro l’ignoranza e la superstizione, ma pure, coll’aiuto dei buoni, che ci confortavano, noncuranti e sprezzanti le arti subdole di certi uomini che malvagiamente cercavano di impedirci il cammino, noi mandammo l’opera a compimento».

Nella Cagliari che il sassarese Enrico Costa aveva definito una volta «Monarchica, bigotta, festaiola / In cerimonie larga e in cortesie…», i repubblicani erano certamente una minoranza – anzi una minoranza estrema, pur se avevano avuto una loro anticipatrice società ciclistica Mazzini, pur se animavano come nessun altro il calendario patriottico puntualmente celebrando l’anniversario della Repubblica Romana e della morte di Cavallotti e Mazzini, di Garibaldi e Guglielmo Oberdan oltreché la breccia di Porta Pia e sempre contando sull’arte oratoria del pastore evangelico Pietro Arbanasich e l’entusiasmo dei ventenni: bisogna dirlo, una minoranza brillante per spirito di iniziativa e capacità di relazione, nonostante le asprezze ideologiche di contrasto al sistema liberal-monarchico e notabilare allora in auge. Ma la condivisione di un certo patrimonio morale e ideale con l’area liberale, poi liberal-radicale e liberal-democratica prevalente fra i frequentanti la loggia Sigismondo Arquer favorì, nel tempo, una bella intesa che tanto più avrebbe dato risultati dal 1911, con una rinnovata amministrazione Bacaredda che vide i repubblicani (massoni e no) affiancarsi, nella maggioranza e nella giunta, ai più di stampo moderato, smossi dalle nuove urgenze sociali raccolte dai gradualisti governi Giolitti. 

Gli stessi fratelli di Attilio Frongia – Luigi l’ingegnere e Gildo il medico – furono iniziati massoni e uomini come Angelo Garau il chirurgo, Enrico Nonnoi l’avvocato, Ettore Vassallo e Mario Lai i commercianti, Giuseppe Ibba e Nicolò Macciotta degli uffici del genio o catastali, e altri ancora costituirono, con il loro mazzinianesimo più spinto, un formidabile rinforzo idealistico alle liturgie fraternali.

La loggia Sigismondo Arquer fu fra i primi corpi associativi a contribuire alla grande questua con una offerta di cento lire; in tutto si raccoglieranno 558,05 lire ed oboli verranno da Guspini ed Arbus, San Gavino e Carloforte, Santulussurgiu e Macomer, Monserrato e Senorbì, Serrenti e Ghilarza, Guasila e San Nicolò Gerrei e Sardara oltre che dal capoluogo ovviamente, e perfino da Roma e Milano e Monza…

Bovio nella saga di Efisio Marini

Ben a ragione, anni addietro, lo scrittore Giorgio Todde (mi piace richiamarne l’opera oggi anche come augurio alla ripresa della sua salute!) inserì Giovanni Bovio nel suo romanzo E quale amor non cambia, 2005, Cles (TN), Il Maestrale-Frassinelli, quarto titolo della gustosa saga “mariniana”. Il dottor Efisio – Fratello massone a piedilista della loggia Vittoria – si era trasferito alla fine del 1867 a Napoli, sperando di ottenere lì quella cattedra universitaria negatagli a Cagliari. E a Napoli incontrò Bovio, e con lui fu apostolo di carità nei soccorsi ai colerosi del 1884.

Così, quando, nel 2008, portammo a palazzo Sanjust il busto in gesso pesante (cf. Erasmo, dicembre 2008) che costituiva il doppione di quello pubblico scoperto nel 1905 e, secondo il ricordo di Nicola Valle, abbattuto dai fascisti alla vigilia della seconda guerra mondiale, alcune pagine del lavoro di Todde ci consentimmo di condividercele. Fummo dunque estranei ad ogni sterile musealizzazione del monumento recuperato ed aperti invece ad ogni creativa rielaborazione, purché sempre nel rispetto dei valori entrati nel simbolo e del luogo – lo storico palazzo cagliaritano – che lo/ci accoglieva.


Ecco dunque di seguito proprio i brevi brani estrapolati dal romanzo dello scrittore cagliaritano (che ben meriterebbe d’esser presente nella biblioteca d’ogni amante la letteratura e certamente d’ogni libero muratore impegnato!) e scelti – senza ovviamente rivelare la conclusione del “giallo” – ad intervallare la breve relazione che allora tenni davanti a cento-centocinquanta presenti, e che pure ripropongo perché inedita.


Limoni calmanti, i più belli, dove Giovanni si ritira a scrivere perché pensa che la bellezza della mattinata e del pomeriggio qua si sente di più. Così quando chiude le palpebre questo giallo gli resta negli occhi al posto del buio. E anche se il giallo è il colore dello spavento a lui mette addosso un'energia costante e benigna. I passeri non beccano i limoni e si vedono solo rondini che sugli alberi non vanno. Qui Giovanni scrive di politica. Forse l'anno prossimo sarà un deputato al parlamento, dovrà andarsene lontano dal vulcano e dalla città, e magari le sue idee perderanno il profumo.

I limoni giganti gli tolgono preoccupazioni, le più leggere.

Un altro aprile... ma non è malinconia, anzi, Giovanni è proprio contento che è ritornato aprile.

Vent'anni prima aveva costruito un muro intorno al giardino e l'aveva escluso dal quartiere. Da allora Giovanni Bovio respira limoni, e gli fanno bene.

Mastica una scorza e legge il giornale. Che bel cielo, pensa, nulla che spaventi, non arrivano punizioni da lì. Incomincia il caldo, bisognerà cambiare il vestito tra pochi giorni. E se ne potrà andare ogni sera al molo, un piede avanti all'altro col passo di chi non ha più freddo.

Da dentro casa sente: «Giovanni. Giovanni, è tornato il colera!».

È un uomo puntiglioso e con la moglie ancora di più, e poi, cosa c'entra il colera adesso non lo capisce. Il fatto è che la moglie – è sempre così – gli vuole ricordare per forza qualcosa di brutto. Proprio ora che lui respira l’aria del giardino e vuole stare da solo.

«Cosa significa? Dove è tornato il colera? Ce l'abbiamo in casa? Qua non entrano malattie anche se ci sei tu che le invochi».

Lei non è più vulnerabile, lo era da ragazza, poi si è abituata: «C’è di nuovo il colera in città, voglio dire. Leggiti il giornale. Io non invoco nulla, Giovanni».

Lui inizia a leggere. «Fammi portare il caffelatte. Alle dieci devo essere all'Università».

«Il caffelatte e il limone ti legano la lingua».

«Non si lega così», Giovanni pensa che potrebbe darle molte risposte sulla sua lingua che non si lega mai, ma a stare zitto ci guadagna perché in questo modo è come se le avesse dato tutte le risposte.

Da casa esce una donna giovane però con due pieghe intorno alla bocca all’ingiù di chi non digerisce mai e prevede sempre malanni. «Ora ti portano la colazione».

«Fammi preparare anche una spremuta di limone. A me non fa male né all'intestino e neppure al carattere».

E fa di nuovo silenzio. In consiglio è la stessa cosa, tutti parlano, parlano, invece, se lui rimane zitto, dice ancora di più. 

Giovanni ha una faccia grande, d'importanza, e una barba che si muove anche quando è zitto perché la sua barba segue le sue idee.

D'improvviso un brutto pensiero gli dà una vertigine e un colpetto in mezzo alle scapole.

Un brutto pensiero. Tutta la città parla del colera appena l'aria si intiepidisce e arriva il vento da meridione. Perciò all'improvviso si è immaginato ammalato, dimagrito e verde: «All'ospedale degli Incurabili c'è un piano per i colerosi, un piano intero e io, invece, voglio restarmene qua… Perciò, mi raccomando, in casa, da noi, solo acqua bollita oppure acqua d'Antignano, mi raccomando, e che tutto sia ben cotto!».

In realtà Giovanni si è convinto – una cosa intima – che in quest'orto protetto non può arrivare nessuna malattia e che questi spicchi agri allontanano il malanno. 

Però deve uscire, e fuori c'è tutto il resto, altri uomini e contaminazione...

Un castello, il fosso intorno e il ponte crollato, questo ci vuole. 

Davanti agli occhi ha il giornale con i morti: «Guarda qua... nell'elenco di quelli andati all'altro mondo col colera c'è anche una ragazza... Restituta. È la più giovane della lista. Io sono al mondo da trentotto anni e potrei andarmene in un giorno, in un attimo».

Con i brutti pensieri si ricorda del suo amico Efisio, il mummificatore che i morti li pietrifica.

Efisio, da un po' di tempo, si è messo in testa di indurire l'intestino di questi disgraziati rammollito dalla dissenteria usando gli stessi sali con i quali trasforma i morti in minerale: Non occhio di prete... occhio onesto, onesto che guarda le cose...

Che buon odore di limone.

Efisio, abituato ai limoni piccoli, rugosi e senza sugo della sua isola, si era stupito la prima volta che aveva visto questi frutti giganti.

Giovanni riapre il giornale e pensa ancora alla ragazza: solo il nome e la data della morte nel bollettino del colera.

Morti, morti.... Perché Giovanni oggi inizia la giornata parlando, leggendo e pensando ai morti?


L’autore di epigrafi, anche a Cagliari

Giovanni Bovio comprenderà e perdonerà se arrivo a lui attraverso Efisio Marini, e attraverso la letteratura invece che la dottrina politica, o la storia del pensiero, o quella della Massoneria.

In E quale amor non cambia, quarto romanzo della fortunata saga mariniana fatta di cinque pezzi in tutto [nel 2019 è uscito il sesto, Il mantello del fuggitivo, nda], e ora conosciuta dal pubblico d’Europa perché le traduzioni sono numerose (in Germania e in Francia, in Olanda e in Spagna, in Russia e in Brasile), la figura di Giovanni Bovio entra di prepotenza come coprotagonista in una ambientazione piuttosto eccentrica rispetto a quella degli altri romanzi: essa gioca infatti non tutta, come negli altri pezzi, in Sardegna o magari soltanto nel capoluogo, fra il promontorio di Sant’Elia, i palazzi di Castello, le case e le strade della Marina e le trattorie del porto, i viali di capperi dove amoreggiare con Carmina, ecc. – ma fra Napoli e Cagliari (e Quartucciu). Siamo nell’anno che è il 40° di età di Efisio («Oggi Efisio Marini, senza consolazione e senza lamenti, compie quarant’anni. La nostalgia è proprio un dolore…») ed il 38° di Giovanni Bovio, il 1875. 

Todde restituisce una giovinezza e una attualità di presenza sulla scena – ancorché solamente nella finzione letteraria – a Giovanni Bovio, filosofo e drammaturgo, docente universitario e parlamentare – il regista del patto di Roma del 1890, e capo morale della sinistra radicale e repubblicana, prima che i socialisti, i repubblicani e i radicali si ritaglino ciascuno un proprio spazio e si organizzino in partito, per rappresentare valori e interessi e combattere tutta una sequenza di governi moderati e in qualche momento, come nel ’98 quando Bava Beccaris fa sparare sulla folla, anche illiberali e reazionari.

Questo e altro: anche gran dignitario e/o Grande Oratore del Grande Oriente d’Italia per molti anni, sotto la gran maestranza di Adriano Lemmi, amato e venerato non meno del gran maestro.

Passa all’Oriente Eterno, Giovanni Bovio, nel 1903 e Cagliari onorerà il rapporto con lui intrattenuto negli anni precedenti. 

Nel centenario della morte la sua città natale – Trani – ne ha ridestato la grandezza umana, intellettuale e civile: basti vedere i siti “ad nomen” di internet. Ma non soltanto a Trani è rimasto nome illustre.

 Scrive di lui Todde nel suo romanzo: «… spesso gli vengono in testa frasi brevi che contengono molto. Lui restringe pensieri grandi in epigrafi da incidere sulla pietra…». Chiaro il riferimento all’arte delle sentenze morali che egli fa scolpire sulle lapidi. Anche quelle che custodiamo noi nei nostri cimiteri o nei nostri palazzi.

Mettiamola così. Bovio è un umanista, un massone allenato alla riflessione sul senso della esistenza umana, sul percorso della storia, sull’uomo che marca, con il suo genio e il suo lavoro, la storia collettiva. Ed è capace, secondo anche il gusto del tempo, di dettare sentenze tranchant, e dare i voti di merito ai trapassati. Epitaffi che riflettono anche il suo sentimento di solidarietà ideale o ideologica con alcuni figli della Sardegna del XIX secolo. 

Il primo è Giovanni Battista Tuveri, forse l’intellettuale di maggior rango dell’Isola dell’Ottocento, il teorico del federalismo repubblicano, il deputato e sindaco di Forru/Collinas, il pubblicista ed il giornalista direttore di quotidiano – era il Corriere di Sardegna, che passava per organo della Massoneria cagliaritana ma anche nuorese e oristanese degli anni ’60 e ’70 dell’Ottocento.

«A Giovanni Battista Tuveri / che sdegnoso del presente / su cui si adagia / il dotto e ricco vulgo / presentì tempi di giustizia / e fu filosofo / nei pensieri e nella vita», è quel che Bovio detta allo scultore Emilio Atzeni che l’incide sul marmo, dentro la classica stella d’Italia circoscritta in una corona d’alloro le cui punte annunciano ciascuna un saggio del grande pensatore sardo. Opera di scalpello che sarà inaugurata, con intervento di bande musicali, sodalizi, rappresentanze scolastiche e parlamentari, la mattina del 5 febbraio 1888 (e il discorso ufficiale sarà tenuto da Felice Uda, già artiere della loggia Vittoria, a Cagliari);

il secondo è Vincenzo Brusco Onnis – giornalista e letterato cagliaritano, responsabile di giornali democratici fin dagli anni in cui le costituzioni figlie della rivoluzione del 1848 (prima guerra d’indipendenza, le cinque giornate di Milano, ecc.) erano venute a segnare, come una cesura fra un prima ed un poi, la storia d’Europa e dell’Italia ancora frammentata in staterelli: diresse Il Nazionale, diresse e fu columnist de La Gazzetta Popolare prima della sua involuzione affaristica, ed a Milano de L’Unità d’Italia:

«A Vincenzo Brusco Onnis / con Saffi Quadrio Campanella / uno dei quattro / che più propalarono il pensiero di Mazzini. / Non gli ruppe mai fede / proclamandolo più che dottrina politica / religione civile / del rinnovamento umano». La firma è della giovanissima Associazione Repubblicana di Cagliari – sono studenti e operai soprattutto, poi c’è qualche artigiano e qualche professionista avvocato o medico –, ma la mano è ancora la sua, di Bovio. Il quale accompagna il testo con un biglietto autografo datato da Napoli il 30 ottobre 1896: «Cari amici, vi mando l’epigrafe per Brusco Onnis… La dottrina di Mazzini meglio particolareggiata in qualche punto e liberata in qualche altro di quel tanto di misticismo che raro abbandona le anime grandi, è la sola àncora che può negli intelletti infondere una certa luce che non li faccia brancolare fra la tirannide di qualunque forma e l’anarchismo». Sarà scoperta, la lapide, domenica 13 novembre 1896. E aggiungo che uno scritto di Bovio aprirà la lunga serie di testimonianze nel numero unico uscito nell’occasione del primo decennale della morte di Brusco, nel 1898;

il terzo è Efisio Marini, medico e scienziato naturale, ricercatore e sperimentatore di formule straordinarie per la conservazione dei corpi ora pietrificati ora allo stato naturale – con colorito ed elasticità – come accadde allo storico Pietro Martini nel 1866… Marini – quel Marini che i famosi “Goccius de is framassonis” del 1865, irridendo alle sue virtù di sperimentatore, avevano malignamente e beffardamente inserito nel piedilista della loggia Vittoria, ma Fratello confermato tale nei Bollettini del Grande Oriente della Massoneria Italiana,– , Marini si era trasferito a Napoli, deluso per l’inaccoglienza della sua città natale, e per la chiusura del mondo accademico ad ogni sua aspettativa di cattedra. A Napoli aveva incontrato Bovio, così come aveva incontrato Asproni infermo, che ne scrive nel suo Diario un mesetto prima della presa di Roma… 

È del maggio 1902, in una lastra che reca il bassorilievo bronzeo del pietrificatore (opera anche questa di Pippo Boero): «A Efisio Marini / che attenuando la forza corruttrice / placò la morte / non la fortuna / né l’ignavia dei vivi / che lasciarono spegnere tanta fiamma / senza alimento. / O Italiani / la Giustizia postuma è rimorso».

Bovio pensatore ed uomo politico in una indivisibile unità è, insieme con Carducci, Guerrazzi, Pisacane, ecc, tra i maggiori fornitori di motti catechistici che Il Dovere – il quindicinale repubblicano diretto a Cagliari, nel 1898, dallo studente (e prossimo medico psichiatra) Carlo Sirigo – propone al suo pubblico di “intimissimi”. Cagliari è, secondo anche la richiamata descrizione di Enrico Costa, una città spagnolesca, clericale e monarchica, moderata anche negli anni della sua modernizzazione, delle trasformazioni bacareddiane: e perciò i repubblicani sono una minoranza estrema.

Egli s’affaccia anche nei numeri unici che, in città come nell’altro capoluogo provinciale, i repubblicani stampano magari in onore di Garibaldi (è la “repubblica” sassarese del Fratello Soro Pirino e dei giovani che, come Enrico Berlinguer, fonderanno poi, nel nome della intransigenza ideologica, La Nuova Sardegna) … 

Ci sono poi i telegrammi. È frequente che al termine di una manifestazione pubblica, di un congresso, o anche solo di un’assemblea di militanti con uno speciale tocco celebrativo, si decida di inviare un messaggio di confessione democratica ad uno dei leader di maggior luce nazionale. Per i repubblicani è proprio Bovio il destinatario preferito. «Cittadini riuniti commemorazione Cavallotti mandano Voi ossequio guarigione trionfo ideale democrazia», si scrive la sera del 6 marzo 1900 dalla grande sala della Società Operaia di via Barcellona angolo via Roma gremita di pubblico, presente anche il generale Stefano Canzio, genero di Garibaldi.

Quando si svolge a Guspini – presieduta da Luigi Murgia, medico chirurgo e sindaco del paese, iniziato a Napoli ed ora in forza alla loggia Sigismondo Arquer – la seconda assemblea regionale dell’Edera (dico dell’Edera che fu all’inizio il simbolo della mazziniana Giovane Europa: Giovane Italia più Giovane Germania più Giovane Polonia, ecco le tre parti dell’Edera) – nell’ottobre 1903 –, Bovio è scomparso ormai da alcuni mesi. La sua figura ed il suo insegnamento campeggiano però nella corale esaltazione ideologica dei convenuti. Da lì parte un telegramma di saluto alla vedova: «Secondo congresso repubblicano sardo riunito Guspini invia sposa, figli venerato maestro reverente affettuoso saluto».

È rimasto dietro i vetri sino a che Rosa è entrata dentro la bottega zuccherata. Poi si è seduto al suo tavolo e ha aperto la lettera arrivata questa mattina.

Quando Efisio ha visto la carta intestata del cavalier Tramontano ha sentito che stava iniziando qualcosa. Lo sanno tutti chi è Tramontano.

Chiude gli occhi. Ancora ricordi che oggi lo indeboliscono. Li caccia via con una mano, come si caccia via una mosca che però poi ritorna.

La legge lentamente la lettera di Alceste Tramontano:

Gentile dottor Marini,

quando il professor Mezzogiorno mi ha mostrato la mummia della ragazza di paese morta di colera ho pensato che il vostro talento è una disgrazia, come molti doni troppo grandi.

Vivete a contatto con l'aldilà e ne sentite ogni giorno l'odore che forse è migliore dell'odore che c'è di qua, almeno da queste parti.

Conoscete un segreto che vi isola, che vi isola come un artista. Lo so, lo so, me l'hanno detto che voi non tollerate d'essere considerato un artista e che ripetete sempre d'essere un artigiano. In effetti davanti alle vostre opere non si sente la vostra presenza ma, piuttosto, si riconosce l'essenza del defunto che non se ne vuole andare. Lasciare il corpo...

Scusate, faccio filosofia e io non sono un sapiente. Ma le vostre statue forzano a pensare anche il più indolente degli uomini.

Noi abbiamo un amico in comune che mi ha parlato di voi: Giovanni Bovio il quale, invece, è un artigiano dei vivi. Insomma, lui fa politica, lo sapete, e cerca di dare una forma onesta ai viventi.

Dottor Marini, desidero parlarvi.

La legge di nuovo.

Perché ha scritto ragazza di paese? Che importanza ha adesso da dove veniva quella ragazza mangiata dal colera? E poi perché quel doni troppo grandi che sono una disgrazia? Pietrificare i morti è un dono troppo grande? Però è abituato a sentire la gente riflettere – magari gente che non aveva riflettuto mai - davanti alle sue mummie di sasso.

…………

Giovanni Bovio conosce la città, i luoghi, la gente e le azioni della gente. Vede nell'insieme – in un semplificato ma profondo insieme – il genere immenso dei poveri, quello più piccolo dei ricchi e quello ristretto e indebolito dei nobili che si è ammalato di vecchiaia. Giovanni usa il suo orto concluso come un astronomo che, anziché le stelle, osserva le persone nonostante il muro alto che lo separa. Invece di dividere il cielo in ottantotto parti lui divide la folla all'infinito e poi fa le somme, perciò fa politica. Non ama i cassetti asfittici di Tramontano, lui le azioni non le vuole ficcare a forza in un cassetto senz'aria. Crede che la politica degli eletti crei un ordine medio, porti qualche cattivo verso la statua di marmo dell'onestà e salvi qualche povero dagli ex voto senza speranza che gocciolano dolore. E perciò, spesso, gli vengono in testa frasi brevi che contengono molto. Lui restringe pensieri grandi in epigrafi da incidere sulla pietra, però deve parlare e parlare come tutti, come Efisio, per farsi comprendere. Dopo scriverà sulla pietra.

«Quindi, secondo te, Tramontano ti ha parlato di una giovane isolana morta di colera, ti ha fatto salvare un suo amico, questo Fiorentino che ora mangia filetto. E poi...».

«Giovanni, la ragazza non è morta di colera, non è morta di colera».

«.... Poi ti ha avvicinato alla famiglia del Restivo dove questa poveraccia lavorava come una schiava e da dove ti è arrivata una richiesta di mummificazione. È questo, in due parole?».

A Efisio non piace sentire tutto ridotto a poche parole: «Sì, è questo, è questo. Ha usato perfino la malattia di quel Fiorentino Matacena, un uomo simpatico, sono contento che ce l'ha fatta. Tramontano mi ha chiesto di curarlo per portarmi dentro questa storia, lo so... Ora Fiorentino è un malato guarito e non c'è uomo più fedele di un malato guarito, però resta un uomo di Tramontano. Fiorentino mi porta notizie che vengono da quei cassettini e a Tramontano porta notizie che provengono da me».

«Hai visto lo studio di Tramontano? Infila tutti gli avvenimenti dentro quei piccoli loculi. Ora su un foglietto ci sarà scritto “Efisio Marini” e chissà che compito, che direzione cerca di darti. Ti considera come un cassettino che contiene notizie».

Il giardino dei limoni è silenzioso.

Efisio non è più abituato al silenzio e neppure al profumo. In via Summonte è tutto una circolazione di gente e di odori. Ora, questo, gli sembra un silenzio fuori luogo, circondato dai rumori che qui non arrivano. Il giallo, oggi, gli mette agitazione addosso.

Tramontano lo vuole portare dentro una storia, contro qualcuno. Efisio lo sa.

Resta un po' zitto e respira. Il profumo dei limoni, dopo un po', calma anche lui, basta che non guardi questo giallo esagerato: «Non era lo stomaco di una ammalata, Giovanni, quello di Restituta Serrale non era uno stomaco da malata...».

Giovanni non è un poeta: «Cosa vuole dire? Efisio, dovresti parlare come se io fossi uno che non sa nulla di nulla. Non farmi sforzare. Non parlarmi nella tua lingua da oracolo. Cosa c'entra lo stomaco di quella poveretta che hai pietrificato e poi rammollito?».

Efisio ha bisogno di essere ascoltato: «Insomma, voglio dire che se quello di Restituta fosse stato lo stomaco di una malata di colera sul punto di trapassare non sarebbe stato come io l'ho trovato... Quello era uno stomaco da affamata e la fame, si sa, la provano i sani».

Giovanni la conosce la fame di questa città, che è come quella delle altre, ma è più grande, e sa di eternità: «Sì, la fame, da queste parti, è un sentimento. È una cosa tanto sentita che ispira, tocca la fantasia. È un pensiero dominante. Sì, alla fine hai ragione tu, chi pensa alla fame è gente sana. La fame è roba…».

«... roba che è lontana dalla morte, roba da vivi. Cibo e aldilà sono lontani se in testa hai l'idea di mangiare...».

Si ricorda di un villaggio della sua isola dove si portava da mangiare ai morti e il cibo restava lì. Così nel cimitero il ronzio delle mosche diventava tanto forte che la gente credeva il rumore dell'altro mondo: ma quello era proprio l'altro mondo. Uffa, pensa, sempre ricordi, ricordi... Allora a cosa è servito scappare?

«Lo so, lo so, Giovanni, che non importa a nessuno di questa Restituta. Però se n'è occupato il cavalier Tramontano e se si è mosso lui... La ragazza è un granellino di una storia più grande... Fosse per Tramontano Restituta sarebbe solo un corpo che non merita neppure il disturbo di darle un nome. Perché battezzare una come lei, cosa se ne fa di un nome? Il nome può servire solo per la sua folle cassettiera».

Giovanni non si perde in mezzo alle parole: «Ma stavi parlando dello stomaco di questa ragazza».

Efisio tira fuori dalla tasca un foglio, lo stira con cura sul tavolo: «Ricotta, pasta sfoglia, canditi, farina… le prime cose che ho trovato dentro lo stomaco, quindi, le ultime arrivate... Mi spiego? Poi più in fondo...»

«Più in fondo?»

«Più in fondo significa più in là nel nostro tubo digerente, dove il cibo si mette in ordine come in una fila, come in una dogana. Una cosa dietro l'altra. Non si sbaglia.»

«Ho capito, ho capito, Efisio...».

«Allora continuo, lo vedi che ho una lista. Più avanti, dicevo, ho trovato carne, pomodoro, capperi, prezzemolo, forse aglio. Più avanti ancora, quasi interi – li avevo pietrificati insieme a Restituta – c'erano dei ravioli: doveva avere tanta fame che li ha buttati dentro senza masticarli. I moribondi nella mia città non mangiano come a un matrimonio. Una donna magra che mangia tanto... Una spiegazione ci sarà. Anzi, una spiegazione c'è! C'è un momento nel quale le donne mangiano di più».

Giovanni si allunga sulla sedia, chiude gli occhi: «E allora?».

Efisio guarda in alto: «È arrivata già morta all'ospedale degli Incurabili... L'hanno presa per colerosa, pallida, magra e, soprattutto, morta…».

«Da dove l'hanno portata?».

«Trovata, è stata trovata o fatta trovare in vicolo delle Anime. Chi l'ha portata agli Incurabili ripeteva “colera… colera... colera” e la suora dice che perciò ha scritto “co-le-ra”. Pallida, ma più pallida di un defunto. Bianca, candida come chi il sangue l'ha perso. E lei l'aveva perso tutto. Ma alla suora è bastato sentire colera: lei si è accontentata e, ma questo è molto peggio, mi sono accontentato anche io, io...».

Si alza e cammina intorno a Giovanni. Gli sfugge l'indice verso il cielo: «Un'emorragia, Giovanni: tutto il sangue era scappato via dall'utero. Perciò lei sembrava di neve anche se era una donna mezzo berbera. La spiegazione della morte di Restituta Serrale è nell'utero. Glielo hanno perforato. No, no, perforato è una parola troppo gentile. Glielo hanno lacerato, ecco la parola. Non riesco a immaginarmi un'offesa peggiore per un corpo che di offese ne riceveva ogni giorno, di continuo».

Giovanni capisce che Efisio gli sta descrivendo un orrore, ma non lo comprende tutto: «Perché? Dimmi il perché». 

I giri intorno a Giovanni diventano più veloci e l'indice di Efisio è più alto che può: «Lo sai, lo hai sentito dire, lo hai visto da tua moglie, insomma, si sa... Si sa che il primo segno della gravidanza è l'appetito. Restituta era gravida. Quando l'ho aperta e ho guardato nello scavo del suo addome ci ho trovato un utero ingrandito, rotondo, ancora gonfio. Restituta era gravida».


Il colera del 1884

Ne ha accennato la pagina del romanzo di Todde. Il colera napoletano. Nella trasposizione letteraria l’evento è collocato undici anni prima che effettivamente scoppiasse quella terribile epidemia che, arrivata dal sud della Francia e scesa poi per lo Stivale, fece fuori centinaia di campani, ma poi anche altri residenti nelle regioni meridionali. Fu l’occasione per riconosciuti atti di amore sociale ai limiti dell’eroismo, perché a rischio continuo di contagio ai propri danni, di Bovio e Marini. 

Marini se n’era andato da Cagliari, sperando in un insegnamento continuativo all’università di Napoli, dopo che nella sua città questo gli era stato precluso. Bisognava sempre barattare con la formula segreta della pietrificazione. Per questo, a 32 anni, aveva salutato e s’era sistemato nell’antica capitale del meridione continentale. Dove era entrato in grande confidenza con tutta una serie di napoletani doc o d’elezione: fra i primi Matilde Serao, quelli che un giorno fonderanno il quotidiano Il Mattino, Salvatore di Giacomo – il celebre poeta e autore di testi di canzoni a fine Ottocento –, e Giovanni Bovio, pugliese di origine. Era stato anche caricaturato da un grande del disegno umoristico del tempo, precisamente dal sipontino Antonio Manganaro (mi ha fatto dono della riproduzione, pressoché introvabile, l’amico Francesco Granatiero).

Dunque si era saldata quella amicizia e rafforzata sempre più lungo un trentennio, e una delle esperienze più forti che essi condivisero fu proprio quella della lotta al colera e del soccorso alle vittime. 

Soltanto nel mese di settembre del 1884 furono riscontrati oltre 3.300 casi, il 90 per cento fra i quartieri poveri e malsani. Allora Napoli contava 45mila vani e 54mila bassi. Così allignò il vibrione. Era un epidemia che raccontava la miseria materiale e morale della città. White Mario, moglie inglese del mazzinianissimo Alberto Mario, scrisse: «La prostituzione nelle infime classi è un mestiere come un altro… permette persino di essere una buona madre di famiglia… E come possedere idee di moralità? Vivono nelle stesse camere varie famiglie: dormono nello stesso letto padre, madre, fratelli, sorelle. Al teatro anatomico, ove si sezionano i cadaveri dei poveri… fra le ragazze dai quindici anni in su non si notò nessuna vergine».

Collaborarono come un sol uomo laici anticlericali e militanti dell’apostolato cattolico con in testa il cardinale arcivescovo Guglielmo Sanfelice… Tutti parteciparono al soccorso, le parrocchie e le logge, i repubblicani e socialisti ed i confratelli della Madonna o di San Gennaro, senza differenze e senza ambizioni di benemerenze fra i volontari… I massoni portavano le tre stellette sul petto e la croce verde sul braccio, nessuno si scandalizzò… Altroché! 

Anche Andrea Costa, deputato socialista, si presentò volontario. Una storica (Lilla Lipparini) ha scritto in una biografia di Costa “rivoluzionario”: «Soltanto il 4 ottobre lasciò Napoli per tornare a Imola. Ma prima di partire Giovanni Bovio, Gran Maestro della Loggia napoletana, lo accolse nella setta. Quando egli lasciò Napoli, era il fratello Costa».

Marini riuscì a frenare le forme dissenteriche proprie del virus attraverso quell’acetato di alluminio che, fra gli altri composti, aveva utilizzato per i suoi bagni conservativi, anche se poi preferì puntare su altre sostanze con minori controindicazioni… Fu, Marini, un campione di carità civica, un santo autentico nella competenza e nel servizio alla causa dei malati, nel 1884, alla Sezione Mercato e Torre Annunziata! 

Fissò sulla carta la sua testimonianza scientifica, trasmessa al comm. Mariano Semmola, Ispettore sanitario della Croce Bianca. Una copia di quel libretto preziosissimo, firmato con dedica dall’autore, si trova nella nostra Biblioteca Universitaria. E nell’ottobre dello stesso 1884 ricevette, con altri medici e volontari, il diploma di benemerenza, di «valentissimo e solertissimo». 

Pari riconoscimenti ebbe, sotto il profilo della organizzazione dei soccorsi, Giovanni Bovio.


A dir di un monumento-simbolo, simbolo fra simboli

E vediamo adesso una pur rapida scheda biografica di Bovio, prima di chiudere con il ripasso dell’amore che per lui nutrì Cagliari: quell’amore che portò la città a onorarlo all’indomani della morte, e poi, due anni dopo, a celebrarlo con il monumento in marmo bianco collocato nello square della stazione – spalle a Verdi e volto verso la stazione, proprio ai bordi di quello che è il laghetto oggi di piazza Matteotti…




Un monumento che ebbe un duplicato in gesso pesante entrato da subito negli arredi d’arte patriottica della loggia massonica intitolata allora a Sigismondo Arquer, dal 1907 allogata nella parte inferiore della via Barcellona. Un busto che troviamo documentato nell’inventario datato 1910 delle suppellettili nobili dei Passi perduti della casa massonica. Un busto che, secondo una ricostruzione più che attendibile, fu fra il bottino del sequestro/saccheggio che i questurini fascisti compirono nel novembre 1925 anche nella sede massonica di Cagliari, e che finì per quasi mezzo secolo in un magazzino del Comune – e chissà cos’altro c’è nei magazzini comunali…

Allora, era il 1970, esso fu recuperato dal compianto Luciano Marrazzi – attivo nella loggia Hiram -, che era anche un fedele mazziniano, e dal pure compianto segretario repubblicano Bruno Josto Anedda – giornalista di Radio Cagliari e collaboratore della facoltà di Scienze Politiche, colui che è stato lo scopritore delle casse contenenti il monumentale diario di Giorgio Asproni, poi pubblicato in sette volumi dalla stessa Facoltà.

Fu chiesto al sindaco del tempo, Paolo De Magistris, che ha sempre avuto un fine senso della storia, di recuperarlo per la sezione repubblicana allora in via Sonnino, dove anche io iniziai la mia militanza nella Federazione Giovanile e dove lo trovai all’inizio del 1971: per me la scoperta, vis-a-vis, del risorgimento umano, non soltanto ideologico… 

Giovanni Bovio, pugliese di Trani, visse 66 anni, dal 1837 al 1903. Nacque nel Regno delle due Sicilie, morì quando già il Regno d’Italia era consolidato.

I grandi eventi della storia nazionale lo videro, nel secolo, 11enne nell’anno delle rivoluzioni costituzionali (1848) e della prima guerra d’indipendenza; 22enne nell’anno della seconda guerra d’indipendenza che strappò la Lombardia all’Impero austro-ungarico; 24enne nell’anno dell’unità d’Italia, all’indomani dell’impresa dei Mille di Garibaldi; e dunque già uomo fatto – 29, 33enne – nel 1866 e nel 1870 quando il processo risorgimentale si concluse (salvo il nuovo tempo della grande guerra per Trento e Trieste) con la terza guerra d’indipendenza che portò il Veneto nella compagine territoriale della nazione, e con la famosa breccia di Porta Pia, che recò Roma e il Lazio a saldare nord e sud d’un paese finalmente unito almeno giuridicamente, non ancora economicamente né socialmente.

È in uno spazio di questa geografia temporale che egli venne iniziato alla Massoneria: accadde quando era 26enne, nel 1863; la loggia s’intitolava a Caprera ed era al suo Oriente nativo di Trani. Ne sarebbe stato prestissimo Oratore: e certo è da immaginarsi il tenore delle sue Tavole, pur ancora giovanili. 

Nel volume edito dalla Camera dei deputati nel 1915 con i suoi discorsi, una lunga prefazione accenna a qualche suo passaggio biografico: nel 1866 concorre al posto di bibliotecario a Bari, e l’anno dopo alla cattedra di diritto penale. L’ambiente non è favorevole, gli consigliano di trasferirsi a Napoli: qui prende l’insegnamento di letteratura italiana all’Istituto Marotta e Del Vecchio, vince il concorso per l’insegnamento di letteratura italiana al liceo Principe Umberto, ma dirottato ad Avellino rinuncia; e comincia a pubblicare: nel 1872 il Saggio critico sul fondamento etico del diritto penale, nel 1873 i Discorsi politici (subito sequestrati dalla polizia); verranno poi il Sommario della Storia del Diritto, il Corso di Scienza del Diritto e la Filosofia del Diritto; dal 1875 copre all’università, come professore pareggiato, la cattedra di enciclopedia del diritto… Infine ogni suo discorso in parlamento ha lo spessore del saggio.

Si legge:

«Gli è chiara la natura profonda del contrasto con l’Austria che è “uno Stato senza nazione, (mentre) l’Italia è uno Stato che deve compiere la nazione a spese dell’Austria. L’una è una espressione diplomatica; l’altra è una espressione geografica. Sono dunque i termini della più flagrante contraddizione innanzi al nuovo diritto pubblico… Il compimento dell’Italia che non sarà mai l’Italia con l’Austria in casa è una condanna di esilio dell’Austria… L’Austria trovasi a gran disagio tra l’impero tedesco, inteso a germanizzarsi, l’impero russo inteso a dilagarsi quanto la Slavia e il regno italico tirato verso le sue naturali frontiere. Ad essa gioverà sempre un buon colpo d’accetta sull’Italia donde mosse la scintilla. La scintilla, dico, cioè la missione dell’Italia, che oggi si concreta nel principio di nazionalità, il quale trasformando la carta d’Europa, è il verme roditore dell’Austria”».

 Parlamentare e gran dignitario del GOI

La sua carriera parlamentare – se di “carriera” può parlarsi per un uomo della sinistra mazziniana mai organico all’establishment anche quando la sinistra costituzionale andrà al governo – iniziò nel 1876. Sarebbe restato a Montecitorio fino al 1900: giusto un quarto di secolo.

Mi piace vederlo, sotto un certo profilo suggerito anche dal calendario, come la prosecuzione ideale di quel che fu Giorgio Asproni, alla Camera dal 1849, e che proprio nel 1876 cessò la sua militanza non solo parlamentare, ma nella vita.

Questa prolungata esperienza di deputato si intreccia con quella massonica: egli è fra i grandi nomi dei partecipanti all’anticoncilio di Napoli del 1869 – riunente i liberi pensatori d’Italia e d’Europa come contraltare del Concilio Vaticano I di Pio IX, che avrebbe definito il dogma della infallibilità pontificia; 

nel 1882 è eletto nel Grande Oriente (così si chiamava il corrispondente dell’attuale Consiglio dell’Ordine) e nel 1887 presiede la Costituente di Roma (in sostanza la Gran Loggia, riunita nella modesta sede di via Campo Marzio, palazzo Poli). L’anno dopo viene regolarizzato nella loggia Losanna all’Oriente di Napoli, e l’anno dopo ancora – il 1889 – viene eletto per un quinquennio Grande Oratore del GOI.

L’elezione a Grande Oratore avviene nel giorno bruniano per eccellenza – il 17 febbraio –, quello che ricorda l’“abbruciamento”, nel 1600, a Campo de’ Fiori. Quel Campo de’ Fiori in Roma nel quale Bovio tiene l’orazione ufficiale in occasione della inaugurazione del solenne monumento opera di Ettore Ferrari, il 9 giugno 1889. Manifestazione cui partecipa anche una delegazione cagliaritana, che al ritorno in città tanto semina da suggerire la fondazione di un’officina intitolata a quel Sigismondo Arquer teologo e giurista cagliaritano che aveva anticipato di 29 anni – lui nell’autodafè di Toledo – l’abbruciamento di Giordano Bruno ad opera della Santa Inquisizione.

Dice Bovio, e sono parole che bene rappresentano la sua personalità intellettuale: «Qui fu arso, e le ceneri non placarono il dogma; qui risorge, e la religione del pensiero non chiede vendetta. Chiede la tolleranza di tutte le dottrine, di tutti i culti, e culto massimo la giustizia: in luogo della contemplazione il lavoro, della credulità l’esame, dell’obbedienza la discussione, della preghiera la rivendicazione e l’opera. Diventano articoli di questa religione le ricerche della scienza, gli equi patti internazionali, e le universali esposizioni del lavoro universale. Questa fede non ha profeti, ha pensatori: se cerca un tempio, trova l’universo; se cerca un asilo inviolato, trova la coscienza dell’uomo. Ebbe i suoi martiri: impone che da oggi le riparazioni non siano postume».

È del 1892 un suo solenne discorso, quale rappresentante straordinario del governo dell’Ordine, alla Massoneria napoletana. Accennando al recente congresso della pace tenutosi a Roma, ritorna a considerare la natura profonda della Libera Muratoria. Dice: «Il congresso indicò alcuni mezzi, che valgono ad affratellare i popoli, ma la somma dei mezzi è in potere dell’Istituzione massonica, che per origine, progressi, statuti, universalità, mira all’unità concreta e organica dell’umana famiglia. E tutte le discussioni tendenti all’universalità pratica restano accademiche, se la Massoneria non se ne impossessa. Questa istituzione è il naturale segretariato internazionale». 

La qualità templare – la virtù morale degli artieri del Tempio – è un suo assillo: «V’inculco silenzio, longanimità e fede. Le nostre deliberazioni non debbono essere note oltre quel termine: ciascuno deve informare l’ambizione sua ai comuni intenti; e dovete confidare più nel valore che nel numero. I nostri propositi non ci consentono indulgenza verso i manchevoli, e chi ha da essere mandato via, andrà!». Un monito valido sempre e ovunque.

Nel 1896 – l’anno dell’assunzione del Supremo Maglietto da parte di Ernesto Nathan a palazzo Borghese, nuova sede massonica – Bovio è lui stesso nella terna (con Achille Ballori che diventerà più tardi Sovrano Gran Commendatore scozzesista). Ed è singolare – ma non certo sorprendente – che nello stesso anno (l’8 giugno) egli depositi al tavolo del presidente del Consiglio e ministro dell’Interno Di Rudinì una interpellanza circa taluni provvedimenti governativi riguardanti la cosiddette “società segrete”: «La Massoneria è istituzione universale quanto l’Umanità ed antica quanto la memoria. Essa ha le sue primavere periodiche, perché da una parte custodisce le tradizioni ed i riti che la legano ai secoli, dall’altra si mette all’avanguardia di ogni pensiero e cammina con la giovinezza del mondo». Sono le sue parole. 

Amato anche dai massonologi

E basta anche soltanto scorrere le pagine dei maggiori massonologi italiani – da Rosario Esposito ad Aldo Alessandro Mola, da Ferdinando Cordova a Fulvio Conti – per trovare il suo nome citato forse più di tutti, alla pari dei gran maestri e dei sovrani gran commendatori.

Ad uno di questi maggiori autori, don Esposito, si debbono forse gli studi più approfonditi anche sull’opera scritta di Bovio. Richiamo, fra i molti altri suoi saggi, il Giovanni Bovio tra l’Apostolo Paolo e S. Tommaso d’Aquino, offerto come «contributo alla storia della Chiesa e della Massoneria nel secolo XIX», da Bastogi Editore. Qui anche sono larghi richiami al dramma teatrale Cristo alla festa di Purim, rappresentato con grande successo di pubblico ma gran scandalo clericale nel 1894, al pari del San Paolo che, con non minore scandalo, sarebbe stato messo in scena nel 1895. Varrà ricordare che l’Apostolo è presentato in dialogo con Seneca e Lucano e che, scavando nelle sue parole e arrivando al nocciolo del suo pensiero, pare emergere la sua intenzione vera e profonda: non la fede per la fede, ma la fede per la politica. Eresia. Scrive un giornale cattolico napoletano del tempo: «il suo pensiero oltrepassa la sua fede, egli simulando odio al pensiero, ha pensato. Ma a chi? Forse a Cristo? No, allo Stato. Nella parola che si porta, il suono è Cristo, lo spirito è la vendetta ebrea contro l’impero latino. Sminuire in Roma la religione dello Stato, proprio del genio latino, per introdurvi un Dio inerme che non è nato da noi; e seminare nella città una setta di uomini ai quali è voluttà la morte: ecco i mezzi».


Giovanni Bovio ha un suo angolo aureo nella sala senza ornamenti all'ingresso del tempio, dove riceve in piedi, un angolo luminoso, un territorio esclusivamente suo, un pezzetto della stanza dove fa stare solo chi vuole lui, e dove c'è sempre un raggio di sole che lui comanda e fa cadere dove preferisce. Questa mattina nell'angolo c'è Efisio e il raggio gli illumina la faccia lunga che col raggio, però, si ricompone. Il consiglio è concluso e c'è il silenzio dei palazzi abbandonati dalle parole.

«Dunque parti, Efisio? Hai deciso? Nostalgia?». «Certo che ho nostalgia… è una pena».

«E Rosa?»

«Rosa è grande, sa come fare con Carmina. E poi può contare su di te. Ma non parto soltanto per vedere apparire dal mare il mio promontorio santo. Non è nostalgia e basta. A vedere casa mia ci vado senza bisogno che Tramontano mi stuzzichi.»

«Lo so. Parti per capire cos'è successo a questa Restituta Serrale... Per cercare l'origine delle cose... me l'hai spiegato. Ti sei fatto prendere nella tagliola da Tramontano. Questo lo capisci, no? Ti ha messo un'esca sotto il naso e l'esca ora ti porterà a vela e a vapore verso il tuo scoglio. Hai desiderio di un'isola? Ce n'è più vicine».

Efisio si tiene la fronte dove sente bruciore: «Voglio prendere la nave e tornare in città, e aspettare di vederla. Sto lontano da tanto tempo che mi sento come se la dovessi fondare io. Lo so che è una trappola, lo so che mi hanno provocato. Ma hanno indovinato tutto. Hanno indovinato che io non resisto».

Giovanni guarda la luce che si muove sulla faccia di Efisio. Il suo amico ha in testa un pensiero unico, ramificato ma unico: «Però tu sei più acuto di loro... È questo che pensi, vero? E sai pure che hanno intuito solo una parte di te e che la tua parte sotterranea non la sospettano neppure. Stai attento: Tramontano ti ha conosciuto più in fretta di me. È un uomo profondo, ricordatelo, profondo come un cratere... Lo so cosa ti spinge, Efisio... È anche il puntiglio».

«Tu, tu mi parli di puntiglio... Ma se qua lo sanno tutti, Giovanni, che basta provocarti e tu... Risposte per chiunque apra bocca, precisazioni, correzioni…».

«Reagisco, certo, come tutti. Ma io calcolo ed esercito l'arte canonica della discussione. Ho il mio giardino, profumato e là calcolo, Efisio. E sinora non ho sbagliato. I limoni, lo sai, tengono puliti gli intestini e chi fa politica l'anima ce l'ha da quelle parti. Tu sei medico e l'anima chissà dove ce l'hai. E non hai un giardino di limoni dove riflettere. Però la testa, quella ce l'hai dove ce l'hanno tutti e sei convinto, nel fondo della testa, di essere superiore ai fatti: di riuscire comunque a dargli la direzione che vuoi tu. Attento, attento ché Tramontano è furbo e intelligente non solo di suo. Lui ha una tradizione lui, viene da una tradizione. Tu no, tu sei un inizio, e non si sa dove vai a finire».

Efisio si scarmiglia se qualcuno parla della sua solitudine, come se lui fosse uscito dal niente: «Lo so, tutto quello che arriva lì nel suo studio ci arriva da secoli. Il cavaliere è un piccolo pontefice eletto. Non lo ha scelto il caso». Si tiene più forte la fronte: «Ma non c'è nulla da fare, te l'ho detto, è una forza che mi arriva da chissà dove e io non resisto…».

Giovanni diventa rosso però non alza la voce: «Ti esibisci... sei un vanitoso… vuoi fargliela vedere tu... Ecco, signori, questa è la mia testa e io la uso come voglio, poi succeda quello che le mie idee fanno succedere. Ai fatti l'indirizzo dove presentarsi glielo dò io... Questo ti passa nel cervello».

A Efisio ricordargli come è fatto non piace. Però si fida del profondo di sé dove conserva una forza che nessuno conosce salvo il suo padre scolopio del liceo che ora è polvere celeste. E poi non è vero che lui viene dal nulla, lui un suo principio faticoso lo ha avuto: «Giovanni, ho prenotato la cabina nel vapore. Dalle mie parti inizia la festa crudele del caldo. Se non torno da queste parti sarà perché un'anofele mi ha mandato nell'aldilà».

«È nato tutto da questa Restituta Serrale, vero?».

«Non me la dimentico e non mi dimentico neppure l'errore di averla presa per una morta di colera. Era morta ammazzata. Io voglio capire e non finire come quelli della mia città addormentati dall'odore del pesce arrosto come se l'esistenza fosse un'unica, lunghissima digestione».

Efisio apre la sua borsa e ne tira fuori un quaderno nero: «Sai di chi è questo quaderno, Giovanni?».

 «No.»

«È un diario, il diario di Restituta…».

«Quella ragazza sapeva scrivere?».

«Restituta scriveva, sì... Ma questo foglio in mezzo al quaderno non è scrittura sua... Guarda.»

Giovanni prende il quaderno e guarda il foglio: «Sì, sono scritture diverse e nel foglio ci sono dei versi... Lei ha conservato versi scritti da un altro».

Li legge e poi li legge di nuovo: «Questi sono versi di uno che magari si veste come un poeta, si muove come un poeta ma...».

«Scritti da uno che ha pennino, calamaio e tempo per cercare le rime. Restituta li ha rubati».

«Chi ti ha dato il quaderno e il foglio? No, zitto... ho capito... Fa parte dell'esca per farti abboccare. È stato Tramontano a darti foglio e quaderno».

«Bravo Giovanni, vedi che è un'esca talmente viva che attira anche te? E ora, usa la fantasia e indovina chi ha scritto i versi. Dimmi a chi ti fanno pensare... da quale testa sono usciti. Su, leggi di nuovo».

E quale Amor non cambia

E resta immutata forma...

Una fiamma, un lampo, una freccia 

che mi brucia, ferisce e fa breccia 

nella cèrvice mia insanguinata... 

Ma quel nero è amor che non voglio, 

e quel sangue è tutto il mio doglio,

è un Amor, un Amor che non cambia... 

«È interrotta a metà», la barba di Giovanni è ferma perché si sono fermati i pensieri. «Non so, Efisio, non so chi l’ha scritta. È brutta… Un cervello insanguinato che genera idee… Un amore nero… Brutta».

«E un amore che non cambia… un amore che non cambia… Nervi malati».

Giovanni si dà una manata sulla fronte: «Antonino del Restivo! È lui l’autore dei versi, vero? È lui?».

«Sì, li ha scritti Antonino».

«Questa è molto di più di un'esca, Efisio. Tramontano ti ha consegnato veleno, un veleno molto amaro».

Efisio si attorciglia il ciuffo: «Parto, torno nella mia città».


L’ateismo religioso del filosofo

Il pensiero di Bovio. Iniziamo dall’alto, o dall’Altissimo, e d’altra parte, trattandosi di un filosofo… Iniziamo dal suo l’ateismo religioso. Mazziniano ma non credente altro che nelle forze morali e materiali dell’uomo. Il teismo (più che il deismo) di Giuseppe Mazzini è cosa certa, e Bovio però, pur distante da quell’impostazione dell’Apostolo genovese, neppure la confina in una sorta di barocca emotività: «Il Dio di Mazzini non è un’esplosione sentimentale, un residuo di reminiscenza o un espediente politico, è tutto un risultato storico», scrive.

Anche il pensiero della sua prossima morte racconta della sua personalità d’acciaio. «Voglio essere portato al cimitero senza preti e senza seguito o pompa. Mi farai mettere sul carro comune, e deve bastare. Non voglio discorsi necrologici e se morrò questa mia volontà indicherai al presidente della Camera. Voglio una fossa comune né permetterai un’epigrafe o altro segno. Tu sai come sono vissuto e sai bene che il tuo dovere è di adempiere questa mia volontà», ha scritto al figlio Corso, il 29 gennaio 1896, sette anni prima del fatale evento.

All’indomani delle esequie, poi, così riferirà (il 17 aprile 1903) l’agenzia di stampa Stefani: «I funerali di Bovio, senza pompa…, furono imponenti per il larghissimo concorso dei cittadini. Il feretro era portato a spalla da studenti e amici. Si notò una sola corona della famiglia. Lo seguivano le autorità, vari senatori, numerosi deputati…, le associazioni, gran numero di cittadini d’ogni ceto e numerosi studenti. Il corteo percorse il rettifilo e la via Garibaldi, affollatissima, e si sciolse nella piazza Carlo III. Lungo il percorso i negozieranno chiusi. Piovve».

Aprile 1903. Scrive La Sardegna Cattolica, giornale clericale diretto dall’avvocato e conte palatino Enrico Sanjust di Teulada: colui che nel 1896, all’indomani della inaugurazione del nuovo tempio massonico di Cagliari forse ancora nella via Gesù e Maria civico 18 (via Eleonora d’Arborea), quartiere di Villanova, [o forse già a palazzo Vivanet, nda] ha scatenato, con il suo quotidiano nuovo fiammante (appunto La Sardegna Cattolica) l’ira antimassonica, in contemporanea con la celebrazione a Trento del primo congresso antimassonico internazionale: «A sessantadue [recte: sessantasei] anni, demolito per così dire brano per brano da crudele dolorosa malattia, scende nel sepolcro Giovanni Bovio.

«Noi fissiamo con profonda tristezza quel sepolcro, non confortato dal raggio della fede, non protetto dall'ombra della Croce, noi rivediamo, con memore melanconico ricordo, la severa figura del filosofo, che nella nostra gioventù vedemmo dall'alto di una cattedra brandire a una folla di giovani la incompresa e spesso incomprensibile parola di una scienza, nella quale cerca indarno riposo lo spirito avido di verità…

«Noi, nel silenzio e nella meditazione, imploriamo sull'estinto la misericordia di Dio, deploriamo che tanto tesoro d'ingegno, tanta naturale bontà, siano andate miseramente sciupati…».

Quando, sei mesi più tardi, la Sezione repubblicana lancerà l'idea di un monumento "in onore" e di una pubblica sottoscrizione per sostenerne le spese, la Sardegnetta (26 ottobre 1903) non farà sconti, precisando: «Perché un monumento a Bovio? Perché, soprattutto, un monumento a Bovio, in Cagliari? Giovanni Bovio fu uomo onesto, uomo di carattere….; ma basta questo per mendicare l'onore del marmo? Come uomo politico non ebbe che qualità negative; come pensatore, come filosofo, come scrittore, il giudizio spetta ai posteri…

«Per la Sardegna poi e per Cagliari che non hanno trovato voglia e denari per monumentare tanti uomini veramente illustri italiani e sardi, quale significato potrebbe avere un monumento a Giovanni Bovio? Non altro che quello di una manifestazione repubblicana; vale a dire una manifestazione incosciente e non sincera».

Così i clericali, che per il più sono anche monarchici. Diverso è per i socialisti. La Lega – organo della locale sezione – aveva già espresso, sincero, il dolore per quella dipartita scrivendo il 19 aprile: «Visse come un savio antico e morì, povero, nel silenzio della sua casa, sacra alla Virtù e alla Bellezza. Egli, che in tutta la vita esercitò il culto della Sapienza, nell'amore, in diretto contatto con le forze vive della sua terra e con le energie potenti della sua stirpe, è oggi accompagnato al riposo dal pianto e dalla riconoscenza di tutto il Popolo d'Italia che l'amava come fosse il figlio migliore...

«Gran parte della nostra anima giovanile cade con Lui, dal quale imparammo la parola della Bontà e del Sacrificio; gran parte dei ricordi della nostra vita passata svaniscono con lui che era per noi tutti, uomini di lotta, il simbolo più alto e più puro dell’Umanità Nuova». 

Ora che, superate tutte le difficoltà frapposte dai molti chierichetti municipali, il monumento può essere, è ancora La Lega socialista (28 maggio 1905) a scrivere: «Giovanni Bovio fu, dopo Mazzini, il miglior genio italiano del secolo scorso: egli degli antichi Greci e Romani ebbe il diritto senso del dovere, di Dante la serena e austera grandezza dell'anima, di Giordano Bruno la ferma costanza del martirio. Tutto ciò che fu grande nel passato fu suo ammaestramento, tutto ciò che fu nobile nel presente fu suo comandamento.

«La sua prima gioventù accompagnò l'epico e glorioso periodo delle lotte per la libertà della Patria…: restituire Roma – liberata dalla bieca ombra del Vaticano – all'antica grandezza e all'antica libertà della Repubblica; infondere nell'animo della Nazione il rigido senso del dovere e della libertà; compiere nei suoi limiti e nella sua naturale forma di governo la Patria; far trionfare nell'arte, nelle lettere e nella scienza il pensiero laico, nei santi nomi di Dante, Vico e Tacito…

«Possa la sua santa memoria, invocata nel cielo della vecchia e forte isola nostra, scuotere dall'oblio a nuova e operosa vita che ancora conserva nell'animo liberi sensi…». 

E dopo i clericali, avversari, ed i socialisti, amici, ecco i liberali de L'Unione Sarda, rispettosi vicini: «L'uomo che, a Napoli, giace da più settimane nel suo letto di dolore – aveva scritto il 16 marzo 1903 – milita in un campo assai diverso dal nostro; ma non perciò si leva da queste colonne meno caldo e sincero il voto perché il vegliardo, che è decoro della tribuna parlamentare e della cattedra, lo scienziato insigne, il patriota intemerato, che fu modello di carattere e specchio di virtù civili, sia conservato alla vita».

E ancora: «Il Bovio è considerato non solo come il capo della parte democratica delle provincie meridionali... Egli …ebbe, come il grande Genovese, innato lo stesso sentimento del dovere e considerò come lui la vita una missione, come lui ebbe culto supremo per l'onestà; e in questi giorni, pure tra le sofferenze della sua infermità, Egli si compiaceva delle disposizioni del ministro Nasi per l'adozione del libro di Mazzini nelle scuole».

E quindi, il 16 aprile: « È morto. Egli voleva che le sue teorie avessero trionfato non per impeto di violenza, ma per forza di convinzione. È così che la sua parola, nelle bufere della Camera, s'elevava alta e impersonale, calma e serena, e di fronte a lui, come dinanzi a un candido patriarca, di fronte al suo gesto ampio e solenne, le ire tacevano e gli animi immantinente s'acquietavano».

Ora, L’Unione Sarda appoggia l'iniziativa del monumento. Lo fa anzi da quando la Sezione ha lanciato l'idea, riferendone a più riprese e raccomandando calma e pazienza a coloro che lamentano il boicottaggio da parte dei troppi esponenti conservatori del Municipio.

Commemorato dal Fratello Luigi Rinonapoli-Volpe, direttore della Scuola tecnica di via Collegio («senza disturbare il corso delle lezioni»), Bovio era stato pianto, in città, anche dalla Massoneria. Due telegrammi erano partiti dall'Ufficio centrale delle Poste di via Baylle:

«Signora Bovio – Napoli. La loggia massonica "Sigismondo Arquer" immersa nel più profondo dolore per lutto che colpisce la Famiglia massonica, la Scienza, la Patria, Vi prega gradire, nell'ora triste, attestazione proprio cordoglio, simpatia per voi fedele compagna dell'illustre fratello»;

«Venerabile loggia "Losanna" – Napoli. Vi sarò grato se vorrete rappresentare loggia "Sigismondo Arquer" alle onoranze funebri che Napoli tributerà all'illustre fratello Bovio. Il Venerabile».

Giù il cappello anche da parte dei redattori del quotidiano radicale di Umberto Cao, l’antibacareddiano numero uno, Il Paese, il 27 maggio 1905, giusto nel momento in cui sta per essere finalmente scoperto quel marmo tanto disputato: «È anche con l'azione psicologica che un monumento può esercitare sulle masse, che si educa il popolo e lo si eleva alla consapevolezza degli ideali più liberi e più puri».

E poi ancora, riferendo i dati biografici essenziali di Bovio: «Nacque nel 1841 [recte: 1837] a Trani, cittadina in provincia di Bari: fu un uomo politico di fede repubblicana temperata, oratore poderoso, filosofo profondo, drammaturgo geniale. Nacque da genitori poveri, da solo provvide alla propria istruzione; è noto che egli non ebbe mai alcun diploma ufficiale nel corso dei suoi studi e che si affermò nel campo scientifico solamente colla forza del suo ingegno.

«Fu in intima corrispondenza con Garibaldi, con Aurelio Saffi, con Mazzini. Tra Bovio e Mazzini però ci fu una linea di divisione: dio. Il filosofo e patriota genovese non vide l'attuazione dei destini della Patria nell'umanità che con dio. Bovio invece non fu deista. La natura e la storia per lui sono il risultato di un processo di formazione autonoma e la sua dottrina, nutrita dalle teorie scientifiche moderne e fondata su una coscienza positivista, prese le linee di un naturalismo matematico. La filosofia di Bovio riafferma l'enunciato del Vico che la storia è l'opera degli uomini».

Infine i repubblicani. Era stato allora il giovane avv. Enrico Nonnoi – prossimo Fratello della Sigismondo Arquer anche lui – a dire degli stati d'animo dei compagni di fede del leader agonizzante in un lungo articolo ospitato (il 15 marzo 1903) con un gran risalto da L'Unione Sarda: «La bontà! questa la sua arma più forte, a cui nessuno ha potuto mai resistere, come allo sguardo ammaliante di Cristo. Di lui si dirà che fu grande, ma chi lo conobbe un istante solo, chi lo ebbe maestro od amico dirà che fu un Buono. Perché mai un uomo in vita sua fu tanto amato, né mai nome meritò tanto amore».

E ancora: «Qual vuoto immenso dopo di lui! Resteranno eterne le opere e la memoria, è vero sì, ma ai discepoli nella fede mancherà il maestro adorato, lo sposo alla sua donna, ai figli il babbo affettuoso, al popolo il suo vecchio educatore… Non chinò mai il collo dinanzi ai potenti, che piuttosto a costoro spezzar seppe talvolta dolcemente la boriosa altezza…».

Si parla sempre bene, o quasi, dei morti. Ma Giovanni Bovio fa eccezione. Ecco come, per restare alla nostra isola, L’Unione Sarda lo ha rappresentato nel 1900 (l’8 gennaio) nella rubrica dei profili biografici di personaggi che vanno per la maggiore:

«Fisicamente: …un viso grave austero, dalla fronte spaziosa, con sopracciglia foltissime, con un pizzo lungo e fluente leggermente brizzolato. L'hanno detto, dopo la morte di Aurelio Saffi, il "padre nobile" dell'Estrema; ed egli ne ha invero le physique du róle.

«Moralmente: un'esistenza intemerata, divisa tra le cure della cattedra e le battaglie in Parlamento, …specchio di ogni virtù civile e argomento di riverenza per gli stessi avversari; un sentimento inalterabile di serena equanimità nel giudicare uomini e avvenimenti; una mente innamorata dei più puri ideali di libertà; ed una parola affascinante, banditrice efficace di questi ideali, densa di pensieri e di antitesi, elevata sempre.

«I biografi lo battezzano filosofo, letterato e libero docente. E la cattedra di lui si onora, la scienza delle sue speculazioni si avvantaggia; e come letterato ha il magistero della forma insuperabile. I più però ignorano che il Bovio pervenne alla dignità accademica senza possedere i titoli fondamentali. Scrive di sé il Bovio: "Io non ho nessuna laurea, nessuna licenza, nemmeno la ginnasiale, perché proponendomi la scienza come fine a se stessa non volli mai fare esami, né sottomettere a giudizi ignoti i miei liberi pensieri. Due volte, stretto dalle necessità, dovetti violare questo mio proposito; e per non perdere la facoltà di privatamente insegnare, subire gli esami; fui approvato l'una e l'altra volta, non avrei approvato molto dei miei esaminatori. Come tortura sostenni quegli esami, nei quali non rinnegai nessuna delle mie idee, non accettai quelle dei miei giudici"».

Qualche mese più tardi, e precisamente il 9 agosto 1900, in occasione dell'assassinio di Umberto I per mano dell'anarchico Bresci, L'Unione riferisce il seguente scambio epistolare da cui chiaramente emerge la posizione del filosofo:

«Da Altamura fu telegrafato all'on. Bovio: "A voi che lottaste sempre per trionfo della libertà e moralità civile e politica, spetta la parola che stigmatizzi nefando assassinio. Noi vostri ammiratori ed elettori desideriamo che di qui parta e risuoni per tutta Italia il grido d'indignazione degli onesti d'ogni partito".

«Bovio rispose: "Nei miei scritti condannai il regicidio, confutando la dottrina dei gesuiti. A Mentana dimostrai che i popoli s'inspirano negli ossari de' loro martiri, non nel coltello dei carnefici e degli omicida. Oggi aggiungo con dolore che l'assassinio di Monza è una altra ferita alla civiltà. Scrivo, Bovio"».


Da molto se ne stanno all'ombra dei limoni, il cielo è rosa e il vento è rispettoso nell'orto di Giovanni.

«I denari arrivavano da qui e sono finiti a due sorelle disgraziate che ora si credono nobili anche se non hanno nomi da signore, Pinuccia e Bonarina, si chiamano. Ce n'è una più furba che ha fatto tutto, il notaio e il resto. I soldi li avranno nascosti da qualche, parte, magari dentro qualche pentola. Pazienza se la sorella se la vendevano, pazienza se l'hanno ammazzata...».

Si alliscia il ciuffo: «E lei, magari, le ha miracolate in qualche modo che non so. C'era persino una luce benedetta che per un momento è entrata in casa mentre c'ero anch'io. Le ha fulminate, ma è durato poco».

«E tu saresti andato sin lì per vedere quelle due donne».

«No, ho capito solo che questa storia è passata da lì. Una parte della storia è rimasta là e una parte sta qua, nei cassetti di Tramontano. Questo non tollera il cavaliere, che gli abbiano spezzato in due una storia che doveva stare tutta nel cassettino assegnato da lui, il quattrocentosette. Invece le cose si sono sparpagliate, se ne sono andate per un po' in un posto dove non cambia mai nulla e là si sono impigliate perché hanno perso il moto…».

Giovanni, quando riflette, si tiene il mento e chiude gli occhi, e se non capisce si dà una pacca sulle ginocchia, un segno di impazienza: «Efisio, io cerco di comprendere anche quello che non dici. Il mio mestiere è proprio capire quello che non mi dicono, molto, molto difficile... Al diavolo la modestia... il saio dei modesti non lo indosso mai. Ma è così. Quello che vogliono dirmi lo capisco proprio da quello che non mi dicono».

Giovanni è contento di questo, ma poi si ricorda che non è in consiglio, al tempio, davanti al tappeto steso, e sa che Efisio diventa permaloso quando gli si spiegano la mente e le teste della gente perché lui, Efisio, non si ritiene gente.

«E quindi non ci credo, non ci credo proprio che tu non abbia nulla da raccontarmi oltre a questi omicidi. Si ammazza da tutte le parti».

«In ogni luogo si ammazza in modo diverso, Giovanni, si muore in un modo diverso... Non è la stessa cosa dappertutto... E la morte ha un valore diverso».

«E dove vale di più?».

Una certa acida ostilità: «Vale di meno tra i poveracci, Giovanni. Vale di meno in mezzo agli ignoranti. Tu Io sai che poveri e ignoranti sono un unico esercito che si trascina e non si tiene per mano e se qualcuno manca nessuno se ne accorge. Ma la tua domanda ci svia. È inutile che discutiamo di cose troppo grandi, tanto, quelle, vanno avanti da sole. Io parlavo di una sola, unica vicenda anche se mentre avveniva si è spezzata in due parti, in due città diverse. Da qua sono arrivati i soldi alle due sorelle Serrale, da qua. E i denari forse li aveva rubati Restituta».

Giovanni vorrebbe vederlo il mondo che Efisio ha lasciato. Anche lui ha abbandonato la sua città e il suo porto calmo, ma non è fuggito: «Restituta ladra? E di quali denari?».

«Domani andrò a controllare una mia mummia». 

«Il vecchio Giacomo del Restivo?».

«Sì».

Quando a Efisio non vengono fuori molte parole non è perché gli mancano. È che la testa è occupata da idee nuove che non hanno ancora una forma, una posizione, un peso, e allora se ne stanno un po' dappertutto. E così lui, di parole, non ha voglia.

………………….

Giovanni ha un bell'addome adatto al panciotto azzurro, ma la faccia, dopo che ha ascoltato Efisio, stona col vestito e ha preso un colore biliare. Il raggio brillante che lui dirige nel suo angolo oggi è spento e Giovanni di colpo è stanco e desidera che le cose si fermino, che la smettano. La morte di Alceste Tramontano sembra una conclusione ma sa che è solo un altro incontrollabile principio.

«Efisio, dimentica tutto. Tramontano è morto».

«Non è soltanto morto, è molto di più. Si è ammazzato. Sai cosa significa, Giovanni. Togliersi l'uso dei sensi, togliersi tutto. E Betta? E come se la vedessi… con una sola frustata dei capelli all'aria prendeva il dominio della gente. Betta, ai maschi, ricordava come un'idea di lontananza, non so dire... ricordava l'origine. E allora incominciava per loro il desiderio di essere altri e lontani dalle proprie cose. E io non ho capito nulla. Forse, se l'avessi conosciuta, capirei di più».

«Tu ce l'avevi con l'amore che non cambia, Efisio, e invece è cambiato di continuo».

Giovanni suda e la tranquillità rotonda del suo corpo è sparita perché sente la difficoltà delle cose. Lui di ogni evento ha conoscenza, una conoscenza generale, panoramica: «Efisio, la morte di Tramontano è un rivolgimento. Smettila di pensare ai tuoi errori. Vabbè, non hai capito qualche particolare…».

Ora il raggio è apparso, debole ma è apparso…

…………………………

«Fiorentino Matacena possiamo proteggerlo. Il mio vice gli ha parlato. Lui garantisce che non cambierà nulla. Tramontano gli ha lasciato una lettera con istruzioni. Per noi è importante che la rete resti la stessa, ci basta conoscerli, sapere chi sono. Anche voi potete aiutarlo, Bovio, e potete aiutare noi».

Giovanni tira fuori dalla borsa alcuni fogli pieni della sua scrittura rotonda, onesta e considerata: «Intendete dire, prefetto Allumini, che io devo portare in consiglio il problema della successione di Tramontano, che devo parlarne ai fratelli? Però senza parlarne... È così? Vorreste che parlassi di Tramontano senza nominare Tramontano, di Matacena senza nominare Matacena, che ricordassi vicende orribili senza parlare difatti orribili».

«Un discorso politico vi chiedo».

«Che si capisca che la Città e perfino le persone che obbedivano all'ordine stabilito da Tramontano, perfino la giustizia, tutti vogliamo che ogni cosa resti uguale... Questo desiderate, Allumini?»

«Un discorso politico».

«Volete che domani sia una ripetizione di ieri». «Sì».

«Eccolo il mio discorso. È pronto. Leggetevelo ora. Questa notte lo discuteremo. Domani devo pronunciarlo davanti ai fratelli: so chi ci sarà ad ascoltare e so a chi verrà riferito. Compirà il giro che deve compiere».


Cagliari ricorda e onora

Si svolge qui, lungo quasi due anni, la complicata vicenda d’un busto marmoreo: perché oltre alla scelta dell’artista e alle sue attività di modellazione, oltre alla mai facile raccolta dei fondi utili alla bisogna, si tratta anche di concordare con il Comune non soltanto la collocazione fisica nel centro urbano, ma anche la dedica, facendola uscire dall’ambito strettamente politico o di partito per farla entrare in quello civico o sardo tout court. Si discuterà ripetutamente in Consiglio comunale e le opinioni saranno diverse e anche confliggenti, e un riflesso di quel dibattito si avrà anche sugli organi di stampa, chi sul piano della cronaca chi su quello del commento pro o contro, o magari della lettura umoristica come farà La Domenica cagliaritana… Fino al gran giorno, fino alle polemiche con un sindaco troppo moderato e clericaleggiante, perfino avaro…

Nello square i cagliaritani ammireranno il marmo bianco scolpito. Per la base si è adoperato il calcare. Lo zoccolo di pietra, sobriamente squadrata, reca in bassorilievo una ghirlanda d'alloro. Questo limita il dado che sul fronte porta un fascio di verghe sormontato da un berretto frigio e una targa con la scritta convenuta: «A Giovanni Bovio, 1905».

Le dimensioni sono quelle previste: una volta e mezzo il naturale. Lo sguardo è efficacissimo nella sua austerità. Ci sta bene, nel verde già rigoglioso del giardino recintato. Attorno al monumento verranno spesso gli studenti del circolo Martiri del libero pensiero: Giordano Bruno, fra essi il giovanissimo Antonio Gramsci, liceale dettorino, e Renato Figari ecc. Verranno gli anticlericali, giovani e meno giovani, quando avranno da ricordare le date solenni del calendario patriottico… Le fotografie immortalano quel pezzo di città che sente Bovio un po’ come il suo santo patrono…

In conclusione. C’è una frase autobiografica, della autobiografia morale, di Giovanni Bovio che conviene conoscere. Eccola: «Io sono un contemporaneo di Melchisedech, perché l’ideale è antico, ma sono anche contemporaneo con i più giovani, perché l’ideale vive tuttavolta, ed a contatto con quest’ideale gli anni mi cadono di dosso, la malattia si allontana dalle mie membra, ed io palpito, lotto e giovaneggio, e la mia stagione si rinnovella di giorno in giorno, ed in ogni ora si compie la mia resurrezione». 

Potesse, concludo io, ciascuno di noi dire di sé lo stesso.


Fonte: Gianfranco Murtas
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Pasquino Lepori

11 Lug 2020

Purtroppo va aggiunta un'ulteriore vergogna all'infamia: l'imbecille spiritato non è un "grembiulino" qualunque, ma un maestro venerabile in carica, che per primo dovrebbe, il condizionale in questo caso è scempio, difendere l'onore dell'Ordine al quale appartiene. Ma che, nell'ignominioso silenzio dell'oriente cagliaritano, invece, infanga.


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Giorgio Guglielmini

12 Lug 2020

Vicenda terribile per la Massoneria cittadina. Gestita malissimo dal Grande Oratore in primis, poiché egli, cagliaritano, avrebbe dovuto mostrare maggior senso del decoro. Verso l'Istituzione, innanzitutto, e verso il Bovio filosofo e Fratello iniziato. Infine tutti gli altri, fino agli Ispettori Circoscrizionali, uno dei quali ci risulta molto vicino all'imbecille patentato. Come sono lontani i tempi della Gran Maestranza di Gustavo Raffi! Oggigiorno di quella Massoneria resta poco o nulla. Molti i pagliacci, come l'imbecille, poche le persone serie ed ancor più risicati i veri iniziati. Questi ultimi costretti a subire l'onta del disonore, per la compiacente omertà dei cretini.


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Mariella De Montis

12 Lug 2020

Da qualche giorno seguo questa storia, che ha dell'incredibile. Da visitatrice sono stata più volte nella celebre Casa cagliaritana del Grande Oriente d'Italia, ed ho potuto osservare dal vivo gli arredi, i busti, i quadri simbolici ed i paramenti incorniciati. Tutto sembrava parlare di una storia e di una tradizione di grande signorilità, e di conoscenze esoteriche occulte e millenarie! Oggi si scopre che forse un tempo era così, ma ora non più. Visto che uno dei loro capi si mette a fare goliardate simili, degne di uno spogliatoio da squadretta di quart'ordine, piuttosto che di un simile luogo. E tutti gli inferiori che fanno? Stanno zitti, poverini. Mentre i superiori, a quanto se ne capisce, cercano di coprire in tutti i modi la cosa. Da diplomata all'Accademia di belle arti posso solo dire che ridicolizzare un busto, con caricature, pose, e frasi sconce, è proprio da ignoranti e vigliacchi. Perché non solo si offende il personaggio storico raffigurato, ma si offende anche l'autore dell'opera. Anzi questi illuminati si definiscono «alfieri delle libertà» ed altre parole roboanti per dichiararsi migliori degli altri! Basta citare il grande Leonardo Sciascia, che nel romanzo Il giorno della civetta scrive «La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c'è più né sole né luna, c'è la verità.» Mi sa che in questo caso la verità è una storia piuttosto meschina.


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Vittorio Bellarmino

12 Lug 2020

Gentile sig.ra Mariella, sono un frequentatore dell'augusto Palazzo Sanjust. Vede, l'imbecille non è, come lei dice, un nostro capo, noi non abbiamo capi. Abbiamo semmai una gerarchia, e le posso di certo dire che questa non è affatto insensibile all'accaduto. Noi, proprio per quella signorilità che ci riconosce, e per tradizione, siamo cauti nelle valutazioni, ponderati nelle letture, tanto quanto risoluti nelle scelte. Vedrà che lo scellerato sarà presto preso a calci e buttato fuori da quel Portone che lei tante volte, come visitatrice, ha varcato. Sempreché non sia proprio egli, per primo, a liberare tutti noi dall'imbarazzo di fare ciò che deve essere fatto.


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Romano Desogus

12 Lug 2020

Vorrei ricordare al fratello che cita il Grande Oratore, addossandogli le colpe di aver gestito malissimo questa vicenda, che noi abbiamo un Collegio ed un Presidente del Collegio, i quali nei fatti di questi giorni hanno più colpe di qualsiasi altro Alto Dignitario! Non scarichiamo sempre tutto su Roma! Anche quando non c'entra nulla! Maggiore lungimiranza avrebbe consigliato, a suo tempo, una Lettera di scuse dell'idiota. Vere scuse però, senza tirare in ballo la goliardia, che è altra cosa, essa sì a suo modo nobile, dalla demenza! Adesso purtroppo è tardi, la figuraccia è sotto gli occhi di tutta Cagliari e forse della Comunione nazionale, e non ce ne riprenderemo facilmente.


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Giovanni Carta

12 Lug 2020

Tante complicazioni per una soluzione molto semplice: pubblica lettera di scuse, da parte dell'imbecille, con ampia diffusione, dove si annuncia l'immediato assonnamento. Non è che ci vogliano dei geni. Che tanto, dentro, non ne abbiamo. Con buona pace degli sponsor che finora gli hanno retto il gioco nella squallida faccenda.


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Marco Altana

12 Lug 2020

Caro Gianfranco Murtas, mentre tu scrivi sulle vergogne di questo Venerabile imbecille, che addirittura presiede un consesso di Maestri Venerabili, è in moto una grandiosa macchina dell'omertà che vorrebbe descrivere come goliardata quella che è invece una serie di laide spacconaggini ripetute nel tempo; le quali nulla hanno a che spartire con i nostri contenuti iniziatici . È per questo motivo che gli ingredienti della colpa massonica ci sono tutti! Ve ne fosse la necessità rammentiamo a chi di dovere gli articoli che la descrivono, nel caso in esame, in maniera inoppugnabile: Art. 15 Costituzione - Costituisce colpa massonica l’inosservanza dei Princìpi della Massoneria e delle norme della Costituzione e del Regolamento dell’Ordine. Integrano gli estremi della colpa massonica: a) ogni contegno nei rapporti massonici contrario ai sentimenti di rispetto, di fraternità e di tolleranza; b) ogni azione contraria alla lealtà, all’onore od alla dignità della persona umana ed ogni comportamento, nell’ambito della vita profana, che tradisca gli ideali della Istituzione. Art. 34 Regolamento - g) Il Maestro Venerabile veglia sul comportamento massonico dei Fratelli in Loggia e nella vita profana ed ha il diritto di essere informato dai Fratelli su quanto venga loro a conoscenza sulla Massoneria in generale, la Loggia ed i Fratelli in particolare. Domandiamo come può, questo imbecille, vegliare sul comportamento dei suoi fratelli di Loggia, se è egli stesso pietra di scandalo all'interno dell'Istituzione. Una domanda cui vorremo rispondesse il Presidente del Collegio.


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Nicola Spartà

12 Lug 2020

Se essere Massoni significasse davvero qualcosa, sarebbe opportuna una Lettera di scuse, non dell'idiota ignorante, che non varrebbe nulla, ma del Presidente del Collegio dei Maestri Venerabili della Sardegna alle quattro Loggie Boviane del Grande Oriente d'Italia. In cui si chiariscano anche le circostanze, visto che per poter pagliacciare il Busto del Filosofo s'è verificata omessa sorveglianza in Casa Massonica, le motivazioni dell'attacco all'augusta figura del Dignitario, le eventuali spinte ideologiche dell'imbecille e, soprattutto, le coperture di cui, sempre il cretino, ha goduto. Inoltre, anche il perché del tentativo, tuttora in atto, di insabbiare la vicenda. Per comodità si riportano gli estremi dei destinatari: 589 Giovanni Bovio Livorno 199 Bovio – Caracciolo Napoli 1245 Giovanni Bovio Acri (CS) 275 Giovanni Bovio Reggio Calabria Sarebbe atto capace di riportare armonia nella Comunione fraterna.


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Roberto Secci Marinetti

13 Lug 2020

Lo dichiaro subito: sono un collega dello sventurato fratello che, sua integrale colpa, oggi si trova al centro di questa vicenda. Ed affinché non vi siano dubbi al riguardo, dirò che Prepararsi non è mai cosa da poco. Allora, intanto la mia esperienza massonica (tanta sulle spalle), mi impedirà di proferire, in questo contesto, sconcezze. Quindi non parlerò di "prendere a calci" fratelli né di Tavole d'accusa, ma tuttavia proporrò un ragionamento. Forse doloroso ma, mi auguro, lungimirante. Veniamo ai fatti. Il collega Venerabile da anni posta caricature del Busto di Bovio, riprese soprattutto dai fratelli della sua officina, tra i quali anche l'attuale Primo Sorvegliante, che a sua volta ha più volte motteggiato il Busto (come non ricordare il Bovio "candidato" alle elezioni comunali del 2019 con la maglietta del Cagliari, o quello che fa da sfondo ad una frase che ci rammenta come diminuire le feci), ed altri ancora. Adesso, era ovvio che dai e dai, prima o poi tutti siamo chiamati al redde rationem! E scoppia il putiferio. Ma come, si dice, prima si rideva ed ora non si ride più? Ora si insabbia. E no! Fratelli tutti. I colpevoli saltino fuori, certo, ma colpevoli siamo tutti noi! E se qualche calcio deve volare, ognuno ha a disposizione il proprio fondo schiena. Se qualche vocabolo forte deve essere proferito, ebbene: allora a Palazzo Sanjust imbecilli lo siamo tutti! Per tutte le nostre carenze conclamate, le comodità di posizione che sempre ci fanno voltare dall'altra parte, ed altro ancora. Abbiamo votato, domenica scorsa, tre Consiglieri dell'Ordine, non uno ha preso una posizione ufficiale sulla faccenda. Abbiamo votato, poco prima, degli Ispettori e dei Giudici, tutti zitti, rintanati dietro, mai davanti!, la loro stessa funzione. E poi non tiriamo in ballo Raffi, che oggi è un'altra epoca ed il fratello Bisi è persona di una umanità e grandezza da invidiarsi, in confronto a noialtri! Perché la verità è un'altra, ed è che facciamo tanta finzione, tanto teatro, tanta prosopopea e poca pratica, tanta teoria del buono e del giusto e poca reale virtù. Ci piace riunirci, stare insieme, puntare sulla facile compagnia, che è anche condivisione di gioie e di dolori, ma poi, di cosa sia la Massoneria non se ne sa nulla. Non c'è amore verso l'Ordine, non c'è tutela, purtroppo non c'è vero onore. Un Ispettore siede nell'officina del Venerabile al centro dei fatti, lo ha forse consigliato per il bene in questi giorni? Evidentemente no, visto che, questo sì stupidamente, ha lasciato che il colpevole creasse un nuovo gruppo su facebook dal titolo "Giova", con il risultato di riscaldare ancora di più gli animi di tutti! Ora come se ne esce? Ne parleremo insieme il 18 prossimo venturo. Nella speranza che l'opzione "finta di nulla" sia definitivamente archiviata. Però, anche, senza inutili maltrattamenti all'incauto collega, il quale è soltanto lo specchio della massoneria, con la "m" minuscola, targata anno 2020.


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Pasquino Lepori

14 Lug 2020

MV che il 18 siederai in Collegio, chi ti scrive è un ex che ha qualche difficoltà a condividere il tuo commento. Te ne spiego le ragioni: a) Non esiste una Massoneria con la "m" minuscola. Perché con la "m" non è Massoneria; 2) Non esiste una Massoneria del 2020 contrapposta ad una del passato. Perché la Massoneria è detentrice di una conoscenza metafisica, come nella concezione analitica del peripatetico Andronico di Rodi, che non conosce né patisce la caducità del Tempo; 3) Non è vero che non si ha amore per l'Ordine, piuttosto è vero che alcuni confondono l'attrazione per ciò che sembra più facile e conveniente, cui si adeguano, con l'amore per la Giustizia, che è l'Ordine stesso; 4) Infine ti domando: quale posizione secondo te potevano prendere, su questa faccenda, Consiglieri dell'Ordine, Giudici ed Ispettori Circoscrizionali, se il loro unico reale incarico è compiacere costantemente il buon Giancarlo di turno, il buon Michele di turno e più in generale, sempre, Roma? Finiamola di pretendere dagli altri quello che non siamo capaci di compiere noi stessi! La struttura amministrativa dell'Ordine è quanto di più retrivo possa immaginarsi. Ed ora vorremmo che questi fantocci si mettessero a fare la rivoluzione? Ma va là! Amico mio, non mi pare davvero una richiesta sensata. Piuttosto, voi Venerabili in carica, sarete una trentina quel giorno venturo. Ed avrete di fronte questo nominato "imbecille", che da sempre è stato poco meno di un maggiordomo nella casa cagliaritana. Fatto Venerabile, quelli sì veramente imbecilli che l'hanno fatto, e posto a presidente di quella che è una specie di riunione di condominio. Condotta col Maglietto, al colmo della stupidità! Questo vostro collega non ha nulla del muratore speculativo. Non ha i tratti fisici dell'uomo di ragione e non ha le caratteristiche cognitive dell'uomo libero. Ma di cosa vorrete parlare? Di sue "colpe"? Andrebbe buttato fuori all'istante soltanto per ciò che rappresenta. Ovvero il "nullo pensiero", come acutamente indicato dal Murtas. Maltrattarlo? Ma no, figuriamoci, la povera bestiola è obbediente e sa far la pipì dove le comandano di farla. Come Massone già lo si vede assomigliare ad una carcassa in decomposizione (cos'è infatti un uomo senza il rispetto dei suoi simili, che siete proprio voi, i suoi "colleghi"!). Ma Michele e Giancarlo - che sono uomini d'onore alla moda shakespeariana - vi diranno che no, che vi siete ingannati, che non è successo nulla. Tutta una goliardata, una farsa, va tutto bene così! E se si berteggia il Busto di Bovio, chissenefrega! Invece, se a cadere fosse quest'imbecille, simulacro d'impostura della Massoneria, allora no che non va bene. Perché cadrebbe tutta l'impalcatura di ciò che la Massoneria non è, ma che è utile sembri sia! In questo modo loro vi diranno che mica puzza, il cadavere, anzi, che profuma! E qualche volenteroso farà a gara a dire che sì, in effetti profuma! Proprio come una violetta, mentre il sentore è imbroglio.


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