In quel paese d’ombra e nella scuola del vescovo, il tempo e il sentimento e la bontà. In mortem di Annalisa Steri Cois
di Gianfranco Murtas
Si parla ed il linguaggio dei simboli sostiene lo scambio e allude, con le sue suggestioni, al più che non si dice ma pur è presente nel cuore.
Per Annalisa Steri villacidrese che se ne è andata ieri dopo tanto e impossibile soffrire, il linguaggio dei simboli incontra i suoi mezzi in uno scrittore tanto amato, da lei come da me, e in un vescovo altrettanto amato, da lei come da me. Sono in Giuseppe Dessì ed Antonio Tedde i rinforzi che cerco e trovo per accompagnare una vita che si trasforma dal sensibile all’ineffabile e per tenere nella capanna una memoria di signorilità dolce, di un fare realizzativo sempre nella famiglia come nella scuola e nelle relazioni amicali, nel volontariato sociale.
Doveva essere il 1981, giusto quarant’anni fa, quando mi chiamò nella sua classe, alle elementari di Sant’Elia per raccontare ai bambini qualcosa della storia di Cagliari, la città che essi – residenti al Borgo – consideravano altro da sé e dal loro Borgo: “andiamo a Cagliari” dicevano, materializzando le distanze sia fisiche che morali o sociali che li separavano dal centro urbano, dal porto e dal bastione, dalla Rinascente forse e dalla festa di Sant’Efisio.
La raccontai, quella storia tre volte millenaria, accennando in partenza alle grotte proprio di Sant’Elia, che essi, i bambini, conoscevano per le loro ordinarie perlustrazioni del quartiere, fra mare e collina: e li gratificai con la verità, perché dovevano sentire l’orgoglio di poter essere stati, in quel luogo diventato l’autosufficiente (?) loro “paese” di nascita, gli iniziatori, gli anticipatori dei residenti cagliaritani aggruppatisi in quel tanto di case più eleganti che le cartine e le fotografie panoramiche ammonticchiavano sopra la via Roma.
E disegnai quindi i quattro quartieri medievali, e poi le altre periferie che erano nomi, soltanto nomi orecchiati, per qualcuno anche il ricordo di una visita ad un parente: Sant’Avendrace, Is Mirrionis, magari Mulinu Becciu… E a dire, come didascalia di qualche scena rappresentata col gesso alla lavagna e sul filo della favola storica, delle due lagune teatro di fenicotteri rosa e naturalmente, in direzione del sole in risalita ogni mattina, dell’immenso Poetto e delle calette là fra la discesa dalla loro casa minima, forse dai primi appartamenti del Favero, e la sabbia delle dune allora ancora finissima e bianca…
Un’ora di chiacchierata semplice, almeno per incuriosire… E la maestra che vigilava e stimolava l’attenzione di tutti, anche di Nicola intrufolato, lui di terza, in quell’aula della quinta.
Nelle scuole del vescovo, a San Gavino Monreale, in volo dal 1967, fra i concorsi a cattedra, nella trafila degli insegnanti, sede dopo sede… Tanto altro nel tempo, e Villacidro sempre nel cuore, Villacidro trasportata a Cagliari integra ed unica, rispettata ed amata. Patria ideale o elettiva, anche mia ma tanto più che mia, di Francesca e Alessandra, di Nicola e di Ciccio, Villacidro e le sue ombre dietro cui è, a saperla scovare, la vita che non finisce mai.
Del “Paese d'ombra” ripensato da Dessì
Le costruzioni nuragiche dell'altipiano d'Olmedì chiamate volgarmente Tombe dei Giganti sono i monumenti più antichi di tutto il bacino del Mediterraneo. Gli archeologi non sono capaci di dirci, in proposito, niente che non sia arbitrario e fantastico. La sola cosa certa è che un'antica civiltà fiorì sull’altipiano molte decine di secoli prima che Roma apparisse, mucchietto di miserabili capanne, sulle rive del Tevere. La necropoli etrusca della valle del Limene, i resti dell'acquedotto romano di Norbio, le chiese pisane abbandonate sulle colline come navi in secca, e le altre rare vestigia sparse lungo la strada del tempo in questa desolata regione, giù giù fino ai due palazzotti settecenteschi e al seminarietto (che stanno pero un poco fuori del paese e quasi non ne fanno parte), testimoniano, più che soste, passaggi di gente forestiera che non riuscì a mettere in Parte d'Ispi profonde radici. Solo le Tombe dei Giganti rispondono al vero carattere di questa terra e attestano una civiltà autoctona spentasi senza lasciare altre tracce.
Chiunque abbia fatto ricerche negli archivi su Ruinalta, ha dovuto fermarsi, risalendo a ritroso nel tempo, a due secoli fa. E gli storici antichi come Erodoto e Pausania, non ne fanno alcun cenno. Perciò tutte le ipotesi possono essere avanzate, come quella recente che Ruinalta dalla antica Anthos o Alethos, distrutta da una frana al tempo dei Fenici. Il solo modo di capire storicamente Ruinalta è di rinunciare a inquadrarla, sia pure approssimativamente, nella concatenazione dei fatti di cui la Storia è intessuta, lasciandola in quel tempo immobile nel quale ancora oggi si trova, e che è il suo, cioè nella preistoria. E questo non soltanto per i monumenti cui accennavo (che si fanno risalire per comodità di trattazione all'età pelasgica) ma per il fondo etnico della popolazione.
È chiaro che qui non si può parlare di continuità di tempo storico, ma solo di continuità di vita, come se ne parlerebbe per le api o le formiche dell'altopiano di Olmedì, che certamente discendono da api e da formiche pelasgiche; senza dimenticare tuttavia che quando si parla di continuità di vita bisogna comprendere nella vita anche la morte, che salda una generazione all'altra. In virtù dì questa continuità Ruinata è rimasta com'era al tempo dei Pelasgi o Lestrigoni che fossero, e la memoria di questo incommensurabile tempo che sembra sfuggire alle possibilità della nostra mente come le dimensioni spaziali dell'Universo, si può ritrovare invece in una delle tante famiglie di contadini che fanno risalire le proprie origini si può dire a memoria d'uomo, al nonno o al bisnonno, che è sì il padre del padre del padre, ma è anche il capostipite più vicino al simbolico Adamo, e oltre il quale sono soltanto tenebre prenatali. Per cui tutte le generazioni che si sono succedute in Ruinalta e, in genere, in Parte d'Ispi, sono ugualmente lontane e vicine dai padri originari, dai quali le separa un tempo che può essere pari al sonno di una notte come a mitici millenni. L'antichità di Ruinalta non è grandiosamente distesa nei secoli e architettonicamente composta, ma ridotta a frammenti, a spore, ognuna delle quali racchiude in sé la possibilità di schiudersi e prender la forma dell'antico primigenio fungo pelasgico.
Non è facile rendere questo concetto e farlo intendere a chi non è stato in Parte d'Ispi. Ma chi ha visto la faccia di questi uomini e di queste donne, dura e chiusa, sa che di fronte a loro ci si può sentire estranei come di fronte ad antiche statue barbariche. Per liberarci da questo disagio, bisogna che ci liberiamo dalla nostra stessa storicità, cosa che non sempre riesce. Essi sono lì, fermi, davanti a noi, sentiamo il loro respiro, il loro odore di cavernicoli, vediamo la loro barba non rasata e la loro pelle sugherina, parliamo, aspettiamo che ci rispondano, e uno strato incommensurabile di tempo ci separa da loro rendendo vana ogni possibilità d'intesa che non sia illusoria e fittizia. Nascondono la mano dietro la schiena e stringono la stessa pietra con la quale scacciarono Ulisse.
Il paese è adagiato sullo scoscendimento di una frana, lungo il fianco della montagna. Secondo le fantasticherie coscienziose e pedanti degli archeologi, nello stesso punto sorgeva l'antica città, Anthos o Alethos, come si è detto.
Chi viene su dalla pianura per la strada carrozzabile ha l'impressione che Ruinalta sia posata pericolosamente su una fiumana di pietre che per miracolo, e solo momentaneamente, abbia arrestato la sua discesa, ma che all'improvviso, con un sol crollo, potrebbe travolgere e inabissare ogni cosa. C'è o non c'è questa frana? - ci chiediamo. Questo fiume di pietre è veramente immobile oppure la sua immobilità è soltanto apparente? Forse la frana continua lenta, impercettibile, senza sosta?
Benché la terra di Parte d'Ispi sia giunta, nella sua decrepitezza, a una sistemazione definitiva, e sia morta e immobile come la luna, la cosa è veramente possibile. Ma bisogna tener conto anche di un altro fatto inerente alla struttura delle case e al modo unico con cui gli abitanti di Ruinalta, con la stessa sapienza delle api e delle formiche, secondano la frana e se ne difendono. . ..
Essendo le case addossate al pendio, se un muro crolla (e questo succede di frequente, perché i muri qui son costruiti con pietre e malta di fango) non vengono mai riutilizzati gli stessi sassi ma altri presi un poco più a monte mentre quelli del vecchio muro serviranno a riparare o a ricostruire, quando che sia, un muro della casa sottostante.
E così via di casa in casa, giù fino allo strapiombo. I sassi che si trovano ora in fondo al dirupo o sulla via di arrivarci sono passati, attraverso i secoli, per tutte le case di Ruinalta, dalla prima all'ultima, e la strada lentissima seguita da ogni sasso si può ricostruire percorrendo con l'occhio il profilo del paese, che si staglia, esile e bruno, sul cielo, come appare al tramonto, visto dal ponte di Bragadanza. Le pietre sono il solo archivio storico di Ruinalta. Quei sassi biancastri o verdini dalla forma un poco allungata di uova d'anatra hanno fatto parte ora del muretto di un orto, ora della rustica scalinata di una casupola, e, mettiamo, dieci secoli più tardi, dell'arcata della porta carraia di un cortile, e sono passati per le mani di uomini di generazioni lontanissime. Perché qui ognuno usa aggiustarsi la casa con le proprie mani, con un poco di fango e sassi, rispettando il modello primitivo, che sempre si disfà e sempre si riproduce quasi naturalmente come il favo nell'alveare.
Questa è la frana che travaglia Ruinalta e costituisce la sua vera, immutabile storia. E quando si pensa, fantasticamente, alla sua lenta discesa attraverso le case e gli uomini, verso la valle, non si può fare a meno di pensare, nella dissoluzione della materia, che questo è un paese d'ombra, di fantasmi di case; e che queste viti, questi alberi di fico, questi vasi di basilico, questi rosai selvatici dei piccoli cortili, e i polli, i bambini, la biancheria stesa altro non sono che forme labili posate come farfalle su questa materia inconoscibile. Bruni uguali ciottoli a forma d'uovo colati dalla spaccatura della montagna come i semi da un frutto. (Giuseppe Dessì, Un pezzo di luna, 1987).
La scuola come promozione dei poveri: ne scrivono Pasqualino e Mudadu
Devo a Monsignor Antonio Tedde gli anni più belli della mia pur modesta attività scolastica: a lui e a tutta una splendida umanità sarda, in particolare alla gioventù studentesca di cui ebbi il privilegio d'essere insegnante di filosofia nelle scuole vescovili di Ales e San Gavino Monreale. Si era agli inizi degli anni cinquanta, uno di quei periodi in cui ogni cosa, comprese le difficoltà, sembrano cooperare nel senso di una certa luce e gioia.
Di Monsignor Tedde si era occupata la stampa come del Vescovo intraprendente che tra l'altro era "disceso nelle miniere", gesto che allora parve una specie di catabasi ad inferos, un'audace discesa nell'inferno del lavoro più sofferto. Volentieri accorsi al suo invito. Mi attrasse il suo spirito pioneristico, il fatto che avesse istituito scuole medie e superiori laddove lo Stato non sarebbe arrivato che molto più tardi, e confusamente. In particolare, m'interessò la nuova metodologia di quelle sue scuole fondate sulla "pedagogia perenne" del cristianesimo, in sintonia spontanea con le ricerche e sperimentazioni svolte dalla Scuola Italiana Moderna di Brescia, cui avrei collaborato. Ricordo che alla stazione di San Gavino venne a ricevermi il professor Pietro Mudu, preside della scuola vescovile "Beata Vergine della Speranza", persona di straordinaria nobiltà d'animo, geniale e poi amico carissimo. Quando Monsignor Tedde mi vide, "Ma tu, gigante come sei, dovresti chiamarti PasquaIone, non Pasqualino", scherzò. Rideva fanciullescamente a ogni propria battuta umoristica, che da sé giudicava "Buona, questa!", con un filino di quell'autorevole sacra compiacenza, che nella Genesi è di Dio a ogni cosa creata. Sì, era un fanciullone, con grandi virtù e qualche piccolo capriccio, che l'avvocato del diavolo tirerà fuori al processo per l'auspicabile beatificazione, su cui quel caro Vescovo dal Cielo non mancherà di far piovere la propria "buona" battutina: giusta la convinzione dei mistici chassidim secondo i quali le barzellette più belle vengono direttamente dal Paradiso. (Fortunato Pasqualino in Ricordo di Mons. Antonio Tedde vescovo di Ales, 1992).
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Mons. Tedde, con intuito profetico, pose ai primissimi posti del suo progetto pastorale la necessità di elevare ed umanamente promuovere quella porzione di gregge che il Signore gli aveva affidato e che nella realtà era costituita da una popolazione povera depressa specialmente da un punto di vista sociale e culturale.
Nel 1948, quando il nuovo vescovo giunse, non esisteva in diocesi alcuna scuola media di nessun tipo. Quindi in un certo senso ancora prima della scuola cattolica" venne la scuola. Ed ecco il Vescovo al lavoro. Già a settembre del 1948 aprì ad Ales la scuola media parificata "S. Giovanni Bosco". Subito dopo venne la scuola media inferiore a S. Gavino e qualche anno appresso quella di Guspini.
Fondò poi I 'istituto Magistrale di Ales, nel restaurato Seminario diocesano, destinato a tutto il bacino comprensoriale della Marmilla. Il quadro dell'attività scolastica apparve poi completo con l'apertura del Collegio per studenti, nell'ultimo piano dell'episcopio.
Ma risultò subito evidente la necessità di fondare le scuole superiori anche a S. Gavino, essendo questo un centro geografico, stradale, ferroviario, industriale attorno al quale gravitava la vita ed il movimento della maggior parte della popolazione della diocesi. Nacque così il Ginnasio-Liceo e l'Istituto Magistrale.
La nuova scuola sorse ad oriente dell'abitato con facciata parallela alla linea delle ferrovie dello Stato, in una antica area cimiteriale in cui sorgeva anche la monumentale ed antichissima chiesa del martire S. Gavino area di proprietà della parrocchia, ma messa a disposizione dei vescovo dall'allora parroco don Giuseppe Onnis.
Il primo passo per la costruzione della Scuola risale al 1949 quando il vescovo vi accompagnò l'architetto sassarese Simon-Mossa e l'impresario Solinas per l'esame e la misurazione dell'area. In brevissimo tempo il progetto dell'opera fu pronto e nel marzo del 1949 Mons. Tedde benedì solennemente la prima pietra. I tempi per la costruzione furono rapidissimi tanto che il 17 novembre, anche se non tutti i lavori erano ancora terminati, iniziarono le lezioni e fu inaugurata la nuova scuola con il titolo di "Nostra Signora della Speranza", titolo molto venerato nella Parrocchia di S Donato in Sassari. È evidente l'ispirazione della Providenza nella scelta di questo titolo per un Istituto strettamente annesso alla chiesa del turritano martire S. Gavino.
Una grande scuola, un edificio imponente, certamente per quel periodo uno dei migliori di tutta la Sardegna, dotato di tutte quelle strutture scolastiche che ne facevano una scuola di avanguardia. La Società Montecatini, tra l'altro, dotò la scuola di prestigiosi gabinetti scientifici di chimica e fisica che allora superavano in modernità le stesse strutture scientifiche dell'Università di Cagliari.
La scuola inoltre era dotata di altre strutture importanti: una grande palestra coperta e scoperta, aula magna, aula di disegno, aula di musica e varie strutture per il doposcuola, dove in serenità gli studenti potevano attendere l'orario di rientro in lutto il circondano con pullman che prelevavano gli studenti dinanzi alla stessa scuola.
Annesso all'istituto vi era il collegio femminile e la Casa Madre della Congregazione religiosa "Cenacolo Cuore Addolorato e Immacolato di Maria" che, come ebbe a dire Mons. Tedde, "la Divina Provvidenza ha donato alla diocesi di Ales per un duraturo apostolato scolastico tra le nostre popolazioni".
Qualche anno dopo ad Ales, nel terreno della vecchia "vigna del vescovo", sorse anche l'istituto professionale per la formazione dei giovani lavoratori, fortemente promosso e voluto dal vescovo, come quello contemporaneamente sorto a S. Gavino.
Si destò allora nella popolazione della diocesi una nobile gara tra le famiglie per inviare i loro figli alle scuole "del Vescovo". Il vescovo chiamò ad una generosa e specifica collaborazione i suoi sacerdoti per l'insegnamento. Per l'amministrazione e la gestione chiese la collaborazione della Congregazione del Cenacolo che provvide ad un efficiente ed ordinato lavoro di supporto con specifiche e precise responsabilità.
"Si trovò così ad essere servito, da un complesso di scuole medie inferiori e superiori parificate un territorio più vasto della stessa diocesi, la cui domanda di istruzione scolastica, senza il coraggioso apostolato di Mons. Tedde, avrebbe trovato risposta solamente inadeguata e disagevole nelle lontane scuole di Cagliari e Oristano, in tempi nei quali le comunicazioni e le stesse strade erano ben lontane dal facilitare, come avviene oggi, il movimento delle masse studentesche.
"Mons. Tedde si impegnò anche a risolvere per i suoi studenti il problema del trasferimento alle sedi scolastiche, sollecitando l'interesse a linee automobilistiche che furono anch'esse, nel tempo, un suggerimento intelligente e prezioso per una iniziativa privata che rappresentò nella zona un valido servizio alla comunità" (Abramo Atzori).
Per circa vent'anni queste scuole hanno adempiuto ad una funzione sociale per la quale era stato sempre macroscopicamente carente l'impegno pubblico statale. Fu soltanto dopo vari anni che lo Stato cominciò ad istituire le prime scuole dell'obbligo.
Spesso le scuole venivano visitate dai vescovi e da importano autorità. In esse si svolgevano anche convegni a livello provinciale e regionale. Il presidente Segni, prima da ministro e poi da Presidente della Repubblica, seguì con estremo interesse quell'impegno del giovane vescovo. Altrettanto fece il ministro liberale Martino che non esitò, da laico galantuomo, a conferire al vescovo la medaglia d'oro "per meriti scolastici". Era il riconoscimento della validità di un progetto nato dal grande cuore del vescovo.
Mons. Tedde fu dunque un antesignano in campo scolastico: sempre ed in qualsiasi circostanza difese l'inalienabile diritto della Chiesa alla libertà di insegnamento e la possibilità per le famiglie ad inviare i loro figli alle scuole cattoliche con il medesimo impegno finanziario con cui i cittadini italiani frequentano le scuole statali.
Mons. Tedde sentiva l'urgenza e le finalità umane e pastorali della scuola cattolica. Egli stesso lo afferma quando, parlando della scuola diceva: "L'attività scolastica, con la diretta responsabilità di scuole vescovili che si inseriscono nella grande famiglia della scuola cattolica, per l'impegnativo ed oggi più che mai attuale ed urgente apostolato che ne costituisce la ragione, l'anima e la vita, esprime un elemento e un settore del nostro lavoro pastorale, che per le sue particolari esigenze intendiamo seguire e guidare personalmente. Ai carissimi sacerdoti, che in questa fatica ci sono vicini nell'apostolato dell'insegnamento, come a tutto il clero diocesano che per le nostre scuole vescovili prega e lavora, esprimiamo la nostra viva riconoscenza. A tutti i collaboratori la nostra particolare benedizione".
Una intera generazione ha frequentato e studiato alle scuole vescovili, tantissimi i diplomati e diplomate: tutta la diocesi ha risentito di questa elevazione culturale, sociale e religiosa.
Mons. Tedde era solito seguire personalmente anche l'attività didattica delle sue scuole e non era infrequente il caso che si recasse nelle varie classi per familiarizzare con gli studenti e cogliere l'occasione per fare una lezione di carattere straordinario. Anche le famiglie erano vicine alle scuole: il vescovo convocava spesso i genitori che tra l'altro incontrava quotidianamente e con la massima disponibilità nelle stesse scuole. Mons. Tedde si adoperò instancabilmente per offrire ai giovani, per quanto gli fu possibile, una "esperienza di Chiesa".
Certo, non tutto fu perfetto. I problemi ci furono e tanto grandi, ma ciò non intacca minimamente lo spirito apostolico di Mons. Tedde, che profuse tutte le migliori energie al mondo della scuola. Purtroppo questa importante esperienza pastorale ebbe termine: Mons. Tedde forse non ne aveva valutato in profondità tutti i delicati aspetti. Con molta amarezza decise la chiusura delle scuole. La Chiesa diocesana veniva così a perdere un vasto campo di azione pastorale dove il vescovo aveva, con molta dedizione, distribuito cultura, fiducia e speranza. (Pier Giorgio Mudadu in Mons. Antonio Tedde una vita per la Chiesa, 1992).
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