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Gianfranco Murtas

Is Mirrionis/San Michele, Sant’Elia, Pimpisu, Antonello e il mio chiodo arrugginito

di Gianfranco Murtas

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Me lo vedo, Antonello, davanti a me. Uomo già maturo, 62 primavere e anche autunni – quanti autunni e pure inverni! – nel suo calendario di chiamata alla vita. Quasi la metà di quel tanto l’abbiamo condivisa, prima in ospedale, poi nelle confidenze domestiche – dure quanto nessuno saprà mai –, a casa dei suoi in Sant’Elia, e al camposanto, nei corridoi alle spalle del cappellone che da qualche tempo è interdetto e che un giorno fu il luogo del suo congedo.

Di tanto in tanto risale alla mia mente quanto staziona permanente nella coscienza: la colpa di quella certa inadeguatezza di cui si prendono le misure esatte – e chissà se sono esatte davvero – soltanto dopo che il danno è compiuto e per consolarci, cercando di pareggiare i conti in via di paradosso, ci facciamo del male da soli, graffiandoci, scarnificandoci addirittura con un chiodo arrugginito. Io me ne porto sulla coscienza di pesi che, impietosi nel tempo, dimensionano l’insufficienza non della volontà, o della buona volontà, ma forse della intelligenza, della lucidità analitica, forse del coraggio di arrivare fino in fondo – in fondo, in fondo – alle questioni gravandomi, costasse quel che doveva costare, della fatica d’una consumazione piena, (autoconsumazione come martirio), dentro le imprese dell’umanità border line. Perché non potevano bastare le oblazioni materiali e immateriali pur segnate dalla fraternità e mai, mai dal paternalismo, non potevano bastare le umiliazioni subite da parte di équipe di operatori rifuggenti dal controllo umanitario, e neppure la querela per il fastidio e l’interrogatorio davanti al giudice paludato ed algido al palazzaccio nostro.

Non mi carico l’addebito d’un approccio superficiale a niente e a nessuno, però – ripensando ai quattrocento che ho accompagnato a morte per AIDS lungo quasi un decennio, nell’ultimo decennio del secolo scorso – non riesco ad approvarmi sui termini, che pur erano larghi e larghissimi, per tempo ed energie e risorse messi in condivisione, casa mia anche, il mio letto anche (per ripararmi io in una poltrona), di una prossimità piantata accanto a chi m’era fratello minore, di poca età più giovane di me. Il chiodo che graffia ridisegna volti e voci, storie di persone e di famiglie, di camere d’ospedale e di celle e infermerie del carcere, di spazi aperti e angoli riparati e nervosi di piazza e galleria, di luci ora accese ora smorte in comunità e mi riconsegna le pretese risarcitorie di chi è stato schiavizzato da una sorte prepotente e sorda a cui io, altolocato per proprietà e reddito, per rispetto e considerazione, per libri e articoli pubblicati e conferenze tenute qua e là, non ho saputo oppormi, uscendo sconfitto quasi da ogni conflitto.

Questo pensavo e penso: ora è stato l’ambiente e fisico e sociale, ora è stata la fragilità d’una indole da resa combattente, ora è stato altro, nelle case e nei sottoscala del commercio e della "pera", della siringata, negli ombreggiati pubblici o negli spazi di Si’e boi, nei più diversi stadi di vita e socialità, ad aver allettato e svuotato o corrotto col fascino del fiore nero. Dopo sarà stato altro a restituire, ma tardivamente, propositi e sentimenti di vita, voglia di recupero… ma Cagliari e la provincia nostra, e Quartu e Selargius, Assemini e Monserrato, Quartucciu e Sestu e Sinnai, fin su Villacidro e Guspini e San Gavino, o Carbonia… tutto il territorio se lo sono divorato, mai sazie, la droga e la malattia mortale. Millecinquecento e più e più e più ancora, forse duemila, in un decennio, e nella mia straziata quota, da Ferdinando a Sandro a Francolino, quei tanti di una fraternità oltraggiata e perduta.

Nel novero Antonello, disperato e fonte consapevole di disperazione per altri. Lo tengo oggi, come altre volte ho fatto, come rappresentante dei tutti, dei tutti nessuno escluso, protagonisti e, per me, non massa, mai massa, di un popolo che ho amato.

Sono tornato e ritornato, con la memoria e il sentimento, e con la scrittura, a lui come ad altri e ad altre la cui vita ho incrociato in una mia età più sana e stabile, raccogliendone frammenti e anche più che frammenti, chiavi di vita, confidenze incredibili. E recupero anche oggi, senza obblighi di ricorrenza, quanto avevo già rassettato, nella stanza dei colloqui segreti, pochi anni fa e che veniva a sua volta da altri e precedenti rassetti, così fino ad arrivare alle prime confessioni ed anche ai primi affidamenti.

Non era facile, né poteva esserlo, amministrare secondo regole che non possono essere né di geometria piana né di geometria solida la relazione con chi è pietrificato da sostanze alteranti: pietrificato anche sotto le coperture di dinamiche all’apparenza naturali e perfino amene. Ma pure possono crearsi delle fasi nelle quali incunearsi nello zoccolo duro, resistente, d’una umanità può dare risultato. È stata la mia esperienza, la più bruciante e paradossalmente anche la più esaltante della mia vita: perché ho saputo d’esser stato allora vissuto come un fratello affidabile.

Riporto qui di seguito – come all’inizio di questa breve nota ho specificato – testi già pubblicati che aggiornavano, in progress, e memorie e pentimenti: così da Fondazione Sardinia del 15 febbraio 2018, così dall’edizione ormai storica di Partenia in Callari del 1998-1999 comprensivo dello sprazzo autobiografico di Antonello del 1996.

  


 

Spoon river cagliaritano: i tempi di Antonello


Sono passati, volati anzi, vent’anni: tanti quanti misurano l’assenza di Antonello dal mondo che era nostro, suo e nostro. E mi sembra una colpa.

Sarebbe piaciuto a Sergio Atzeni, forse, conoscerlo, Antonello: frequentarlo fra i quartieri di San Michele e di Sant’Elia, fra piazza e piazza, e ascoltarlo, soprattutto ascoltarlo secondo la sua arte, possibilmente trasmettendogli il senso di una prossimità che è sempre rispettosa e, necessariamente, consolatoria ed incoraggiante. Non richiesta forse, ma cercata e attesa sì. Anche nel sottoproletariato di certe periferie ci può essere signorilità, fiera dignità, la nobiltà di una riservatezza che però cerca relazione, pur se la tempesta della vita, del quotidiano, stringe e soffoca gli spazi delle emersioni virtuose e, almeno all’apparenza, vittoriose, di fatto soltanto rapsodiche.

Penso, di Antonello, ai suoi due quartieri di San Michele arcangelo e di Sant’Elia profeta e mi domando, senza fare letteratura ma semmai teologia, perché i santi di Cagliari non abbiano combinato cooperativa e protetto davvero – massa critica invincibile – i ragazzi della città che abbiamo perduto, negli anni fra ’80 e ’90, in numero esplosivo e disperante per le overdose o l’aids. Santi, quanti santi titolari dei quartieri nostri, di periferia come San Giuliano o Sant’Alenixedda, come San Bartolomeo o soprattutto Sant’Avendrace vescovo nostro, e del centro come San Benedetto e Bonaria sarda in vetta, essi avrebbero potuto. Di ragazzi in quegli anni tremendi ne ho accompagnato al cimitero quattrocento – ma la folla che s’è intruppata come in un imbuto, là agli ingressi del grande campo civico, è stata di almeno quattro volte maggiore – e tutti quanti, uno per uno, sono entrati, dai loro ultimi giorni, nella mia vita senza più uscirne, rimodellando o pietrificando il mio più intimo profilo morale.

Quel senso di ingiustizia e di rabbia che avverto tutte le volte che sono portato, dalle occasioni o dai personali impegni, ad onorare quelle memorie sì umili o tanto umili quanto e comunque care e preziose e finanche ammirate sotto ogni aspetto, si rinnova sempre e mai trova pace. Forse qualcuno, da Cagliari stessa, aveva lanciato petizioni al Cielo, ai santi, anche in tempi altri, nei “prima” che non sono mancati, lungo la millenaria storia urbana che pur attesta i numeri delle stragi: a dire di ferali epidemie ora vaiolose ora coleriche, ora perfino pestilenziali, quando ci s’era invocati a Sant’Efisio martire ed a molti altri suoi colleghi del Cielo, invocati nelle chiese e nelle strade. Quelle stesse ondate malefiche che giocavano sui grandi scenari dell’Europa e del continente e da lì ci raggiungevano, cambiando colore non natura s’erano ripresentate a noi associandoci ai grandi e ingloriosi fenomeni dell’intero mondo occidentale, di entrambe le coste atlantiche come di quelle pacifiche, forse per compensare la mancanza di guerre dichiarate e di mattanze militari: avevano associato fra loro, quelle ondate, i continenti, l’America e l’Asia, e nel mezzo noi, stritolati nella minima Italia, anche noi – associati e stritolati – di Cagliari e provincia.

Franco Oliverio – il nostro mitico nuovo medico dei poveri, degno continuatore della missione di don Mondino De Magistris – ventilava intelligenze malvage nella politica transnazionale e nelle cupole dell’economia planetaria, come se per reazione poliziesca, e puliziesca, alle ribellioni giovanili di contrasto alla guerra del Vietnam, o dalle febbri della contestazione cosiddetta globale il “potere” – moloc o piovra dagli infiniti tentacoli – avesse voluto abbattere non una, ma addirittura due generazioni, zittire gli inquieti facendo deserto nei quartieri ribollenti. Chissà. Sono laico, debbo rifuggire dalle dietrologie, dalle figurazioni complottiste. Sta di fatto che soltanto Cagliari e il suo hinterland hanno perso nell’arco di due decenni quasi duemila giovani per le croci della droga, del fiore morto dell’aids. Né il Cielo s’è mostrato pietoso alleato del bene: ha invece fatto sudare non sette ma mille camicie a chi ha cercato di contenere i rischi della scempia carneficina, di quel cieco sterminio di deboli indifesi. Eppure, mossi da chissà quale vento, verrebbe da ripetere, parafrasandola da laici impotenti, ed intonandola in una specie di ideale concerto fra le celle e le corsie e le piazze, ancora o di nuovo piene nella città, la preghiera di Arturo Carlo Jemolo in conclusione del suo maggior lavoro – Chiesa e Stato negli ultimi cento anni: tutto è diverso dalle speranze, ma chiniamo il capo e pieghiamo il ginocchio, sappiamo che c’è provvidenza anche dove la Provvidenza non si rivela. Non per altro: perché c’è il bisogno, e se c’è il bisogno dovrà pur esserci il ristoro. Come per logica di natura, non di religione.

Ho raccolto nel tempo una quantità impressionante di materiali, di documenti e di appunti personali, di scritti a futura memoria, di lettere dal carcere e dalle comunità, di confessioni dall’ospedale nero, in ripasso di una vita, di cento vite tutte di breve età, in riflessione critica attorno ad una sconfitta senza possibilità di rivincita: talvolta, è vero, anche sull’orlo precario di un desiderio o d’una aspettativa, per il più però di fronte a orizzonti cupi, all’annuncio crudele di uno sfratto dalla scena del mondo. Più spesso nella confusione dei pensieri o negli impasti delle sensazioni e degli umori, nella torpida rinuncia a ipotizzare prospettive e rilanci, talvolta nella lucida e drammatica consapevolezza di camminare con un piede ancora sul marciapiede dell’esistente tangibile e l’altro già nell’ombra subdola della morte silente.

Sono passati vent’anni dalla fine umiliante, disperata e liberatrice di Antonello, giovane fratello che ho incontrato un giorno in uno speciale bisogno di relazione, di ascolto e di cammino, nella logica del compagnonaggio ospedaliero. Era stato in carcere dai direttori e marescialli che mi avevano respinto, era stato in comunità a Pimpisu dal mio amico don Angelo Pittau, era stato in reparto dal mio amico dottor Silverio Piro, era stato per lunghi mesi anche al Sert del mio amico dottor Pier Paolo Congia. Egli stesso, Antonello, mi era amico non meno di don Pittau e dottor Piro e dottor Congia. Sono per l’universo degli uguali, per la sussidiarietà pedagogica, formativa, non per le gerarchie. E forse avrei potuto evitare che si perdesse di nuovo e per sempre, Antonello, che era allora in precaria e faticosa risalita, in lenta ma progressiva riscoperta di obiettivi: mi sento addosso la colpa. Non gli ho negato mai quel che, con onestà d’animo, m’era sembrato alleggerire il suo bisogno e nelle mie possibilità, eppure ci sono, nelle relazioni fra le persone – dico nelle relazioni segnate dal disagio morale e sociale – delle zone grigie in cui uno avareggia perché pensa sia, nel momento particolare, la scelta giusta, meglio rispondente all’interesse della causa, e forse così chiude definitivamente una porta, compromettendo tutto. Chissà.

Riki mi salvò, vent’anni fa, dalla disperazione, perché la sua era una vita nata dalle tribolazioni che avevo anch’io sopportato, condividendole. Egli, mi verrebbe da dire, respira oggi l’aria che sarebbe stata ancora nella riserva di suo padre, che quel nascituro e quel bambino nuovo sentiva come la prova provata del suo riscatto, a Cagliari, nella Cagliari delle periferie, dei quartieri intitolati ai santi (almeno all’apparenza) distratti.

Pubblicai, ora sono proprio una ventina d’anni, una serie di volumi di formato grande dal titolo Partenia in Callari. Raccolta di testi di riflessione e di documentazione sulla città sofferente, la città giovanile sotto assedio. Il vescovo Gaillot, rimosso da papa Wojtyla (su istruttoria di una curia romana atea) dal governo della diocesi di Evreux perché, da apostolo, predicava e più ancora viveva il Vangelo, mi aveva suggerito il titolo. Detti spazio anche ad Antonello, doveroso riconoscimento agli sforzi di risurrezione, penosa certificazione dell’incompiutezza cui non seppi dare rimedio.

Vent’anni dopo, eccoci di nuovo, davanti a una lapide di cimitero, nella piazza di San Michele e in quella di Sant’Elia, con Riki e Alba, e tutti gli altri, a far memoria e a restituire a lui, all’amico nostro indimenticato, quel tanto di vita che aveva perduto.



  

Da “Partenia in Callari”, edizione 1998-1999

Sabato 16 novembre 1996 era nato Riki, il bambino – il primo, il solo – di Antonello, l’autore della testimonianza (con aggiunta) che segue. Alba l’aveva reso padre e questa vicenda dolce e tenera, pur nel tormento non esaurito di una situazione familiare complessa, aveva certamente fornito a lui altri materiali di analisi e riflessione su quel che era finora stato e su quel che avrebbe potuto capitare ancora nella sua vita.

Un quaderno di formato grande, a quadretti, ed eccolo confidare – a chi? a me? al lettore di  Partenia? a se stesso? – la sua storia, la storia delle emozioni forse più ancora che la cronologia dei fatti che avevano riempito e dato senso ai suoi anni più recenti.

Scrive, Antonello. Il suo racconto guarda al passato e segue, con la cadenza quasi del diario, i vari passaggi che dalla dipendenza piena portano – o sono volti – a quell’affrancamento del corpo e dello spirito che, infine e finalmente, concede alle potenzialità umane e morali, affettive e pratiche, di tradursi in realtà verificabili.

La metafora (e non paia indulgenza alla retorica letteraria) qui vale doppio: come i dolori del parto accompagnano una vita che sboccia, così il travaglio delle lunghe e frequenti sedute psicoterapeutiche, individuali e di gruppo, presso un Sert può preludere ad una liberazione. È così: una liberazione che, se non è conquista data una volta per tutte, non di meno è innegabile e sostanziale balzo in avanti in termini di autocoscienza e di assunzione di responsabilità, rispetto a un “prima” senza orientamento.

Antonello questo balzo lo stava compiendo, gliene andava riconosciuto il merito. Lo spirito di sacrificio che, ad un certo punto della sua vicenda, aveva deciso di sposare a sé era come il paio di scarpe chiodate che occorrono per scalare la montagna. Scomode ma necessarie.

Ma le potenzialità riscoperte esigevano un ulteriore, difficile salto di qualità, un’applicazione virtuosa nel segno veramente del coraggio estremo, un farsi e darsi migliore, ancora più umile di prima, e non solo verso la creatura venuta al mondo, non solo verso la sua Alba che amava spesso senza rispettarla, ma verso tutti, interni ed esterni alla casa: ascolto dolce, presenza leale, austerità, senso della misura e del momento…, questo doveva essere il suo obiettivo.

Ho ritrovato la prima parte di questo mio appunto adesso scorso, però con qualche verbo al presente, non al passato: perché Antonello, al tempo della stesura originale, era vivo. Ho cambiato qualche tempo verbale, appunto per necessità. Perché Antonello non c’è più, s’è fatto fuori con una overdose domenica 15 febbraio 1998. S’era reso irreperibile, dopo gli ammonimenti della Questura per le intemperanze domestiche da cui non sapeva esimersi ma che pure lo umiliavano, dal giovedì precedente. È stato ritrovato senza vita in un albergo del centro, a Stampace, nella mia stessa via: una prossimità che sento un po’ come una colpa. L’indomani il giornale ha dato la notizia; il mercoledì successivo si sono celebrati i funerali, nella cappella del grande cimitero di San Michele, la zona press’a poco da dove, già giovanotto e già inguaiato, era andato via con i suoi, quando a Sant’Elia erano state assegnate le nuove case popolari.

Io ho avuto il privilegio di vivergli a fianco in momenti di alta drammaticità e di essere ammesso all’interno della sua vita segreta ancor di più nei mesi successivi a quelli cui fa riferimento la sua testimonianza. Da lui sono stato anche chiamato ad avere una parte, delicata e forse decisiva, nella stessa circostanza della sua paternità, che avrebbe dovuto rappresentare la svolta definitiva della sua vita, del suo cammino di riscatto.

Dopo che quella “conquista” aveva preso corpo e volto nella sua casa, le pulsioni antiche – rinverdite forse dalle sue paure e dai sensi di colpa ingigantiti oltre misura ed a lungo sedimentati – erano riesplose. Avevo creduto di far bene, nella piena consapevolezza del mio ascendente su di lui, mostrando un atteggiamento che, dopo tanta dolcezza e complicità nella confidenza, s’era fatto intensamente duro, ma per un fine pedagogico, esprimendosi nella estraneità alle sue cose, quando egli passava il segno e gli altri dovevano pagarne le conseguenze. Anche per questo non avevo pubblicato la testimonianza che mi aveva consegnato e che teneva assai fosse “immortalata” nelle pagine di un libro (e in un certo colloquio, nel mio studio di casa, dopo tanto silenzio – fu la volta che volle accompagnarmi in ospedale con la sua moto nuova, tutta da pagare –, egli mi richiese nuovamente la stampa ed io gliela promisi). Ci ripenso ora a un anno dal suo suicidio, ma ci ho pensato un’infinità di altre volte: forse avrei potuto fare diversamente, avrei potuto stabilire un dialogo altrimenti impostato e sostanziato, chissà, ma mi sentivo io stesso vincolato a un inderogabile dovere di discrezione sui veri motivi delle mie riserve: insomma, di copertura (per evitare maggiori disastri) delle mie fonti circa le sue incontrollate esplosioni d’ira che non aveva mai più avuto il coraggio di confermarmi perché esse rappresentavano l’inadempienza clamorosa agli impegni assunti e sempre ribaditi.

Ma Antonello è stato uno di quelli – fra i mille, forse più, ragazzi di Partenia conosciuti nell’intimità del vissuto disperato e nel rimbalzo però dei momenti dei sogni, delle attese, degli affidamenti, forse delle illusioni – che di più sento presente in me, caro e rimpianto.


Immagini, ricordi, rimpianti

Ho 33 anni, quasi 34, la mia storia sarebbe lunghissima da raccontare, alle spalle ho 15 anni di tossicodipendenza. Il 5.7.1994, questa è la data alla quale ho veramente interesse, sono stato scarcerato dopo 1 anno di detenzione per un furto. Appena uscito la prima cosa che ho fatto è stata di cercarmi un buco d’eroina, senza nemmeno passare a casa a salutare i miei genitori, che moralmente e finanziariamente mi erano stati vicini.

Dopo telefonai a casa, rispose mia madre, ma non dimostrò nessun entusiasmo particolare, anzi, sentita la mia voce, conoscendo di me tutto, mi fece notare che mi ero fatto, e che in casa non mi ci avrebbe voluto in quelle condizioni, scottata per il mio passato, anche se così non mi stava aiutando di certo. Davo solo peso al fatto che era mia madre, e che avrebbe dovuto stare al mio gioco. Vicino a lei si sentiva mio padre che le diceva «Passamelo»; prese appunto il telefono e mi chiese dove stessi, mi venne subito a prendere, arrivai a casa senza che mi dicesse una parola, io feci altrettanto con lui, lo sentivo molto vicino, sentivo che voleva ancora una volta cercare di aiutarmi, si limitò a chiedermi se avevo finito o se solo stavo in licenza.

Giunti a casa, vidi mia madre che stava lì seduta su una sedia, col broncio come se avesse visto in me il diavolo, mi guardò per confermare ciò che mi aveva detto al telefono. Rivolgendosi verso mio padre, disse: «Hai visto che avevo ragione?». Io continuavo a fare finta di nulla, rimasi zitto, aspettando magari che mi buttasse le braccia al collo, cosa che ha fatto solo una volta nel trovarmi tranquillo in comunità, mettendosi anche a piangere vedendo suo figlio bello grasso spontaneo, ma soprattutto con gli occhi sinceri, cosa che non vide quel giorno. Tutto mi stava innervosendo, non so perché ma non lo accettavo, forse cercavo compassione dopo un anno trascorso in carcere. Mio padre vide il mio disagio, chiese a mia madre di smetterla subito, mi consigliò di andare a fare un bagno, e fu la prima cosa piacevole; rimasi sotto la doccia un bel po’ poi bello fresco “fatto” mi misi a letto a godermi lo sballo con musica e sigarette, tanto, pensavo, c’è mio padre che mi protegge.

Continuavo ogni giorno a farmi, non passò molto che se saltavo erano dolori, la scimmia. Verso la fine di luglio cominciarono altri guai: mio padre si sentì male, 70 anni di età, fino ad una paralisi che gli fermò la parte sinistra del corpo, era il 27, e dopo il poco che l’ospedale poté fare, il 14 agosto tornò a casa, seduto su una carrozzella ortopedica. La cultura sulla malattia me l’ero fatta già, sapevo che da un giorno all’altro sarebbe morto: trombosi cerebrale, ictus, questa era la malattia che l’aveva colpito.

Cominciai a capire cosa fosse la sofferenza, sentivo la grande stupidità che per tanto tempo avevo covato dentro di me, nel cercare quella tranquillità che era stata sempre dentro di me, lo vedevo da quel santo di mio padre, da quanto gli mancavano le cose quotidiane, non poteva andare da solo nemmeno a pisciare.

Era ormai da decidere, dare una svolta, tra liti con mia madre, sempre accese e senza rispetto, e il mio bisogno quotidiano di una dose, oltre che la mia sempre più debole forza fisica, dovevo necessariamente tirarmi su. Decisi così di ricoverarmi in ospedale, avrei preso il metadone, scalandolo poi velocemente al SS. Trinità, reparto Infettivi. Qui conoscevo un medico al quale mi rivolsi dopo avergli illustrato la mia situazione, mi prese in reparto, cominciai così. Il mese di dicembre lo passai tutto in ospedale, volevo liberarmi subito di questa angoscia e tornare a casa, pensavo a mio padre. Non seguii la cura che mi avevano dato, perché a scalare ci avrei messo troppo tempo, al contrario scalavo quasi ogni giorno al punto che terminai in un mese. I medici mi rimproverarono, dovevo seguire il loro trattamento, ma non volli sentire nulla, tant’è vero che riuscii a liberarmi dal peso del metadone – 10 mg – questa era la mia determinazione.

In quel mese feci due incontri molto importanti fra le persone che affollano gli Infettivi: G. libero volontario, ebbi subito una buona impressione nel vedere la sua disponibilità verso un mio conoscente ricoverato, del quale conoscevo vita e miracoli, e non era certo un tipo affidabile sociale, ci parlai un po’ e dopo avergli detto per quale motivo stavo lì, facemmo una banale scommessa di un caffè se sarei riuscito a disintossicarmi, ho vinto la scommessa ma la cosa che più mi piace ho trovato un vero amico. L’altra persona si chiama Alessandra, anche lei volontaria, ma con tirocinio alle spalle. Anche a lei spiegai il motivo per il quale stavo lì, mi parlò del SERT di via Capula, dove c’era, per chi era bello disintossicato, un farmaco, l’antaxone che mi avrebbe aiutato a continuare fuori ciò che avevo iniziato, ma soprattutto mi parlò di un medico del SERT: Pier Paolo Congia.  Mi disse appunto di andare da lui perché mi avrebbe aiutato.

Non ricordo di preciso la data di quando andai via dall’ospedale, ricordo solo che nella camera dove stavo io non era ancora morto nessuno, sì che in quel reparto si cade come zanzare avvelenate… Vuoi che mi ero stancato di stare lì, vuoi che ero a zero di metadone, i primi di gennaio andai via, con grande rischio. Presi per buona la proposta di Alessandra, stavo ancora male, erano i residui di un mese all’insegna dei dolori, se non volevo buttare ciò che di buono avevo fatto fino ad allora dovevo tentare di tutto. Andai dal dott. Congia, psicologo, cominciò a farmi parlare, dopo essermi confidato sentivo che c’era qualcosa che mi diceva essere la persona giusta, ricordo che mi mise a mio agio, vide subito la mia confusione, disse che c’era da lavorare e parecchio, poi mi cominciò a spiegare come era orientato il suo lavoro.

Aveva, assieme ad altri medici, fatto un progetto di reinserimento chiamato Crisalide, a base appunto di antaxone, e riunioni di gruppo con altri ragazzi. Spiegandomi dell’antaxone, disse che questo farmaco non mi avrebbe fatto sentire l’effetto dell’eroina, e che sarei stato a rischio di collasso se mi fossi fatto dopo averlo preso. Cominciai questa cura, facevo le riunioni settimanali: una individuale con Pier Paolo, un’altra il mercoledì sera di gruppo; la prima mi faceva sentire bene, riuscivo a dire senza nessun timore cosa mi era successo nei miei anni passati, ma soprattutto cosa c’era da sistemare al momento. Per circa due mesi andai avanti, sempre da solo, per inquadrare ciò che avevo iniziato.

Intanto in casa le cose non volevano mettersi nel verso giusto, non riuscivo a trasmettere fiducia nei miei confronti. G. una volta venne a casa, e vide come stavano le cose, con la mia speranza che avrebbe potuto fare qualcosa, mi stava prendendo male al punto di tornare a farmi le pere, diceva G., è davvero difficile. Vide però il gran bel rapporto che c’era con mio padre, che ebbe quasi subito una ricaduta di ictus, questa volta molto più seria, ricordo le sue ultime parole prima di smettere completamente di parlare, che furono mentre mangiava: «sembro nell’asilo», questo perché mia madre gli stava dietro, non avendo la lucidità necessaria per guardare il galateo, mio padre era sbadato, si sporcava i vestiti. Gli venne per l’appunto un raptus di nervosismo, diede un colpo di tosse, come se la roba da mangiare gli fosse andata di traverso, da allora non parlò più, era lì immobile, mi sembrava strano, non rispondeva come se lo stesse facendo apposta.

Dopo averlo portato in ospedale, diagnosticarono un altro ictus. Io da parte mia non sentivo neanche il peso della scimmia, dal suo canto mio padre, all’ospedale, doveva essere piantonato giorno e notte, e appunto proprio la notte stavo lì accanto a lui, cominciai già ad avere degli impegni abbastanza seri, e più andavo avanti più era forte la mia convinzione che per tanto tempo avevo sbagliato. Cominciai ad approfondire la mia collaborazione col SERT di via Capula, appunto con Pier Paolo Congia. Non partecipavo più ad alcuna seduta, avevo avuto anche l’idea di mollare tutto, per fortuna Pier Paolo mi venne incontro, lasciandomi soltanto l’impegno di prendere l’antaxone e di lasciare le urine, sì perché stavo la notte all’ospedale, con la grande paura che da un momento all’altro mio padre avrebbe smesso di vivere: infatti peggiorava giorno dopo giorno, sempre peggio, il braccio destro a rilento riusciva a muoverlo, riconosceva ancora, cercavo di parlargli, con la mano mi batteva la guancia in segno di coraggio, faceva dei segni come per indicare qualcosa, non so quanto ho pianto, preferivo che morisse, così fu il 27 maggio 1995. Pensai di tutto, sì preferivo vederlo morto, meglio che vederlo in quello stato, ma una volta successo, non riuscivo ad accettare di vederlo immobile.

Feci una promessa a me stesso: avrei smesso di fare quella vita inutile. Intanto oltre che aver conosciuto Alessandra, Pier Paolo e G., conobbi anche una ragazza, aveva gli stessi miei stati d’animo per aver perso il marito da poco, andammo subito d’accordo, mi fece coraggio, le dissi tutto di me, cosa stavo facendo, che ero in cura, insomma sono stato subito sincero, mi buttai a capofitto su queste quattro persone. Cominciò a pesarmi da subito la mancanza di fiducia nei miei confronti da parte di mia madre, c’erano un sacco di cose da sistemare per seguire il progetto del centro, era necessario avere una persona che potesse prendersi la responsabilità dell’antaxone, accertarsi che ogni giorno assumessi il farmaco davanti a lei. In casa c’era solo mia madre ed era l’unica che poteva farlo, ci voleva una persona che si imponesse, a parte la mia disponibilità ad assumerlo, il progetto Crisalide impone appunto una maggiore sicurezza, ma soprattutto disponibilità da parte dei familiari.

Ed infatti questa era la cosa che più mi creava problemi, non riuscivo ad avere l’appoggio di una persona di casa, mi tornava in mente mio padre, pensavo ai problemi che mi avrebbe risolto con il suo altruismo, avevo bisogno di una persona come lui, non vedevo nessuna luce a proposito: ho 7 tra fratelli e sorelle, 2 maschi e 5 donne, chiaro che non potevo sconvolgere le regole del SERT, e fare il contrario. Nel periodo che babbo stava in ospedale, avevo preso l’antaxone senza nessun controllo, ma a quel punto mi veniva chiesto di stare nelle regole del progetto; Pier Paolo diceva che tutto si sarebbe sistemato nel migliore dei modi. Io da parte mia stavo per mollare tutto, mi dava rabbia che per tanti anni mia madre abbia cercato d’aiutarmi a modo suo, mandandomi in comunità contro la mia non voglia di uscirne dalla droga, e che ora che avevo deciso io, sembrava non andasse bene: «come, quando ho fatto qualcosa io non l’hai accettata! ora che lo hai deciso tu non lo accetto io», questa pensavo fosse la sua idea, per come mi trattava.

La fretta che avevo di sistemare questa situazione mi stava giocando brutti scherzi, Pier Paolo al quale mi sono affidato in modo totale diceva «abbi pazienza, continua frequentando il mercoledì le riunioni di gruppo». Confrontandomi con gli altri che come me seguivano il progetto Crisalide, capii molte cose, in ogni storia o esperienza che veniva raccontata c’era sempre qualcosa di mio, ed è stato proprio in quelle riunioni che capii alcune cose tra cui che la mia fretta non aveva nessuna via di uscita ma che, soprattutto, stavo aspettando da mia madre qualcosa che avrei dovuto fare io. Solo ed esclusivamente tramite il tempo avrei potuto avere ragione dì ciò che cercavo, ripresi ragione di me, rivedendo ciò che poteva essermi utile al momento, intravvidi una possibilità di un lavoro nella Cooperativa “Sa Striggiula”, creata e formata da ex tossicodipendenti con la grande collaborazione di Pier Paolo e del SERT. Con l’appoggio appunto di Pier Paolo cominciai a lavorare, come volontario, piano piano il volontariato ha dato i suoi frutti, anche se non totali sul lato finanziario.

Ora sto lavorando da dipendente ma con tanti problemi dietro, che mi stanno mettendo a dura prova, sembra quasi che questa mia vita deve essere travagliata per sempre. A volte cerco Dio chiedendogli «ma se esisti per davvero non ti basta quanto ho sofferto fino ad ora, non puoi darmi una mano?». Intanto il rapporto con la ragazza con cui mi stavo frequentando si era fatto sempre più legame serio, e tra le tante cose che cominciavano ad andarmi bene era proprio il rapporto con lei. Da parte sua Pier Paolo sembrava che avesse preso il mio caso come un fatto personale, bisognava riuscire a trasmettere fiducia nei miei confronti da parte di mia madre, ci impegnammo così su questo problema; sì perché non avevo nessun punto di riferimento da parte di qualcuno che mi stava così vicino come lo era mia madre, visto che abitavo con lei. Mi disse di farla andare ad un appuntamento, con il motivo che qualcuno di casa, se volevano che io continuassi a stare lì, doveva prendersi la responsabilità del farmaco famoso antaxone, e che almeno uno della famiglia doveva partecipare il mercoledì alla riunione delle famiglie, che serve per fare il punto sulla situazione di ognuno di noi, e per rimettere ordine nelle famiglie che come la mia si è rotta di unità.

Continuai ad avere fiducia in Pier Paolo, tanto dicevo non ho nulla da perdere, anzi era un modo per verificare quanto credevano in quello che stavo facendo, così mi abbassai e fissai un appuntamento da Pier Paolo. Si presentò mia madre appunto con 3 delle mie sorelle, io restai zitto con vicino a me Alba, la mia ragazza, c’era anche Alessandra. Parlò Pier Paolo, spiegò subito quale era il progetto Crisalide e che a quel punto del mio cammino, vista la sua esperienza e sensibilità al problema della droga, se non mi avessero dato una mano sarei sicuramente inciampato di nuovo, ascoltai a quel punto cosa avevano da dire, ci furono molte disapprovazioni, per come in passato mi ero comportato, mi dava fastidio, in quel momento la cosa che voleva sentire era solo questo: «Ok Antonello il passato non conta, sei stato bravo fino ad ora, avrai vicino anche noi, ti daremo una mano a riavere la tua pace». Così non fu, e comunque da quella riunione familiare capii che le persone che al momento mi capivano erano Pier Paolo, Alessandra e Alba.

La conclusione pratica di quella riunione è stata che mia madre si sarebbe presa cura che avrei assunto l’antaxone ogni giorno, mia sorellina Carla (alla quale voglio un sacco bene) avrebbe preso parte alle riunioni assieme a mia madre, invece Alba avrebbe preso la ricetta al SERT e ritirato il farmaco in farmacia. Sembrava tutto facile, ma così non era.

Continuai il mio cammino affidandomi al rapporto con Alba che sempre più dimostrava che ci teneva a me. Io da parte mia, per quanto riguarda la droga, sembrava tutto strano: fino a qualche mese fa, quando la mattina aprivo gli occhi, la prima cosa che pensavo era andare a farmi, ora non mi passava il pensiero neanche essendo circondato da difficoltà e comunque, dato che le cose in casa non tendevano a sistemarsi preoccupava un po’. Pier Paolo continuava a dirmi che si sarebbe messo tutto a posto prima o poi, io avevo i miei dubbi in tal senso. Decisi di parlare a Alba, e prendere la decisione di vivere assieme, vedevo la possibilità di sistemare un sacco di problemi, ne parlai con Pier Paolo, il quale dopo avermi ascoltato, in qualche modo, visto il mio entusiasmo, consigliò di non avere fretta e che non era così semplice come poteva sembrare.

Io che sono testardo, ribattei su questa enorme possibilità, fu così che andai via di casa. Può sembrare un discorso egoistico, nei confronti dei bambini di Alba, che non volevano saperne ma è stato come rinascere, come d’incanto la mia vita trasformata, tutti i problemi di colpo spariti, dovevo cercare di farmi accettare dai bambini cosa che si sarebbe sistemata solo col tempo, come infatti è successo ora.

È con la grande gioia che ora aspetta un bambino da me, ecco ora le cose continuano ad andare avanti con mille difficoltà, ma ciò che più conta è che tornando indietro nel mio passato non trovo nulla di tutto questo, il tutto in un solo anno di vita tranquilla.

Ci sono due fasi in questo programma del SERT, io ho superato a pieni voti la prima parte, la seconda che arriva ora è molto più concreta, si cerca di scavare dentro di noi, cercando di scoprire tutto il karma negativo accumulato, come nel mio caso, in 15 anni di droga: posso chiamarlo ora, non controllo dei propri aspetti umani. Di conseguenza si e è portati a rifiutare ogni qualsiasi cosa, o verità, che dentro di noi ci fa in qualche maniera andare in bestia, ogni volta che qualcuno te la mette in faccia.

Due sono le cose, o capisci subito quali di questi tuoi aspetti sono da ritoccare e fai in modo di risolverli, o avrai problemi a far sì che le tue convinzioni di gestione del tuo karma si riflettano sulle persone che avrai vicino e che in qualche maniera ti hanno aiutato e ti stanno vicino nel tuo cammino di reinserimento.

Questa è la fase a cui sono arrivato io, mi sta diventando difficile, ma la fiducia che riporto dentro di me è tanta quanto il ricordo di quando, ogni mattina, dovevo trovare i soldi per farmi un buco di eroina.

Ecco, il SERT con il progetto Crisalide sta facendo ciò che si sarebbe dovuto fare già da tempo. Spero solo che il tutto venga capito da chi ha i poteri, i mezzi per poter far sì che questa organizzazione venga ampliata con nuove idee, pensando a quanti come me vorrebbero, senza tanti motivi, riuscire ad avere la spinta giusta ed uscire dalla grande malinconia e solitudine che la droga comporta in tanti giovani.

Fonte: Gianfranco Murtas
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