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Gianfranco Murtas

La Destra, “mia… lontana lontana”. In volume i primi quindici numeri di “Excalibur”, periodico di qualità della cagliaritana Associazione Culturale Vico San Lucifero

di Gianfranco Murtas

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E’ uscito il primo volume cartaceo di Excalibur, “periodico dell’Associazione Culturale Vico San Lucifero”. Da anni ricevo per posta elettronica, e per gradita gentilezza del direttore, i numeri della rivista che ha cadenza adesso mensile ed è arrivata alla 130.a uscita. Una bella pubblicazione “on line” – intendo “bella” sotto il profilo grafico, molto piacevole, e bella per l’impegno, che è evidente, di redattori e collaboratori di fornire cronache, ricostruzioni, rielaborazioni, riflessioni originali di storia politica, sovente riferita alla Sardegna e naturalmente dal dichiarato punto di vista della destra. Al numero in uscita – di norma di 16 pagine – si accompagna spesso, e tanto più in questi ultimi tempi, anche un supplemento monografico, pure esso corredato da un bell’apparato iconografico (disegni e fotografie, in specie fotografie storiche e piuttosto rare e dunque preziose).

La matrice politica della pubblicazione che ho piacere di ricevere e poter (utilmente) leggere, ripeto, per pura liberalità della direzione, interroga me, che dalle posizioni della destra – tanto quella storica novecentesca quanto quella corrente parlamentare e politica – sono lontano anzi lontanissimo, sotto vari aspetti: certamente nei termini del confronto ideale o ideologico (cioè sistematico, oltre i dottrinarismi sempre di maniera, ma certo con riguardo alla scuola di pensiero da cui ciascuno deriva se stesso), ma anche sulla attualità della “proposta” intesa come traduzione politica corrente, locale e nazionale, di una impostazione che cavalca – si può dire? (per me repubblicano mazziniano senz’altro!) – i secoli, e di più: su come noi si sappia spendere lo spirito “di minoranza” – io nella sinistra riformatrice e laica (classificazioni classiche forse oggi da rivedere), essi (militanti e dirigenti, e qui redattori e collaboratori) nella destra di sfondo nazionale, nazionalista e sovranista – in un quadro sociale e anche valoriale che va per crescenti conformismi che si rivelano grigi, privi di ogni slancio etico-civile e mortificanti nell’appiattimento. Potrei dirla diversamente: come si sappia, noi attori “di minoranza”, agganciarci alle maggioranze non certamente per passivo spirito imitativo ma per offrire il nostro sale, il nostro sapore alle grandi scelte legislative e di governo (se condivise almeno nelle linee generali) che la storia impone ogni giorno alle istituzioni. 

Mi verrebbe da dire ancora: Excalibur incorpora in sé, con la sua stessa presenza – si dirà pure modesta o di tiratura assai limitata (ma le dimensioni materiali non fotografano spesso quelle morali) –, la questione “tecnica”, avvertita soprattutto da quelli della mia generazione, di quanto la testimonianza di parte possa o debba essere consegnata alla carta, sì in gemellaggio oggi con una piattaforma informatica peraltro rispondente nei criteri grafici alle produzioni delle antiche e care tipografie, ma comunque con una sua certa autonomia… Si può fare dibattito anche all’interno di un blog, e si fa ormai con correntezza, ma la riunione delle opinioni nella carta stampata, che può farci compagnia ovunque, rende l’idea come di una casa che contenga od ospiti in coabitazione dialettica tutti quanti, a tutti riconosca il proprio spazio e la possibilità di essere raggiunti per interlocuzioni documentate e senza fraintendimenti.

Nel caso concreto, la pubblicazione di cui mi sto occupando – 220 pagine di formato A4 – comprende la ristampa dei primi quindici numeri usciti fra il marzo 1998 ed il gennaio 2000, nell’arco cioè di quasi due anni, quelli che dal secolo vecchio ci hanno portato al nuovo e al nuovo millennio. Introdotto da una nota di Angelo Abis che definisce la rivista come «un antidoto al conformismo» e richiama qualche momento di sana polemica interna suscitata dalla battuta di Gianfranco Fini sull’anacronismo dell’anticomunismo (speculare a quella berlusconiana dell’anacronismo dell’antifascismo), Excalibur in edizione anastatica si mostra nella generosa nudità delle forme dialettiche in cui ha voluto articolarsi fra rubriche fisse, lettere, rassegna stampa, notiziario associativo, editoriali, vignette (del carboniese Demetrio Monagheddu, mano talentuosa e perfetta!), testimonianze ed opinioni…

Figlie di un volontarismo non ancora sostenuto dal consiglio di un grafico – che verrà poi, e abilissimo, a partire dal quinto o sesto numero della serie –, le prime uscite dalla sede redazionale di via Tel Aviv 55, nel moderno quartiere di Genneruxi, anticipano il progetto che andrà via via migliorando. Raccolti e organizzati attorno a Roberto Aledda ma con spiccate partecipazioni individuali, i redattori – tutti militanti del circolo detto “Vico San Lucifero” – Angelo Abis in primis e con lui Efisio Agus e Paolo Camedda, Isabella Luconi, Lino Rascunà e Mario Tanca, con rinforzo presto di Fausto Caboni e Ugo Murino, ed un buon numero di collaboratori in implementazione continua – da Toto Sirigu a Corrado Meloni, da Paolo Cossu e Andrea Curreli, da Giorgio Usai a Paolo Truzzu, da Fabio Meloni a Nicolò Manca ad altri ancora – danno vita, fra 1998 e 1999, ad un collettivo coeso e insieme rispettoso delle proprie varie sensibilità, esito a loro volta di formazioni ed esperienze diversificate. Almeno questa è l’impressione ricavata dalla lettura degli scritti accolti in ogni numero. Ed è cosa, ai miei occhi, in sé molto apprezzabile.

Una redazione e molti collaboratori all’opera

Insistente, nei primi numeri (ma invero, e comprensibilmente, anche nei successivi), l’autointerrogazione: cosa è la destra? Angelo Abis ed Efisio Agus, Corrado Meloni e Isabella Luconi, Gianluca Grosso (dirigente di Alleanza Nazionale) avviano il dibattito. L’edicola e la libreria proposta in ogni numero alla platea dei lettori vuole favorire la conoscenza delle produzioni (sarde e non sarde) della cultura “nazionale”.

Va per pagine tematiche, per il più, Excalibur che sempre meglio struttura la propria foliazione: non mancano i versi poetici (“Addio camicia nera”, “l’Airone”… di Isabella Luconi, “Canzone” o “Il sogno” di Aurelio Atzori), ma poi ecco le pagine dell’economia (Giovanni Depau, Lino Rascunà, Paolo Truzzu intervistatore del professor Pennisi, ecc.), degli esteri (Andrea Curreli con “Non credo in questa Europa”, “Il male americano”…, e Fabio Meloni e Luisella Dentoni…), degli interni (Salvatore Deidda, Giorgio Usai: “Come battere questo regime?”, Nicolò Manca maggiore generale della Riserva, autore anche di servizi e considerazioni però anche sul “Lavoro gratificante per i giovani sardi” o sui “Ministri sinistri tra Pinochet e i disertori”…), della regione (Efisio Agus: “Gli strani numeri già visti della politica regionale sarda”, “Cossiga, Amadu mio…, Mauro Plazza: “Vincitori e vinti”…), della storia (dominus Angelo Abis: “26 Dicembre 1946: nasce il Movimento Sociale Italiano, figlio negletto della Prima Repubblica”… ma anche Isabella Luconi “La Destra nel pensiero antico”, “Luoghi comuni e verità storica: Destra e sinistra nell’Ottocento”…), bioetica (ancora Isabella Luconi, Toto Sirigu…), valori (Fabio Meloni), appunti (Monica Ulleri, Paolo Cossu, Nicolò Montixi, ancora Toto Sirigu con “Integrazione e conflitto” e “Sull’immigrazione”…), cultura e ricerca (ancora Andrea Curreli, Nicola Spanu, Sergio Bacchiddu, Paolo Truzzu con “Kennedy: un falso mito della sinistra”, ma anche Angelo Abis con “Sud-Est la rivista culturale del GUF di Cagliari” e “Antonio Pigliaru trent’anni dopo”…), 360 gradi (Giorgio Usai su “Il Massimo [d’Alema] del cinismo”)…

Ce n’è per tutto e per tutti: dagli editoriali (di Efisio Agus) ai pensieri, idee e ideologie (Guido Buzzati, Corrado Meloni, Guido Garau perfino con un… Giovanni Papini in recupero!), dagli scandali (così il titolo della rubrica! e Giorgio Usai a scriverne su Grauso consigliere regionale e Pili presidente di giunta) all’ambiente (Beppe Careddda con ”Da una emergenza all’altra”), dalla scuola (Simone Spiga: “Fermiamo Berlinguer!”) all’aborto (Angelo Abis con “La legge sull’aborto: un aborto”), dalla società (Salvatore Deidda: “Merlin, una legge da cambiare”, Dario Dessì: “AAA Don Chisciotte cercasi…” [ancora sulla prostituzione pubblica]) e dalla politica missina in AN (Gianluca Grosso, Andrea Curreli…) alle elezioni (Fabio Meloni: “Ritorna di moda il sardo-fascismo?”, “E’ valsa la pena spegnere la fiamma missina?”, Corrado Meloni sulle alleanze possibili della destra…).

Non manca, evidentemente, un focus sulla maledizione delle foibe, riproposto anche con uno speciale (novembre 1998), mentre altri speciali riguardano il futurismo (aprile 1999), la X MAS (maggio 1999), il turno elettorale di stagione (giugno/luglio 1999), ecc.

In più circostanze ora l’Associazione ora la rivista in quanto tale fanno punto: si tratta sempre, per le esperienze ed i loro attori, di volgersi indietro, ogni tanto, e riflettere a mò di consuntivo, per poi proseguire con maggiori consapevolezze e maturità. 

Nell’ottobre 1998 “Vico San Lucifero” ripensa se stessa: «L’Associazione è nata dall’esigenza ideologica di significare con forza il concetto ormai generico e svuotato di contenuti del ruolo della destra in Italia, perché si rafforzi il dibattito al suo interno, perché non si disperdano principi e valori che sono stati il fondamento del suo “sentire comune” e che oggi rischiano di perdersi nel tentativo di alcune forze politiche di non contrapporre più schieramenti ideologicamente distanti, accomunandoli in una generica identità di programmi.

«Non rientra nel nostro programma politico identificarci con un partito perché vogliamo prendere atto delle diverse posizioni culturali che animano e dividono il mondo politico della destra nella consapevolezza che non esiste e non può esistere una sola destra, poiché, se fondamento e fulcro delle teorizzazioni della destra è l’individuo, è naturale che esistano diversi riferimenti culturali, a seconda della sfera di interessi e della posizione che egli occupa nella società. Da ciò l’esistenza delle diverse “anime della destra”, quella sociale, quella nazionale, quella popolare… E affermiamo quindi la loro contemporanea esistenza quali forze complementari e non contrapposte.

«Questo significa che la nostra Associazione non vuole essere espressione di gruppi e linee contrapposte ma sintesi teorica e concettuale che tende ad individuare il “sentire comune” che rappresenta il patrimonio delle nostre radici, compreso il giudizio positivo su alcuni valori propri del Fascismo e della RSI, nell’assoluto rispetto delle posizioni individuali…». E di seguito, qui, le tavole programmatiche: “Il dialogo e il confronto”, “Principi e valori”, “Economia”, “Obiettivi”. Interessante anche e soprattutto, per gli sbocchi operativi, le conclusioni: «L’Associazione richiede a tutti i Soci iscritti ai partiti di centro-destra (AN-FI-CCD e altri) o “nazionalpopolari” (Fiamma-Fronte Nazionale-Forza Nuova) di impegnarsi ad individuare nei propri partiti interlocutori validi – in grado di superare divisioni causate da interessi di gruppo o di “corrente” – disposti a sostenere le iniziative della nostra Associazione…».

Un momento critico

Circa un anno dopo – così è nel numero del novembre 1999 – la redazione dice di sé e della testata: 

«Giornalino che, sin dai suoi primi numeri, non voleva essere e non è pro o contro Alleanza Nazionale, ma vuole essere, forse con un pizzico di presunzione, fucina culturale di idee e contenuti.

«Con questo obiettivo abbiamo sempre accettato e spesso stimolato articoli sui vari argomenti, “senza mai censurare il pensiero di nessuno”, ma chiedendo sempre all’autore che se ne assumesse la responsabilità firmandolo.

«Da queste considerazioni è nato il titolo di questa chiacchierata con i nostri lettori: “una scelta difficile”. La scelta, cioè, di non pubblicare un testo pervenutoci a mezzo fax, dal titolo “La base di Alleanza Nazionale vuole contare”, documento trasmesso anche alla stampa e alle TV locali e genericamente firmato “Presidenti di Circolo, iscritti, elettori, simpatizzanti di Alleanza Nazionale”.

«Scelta difficile, la nostra, perché la non pubblicazione può apparire come una censura, ma non possiamo e non vogliamo essere “strumento” di chiunque, a torto o a ragione ritenga di portare avanti posizioni critiche nei confronti di chicchessia senza assumersi la responsabilità di attestare la paternità con la propria firma.

«Chiarito ciò, e convinti che comunque il documento è il sintomo di un malessere che palesemente si avverte all’interno di Alleanza Nazionale, vorremmo farci promotori, su queste pagine di Excalibur, di un dibattito sulle idee, sulle scelte politiche, sulle battaglie mancate, sugli insuccessi elettorali del partito, ma anche sui successi ottenuti, sulle cose fatte, sulle battaglie vinte. Dibattito sempre e comunque sui contenuti politici e sulle scelte programmatiche e mai sulle persone.

«Invitiamo pertanto chiunque voglia esercitare il suo diritto di parola e o il suo diritto di polemica ad inviarci i suoi scritti, che ogni qualvolta saranno firmati e non degenereranno nella calunnia verranno da noi pubblicati».

Una biblio/emeroteca omnibus

Interrogo me stesso e porto così una testimonianza personale che affido alla ricezione di chi, pur lontano da me, ha fatto con generosità il primo passo. Avvertendo che l’approccio sarà graduale e per via di… libera affabulazione, sì, affabulazione libera e, del pari, sincera. Rispettosa di tutti ma pur sostenuta da un orgoglio dichiarato di parte che è quella pubblica che gode dei padri come Mazzini e Cattaneo, Tuveri e Asproni, e dei fratelli come Goffredo Mameli, Silvio Mastio e Cesare Pintus, la parte che è riscontrabile, ad affacciarci in questo stretto (e malinconico) spazio della cosiddetta “seconda Repubblica” della nostra Italia, in una alta figura come quella di Carlo Azeglio Ciampi, mazziniano e liberal-socialista, fervidamente europeista, radicato in quella sapiente convergenza fra l’ispirazione umanista e la cultura cristiana (e per questo fu un eccellente presidente della Repubblica).




Nella mia biblioteca – che è una buona biblioteca, costruita con fatica (e metodo) in lunghi anni – i libri sulla destra politica nazionale e regionale non mancano, partendo – a voler unificare i filoni – da quel Ritorneremo!Storia e cronaca del fascismo dopo la Resistenza di Pier Giuseppe Murgia, autore multianime presentissimo nella intellettualità italiana fra ricerca storica, telegiornalismo e cinesceneggiature. E adesso limitandomi però ai titoli di più immediato interesse sardo, e senza neppure estraniarne, per le singolari ragioni che non mancheranno di essere colte, Destra-sinistra scelta politica o psicanalitica? di Noemi Sanna, non posso mancare di citare, ritenendoli preziosi perché venuti a coprire un vuoto troppo a lungo protrattosi, Il fascismo clandestino e l’epurazione in Sardegna 1943-1946, Cagliari, GIA, 2003 e L’ultima frontiera dell’onore. I sardi a Salò, Sassari Doramarkus, 2009, con prefazione di Giuseppe Parlato, entrambi di Angelo Abis, un vero e proprio apostolo della sua causa, ricercatore santamente ostinato e scrittore scrupoloso e capace di risultati importanti, direi un vero e proprio pioniere del filone di studi sulla destra sarda novecentesca: Abis studioso impegnato in una raccolta documentaria rilevante e necessaria oltre che, per quanto ne sappia, anche coprotagonista della scena militante. E ancora Le origini della destra in Sardegna. Il partito dell’uomo qualunque (1945-1956), Sassari Doramarkus 2010, con introduzione anche stavolta di Giuseppe Parlato, titolo ristampato e in parte rielaborato o integrato sotto il titolo di Le origini del qualunquismo in Sardegna. Il fronte dell’Uomo Qualunque 1945-1956, Cavinato Editore International 2016, a firma di Giuseppe Serra che trattò l’argomento nella sua tesi di laurea: anch’egli abile e documentato studioso della materia ed anch’egli capace di rendere, con una scrittura sobria ed elegante, gradevole la lettura a chiunque fosse mosso pure soltanto dalla curiosità di conoscere quel primo decennio della storia repubblicana osservandone lo sviluppo nelle ricadute isolane da una finestra di destra. A doppia firma – Serra e Abis cioè – è anche Neofascisti origini del movimento sociale italiano in Sardegna 1943-1949, Macchione 2016, ampiamente recensito o… riraccontato da Sergio Manconi (alias Vittorio Scano) sull’Almanacco di Cagliari del 2017. Si tratta di contributi tutti estremamente validi, preziosi anzi, e ne va data pubblica lode a chi, certamente con fatica, ha raccolto ed ordinato i materiali offrendone poi una lettura originale e coerente, pur non sempre condivisibile. Su questo piano mi pare giusto riconoscere proprio all’Almanacco di Cagliari il merito di essere tornato in argomento in molte occasioni, offrendo ai suoi lettori e collezionisti! una sorprendente messe di inedite informazioni storiche. 

A proposito del MIRS e del professor Romagnino

Mi sia consentita qui una (prima) divagazione. Non mi pare esatta la ricostruzione delle attività o del posizionamento politico del MSIR fra il 1945 e il 1946 come affacciata forse da Manconi/Scano più ancora che da Serra ed Abis: parrebbe infatti che il segretario politico prof. Antonio Romagnino, reduce anche lui dalla prigionia americana di due anni interi, avesse collocato il movimento in un’anticamera ideale del futuro MSI il quale, costituitosi alla fine del 1946, ebbe il favore allora della parte prevalente di quella militanza. Romagnino ed i suoi parteciparono alle elezioni del 2 giugno 1946 nella lista del blocco liberale (Unione Democratica Nazionale), costituito appunto, nell’Isola, dal PLI e da Democrazia del Lavoro – partiti entrambi partecipi fino ad allora o quasi del CLN governativo e delle concentrazioni antifasciste (comunali e provinciali) anche in Sardegna. 

In occasione del centenario della nascita del professor Romagnino – del quale fui amico per lunghi quarant’anni – tenni al liceo Dettori la relazione biografica di base al convegno allora allestito in sua memoria. Da quel testo riprendo il passaggio che dedicai a quella che fu stagione di vita personale insieme sofferta ed esaltante per molti reduci e stagione di vita collettiva di avvio della ricostruzione morale e materiale della patria dopo il martirio della guerra fascista.

Ecco la mia ricostruzione (per il che debbo anche aggiungere che propizi mi furono gli scambi collaborativi che ebbi allora – quattro anni fa – proprio con Giuseppe Serra ed Angelo Abis dei quali subito potei apprezzare ed ammirare la signorilità e, insieme, il rigore dello studio mirato al documento):

… nelle settimane che seguono il rientro in città, il giovane Romagnino si fa, con altri, promotore di una formazione d’opinione ed agitatoria che prenderà il nome di Movimento Indipendente Reduci Sardi. Contemporaneamente si accosta, ancora con alcuni dei suoi sodali, alla testata giornalistica Presente, che è in procinto di uscire, con periodicità settimanale, prima – dal gennaio 1946 – a Sassari da Gallizzi, poi – dal n. 5, nella primavera dello stesso 1946 – a Cagliari, col fine di rappresentare proprio le istanze del Movimento.

Nel novembre 1945 il MIRS diffonde un proprio documento che presenta le istanze ideali dei reduci, insieme con quelle più strettamente afferenti il loro reinserimento sociale e professionale; firmano, con Antonio Romagnino, Armando Congiu ed Italo Mereu – i tre costituiscono il “comitato provvisorio” del movimento, ed il testo esce in Rivoluzione Liberale, periodico liberale fondato da Francesco Cocco Ortu e da lui diretto insieme con Giuseppe Susini, notissimo critico letterario, che lo pubblica nel suo numero dell’11-18 novembre.  Eccone il testo:

«Caro Direttore,

«poiché difficoltà di ordine tecnico ci hanno finora impedito di dire una parola chiarificatrice, attraverso il nostro giornale “Presente”, sul Movimento Indipendente dei Reduci, sicuri dell’ospitalità larga che sempre ha offerto “Rivoluzione Liberale” ci rivolgiamo a Lei perché ci dia la possibilità di esprimere i principali punti programmatici che perseguono i Reduci, associati in questa nuova forma.

«E’ ormai evidente che ogni associazione di ordine legale lascia nell’indifferenza il pubblico tenacemente distratto e gli organi governativi separatamente volti a perseguire differenti scopi politici sulla base degli interessi particolari di partito. E’ così che è sorta la necessità dell’unione di tutti coloro che hanno sacrificato alla Patria, non in contrasto con le associazioni legali esistenti, ma bensì fuori di esse, per consentire una agilità di azione che la burocrazia ufficiale è impedita di avere.

«A fondamento della bontà della causa che noi difendiamo, sta il fatto che analoghi movimenti vanno creandosi e collegandosi in tutta Italia. Noi non siamo contro nessuno, e tale assunto poniamo alla base della nostra agitazione, a cui possono aderire tutti coloro che hanno compiuto il loro dovere, in armi, qualunque sia il loro attuale colore politico; il programma pratico, che verrà enunciato dettagliatamente fra pochi giorni, mostrerà la nostra presa di posizione in vista del prossimo congresso dell’Associazione Nazionale Combattenti. Comunque non è prematuro stabilire che noi perseguiremo due paralleli indirizzi: uno propriamente ideologico, in vista di una onesta rivalutazione di tutte le guerre, ed uno pratico con l’affermazione della necessità di una sistemazione di assoluta precedenza per tutti i Reduci».

Alcune settimane dopo, invece, lo stesso Movimento – e comunque senz’altro Romagnino – parrebbe aver preso atto con sfavore di una virata (sia pure soltanto annunciata) del periodico Presente a pro della causa qualunquista. E’ per tale ragione che, appunto Romagnino insieme con Armando Congiu (che diverrà, anni dopo, esponente del PCI) ma non più con Italo Mereu (giovanissimo giurista che abbraccerà poi anche lui il torchietto dell’Uomo Qualunque), pubblica un comunicato di distanziamento dalla testata prossima ventura. Ecco il brevissimo testo, datato 27 dicembre 1945 a firma di “il comitato organizzatore” del MIRS, consegnato al redattore capo Susini, il quale lo pubblica nel numero del 7 gennaio 1946 di Rivoluzione Liberale:

«Da questo momento il giornale Presente cessa di essere in alcun modo emanazione del Movimento dei Reduci, e pertanto né il dott. Armando Congiu né il dott. Antonio Romagnino fanno parte della redazione e della direzione, e non hanno mai fatto parte dell’amministrazione di tale giornale».

Inizia pressoché allora, direi, la prossimità, che diverrà successivamente collaborazione, di Antonio Romagnino a Rivoluzione Liberale, unitamente ad una militanza nello stile dell’uomo: sulla linea delle idealità e molto attento alle relazioni interpersonali che una vita di partito da se stessa impone: con disponibilità quindi alla partecipazione a tutte quelle incombenze che le regole interne dettavano, così nelle assemblee e nei direttivi come nei cimenti elettorali, col nome sulla lista e con la semina di incontri di propaganda in città e fuori.

Il primo atto di questa prossimità è costituito dalla partecipazione, in quanto rappresentante del Movimento Indipendente Reduci Sardi ed unitamente al generale Giuseppe Musinu (ufficiale della storica Brigata Sassari ed eroe della grande guerra) alla lista dell’Unione Democratica Nazionale che si presenta alle elezioni del 2 giugno 1946 per l’Assemblea Costituente: una lista comprensiva dei liberali del PLI, dei demolaburisti del Partito Democratico del lavoro – anch’esso appartenente all’esarchia ciellenista – e, appunto, del MIRS. In campo nazionale, non in Sardegna, sono altresì aggregati all’Unione anche i movimenti di Francesco Saverio Nitti (cioè l’Unione Nazionale per la Ricostruzione) e di Arturo Labriola (detto Alleanza Democratica della Libertà). Il risultato sarà, nell’Isola, piuttosto buono pur se si mancherà l’elezione del deputato.

E’ anche da dire che nell’aprile 1946 si tenne a Cagliari il congresso del Movimento, essendo assegnato a Antonio Romagnino, in quando segretario, il compito della relazione introduttiva. Fu questo, forse, l’ultimo episodio politicamente significativo del MIRS, come organizzazione autonoma. Ecco qui un passaggio centrale, forse decisivo, della vicenda politica di Antonio Romagnino che orienterà tutta la sua lunga vita e la sua testimonianza pubblica, radicandola in posizioni sempre assolutamente democratiche – perché mentre egli compirà l’esperienza elettorale unionista per la Costituente stabilizzandosi quindi nell’area liberale, gran parte dei suoi sodali, o sodali fino ad allora, come ho detto prima, alla fine dello stesso 1946, daranno fondamento al primo nucleo cagliaritano del Movimento Sociale Italiano, formazione di destra estrema, estranea al patto costituzionale e di derivazione ideale dal fascismo.

La relazione svolta da Romagnino al congresso locale, si direbbe provinciale, dei reduci è riprodotta nel numero unico, e speciale, di Il Reduce: un giornale (purtroppo perduto alle biblioteche pubbliche sarde) che, mentre offre qualche notizia sulla organizzazione del movimento, raccoglie anche diversi contributi di riflessione politica da parte dei suoi maggiori esponenti.

Questo è il testo dell’articolo/relazione di Romagnino segretario del MIRS (nonché direttore responsabile del giornale), titolato “Problema morale”, in cui si rivendica la nobiltà ideale della partecipazione in armi, sia pure stata ad una guerra perduta, da giovani uomini ora quasi vilipesi, come già dopo il conflitto del 1915-18:

«In nessun paese forse come in Italia, quello dei reduci è un problema ricorrente periodicamente. Non che altrove manchino le cause che possono dargli origine, ma il fenomeno non assume quel carattere politico, e vivacemente [?], che suole prendere da noi.

«In paesi  come l’Inghilterra  e l’America gli uomini vanno incontro a quella paurosa necessità che è la guerra, e salvo le reazioni individuali, ritornano quello che erano, senza creare una classe fittizia, che si arma di una comune dolorosa esperienza; in Russia potrà capitare, come recentemente è avvenuto, che solo di riflesso i combattenti diventano una classe politica, come propagandisti di una libertà che sebbene [?] ed oppressa, ha pur sempre sfolgorato dinanzi agli occhi del combattente russo nei campi insanguinati d’occidente. In Italia non è così. Forse che da noi è veramente diffusa, senza possibilità di superamento, la mentalità deteriore del reducismo, che fa della guerra una pedana di lancio per chi ritorna? No certo, almeno potenzialmente. Può affermarsi senza ombra di dubbio che in Italia, come in qualsiasi altro paese del mondo, i reduci hanno ripudiato la concezione falsa che per aver fatto la guerra si acquisiscono dei diritti. In Italia, come altrove, sanamente si pensa che la guerra non è più di ogni altra che una esperienza umana, e come tale si fraziona nei piccoli mondi delle anime di coloro che l’hanno vissuta: una grande tragedia collettiva che tocca pur sempre i lati più umani, se riportata nell’intimità delle coscienze schive di perturbamenti rumorosi. Chi tiene realmente a questa ricchezza umana non potrà mai permettere che essa diventi lo spunto di sonanti proclamazioni. L’anonimo combattente che muore o che ritorna, e che lascia intorno poca traccia di sé e dei suoi anni fangosi, è la più calda espressione della guerra come fatto umano. Un uomo, nella sua completezza di moralità e di costume, questa ritrosia e questo velato pudore a parlare “dei giorni di gloria” se la porterà con sé, come un tesoro geloso, e sarà la sua cosa più bella. E della contemplazione della morte, che fu la sua battaglia, tacerà con lo stesso spirito ritroso che lo fa tacere delle bellezze contemplate nei giorni d’amore.

«In Italia, in cui per la nostra antichissima civiltà potremmo essere uomini completi, purtroppo queste sane concezioni non prevalgono. Sembra che da noi ci sia sempre qualcuno che di proposito si mette a disfare un lavoro ben fatto. Una guerra perduta è un fatto di per sé stesso così eloquente e scottante nella vita di un paese, che niente più di essa riesce a riportare a limiti più realistici le esuberanze esagerate dello spirito nazionale. Ma anche questa lezione rischia di essere perduta da noi. Perché ci sarà sempre qualcuno che si prenderà estrema cura di suscitare reazioni, e sconvolgere posizioni sentimentali, naturalmente avviate all’equilibrio. Così è avvenuto che un uomo politico sardo agli universitari cagliaritani osava dire che gli italiani dovevano essere grati allo stato maggiore, che aveva voluto perdere la guerra. Mentre l’attuale capo del governo più tardi affermava che la sola guerra che conta è quella combattuta dagli italiani dal 1943 al 1945.

«Quando in Italia si fanno affermazioni di questo genere, è giustificato meravigliarsi che la cronaca quotidiana segnali un tumulto di reduci? Quando tutta una generazione di giovani viene svuotata, violentemente con spirito fazioso, del solo contenuto ideale dei loro grigi anni, rappresentato dalla forza che viene dalla coscienza di aver ubbidito al proprio paese, è proprio strano che questi giovani si agitino ed acquistino un colore, che non è nell’ordine naturale delle cose?

«Potranno essere votate le più larghe provvidenze, potranno essere molti e assillanti problemi del lavoro, e questa massa di reduci delusi continuerà a rimanere una forza fredda ed ostile, fino a quando l’Italia non scioglierà un voto di riconoscenza e non risponderà al grido di mille e mille morti che urlano: perché mi hai ucciso?».

Alle elezioni del 2 giugno 1946 l’Unione Democratica Nazionale sfiorò, in Sardegna, il quorum (raccolse 33.336 voti, mentre il quoziente elettorale era fissato a 35.113), ed un ottimo successo personale, quasi pareggiandosi nel numero delle preferenze, raccolsero i due capilista: il liberale Francesco Cocco Ortu (7.856) e il demolaburista Giuseppe Sotgiu (7.756); più distanziati Raffaele Sanna Randaccio (4.541) e Pier Felice Stangoni (3.585), e più ancora, con gli altri, il generale Giuseppe Musinu (1.220). Al giovane Romagnino andarono appena 138 preferenze, ma non fu lui a chiudere la lista.

A preparare la pagina politica della vita di Antonio Romagnino, forse già dai tempi della ospitalità ottenuta dai due comunicati del MIRS fra le colonne di Rivoluzione Liberale, fu la crescente consuetudine con Francesco Cocco Ortu, leader liberale, di appena cinque anni più grande del Nostro.

Il qualunquismo matrice della nuova destra

Sull’Almanacco di Cagliari (edizione 1999), in tutta modestia s’intende, della questione del qualunquismo come movimento di destra in parte anticipatore del MSI negli anni di passaggio dell’Italia dal regime monarchico a quello repubblicano, democratico e costituzionale, mi occupai anch’io molti anni fa, con un articolo che recuperava un po’ di stampa regionale del tempo ricacciata, oltre che nelle emeroteche pubbliche – dalla governativa (universitaria) a quella comunale – anche in qualche archivio privato (es. in quello del sen. Mastino a Nuoro) e combinava elementi di testimonianza, invero talvolta alquanto rimossi, tratti da amici come Walter Angioi, da intellettuali e giuristi di prima grandezza come Italo Mereu e da esponenti politici ora in quiescenza come Efisio Lippi Serra: il titolo fu “Come una meteora: l’Uomo Qualunque in Sardegna, una vicenda politica iniziata alla fine del 1945 e durata circa tre anni”.




Oso estrapolarne alcuni passaggi dalla originale stesura (seconda divagazione): 

«Noi vogliamo un'Italia libera e democratica»: è il fumetto che rende uno spirito beffardo alla vignetta con cui i qualunquisti cagliaritani, ben rappresentati dal settimanale Presente, si affacciano all'agone elettorale per Costituente.

Ad enunciare, alto e solenne, quel proposito è, infatti, nientemeno che Mario Berlinguer, vice alto commissario «per la punizione dei delitti e degli illeciti del fascismo» (nominato dal terzo governo Badoglio dopo la svolta di Salerno). Berlinguer - ed è qui il senso beffardo di cui si diceva - con una mano regge... il cappio per la prossima vittima da impiccare e con l'altra pare stendere la sua voglia giustizialista su un'Italia la cui sagoma è ridisegnata come una penosa successione di patiboli.

Berlinguer, Pintus (detto Alighieri), Titino Melis, ma soprattutto Lussu. Sono i sardo-azionisti (sardisti ed azionisti insieme) i bersagli preferiti dalla polemica dell'Uomo qualunque isolano. Più dei socialisti […] e più dei comunisti o dei democristiani, al massimo raffigurati come ignavi ermafroditi, incapaci di scegliere fra monarchia e repubblica. Loro, i qualunquisti, sono nettamente per Casa Savoia, e non usano molti giri di parole per dichiararlo: «Soltanto un potere legale che sovrasti alla Costituente potrà salvarci da questo pericolo [che il due giugno, cioè, sia l'ultimo atto compiuto in libertà dal popolo italiano]: la Monarchia. Solo essa potrà dare prestigio alle minoranze, potrà proteggerle, potrà impedire ad una maggioranza parlamentare di impadronirsi del paese». Così Presente nel suo editoriale del 26 maggio.

Per il giornale diretto dal giovanissimo Italo Mereu, che riprende la metafora suggerita dal più noto foglio del movimento-partito, il romano L'Uomo qualunque, la repubblica si annuncia come «il 3 gennaio dell'antifascismo» (chiara l'allusione alla nascita del regime vero e proprio, dopo il delitto Matteotti). […]. A puntate pubblica il cosiddetto "memoriale Pili", apparso in volume in quello stesso 1946 col titolo Grande cronaca, minima storia. Palese l'intento: screditare Lussu e con lui gli antifascisti del PSd'A (ribattezzato Partito pecorino sardo in Azione) dimostrando, documenti alla mano, il loro possibilismo, fino all'ultimo, ventitré anni prima, in ordine alla confluenza nel PNF.

Utilizzando lo strumento della satira, dopo gli anni grigi della dittatura e quelli neri o nerissimi della guerra, il giornalismo qualunquista vuole "smontare" (anche a Cagliari) gli uomini del nuovo potere, smitizzare chi l'onda emotiva delle masse ha innalzato, a suo parere, oltre misura.

La caratteristica forse più saliente del qualunquismo è appunto quella di una forza-contro, schieramento dichiaratamente ostile ai vincitori della dura battaglia contro il regime appena crollato. Non tanto però, val bene ripeterlo, contro gli stalinisti organizzati, bensì contro le "mezze ali", elettoralmente più deboli, della rinata democrazia nazionale.

Ma quale è la reale consistenza dei movimento-partito nell'Isola e nel paese, quale la sua cultura di fondo, la sua struttura sul territorio?

Gli anziani ricorderanno il suo boom elettorale di cinquanta e passa anni fa. Il 2 giugno 1946 il Fronte dell'Uomo qualunque raccolse in Italia ben 1.212.000 suffragi, pari al 5,3 per cento dei voti espressi, mandando a Montecitorio 30 deputati costituenti. Uno soltanto di loro - Giuseppe Abozzi - veniva dalla Sardegna, ma va detto che nella regione il consenso alla lista era stato percentualmente più che doppio che nel resto del paese: i voti furono oltre 65.000, pari al 12,4%, appena ottocento di meno (in valore assoluto) di quelli raccolti dal PCI. Insomma, può dirsi che, con i comunisti, i qualunquisti dividevano la seconda posizione fra le forze politiche in quell'anno cruciale: il 14,2 per cento in provincia di Cagliari, il 7,1 in quella di Nuoro, addirittura il 15 in quella di Sassari. Fu la grande prova. La conta si rivelò un imprevisto successo, ed il Fronte poté legittimamente affermare di essere ormai uno dei protagonisti della vita politica del postfascismo.

Nell'Isola la sua presenza era diffusa. A rivelarlo erano già state le amministrative di primavera di quello stesso anno, quando gli eletti assommarono forse ad un centinaio, distribuiti in almeno quaranta comuni pressoché equamente suddivisi fra coalizioni di maggioranza e schieramenti perdenti ma comunque significativi per riscontro di favore popolare. In maggioranza si trovava, per esempio, a Calasetta e Maracalagonis nel Cagliaritano, a San Vero Milis e Borore nell'Oristanese, a Baunei nell'Ogliastra, ad Anela, Benetutti, Bonnanaro, Bono, Bultei, Burgos, Oschiri ed Uri nel Sassarese. Essi si erano presentati al giudizio dell'elettorato in alleanze prevalentemente di centro o centro-destra, quasi sempre con la DC, ma talvolta anche con esponenti sardisti o liberali.

Da segnalare è la partecipazione alla lista allargata anche ai repubblicani ad Alà dei sardi e l'abbinata con i socialisti a Belvì ed addirittura con i comunisti a Barisardo. Tutto sommato più naturale fu l'accordo con i demolaburisti a Castelsardo e la presenza in proprio a Flussio (otto consiglieri eletti contro i sette del Biancofiore)

Curiosa la vicenda di Ussaramanna, nel cuore della Marmilla, dove i qualunquisti vinsero in coalizione con i democristiani ed alcuni indipendenti, avverso i socialisti ed i qualunquisti... dissidenti. Con lista autonoma essi si presentarono fra l'altro, ad Aritzo, Orune ed Alghero, dove raccolse ben 393 voti. A Sassari era stata stipulata un'intesa con i monarchici, e la lista era stata suffragata da 3.172 elettori che espressero sei consiglieri; mentre a Nuoro, sotto le mentite spoglie liberali, i voti erano stati 933 ed i seggi pure sei.

L'iniziatore del qualunquismo a Cagliari, nel settembre 1945, fu Antonio Spanedda, direttore sanitario dell'ospedale civile, carattere austero ed indipendente, anzi controcorrente.

Classe 1907, nato in Piemonte da genitori sardi, nell’Isola aveva studiato e successivamente svolto, per alcuni anni, la professione medica nella condotta di diversi paesi. La sua vocazione, però, era la ricerca e all'università era tornato, assumendo la cattedra di microbiologia. Negli anni della guerra era stato ufficiale medico nella nave-ospedale "Virgilio".

Il ritorno nel capoluogo, dopo il congedo, verso la fine del 1943, lo aveva caricato di un profondo malessere. Questa la sua testimonianza resa a Giuseppe Serra, un giovane algherese che lo ha intervistato per la sua tesi di laurea recentemente discussa presso l'ateneo sassarese: «Non c'era niente di niente: solo fame e miseria. Però c'erano i CLN e i partiti, che stavano nascendo. E tutti ti minacciavano: ti dicevano cosa dovevi fare, come dovevi pensare, non avevano rispetto per chi aveva combattuto per la patria (non per Mussolini) e non ti facevano lavorare in pace. Bisognava rimettere tutto in ordine. Ridiventare uomini normali, onesti, capaci di fare le cose per bene: invece stavano venendo fuori i vantaggi per chi apparteneva a questo o quel partito, o per chi gridava "rivoluzione" a voce più alta».

Ci sarebbero voluti quasi due anni perché quel disagio prendesse la forma della politica, si incanalasse in uno schieramento capace di assemblare umori, sentimenti ed aspettative di coloro che, come disse un altro dei leader qualunquisti sardi, Francesco Sanna Randaccio, «vivono di lavoro assorbiti dalle cure della famiglia, legati alle gioie e ai dolori, della patria, mai organizzati da questo comune amore perché isolati dalla loro tendenza al quieto vivere e spesso dal loro egoismo e dalla loro pavidità».

Il movimento-partito era nato nell'agosto 1945 dall' intuizione di un noto e brillante commediografo originario di Pozzuoli e poi fondatore di quel giornale L'Uomo qualunque che dal dicembre dell'anno precedente usciva nella capitale ed era distribuito in tutt'Italia: Guglielmo Giannini.

La nuova testata (con un ometto, dietro una enorme U rossa, schiacciato da un torchio manovrato da mani anonime, mentre dalle sue tasche scappavano fuori numerose monete) era apparsa press'a poco nei giorni dei passaggio dal primo al secondo governo Bonomi. E il potere dei CLN, con quel tanto di retorica che sembrava talvolta accompagnarli, e di cui la politica epurativa costituiva l'emblematica espressione, era uno dei bersagli preferiti dalla sua polemica.

Per fronteggiare le "trame" social-comuniste ed azioniste, Giannini aveva insistentemente cercato un'alleanza con i liberali, senza mai avere da questi una risposta. Finché nella mezza estate del 1945 s'era deciso a lanciare, un «grido di dolore», com'egli stesso chiamò s'appello al suo pubblico perché si trasformasse in militanza partitica. Scrisse: «Vogliamo vivere in pace e liberamente, nella maggiore e migliore prosperità, amministrati da un governo che ci dia i pubblici servizi necessari, ci faccia ritrovare la voglia di lavorare garantendoci la sicurezza della vita e dei beni... Oggi si possono fare formidabili dimostrazioni di potenza senza uscire di casa: obbedire, disobbedire, boicottare, favorire, senza bisogno di cortei... La nostra forza è dunque smisuratamente grande. Formiamo la vera maggioranza politica italiana».

Iniziò la campagna di raccolta delle adesioni. Fra l'ostilità liberale (trattandosi di un concorrente elettorale) ed il rifiuto sempre ribadito dei "grandi vecchi" (fra essi Benedetto Croce, che sarebbe stato oltraggiato con l'epiteto di «austero ciarlatano», era nato il Fronte dell'Uomo qualunque.

Di quei giorni, particolarmente caldi, fu diretto testimone un giovane sardo che il servizio militare aveva chiamato, negli anni conclusivi della guerra, sul continente: Efisio Lippi Serra, prossimo esponente di punta dei monarchici isolani. Egli è autore e protagonista del bel romanzi Burba che nelle sue prime pagine racconta appunto di quando, con alcuni commilitoni, di incontrare Giannini. Di lui apprezzava «il parlar franco, spregiudicato», la critica del passato fascismo e della guerra avventurosa e dissennata, l'atteggiamento della Repubblica di Salò, ma anche l'opera persecutoria e vendicativa dei governi che erano subentrati alla caduta del Regime Fascista». Apprezzava la condanna dell'assassinio di Mussolini, delle esecuzioni sommarie...

L'incontro era stato esaltante: «Dobbiamo combattere il professionismo politico per puntare ad un rigoroso Stato di diritto. Rifiutiamo governi incapaci, invochiamo lo Stato Amministrativo... Non vogliamo governi clericali, ma capaci di conciliare le esigenze morali della Chiesa con quelle storiche e culturali del mondo laico». Parole di Giannini, che si aggiungevano a quelle che vaticinavano gli stati uniti d'Europa. Subito, il protagonista ne aveva scritto alla madre: «Appena sarò a Cagliari, mi dedicherò con tutto l'entusiasmo necessario alla causa dalla libertà e della democrazia».

Fra i primi ad aderire, in città, è un giovane reduce, neo laureato e procuratore legale che, dalla fine degli anni ’50, avrà un ruolo importante nel Partito liberale: Walter Angioi. L'incontro, cercato, col prof. Spanedda lo spinge ad un'attività di intenso proselitismo e di organizzazione destinata a dare frutti copiosi alle elezioni comunali del marzo 1946. Angioi fonda il nucleo di via San Giovanni e, uno dopo l'altro, in appena tre mesi, ecco sorgerne un'altra ventina in tutta Cagliari. Altri - tutti formati al massimo da cinque persone e talvolta identificabili nell'ambito di una stessa famiglia - nascono in provincia, legati all'iniziativa di personalità di media borghesia professionale, commerciale od artigiana, desiderose di "resistere" ad ogni costo alla sinistra.

Le prime riunioni si svolgono in un clima carbonaro, presso l'ufficio del segretario dell'Associazione proprietari di fabbricati, il colonnello (in pensione) Carlo Nobilioni, in via Torino. Più tardi il numero degli aderenti imporrà di trasferire tutti nel capiente garage di Gesuino Anedda, in via Nuoro. Ma ovunque il chiama-chiama porta frutto: da Pirri a Monserrato, da Quartu a Sestu a Iglesias, ecc. arrivano segnali di interesse al "messaggio" del prof. Spanedda e collaboratori.

Ed è già tempo di congresso, il primo. Il 28 dicembre 1945, alla Camera di Commercio, i delegati dei nuclei provinciali si confrontano cercando, una collocazione nel nuovissimo scenario politico isolano. Viene anche eletta la direzione, con Spanedda segretario ed Angioi vice. […]. Per moltiplicare la semina si decide di promuovere le "sezioni di quartiere", ed ecco così la Marina, Stampace, San Benedetto o Via San Mauro partecipare con deleghe a coordinatori che costituiscono una piramide che finisce, però, per svuotare di effettiva significanza la base.

Concausa ed effetto del boom qualunquista la crescente diffusione del settimanale di Giannini, ricercatissimo anche a Cagliari, dove arrivava in poche copie alla stazione. «Lì si davano convegno i fedelissimi lettori. Il vivace menabò - ricorda Antonio Romagnino, allora collaboratore numero uno di Francesco Cocco Ortu nella redazione di Rivoluzione Liberale - era l'arte del direttore che piaceva per il suo stile scanzonato e riusciva dove nessun altro riusciva: dava voce ai mormorii...». C'era infatti questo parlottare «del tutto spontaneo, anche nelle piazze», soggiunge il professore, da sempre "antipatizzante" del qualunquismo.

Figlio-omologo della testata gianniniana era a Cagliari, s'è ricordato, Presente, un settimanale fondato dal giovanissimo Italo Mereu, già allievo del prof. Giusso all'università (facoltà di Filosofia). Ed esso accompagnò la successione delle campagne elettorali, partendo proprio da quella per le comunali. Intanto però il secondo congresso provinciale, svoltosi presso i cappuccini del viale Fra Ignazio, aveva visto l'affermarsi della linea monarchica Angioni-Sanna Randaccio, su quella "neutrale" di Spanedda. A rafforzare i vincitori concorse anche l'adesione dell'avv. Giovanni Dolia, già segretaria cittadino della DC e capolista qualunquista alle amministrative.

Mentre Giannini, a Roma, marcava l’indirizzo liberista del suo Fronte, stabilendo anche delle intese con altre forze (fra cui il Partito Laburista Italiano e il gruppo che si richiamava ad Arturo Labriola), a Cagliari il qualunquismo conquistava sei seggi in rappresentanza dei 4.676 elettori che in esso si erano identificati. Con Dolia furono eletti Angioi, Nobilioni, Gariel, Loriga e Romby.

Il salto di qualità avveniva proprio allora: aderivano Ettore Cocco, grosso esperto di economia agraria (sarà consultore regionale) e Mauro Angioni, docente universitario ed avvocato, deputato nel 1919 con i combattenti, esponente prima sardista poi fascista, massone "in sonno" e monarchico fiero e ortodosso. I partiti intanto si apprestavano alla seconda competizione che avrebbe deciso il sistema costituzionale del paese. Anche in Sardegna, come in Sicilia e nella penisola, i toni furono accesissimi. La stessa visita del "re di maggio" a Cagliari e in altre città dell'Isola fu giustamente interpretata come aperto appoggio alla scelta monarchica ed al mantenimento del Savoia al Quirinale.

Per la Corona parlò, dai microfoni di radio Sardegna, Salvatore Deledda, che bollò la repubblica come «baraonda e caos, improvvisazione e immaturità politica, violenza e miseria», ecc. Ma per i qualunquisti il vero protagonista di quella campagna fu il "fasciomoro" Mauro Angioni. Egli si divise la piazza col collega oristanese Sanna Randaccio, e la diretta concorrenza portò però alla sconfitta di entrambi e al successo del candidato sassarese Giuseppe Abozzi. Questi avrebbe raccolto oltre 18mila preferenze, quattrocento più del prof. Angioni.

Solo sardo eletto fra quelli del "torchietto", Abozzi si sarebbe schierato, a Montecitorio, contro i governi De Gasperi e fra i più ostili all'ipotesi autonomistica, votando contro il testo di statuto speciale della Sardegna inviato a Roma dalla Consulta regionale. 

A Cagliari i voti qualunquisti furono 14.804 (oltre il 40 per cento di quelli dell'intera provincia che arrivava ad Oristano); la lista fu, in città, la seconda dopo quella scudocrociata. Ma il successo arrise in ogni piazza: 1.046 voti a Carbonia, 1.895 ad Iglesias, 1.516 ad Oristano.

Ma paradossalmente proprio allora per il Fronte qualunquista iniziava il lento declino: la defezione dell'avv. Dolia, i contrasti nella dirigenza (col perenne conflitto fra Spanedda ed Angioni), la concorrenza liberale, ecc. furono alcuni dei fenomeni che portarono alla fase discendente della parabola. E d’altra parte anche a Roma le cose non andavano più bene. Le rivalità e le ambizioni personali - chiaramente denunciate da Giannini - finirono per esasperare i termini della faticosa convivenza di uomini illusi, forse, di poter guidare un fascismo "democratico" che, per loro, ben si attagliava al carattere dell'italiano medio. Una illusione. Il dialogo di Giannini con Togliatti fu la classica goccia che fa traboccare il vaso. La rivolta si alzò al centro come in periferia. Ma intanto i monarchici da una parte, ed i "radicali" neofascisti dall' altra - ché già pensavano alla fondazione del Movimento Sociale Italiano - prendevano la fuga. Fuori dagli equivoci ideologici avrebbero servito meglio la causa.

A Cagliari il qualunquismo "di vertice" confluì a metà fra i liberali di Cocco-Ortu ed a metà fra i democristiani. Altra fu la scelta della maggioranza della base. Si sarebbe già visto alle elezioni del 1948 e poi alle regionali del 1949.

Con un focus nei dintorni della Massoneria

Rileggendo, a più di vent’anni di distanza, quelle mie paginette ritrovo oggi quel tema-forte che affrontai negli studi d’archivio di quegli anni e di tutto l’ultimo decennio del Novecento ma anche di prima: quel benedetto sardoAzionismo avversato dalla sinistra dogmatica stalinista, dal centro clericale e sanfedista, dalla destra chiacchierona e fanfarona. Presente colpiva più il sardoAzionismo che non il comunismo imperialista, Lussu più di Togliatti… Eppure quella categoria in cui parve a me di poter riunire, pur nella complessità delle confluenze e nella fatica della ricerca delle compatibilità possibili, il filone regionalista d’origine sardista con quello progressista liberal-democratico, mostrava come nessun’altra i tratti della modernità, della relazione promettente con il meglio dell’America democratica e dell’Europa atlantica, di qua dalla cortina di ferro pansovietica (che arrivava alla vicina Jugoslavia). In quella categoria sardoAzionista il nostro regionalismo convergeva in un respiro di valori universali, educando la militanza “localista” al sentimento grande e direi… missionario, storicamente missionario, della patria italiana al quale ancorare – dopo gli sconquassi bellici e le demolizioni morali della dittatura – l’interesse materiale isolano. (D’altra parte questo sarebbe stato, pur in un contesto diverso, quindici e vent’anni dopo, il tentativo di coinvolgere il PSd’A nella responsabilità della programmazione nazionale del centro-sinistra, alla quale anche il Piano di Rinascita doveva necessariamente relazionarsi). 

Anche in altre occasioni, magari per sottolinearne l’avversione da un fronte democratico presente nella risorta Massoneria cagliaritana negli anni 1944-1948, potei occuparmi della destra (o della sua versione propriamente qualunquista soprattutto): materia che, per essere portatrice di categorie valoriali lontane dalle mie, dovetti affrontare – lo confesso o lo ripeto – con un misto di difficoltà e di spirito avventuroso perché di inoltro in un campo davvero del tutto estraneo e sconosciuto alle mie esperienze civili e meditative. E comunque, qui miscelando figure massoniche e avventure belliche dalla parte dei repubblichini di Salò, aggiungo che ben volentieri accolsi l’invito amichevole e affettuoso del mio amico Mario Giglio – personalità leader della Libera Muratoria oltre che del sistema bancario isolano, ma ormai nel riposo dei suoi ottanta e più anni (e purtroppo anche nella prigione dei travagli d’una malattia gravemente invalidante) – sono quasi due decenni fa – di recensire (su La Gazzetta del Medio Campidano, e chiesi allora a Gianni Filippini di provvedere su L’Unione, mentre Brigaglia se ne occupò di suo su La Nuova) il memoriale La mia avventura ad Ivrea, che anche di recente ho evocato in vari articoli apparsi nel sito di Giornalia. Sono pagine, quelle di Giglio e quelle mie riferite alla sua opera di rievocazioni giovanili, cui sono particolarmente legato e che, in qualche misura, hanno contribuito a un mio riposizionamento morale verso la destra fascista e, di conseguenza, neofascista.

E nuovamente qui mi concedo un’altra digressione (la terza) che si motiva dal bisogno di entrare sempre più in argomento – la destra e la sua espressione nelle pagine cagliaritane di Excalibur – valendomi di quanto già sperimentato e proposto a un pubblico mirato ed a quello occasionale. E che rivela anche l’approccio critico, severo sui principi e rispettoso sempre delle persone.

Ecco così uno stralcio da quel testo recensivo del memoriale Giglio con il corredo anche di alcuni dei ritratti a matita effettuati da qualche commilitone della RSI ristretto anche lui nelle prigioni partigiane (curiosamente quasi tutti guardano… a sinistra!):

Nel 2003, due anni prima del suo passaggio all’Oriente Eterno, egli riesce a dare alle stampe, per i tipi della Stampacolor di Muros, un libro che raccoglie le sue memorie di giovane ventenne impegnato o impigliato nelle azioni di guerra: La mia avventura ad Ivrea, accompagnata da materiali documentari custoditi per sessant’anni nei cassetti di casa. 

Il Parkinson, privandolo in modo pressoché totale della sua autonomia, della mobilità e della parola, gli ha soltanto concesso la funzionalità, pur parziale e faticosa, di alcune dita con cui scrive, alla tastiera del computer di casa, la storia della sua giovinezza. Ne ha motivo di distrazione, nei lunghi momenti di solitudine e di pensiero amaro.




Rivive, Mario Giglio ormai più che ottuagenario, una fase della sua vita lontana ormai sei decenni. La rivive non soltanto con i ricordi, ma con l’arte infine, delicata, del poeta. Non se lo sarebbe mai immaginato, lui già potentissimo direttore generale della Banca Popolare di Sassari ed esponente leader della Massoneria sarda per un lungo periodo, lui uomo di relazioni nazionali ed internazionali, di poter essere chiamato poeta. Ma a scorrere le pagine memorialistiche del suo libro uscito in autoedizione, anche il titolo encomiastico di poeta appare tutto meritato dal banchiere-Venerabile fattosi cronista di defatiganti marce e di rischiose battaglie, di campi di prigionia e di processi, di vigilie di temute fucilazioni. E infine anche di ritorni: del rientro in Sardegna dopo tutte quelle avventure di sangue e paura, di ardimenti e utopie, vissute o patite in luoghi tanto lontani e diversi da quelli fino allora conosciuti, in diverse regioni del nord Italia ancora sotto giurisdizione del duce di Salò.

Mario Giglio era un giovane di 22 anni quando s’iscrisse nei ranghi della X MAS, che si vantava di non essere organica alla Repubblica Sociale Italiana, dipendente perciò dei burgundi di Berlino fattisi padroni in Italia, ma un “corpo alleato” dell’asse Hitler-Mussolini anni 1943-1945: un corpo alleato «che continuava a combattere per l’onore d’Italia non avendo riconosciuto le clausole dell’armistizio». Questo scrive confermando la passione patriottica della gioventù, e non importa – almeno da questo punto di vista – se il patriottismo fu avvertito e manifestato nei ranghi sbagliati:

«... Dopo una ventina di giorni, ci trasferirono nuovamente. Questa volta a piedi fino a Coltano. Non potrò mai dimenticare quel pretino magro e segaligno che dalla gradinata della sua chiesa, alla periferia di Pisa, urlava improperi contro di noi insultandoci e turpiloquiando. Lo ringraziai, perché i suoi insulti ci inorgoglirono e da quel momento marciammo come ad una esercitazione cantando i nostri inni…

«In campo di concentramento, anche se avviliti per la sconfitta, non venne mai a mancare lo spirito patriottico né quello... goliardico. Fu così che, impadronitici di un certo numero di scatole di cartone e di alcune risme di carta ciclostile oltre che di alcune matite copiative viola... iniziammo a pubblicare un giornale murale... Il Supplemento... Io venni eletto all’unanimità direttore. Vi erano poi redattori specializzati in una attività o in una battuta di spirito... Vi erano i poeti... Vi era uno che sapeva disegnare aeroplani e conosceva tutti i vari tipi di aerei che ci avevano bombardato e mitragliato... C’era un pittore che faceva caricature e ritratti... La lettera che scrissi al mio comandante, intitolata “Ricordo del mio battaglione”, rimase a lungo appesa ai cartoni perché c’era sempre qualcuno che voleva copiarla: anch’io me la copiai su un taccuino che avevo fatto da me... Questo taccuino, su cui invitai diversi redattori a riprodurre in miniature le loro opere, l’ho sempre conservato religiosamente e sempre lo conserverò...».

L’adesione che, negli anni della sua maturità, Giglio esprimerà ai valori del socialismo riformista e la sua fermezza democratica aperta alle istanze dei ceti poveri della nostra comunità non hanno, fortunatamente, operato in chiave censoria rispetto a quelle vicende di cui fu protagonista negli anni della seconda guerra mondiale, quando “naturalmente” si sentì di esprimere l’amor patrio nelle formazioni repubblichine.

E qui non è che c’entri neppure molto il rimando alle correnti del revisionismo storico, che paiono rivalutare la parte sconfitta, quella fascista alleata dei nazisti, rispetto ai meriti dei vincitori: dei resistenti prima ancora che degli alleati liberatori anglo-americani. Perché invece il taglio che l’autore imprime alle sue pagine – una ventina di brevi ed agili capitoli – è quello della testimonianza: forse prima di tutto per se stesso (come se fosse un dovere rimettere ordine nei ricordi d’una età fertile e ancora formativa), poi per gli altri. I quali, attraverso la lettura del suo racconto, potrebbero utilmente accostarsi, con spirito libero e comprensivo, ad esperienze umane che, per essersi compiute dalla parte sbagliata, non necessariamente meritano di essere bollate, inappellabilmente, con una condanna ignara della generosità personale ed ideale di molti protagonisti. 

È quanto lui stesso scrive a conclusione della faticosa ricostruzione di memoria e documentaria: «Questa pubblicazione rappresenta un debito che pago a tutti i morti in grigioverde, indipendentemente dal colore delle mostrine e dei distintivi di parte».

Queste le mie conclusioni a commento del lavoro di quell’ex giovane repubblichino maturato poi alla democrazia e fattosi perfino, lungo molti decenni, militante del riformismo socialista fra Cagliari e Sassari, divenuto inoltre alto dignitario del Rito Scozzese e dell’Ordine massonico operativo in Sardegna – fondatore e Venerabile di logge, presidente circoscrizionale sardo, giudice della Corte centrale ecc. 

E d’altra parte non furono pochi, tanto più negli anni ’50, gli Artieri delle logge sarde, di Cagliari in particolare, che venivano da storie civili di destra, per il più carezzanti i due partiti monarchici. Ciò soprattutto verso la fine del decennio, quando una loggia ex brancacciana si regolarizzò nel Grande Oriente d’Italia. Non che il tronco antico della Libera Muratoria – quella cagliaritana più di quella sassarese o bosana o maddalenina allora in risveglio – fosse del tutto immune, nei suoi uomini, dalle tentazioni destrorse: sono stati pubblicati numerose volte, e io stesso ne ho raccolto le tracce, i nomi dei Fratelli – fior di galantuomini, gentiluomini d’altri tempi! – che alle elezioni ora politiche ora amministrative erano comparsi nelle diverse liste della destra, da Crovato a Mereu Mourin, da Biggio a Guidi a Lonzu addirittura, e poi Caria e i fiumani… 

A Sassari, alla Gio.Maria Angioy si tentò, già dalle prime tornate della primavera 1945, di deliberare un rigoroso discrimine nelle future ammissioni: nessun monarchico (e la centrale di Roma dovette allora non ratificare, ché svariate importanti Comunioni massoniche con cui si voleva far rete erano, nel continente, interne ai regimi monarchici: dal Regno Unito all’Olanda, dal Belgio alla Danimarca alla Scandinavia!). Cagliari visse allora di maggior flessibilità, seppure, va appunto ricordato, la presenza leaderistica di Alberto Silicani, che con il fascismo i conti aveva dovuto pagarli (con diversi altri suoi sodali), operò da freno selettivo, almeno sul piano magisteriale o, se si vuole, della pedagogia civile.

Dal verbale della tornata del 20 settembre 1946 (dunque poche settimane dopo il voto referendario) della loggia Risorgimento traggo queste righe riferite al Ven. Silicani: 

«Sono molto lontani da noi i tempi nei quali tutta l’Italia, giubilante, celebrava con austeri riti il riscatto di Roma e, con la breccia di Porta Pia, il crollo di ogni dispotismo e di ogni teocrazia. Oggi, nessuno ricorda il XX Settembre 1870: mentre, giustamente preoccupati, noi, Liberi Muratori, assistiamo al nauseante spettacolo dei numerosi partiti, segretamente uomini della Chiesa di Roma e non di quella di Roma soltanto, a tutto rinunzino, anche alla dignità, per corteggiare quell’agglomerato di ipocriti clericali che usa chiamarsi “democrazia cristiana”; mentre il liberalismo si appresta a passare a giuste nozze col movimento dell’Uomo Qualunque, sostenitore dei privilegi della Curia romana e della legittimità dei Patti Lateranensi e del Concordato. Triste spettacolo»…

E così dal verbale del 12 dicembre dello stesso anno: 

«Il Ven. intrattiene i Fratelli sulla recente decisione della sottocommissione della Costituente dove appunto si proibiscono le associazioni segrete… Resterà a stabilirsi se la Massoneria sia da considerarsi un’associazione segreta… Il Ven. dà lettura della balaustra del 1°.12.1946 n. 9 che tratta del movimento dell’Uomo Qualunque, che ha dimostrato un importante attaccamento al clericalismo, ed esorta i Fratelli che facciano parte di tale movimento e simpatizzanti ad essere molto cauti e di ponderare attentamente i vari contrasti che potrebbero sorgere tra lo spirito massonico ed il movimento qualunquista. Concede la parola ai Fratelli che avessero da fare qualche obiezioni in merito. Le Colonne tacciono. Mette ai voti. Approvato ad unanimità con alzata di mano».

(Ho riportato, fra i numerosi altri, questi stralci, in Diario di loggia. La Massoneria in Sardegna dalla caduta del fascismo alla nascita dell’Autonomia. Cagliari-Sassari-Bosa-La Maddalena ed in Alberto Silicani, il giusto come fine, entrambi editi nel 2001 dalla sassarese Edes. Gli altri riferimenti agli indirizzi delle logge sarde negli anni ’40 circa il fenomeno del qualunquismo sono nell’altro mio 1946, l’anno della Repubblica. Il dibattito politico in Sardegna alla vigilia della Costituente, Cagliari 1996, Quaderni dell’Associazione Cesare Pintus. Delle militanze e prestazioni elettorali negli anni ’50 pure ho scritto molte volte e per adesso qui basterebbe rimandare agli articoli e saggi brevi apparsi nei siti ora di Fondazione Sardinia ora di Giornalia). 

Nella tradizione liberaldemocratica bacareddiana

Come dovrebbe poter essere dignità e decoro di ciascuno, valorizzo la mia parte: nata insieme patriottica e democratica soltanto che mi ricolleghi alla memoria di Efisio Tola, fucilato trentenne a Chambery con l’accusa d’essere un affiliato alla Giovine Italia, o alla memoria di Goffredo Mameli, sacrificato ventiduenne nella difesa della Repubblica Romana del ’49. Non paragono ovviamente il mio nulla personale a tanto esempio, ma mi cullo in quelle ascendenze – nel novero includo anche quelle liberomuratorie dei Nathan, dei Ferrari e dei Torrigiani (confinato a Lipari per cinque anni, fino a perdere la vista e la vita…) – perché so, bellamente so, che quelle testimonianze esemplari ed apostoliche, nessuna altra corrente di pensiero nell’attuazione civile e politica possa vantarle in Italia se non confondendole con i dottrinarismi variamente illiberali, non importa se di destra o di sinistra.

E lo ripeto, lo ripeto! mentre tengo lo sguardo, di fianco alla tastiera del computer, sul bel quaderno di Excalibur, che parla di altre storie, di storie contro le mie. Naturalmente si tratta, da ogni partecipante al confronto delle idee e degli obiettivi, di conferire in un contenitore trasparente tutto quel che si ha in bisaccia, ed ognuno ha il diritto alla propria identità e al rispetto della propria identità: ma se penso alla destra della storia novecentesca non posso evitare il fascismo dittatoriale che ha costretto in galera Cesare Pintus 29enne avvocato cagliaritano e mazziniano regalandogli la tubercolosi e la morte prematura; non posso evitare il fascismo delle leggi razziali e dell’alleanza con il nazionalsocialismo tedesco (con tutte le sue aberrazioni); non posso evitare il fascismo violento delle origini e guerrafondaio durante e infine di corso, anche con il consenso, il largo consenso popolare che pur andrebbe analizzato e che non giustifica: ché da uomo di minoranza, e anzi di minoranza estrema, non potrei mai giustificare l’ingiustizia con il consenso all’ingiustizia: per dirla con una metafora forte, non giustificherei il Calvario con le voci colpevoliste del popolo di Barabba, e faticherei troppo a salottare con chi non avesse una pari nettezza valoriale.

Pintus – gli ho dedicato vari libri tanto nella collana dei “documenti e testimonianze” sul sardoAzionismo quanto in quella della Biblioteca del sardoAzionismo - fu il sindaco della ricostruzione per diciotto mesi fra l’ottobre 1944 ed il marzo 1946: ricevette il testimone da Gavino Dessì Deliperi – anche lui di nomina prefettizia su indicazione della concentrazione antifascista – e lo cedette poi a Luigi Crespellani chiamato a tanto dal voto che segnò, in chiave amministrativa, il ritorno alla libera rappresentanza dopo ventisei anni di astinenza. Era stato nell’autunno 1920 che Ottone Bacaredda aveva ripreso quella leadership municipale che il consenso di mille cagliaritani – nel tempo del suffragio selettivo e solo maschile – gli aveva attribuito. Era stato sindaco dalla fine del 1889 e fino al 1900, e poi nuovamente – ma senza aver mai abbandonato la giunta (affidata a Picinelli come poi a Marcello e Nobilioni) – nel 1905 e fino al 1907, nel travaglio ancora dei moti contro il carovita e la modernità, e di nuovo dal 1911 al 1917. All’inizio di quella stagione – era novembre – aveva prospettato quel passaggio dal suo tradizionale liberalismo organizzatore alla democrazia. Pronunciò un discorso di altissimo livello etico-civile e politico. E se penso che, cento anni dopo, chi ricopre lo stesso ufficio, al di là di ogni qualità personale s’intende, sia un erede ideale non di quella liberaldemocrazia ma del sovranismo parapostfascista sono preso dallo sconforto… direi dall’agghiaccio. Ma il gioco elettorale, che è parte non prescindibile della democrazia rappresentativa, è questo ed è giusto che così accada e s’accetti. 




Lo rileggo ora e con gusto quel discorso di Bacaredda sindaco, ma l’ho pubblicato più volte – anche di recente sulle pagine di Giornalia e di Della Cagliari en marche di Ottone Bacaredda e dei cagliaritani nelle imprese e nel dibattito civico: s‘affaccia un nuovo giornale e s’alza un nuovo municipio, il progresso nell’ordinario quotidiano, la guerra sognata, ma ho iniziato nel 1988 con L’Edera sui bastioni. I repubblicani a Cagliari nell’età di Bacaredda. Mi pare giusto richiamarne alcuni passi, soprattutto per dire che, volgendomi ad osservare natura e produzioni della destra novecentesca nazionalista e corporativa (e oggi sovranista e governativa), al sardoAzionismo della maturità certo non posso fare estranea la liberaldemocrazia, e la democrazia, come già centodieci anni fa nella nostra amata Cagliari essa andava idealmente germinando nello spirito pubblico e nella sensibilità di certa classe dirigente, e come poi accompagnò lo spirito interventista dei cagliaritani chiamati alla grande guerra: 

«Il fermento tenace e irresistibile del principio democratico opera in ogni sfera dell'attività umana: esso va trasformando il contenuto del diritto privato e apre sempre nuovi orizzonti agli atteggiamenti del diritto pubblico; esso solleva gli umili e abbassa i potenti; esso è il grande moderatore delle umane cupidigie, il grande mitigatore delle ingiustizie sociali.

«Se la libertà non è più un monopolio, né l'uguaglianza davanti alla legge una formula astratta, se la cultura è più accessibile, l'istruzione più diffusa, il lavoro più umano, se la ricchezza si va facendo meno egoista, meno feroce la giustizia, meno crudele la guerra, più miti i costumi, più cordiali i rapporti, più tolleranti le opinioni: tutto ciò è opera della Democrazia. A buon diritto il Tocqueville la disse "un fatto provvidenziale" [...].

«Essa, nella sua incessante evoluzione, persegue quell'ideale altissimo che infatuò la mente più eclettica e comprensiva dell'antichità, quell'ideale che al filosofo di Stagira piaceva riporre nella pace sociale, risultato dell'affratellamento di tutte le classi, egualmente protette ed egualmente interessate al bene della comunità.

«Come nel piccolo consorzio domestico la discrepanza delle idee, il contrasto dei temperamenti, le manifestazioni autarchiche delle energie individuali non ne alterano il ritmo del processo quotidiano, ma trovano un punto di contatto, un termine di conciliazione in quel vincolo spirituale che pure non astrae da un comune interesse materiale, così in una più grande famiglia, in questo consorzio etnico che si chiama Città, nessuna opinione, nessuna attività, nessun interesse per quanto antinomici, per quanto fatalmente cozzanti fra loro possono far sì che i rapporti necessari e inevitabili non siano alimentati e addolciti e, in ogni caso, resi meno aspri da quello spirito di tolleranza che, direi, è il profumo di libertà, da quella serena visione del bene collettivo che è il "diapason" regolare di ogni compagine civile.

«Nessuna amministrazione democratica potrebbe oggi farsi bella di tale appellativo, se nella sua bandiera non portasse il motto: giustizia e libertà per tutti; se, trincerandosi in un programma particolarista e unilaterale mirasse a perseguire interessi esclusivi di classe, di parte o di consorteria.

«Democratici, dunque, ma nel senso più moderno e più eletto della parola; democratici, cioè devoti al nostro colore [...] ma non Insofferenti che altri abbia sposato una fede diversa; non chiusi in un ferreo cerchio di anacronistica intransigenza, non armati di intolleranza aggressiva; democratici senza idoli da adorare, senza vittime da sacrificare [...]. Fu detto, una volta, del programma di un uomo politico che doveva definirsi l'attaccapanni al quale ciascuno, da qualunque parte venuto, poteva appendere il proprio cappello. Che se questo attaccapanni si volesse, per celia, assomigliare anche al Municipio, come noi lo concepiamo, sol perché, non diventando un pulpito o una tribuna, stende le sue braccia a tutela di ogni legittimo interesse e rimane il terreno neutro dove ogni giusto diritto trova la sua giusta protezione; ebbene diremo un'eresia, sia pure l'attaccapanni. 

«Questa umile suppellettile domestica non disdegnerà di prestarsi ai fini di un alto interesse sociale, in quella conciliazione degli animi nella quale solo è riposta la fortuna della Città».

I destri (Tredici ed Endrich) nei miei spazi liberal-azionisti… 

Dopo Bacaredda e Dessì Deliperi, che pure qualche indulgenza di troppo ebbe verso Mussolini in visita a Cagliari nel 1923 – ne scrissi una cronaca su La Nuova ormai quasi cinquant’anni fa! –, venne Vittorio Tredici fasciomoro. Due decenni dopo il regime podestarile e i vari commissariati prefettizi tornarono Dessì Deliperi e poco dopo Cesare Pintus, e dopo ancora Crespellani e tanti altri, l’ho già detto, fino a Truzzu, esponente – a cercare le parentele ideali – della vocazione Tredici, non certo di quella bacareddiana o dessiana ecc., tanto meno di quella di Pintus (sindaco – va nuovamente ricordato – storpiato nei polmoni e nei piedi dalla detenzione fascista durata quasi duemila giorni, cui s’aggiunse l’esclusione dall’albo professionale per ben quattordici anni!)… 

Ripensando ai miei padri e fratelli offesi nella storia cagliaritana di quasi un secolo fa mi pare giusto andare all’erma di Giordano Bruno rimossa nel 1926 dal neopodestà (e già commissario prefettizio) Vittorio Tredici. Vi fu allora l’equivoco o l’imbroglio della “sostituzione” di quel monumento con il nuovo dedicato a San Francesco d’Assisi nel settimo centenario della morte e prossimo patrono d’Italia, e per questo i cattolici residuali del Partito Popolare (che ancora ignoravano dell’imminente soppressione del loro partito e del promesso incendio della loro tipografia di via Cima) sottoscrissero con molte firme un appello insieme con i fascisti cagliaritani, quasi in un abbraccio ideale per i più alti valori della fede ad un tempo cattolica e nazionale. Ma anche quando San Francesco lo si sistemò giù della cattedrale, in piazzetta Carlo Alberto, frate Giordano fu rimosso egualmente, lui e la sua storia di filosofo “dei mondi infiniti” e anche la sua storia di carne per il fuoco dell’Inquisizione. Si sa, il monumento rimase chiuso in un sacco per un anno e qualcosa, poi fu liberato e sistemato in un nicchione dell’atrio universitario per migrare nel 1946 con la facoltà di Lettere nel palazzo già gesuitico dei Nobili in via Corte d’Appello (e dal 1960 a Sa Duchessa). 

Ho vissuto intimamente, da cagliaritano di… pensiero libero se non di libero pensiero (ma la libertà è sempre una ambizione e una conquista!), questi travagli, dedicando ad essi un libro di molte pagine – Dei circoli anticlericali e del monumento a Giordano Bruno, Cagliari 2004, che presentai nel salone di Sant’Eulalia! allora con don Mario Cugusi parroco – e nel 2013 un video, con conferenza e mostra di caricature storiche, a palazzo Sanjust, giusto nel centenario dello scoprimento del busto allora in piazzetta Mazzini. Tutto nel nome dell’anticonformismo e della riparazione.




Trent’anni fa, forse quaranta, incontrai l’avv. Enrico Endrich nel suo studio e con lui ebbi anche breve corrispondenza. Mi interessava la sua testimonianza su diverse personalità del nostro mondo sardo sui quali avevo indirizzato uno speciale interesse biografico. Egli fu, e certamente non ne dubitavo, cortese e rispondente. Sono stato sempre attento alla complessità – la aggettiverei così – della sua formazione ed evoluzione (o involuzione) politica. Figlio di Ferdinando – uno dei tanti che cercavo di biografare e che avevo trovato fra gli iscritti alla sezione repubblicana di Cagliari dei primissimi anni ’10, insieme con uomini del livello di Armando Businco (tanti anni dopo imbarcato su un treno per i campi tedeschi e fortunatamente liberato dai partigiani!) – ho naturalmente letto (e ne conservo anzi più copie) il suo Cinquant’anni dopo, che ho trovato di certo interessante per tanti aspetti minori, e che ho annotato aggiungendolo a corredo delle schede di questo o quel lavoro, ma purtroppo reticente sul di più. E sì che da un uomo di tanta responsabilità nell’amministrazione come nella politica – federale e poi prefetto – avrei gradito, e anzi prima di tutto mi sarei atteso, una qualche riflessione critica e autocritica, ma niente su questo piano ho trovato. Né ho trovato nulla di una sua presa di posizione pubblica (o magari almeno privata) circa le leggi razziali del 1938 (sugli esiti delle quali qualche riconosciuta benemerenza ebbe invece il Tredici, tanto da essere annoverato fra i “giusti di Israele”).

… aggiungendoci Gino Anchisi

Mi sono occupato abbastanza delle vicende – che andavano in parallelo (direi… vizioso) a quelle eroiche (galeotte) di Cesare Pintus – di un sodale di gioventù, compagno dettorino ed a Giurisprudenza di Pintus e compagno di fede anche di Silvio Mastio: mi riferisco a Luigi (Gino) Anchisi, che nel 1923-24 fece anche lui il “salto”, dalle sponde democratiche e perfino mazziniane a quelle fasciste. Me ne sono occupato cercando di ricostruire la sua vicenda professionale carezzata dal regime di dittatura e, prima, nel giornalismo, sia ne L’Unione Sarda che ne il Lunedì de L’Unione. Ne ho passato di recente una scheda anche all’amico Carlo Figari per il suo sito tematico circa la storia del giornalismo sardo. E’ stata una ricerca non semplice – per la quale anche bussai alla porta di una studiosa di vaglia, lontana nipote di Gino, Alessia Anchisi, autrice di un bel saggio su “Le leggi razziali attraverso la stampa sarda”, uscito in Orientamenti Sociali Sardi, rivista quadrimestrale di ispirazione cattolica e promossa dall’associazione “Istituzioni e Società” condiretta da Giuseppe Leone ed Alberto Lecis (cf. n. 2 del maggio-agosto 1998).

La figura di Anchisi mi impose una cautela razionale o dilla temperata nella lettura delle “coerenze” o “incoerenze” dei percorsi ideali e civili dei singoli che, in fasi cruciali della loro vita (metti l’esordio professionale), dovettero entrare negli scenari “confusi” degli anni bellici e postbellici (1918-1924 press’a poco) e subito dopo in quelli invece “strutturati” od “iperstrutturati” per non dire irreggimentati della dittatura. Non insisto su questo, ma chiaramente l’esperienza di vita di Anchisi, anche e soprattutto professionale chiaramente esposta a condizionamenti neutri d’opportunità o vieti d’opportunismo, credo sia…paradigmatica e valida o riscontrabile in altre migliaia. Per cui, giudice sentenzioso, il sentimento mi porterebbe a liquidarla con severità, mentre la ragione avverto mi consigli un trattamento paziente di scandaglio in quel chiaroscuro che è della nostra natura umana oltreché delle condizioni storiche o ambientali in cui la nostra vicenda si dipana. (D’altra parte un pari approccio… attendista e duttile sto cercando di praticarlo nelle biografie di numerosi massoni locali dei quali pure sono impegnato a ricostruire i passaggi di esperienza pubblica). 

Ma per chiudere con Anchisi ed offrire ai gentili redattori di Excalibur un contributo alle loro evidenze di studio, vorrei qui adesso – con qualche taglio e in una forma forse precaria, come di appunti – rilanciare quanto riordinato dei materiali censiti (per futuri aggiustamenti e magari, un giorno, anche pubblicazione), intanto però subito rilevando – a dispetto di chi, da destra, lamenta o lamentava ingiuste sciabolate giustizialiste nel dopoguerra – che un articolo a firma del Nostro (che pur tanto aveva firmato negli anni in cui il giornale non aveva, né poteva avere, concorrenti o avversari dialettici) uscì su L’Unione Sarda del 7 dicembre 1949, così come – sempre in prima pagina – il quotidiano riferì di una carriera che non cessava di conquistare livelli. Titolo dell’editoriale: “La questione del grano”. Da alcuni mesi (da agosto precisamente) nella Coldiretti a presidenza Bonomi, costituitasi, lui compartecipante, nel 1945, Anchisi ricopriva la carica di segretario generale, a tanto nominato ad unanimità dalla giunta esecutiva della confederazione che aveva appena proceduto alla riforma degli uffici e dei servizi. Non mancarono allora gli auguri redazionali – posso immaginare di Antonio Bellero e/o Franco Porru – al «nostro amico e valoroso concittadino» (cf. L’Unione del 6 agosto 1949). D’altra parte si consideri che uomini come Vitale Cao, già direttore de L’Unione Sarda – effettivo per Rafaele Contu – negli anni della dittatura, continuò ad essere il corrispondente del giornale da Roma, per la politica interna, fino alla morte (intervenuta nel 1958). E che fra gli editori del giornale, Baccio Sorcinelli era, fra il 1956 ed il 1960, consigliere comunale del capoluogo in forza al MSI.

Lasciata la redazione de L’Unione Sarda nel 1932, esperienza contemperata con quella professionale della Camera di Commercio, egli collaborò per alcuni anni con l’amministrazione del podestà di Cagliari avv. Endrich: in particolare dal 1932 e per un biennio circa diresse i servizi annonari del Comune e il mercato civico; non ho esplorato, ma riterrei che poi si sia trasferito in continente proprio nel 1934, per assumere l’incarico di caposervizio alla Confederazione degli agricoltori o Confederazione nazionale fascista dell’agricoltura (una corporazione d’interessi assolutamente d’eccellenza, nel senso del “peso politico”, negli anni del regime). Se la sua carriera corse allora e dopo lontano dalla sua isola, un breve ritorno sardo si ebbe all’esordio dell’istituto altocommissariale affidato al gen. Pinna Parpaglia nel 1944 (fu consulente per la materia agricola); dal 1945, come detto, lavorò alla Coltivatori, così fino al 1962. Nel 1965 fu direttore dell’ente UMA (Utenti Macchine Agricole). In costanza dell’incarico alla Coldiretti, e più precisamente nella seconda metà degli anni ’50, fu membro del comitato economico-sociale (settore Agricoltura) della CEE, divenendo successivamente (1964-1966) presidente della commissione permanente. Addirittura fece parte, in rappresentanza della categoria “lavoratori autonomi” e per designazione della Coldiretti, del CNEL, organo costituzionale: ciò fu per le prime tre consiliature, a partire dal 1958 e fino al 1977 (fu il tempo delle presidenze Campilli, dopo quella insediativa nientemeno che di Meuccio Ruini! e fra i suoi colleghi consiglieri furono uomini come Eugenio Cefis, Beniamino Andreatta, ecc.).

In agenda, per quando ne avrò tempo, ci sarebbe da spogliare alcune riviste che fra anni ’30 e anni ’50 soprattutto, trattarono di agricoltura e che per certo conterranno contributi di competenza di Anchisi. Citerei in particolare L’Informatore di Sardegna (1932), La Sardegna Agricola (dal 1923 al 1936), Il coltivatore (dal 1945), Il coltivatore di Sardegna (dal 1953), Il coltivatore diretto (dal 1955), tutte testate reperibili fra la Biblioteca universitaria di Cagliari, quella di Studi Sardi (Comunale), e quella della Camera di Commercio. Aggiungerei il volume (del 1959) Appunti sulle lezioni tenute presso la Scuola di meccanica agraria di Roma (a cura di Carlo Splendore, disponibile alla “Satta” di Nuoro). Dell’UMA, dei suoi convegni, lezioni e notiziari, esistono poi numerose pubblicazioni, e anche lì di Anchisi dovrebbero potersi rintracciare varie note.

E’ interessante sotto molti aspetti la vicenda umana, privata e pubblica, politica e professionale di Luigi (Gino) Anchisi: perché, a vederla sullo scenario della grande storia nazionale e sulla più intima scena cagliaritana, associa fra loro molti filoni d’interesse che meriterebbero d’esser scandagliati: c’è la formazione di una intera generazione fra grande guerra e fascismo, c’è il fascino combattivo (o chiamalo dialettico) della minoranza estrema dei repubblicani in una città e in una nazione abbondantemente monarchiche (sicché l’opposizione politica è opposizione al sistema! e la rivendicazione di una costituente ha sapore rivoluzionario), c’è la conversione – per taluno opportunistica per altri dei paradigmi civili e anche ideali – dalla democrazia alla dittatura, c’è la storia e la funzione della stampa e in specie de L’Unione Sarda sorcinelliana e poi fasciomora nelle dinamiche cittadine o regionali, ma così anche delle testate minori di tenace fedeltà risorgimentale, c’è la prepotenza corporativa in capo al Consiglio provinciale dell’economia e, in questo, la profilazione delle figure categoriali su cui fondare gli intrecci di produzione e lavoro nel ventennio, ecc. C’è anche il perdono democratico (e cattocomunista) post-1945 a molti esponenti del regime che era stato totalitario. 

Il "mio" Gino Anchisi Riva era un cagliaritano del quartiere di Stampace classe 1902 (18 ottobre); dettorino così come i suoi “gemelli” Cesare Pintus e Silvio Mastio visse tutte le vicende del ginnasio e del liceo negli anni che furono quelli della grande guerra: fra tanta dottrina portata dal corpo docente dell’epoca imperava allora il magistero italianista di Liborio Azzolina, cui nel 1913 fu commesso il compito di celebrare la collocazione del busto di Dante Alighieri all’ingresso dell’ex collegio gesuitico, che di recente aveva conosciuto un certo restyling con l’ammodernamento degli arredi e soprattutto la sopraelevazione del terzo piano per approntarvi nuove aule ed i gabinetti di storia naturale e fisica. Quando proprio in quest’ultimo – si era nel febbraio 1916 – il giovanissimo professor Guido Algranati, disperato per non saper governare l’indisciplina dei suoi, si diede la morte. Tutti ne furono coinvolti. 

Frequentò, Anchisi, il corso liceale cosiddetto “moderno”, affiancato a quello classico: così anche Mastio, con lui in classe. Si maturò nel 1920. Le statistiche curate e riviste poi dal prof. Danilo Murgia quantificarono in circa 500 gli iscritti allora. Gli stessi numeri valevano a Giurisprudenza, quando vi arrivò Luigi Anchisi: 20-25 le matricole ogni anno. Era magnifico rettore, allora, il prof. Roberto Binaghi e il prof. Francesco Atzeri Vacca il preside ff. di facoltà (sostituto del prof. Giuseppe Borgna, che tanta parte aveva avuto nelle vicende amministrative del Comune in età bacareddiana). Lo stesso Bacaredda, sino alla fine (come straordinario stabilizzato), partecipava al corpo docente che comprendeva fra gli altri venti, uomini come Alessandro Levi, Umberto Cao, Luigi Camboni, Antonio Campus Serra, Enrico Carboni Boy, Mauro Angioni, Marcello Vinelli… insomma, personalità note nell’accademia nazionale e personalità di spicco nella politica cittadina e regionale, compresi i parlamentari, compreso anche quel primo direttore de L’Unione Sarda (Vinelli che esordì direttore a 23 anni, succedendo ad Andrea Cao Cugia che nel 1889 aveva impiantato il quotidiano in via Cima).

Si laureò nel 1926 e tre anni dopo sposò nella cattedrale di Ozieri, celebrante il vicario generale mgr. Camboni, la più giovane Angela Fois Farina. Il Lunedì dell’Unione segnalò l’evento con un corsivo in prima pagina dal titolo “Nella nostra famiglia”, omaggio speciale al collega cofondatore del settimanale. Questo il testo: 

«Gino Anchisi, che a questo giornale dedica la sua assidua fatica e il suo brillante ingegno e ne è il più operoso artefice, si concede in questi giorni una meritata sosta al suo lavoro: breve periodo di sosta da dedicare più completamente alla tenerezza degli affetti famigliari per riprendere poi il suo curriculum di paterfamilias e di instancabile, impenitente, finissimo scrittore, ricco di arguzia e tenace di propositi». [omissis]

Quando si fa, con Giuseppe Pazzaglia, promotore e anima de il Lunedì dell’Unione – così la testata con le maiuscole e le minuscole – Anchisi è collaboratore de L’Unione Sarda da più d’un anno circa e continuerà ad esserlo per altri quattro o cinque anni.

Dal 1927 (31 dicembre) al 1933 (12 novembre) firma qualcosa come 35-40 articoli, ed è da pensare che in chissà quanti altri abbia messo mano. Ma una anticipazione della sua collaborazione al giornale data da diversi anni prima, dacché ventunenne frequentava le lezioni all’università: consegnò allora al giornale una nota polemica contro le osservazioni a lui rivolte da tale Pietro Mureddu Caboni (un funzionario del catasto interessato alla storia e autore di qualche scritto sul passaggio delle terre ai contadini) per un articolo che aveva pubblicato sulla pagina sarda de Il Giornale d’Italia a proposito della tentata invasione francese in Sardegna (“La invasione francese del 1793”, L’Unione Sarda 29 aprile 1923). 

La tesi del giovane Anchisi è che la risposta armata dei sardi al tentativo di sbarco delle truppe rivoluzionarie fu un errore, così come fu un errore – secondo anche altro autorevole studioso (come il Musio) – essersi negati, nel 711, alla… arabizzazione, se si dovesse considerare quel che d’arte e scienza gli arabi fecero in Sicilia! Entrò allora in gioco – dico in questa polemica fra il Mureddu e il giovane Anchisi – anche la patente di “patriottismo”, dal primo negata al secondo. Il quale però concludeva: «Francia, Spagna, Austria e Piemonte significavano, nel 1793, per la Sardegna precisamente una stessa cosa: un padrone. Non parliamo di antipatriottismo. Si è fatto troppo abuso di questa parola: si è creato quasi un monopolio dell’amor patrio, da un po’ di tempo a questa parte. Parlare di patria nel senso attuale della parola, nel 1793 è un pochino ridicolo: parlare di Patria italiana è più ridicolo ancora». Il che, considerando la militanza politica mazziniana del giovane Anchisi, e per altri versi la sua conversione fascista successiva, appare alquanto curioso e sorprendente. Perché si tratta di fondamentali. 

Sarebbe interessante, a questo punto, esplorare quanto quei fondamentali – mi riferisco a quelli della democrazia repubblicana – furono veramente penetrati dal giovane militante. Nel mio L’Edera sui bastioni, che è ormai di più di trent’anni fa, più volte menzionai la partecipazione di Anchisi alle attività di partito nei primi anni ’20: nel settembre 1920 – egli era allora matricola universitaria, 18enne appena – si svolse ad Oristano una riunione dei militanti, promossa dai cagliaritani, in vista di darsi una organizzazione regionale. Incombeva allora il mito fiumano di Gabriele d’Annunzio. Anchisi, segretario della assemblea e relatore, sostiene la linea nazionale del PRI e si dice soddisfatto delle attenzioni riservate alla rete organizzativa sarda.

Un anno dopo, quando si va al voto per il rinnovo parlamentare (e i repubblicani sono a sostegno dei Quattro Mori sardisti in cui hanno candidato il loro Agostino Senes), una polemica oppone Anchisi ad un suo coetaneo, Renato Melis De Villa (destinato a importanti gerarchie fasciste nel Governatorato di Roma) reo di aver dileggiato l’edera mazziniana: «Un altro vegetale ha relativamente prosperato nell’invasione di male erbacce del dopo guerra: la muffa repubblicana».

La sua risposta su L’Unione Sarda del 14 maggio 1921 è pepata: «Non si giudicano le dottrine di un partito solo dopo aver letto un opuscolo di propaganda dedicato agli operai e ai contadini: prima di criticare questo o quell’altro partito occorre aver studiato sui testi di coloro che ne gettaron le basi». E poi ancora: «Il PRI non se la barcamena rubacchiando qua e là da ogni piccolo programma-discorso che ogni smanioso candidato alle elezioni si fa un dovere di esprimere dal giovine capo ambizioso di rimedi e di pannicelli caldi. Il programma del PRI ha quasi un secolo di vita, ed è sorto tra le congiure e le battaglie di coloro che vollero ridare e ridiedero l’Italia all’Italia». (La lettera a L’Unione uscirà, in pari data, su Il Popolo Sardo). La sezione repubblicana di Cagliari – ancora da individuarsi nel Circolo Giovanile, s’intitola, in quel 1921, a Giuseppe Mazzini ed Anchisi con Nigiotti e Sardi è tra i più attivi con Silvio Mastio che sempre più si segnala come la personalità leader. Saranno poi Anacleto Mereu (fratello di Attilio, medaglia d’oro al valor militare) e Cesare Pintus ad assumere la segreteria della sezione.

E’ di questi anni una partecipazione insieme politica e giornalistica di Gino Anchisi a Il Popolo di Sardegna, nuovo organo di stampa dei repubblicani che si stampa a Sassari. Il 10 settembre pubblica un articolo dal titolo “In cerca d’una Vandea” e la conclusione alata di «Viva la Repubblica!», l’8 ottobre un altro titolato “Fascismo d’oggi”, il 25 marzo 1922 – con riferimento al patto di pacificazione fra fascisti e socialisti siglato alla Camera nell’estate precedente – “La pace” («La pace è dunque finalmente conclusa. De Nicola ha fatto quello cui Bonomi, ex compagno ed ex organizzatore dei fascisti, non è riuscito… Episodi di teppismo e di viltà, di sangue, di barbarie erano la cronaca di ogni giorno. Tutta la storia del dopoguerra può riassumersi in pochi nomi: Bologna, Viterbo, Treviso, Saronno, Roccastrada… Anche i comunisti devono capire che ogni impuntarsi a proseguire la guerra civile non significa combattere contro la borghesia, ma consolidare con la violenza le basi della borghesia. La società, dice il Bastiat, non è che l’insieme delle solidarietà che si incrociano: ove manca la solidarietà non può esistere la società… Lavoro, lavoro, lavoro! Noi che irrisi, disconosciuti, incompresi e vilipesi non prendemmo parte alla lotta fratricida perché lontani da tutte le aberrazioni inconsulte e da tutte le manifestazioni di violenza ripigliamo quel grido ma ne aggiungiamo un altro: Pace, pace, pace! Solo nella pace e nel lavoro bisogna cercare la via d’uscita alla crisi che sconvolge il mondo. E la si troverà».

Del 1958 ho una corrispondenza che lo dà visitatore del castello dell'Aquila. Una nota del compianto sen. Endrich, che lo ricorda bene essendo anche suo coetaneo (e credo amico personale), lo segnala come simpatizzante di un'area politica progressista nel secondo dopoguerra.

Aggiungo e concludo con un appunto… di diario personale (e dunque di tratto confidenziale). 




La figura di Luigi Anchisi – del quale ho riprodotto credo tutti gli articoli firmati (sovente con diminutivo di Gino) su L’Unione Sarda negli anni della dittatura – meriterebbe qualche ulteriore approfondimento. Io mi ci sono dedicato nel tempo anche perché interessato a comprendere come un talento come il suo, forse per eccesso di vitalismo, poté compiere la migrazione dalla democrazia – e dai piani alti della democrazia quale era ed è quella repubblicana d’impronta risorgimentale-mazziniana assolutamente profetica – al fascismo. Ciò analogamente a quanto avvenne nel campo sardista già nel 1923 (da Maurino Angioni in poi).

Alla distanza istintiva che posso provare per passaggi così radicali (trattandosi di aree valoriali, non soltanto politiche o di pratica politica corrente), oppongo un interesse, e una paradossale simpatia per la personalità di un giovane quale era Anchisi: il quale, nella età cruciale della sua vita, cioè in quegli anni universitari che paiono propedeutici ad uno sbocco professionale destinato a coprire tutta l’età adulta, riflette ed opera delle scelte nette per taluni aspetti sorprendenti perché di rovescio rispetto alle premesse. E nel concreto, mentre Cesare Pintus e Silvio Mastio – destinati entrambi al martirio antifascista, il primo nelle prigioni del regime e nella debilitazione fisica conseguente alla detenzione (tubercolosi e zoppia), il secondo addirittura nel sacrificio della vita in una azione “alla Pisacane” in Venezuela – ancora nel 1925 sono a Cagliari, nella sede del Solco sardista in via Nuova, a celebrare Giuseppe Mazzini, egli, il compagno di tante battaglie repubblicane, perfino nelle squadre d’opposizione alle squadre fasciste in città stessa, d’improvviso si lascia irretire dalle certezze del nuovo potere…

Riflettendo sull’ieri e sull’oggi, e il futuro

L’antiatlantismo e l’antieuropeismo della destra furono – negli anni postbellici e negli anni ’50 – opzioni politiche sbagliate, radicalmente sbagliate, espressione di un sentimento antistorico. Ciò al pari di quelle espresse dal Partito Comunista Italiano (e all’inizio anche dai socialisti stretti nel patto di unità d’azione al PCI) e di materia non marginale si trattò allora e dopo, perché furono opzioni che delineavano un indirizzo ideale e politico che raccontava in toto di una identità altra, alternativa (e negativa) rispetto a quella delineata dalle forze impegnate nel centrismo governativo e parlamentare, quello della ricostruzione, della riforma agraria e della liberalizzazione degli scambi: come poter scegliere il campo di Almirante o Michelini od ancora Almirante e De Marsanich invece che quello di Einaudi, il campo del Movimento Sociale (e all’inverso degli stalinisti nostrani o dei kruscioviani nostrani) invece che quello di De Gasperi e La Malfa e Martino e Saragat e Malagodi e Cocco Ortu, quello che entrava nelle dinamiche dell’occidente liberale (e in tempi di guerra fredda, di progressiva decolonizzazione ecc.) io non lo capisco, non lo capirò mai. E mi riferisco qui ai valori umanistici, etico-civili e politici, quelli che guidano la lettura della storia nelle sue evoluzioni. 

Ancora nel 1970 e fino al 1974 la destra italiana mostrò, anche in materia di legislazione divorzista, una sconsolante incapacità di leggere gli indirizzi della storia e con miopia mista ad una inesauribile ipocrisia fece battaglia per contrastare una conquista di civiltà e assorbire lo scostamento dalla normativa che in tutto il modo liberale occidentale (e non solo, ovviamente) era allora vigente. Oggi ripete gli esercizi di miopia, sul piano dei valori bioetici e sociali, nell’avversione alle ipotesi legislative regolatrici del fine vita come delle protezioni alle diversità sessuali e così ancora dei riconoscimenti di cittadinanza.

Ancora qualche anno fa, gli eredi del MSI fecero governo con un presidente del Consiglio che, pur egotista oltre ogni limite di ragione e buon gusto, definiva se stesso come l’esatto rovescio dell’uomo delle istituzioni che abbia il senso dello Stato e della stessa missione della classe dirigente, osservando di farsi «concavo con i convessi e convesso con i concavi». Chi si immaginerebbe un De Gasperi o un Einaudi in quei panni, incapace di scelte nette e storicamente indovinate perché insieme morali, realiste e responsabili? Parve normale, e compatibile con i postulati della patria e della nazione, sostenere un presidente del Consiglio che ad un processo davanti ad una corte d’assise dello Stato, a Palermo, nella Palermo di Falcone e Borsellino, si avvalse della facoltà (evidentemente concessa ad ogni cittadino “privato”) di “non rispondere”? Senso dello Stato? Qui siamo in un campo di valori prepolitici: fatico a comprendere come, essendo in buona fede, non si sappia cogliere, da parte della destra, l’assurdità della degenerazione. Oso dire che quando arriveranno a conclusione con regolari processi i diversi tribolatissimi filoni d’indagine sulla mafia bombarola e sulle manovre depistanti dei servizi segreti (e della politica) che hanno portato in ultimo alla morte di magistrati come Falcone e Borsellino, e conosceremo il contenuto del famoso “libretto rosso” del procuratore capo di Palermo, di cui egli anticipò qualcosa nei giorni che immediatamente precedettero il suo sacrificio, quando già sapeva dell’arrivo a Palermo del tritolo assassino, gli uomini della destra che credono ai migliori valori della loro scuola avranno da pentirsi di essersi prestati a coprire il peggior protagonismo dei pagani portati al governo delle istituzioni repubblicane per tanto tempo.

E s’allearono, gli eredi del MSI, e fecero anche governo con chi sosteneva l’uso chiamalo igienico (nel cesso) del tricolore nostro e celebrava lo spezzettamento padano e brindava con l’ampolla del dio Po, insultando i meridionali. Ieri separatisti oggi sovranisti, domani forse ancora separatisti… Spirito nazionale? Ma si può essere un giorno credenti e l’indomani atei per ritornare credenti e dopo ancora atei, un giorno per Gesù e l’altro per Zaratustra e poi per Tatloc e di nuovo per Nostro Signore Nazareno? Qui si tratta di fondamentali e i fondamentali non si cambiano con leggerezza mai. E quando si cambiano, se si è protagonisti della scena pubblica, si deve pubblicamente rendere conto preciso del processo di revisione. Come nel sardismo che ancora nel suo statuto fissa la propria missione nella conquista della indipendenza sarda e oggi s’associa ai sovranisti del «prima gli italiani»… essi, i sardisti capintesta alla Regione con le destre, essi che dichiaravano (dal 1968) «noi sardi voi italiani»? (Io dico: sardisti di nome non di natura, ma io sono legato alla storia dei Mastino, Oggiano e Titino Melis come già di Fancello e Bellieni scrittori di Volontà di Torraca e de La Critica Politica di Zuccarini il federalista e deputato costituente del PRI, di Bellieni che si professò ancora nel 1974 elettore repubblicano a Napoli: chi s’immaginerebbe oggi Solinas a tavola con Mastino o Gonario Pinna?).

Non si tratta di corredi e abbellimenti, si tratta di sostanza grave. E quando, per spudorata fame di potere (e di tanto malgoverno alla prova dei fatti, fino ad arrivare al nostro ripascimento del Poetto e i buchi nelle pietre dell’anfiteatro), si mettono in gioco i valori rinnegando perfino se stessi e ci si arrischia a compromettersi anche con la volgarità… si arriva alla surrealtà e chi nega l’evidenza o è un marziano o è in malafede. Non l’ho dimenticata la scena di quei parlamentari leghisti e forzisti e della destra nazionale che insultarono con il “buuh” nientemeno che il presidente Ciampi e la sen. Levi Montalcini una volta che a Palazzo Madama andarono a votare la fiducia ad un governo Prodi (forse lo stesso poi messo in crisi dal trotskista di nobili sogni Turigliatto), o si esibirono, sui banchi di Montecitorio, affettando la mortadella… Senso delle istituzioni?

Questo per dire dei sentimenti nelle varie latitudini. Ho devozione per la memoria patriottica e repubblicana di Goffredo Mameli difensore della Repubblica che nel 1849 abolì, nella sua costituzione (art. 5), quella ghigliottina che Pio IX tornato al potere ripristinò ed attivò ancora per vent’anni fino alla campagna d’opinione alimentata da Giorgio Asproni –, ma certo il verso introduttivo del suo Inno degli italiani catturato da un partito politico così compromesso con i disvalori ed anche con il sottogoverno (quando il peccato di sottogoverno era rinfacciato agli altri che risistemavano i propri “trombati elettorali”), così demagogico e antipatriottico mi sembra una bestemmia. Quale rapporto possa esserci fra le idealità di Goffredo e quelle compresse nelle frasi fatte della Meloni io non vedo, e non sarà soltanto questione di occhiali scaduti o scadenti. Lo stesso sfruttamento dei valori religiosi (la famiglia tradizionale e cattolica bla bla) mi sembra invereconda, oltretutto manco praticata dai pontificanti: ho frequentato ed ho scritto dei Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld, e la cosa mi sembra davvero una enormità, una retrocessione dalle conquiste della civiltà laica – che ben onora i valori della fede o delle fedi – e una mortificazione di questa nostra povera Italia che dovrebbe poter ancora evolvere nella pienezza delle consapevolezze dell’intera sua cittadinanza. 

Non si tratta di entrare nella coscienza di nessuno, ma certamente le rivelazioni pubbliche di uomini come don Tonino Bello o don Ciotti, come i preti martiri della mafia e come il papa che ci chiama alla solidarietà con chiunque nel bisogno (anche nel Mediterraneo che ci separa dall’Africa) rifletta noi stessi – noi stessi! – e il nostro personale bisogno potenziale sempre in agguato (oltreché la memoria dei nostri avi emigrati)… io fatico a vederle componibili con quelle dei visibili leader che parlano tutti i giorni, per frasi fatte anch’essi, al telegiornale. Ma davvero chi dice di credere nella patria e nella nazione può credere a Falcone e Borsellino – servitori dello Stato come lo fu Ambrosoli nell’altra capitale, l’Ambrosoli che era uomo di fede monarchica (così si disse e certo non lo comprometteva) – come pacificati davanti agli ineunti avanzamenti della cosiddetta seconda repubblica, fra un attentato e l’altro in Sicilia e fuori Sicilia?

Quel gran bisogno di destra equilibratrice com’è soddisfatto da questi cantori della patria e della nazione? Mi paiono tutti conformisti e piegati agli slogan delle ovvietà, così da neppure poter onorare la loro storia, o il meglio della loro storia e delle loro tavole ideali.

I percorsi (per me) inaccettabili dei nazionalisti di ieri e di oggi

Per qualsiasi comunità nazionale la politica estera è quella che dovrebbe esprimere il credo civile e politico unitario d’uno popolo che abbia consapevolezza di sé sullo scenario presente della storia. Ma chi esprime il suo gradimento a Bolsonaro in Brasile, il devastatore delle foreste dell’Amazzonia, come già a Trump negli USA, mostra forse la dignità di una classe dirigente capace di leggere la storia che viene e che, insieme, siamo chiamati a costruire? Chi “tifa” per le politiche da essi affermate in materia ambientalista (si pensi al cambiamento climatico davanti a cui non ci si può porre che con gli strumenti della civiltà che tutti coinvolge, non con quelli dell’interesse industriale di questa o quella potenza, Cina o America o Russia o Italia non fa differenza) ha la dignità di una classe dirigente capace di leggere la storia che viene e che, insieme, siamo chiamati a costruire? Chi alimenta la piazza vociante contro le politiche di contrasto all’attuale pandemia o chi plaude i governi che ripristinano i dazi negli scambi internazionali, chi esprime il preferibile consenso a Putin (ex KGB) in Russia, a LukashenKo il dittatore che Berlusconi leader governativo appoggiato dalla destra di AN celebrò come un «amato dal suo popolo», chi elogia le brexit demolitive, ha la dignità di una classe dirigente capace di leggere la storia che viene e che, insieme, siamo chiamati a costruire? Colpisce poi (naturalmente esprimo una mia personale sensibilità) la rozzezza, il semplicismo delle esternazioni che da parte di questi leader mondiali e da parte dei riceventi consenzienti paesani si incrociano senza che nessuna maturità di pensiero, di percezione delle complessità, avanzi nei singoli e nel mondo.

Non reggono il respiro di un solo giorno le scempiaggini sovraniste che vorrebbero assorbire e annullare magicamente gli indirizzi della storia che vanno tutti, per complessità crescenti, nel verso delle integrazioni: l’evidenza della “planetarità” delle grandi questioni che riguardano l’umanità – a cominciare proprio dalle mutazioni climatiche o dai fenomeni pandemici – pone consapevolezze nuove al nostro tempo, e tutto ne è coinvolto. Ne è coinvolta l’economia finanziaria (e quanto bisogno c’è di armonizzazioni metti delle politiche fiscali per evitare sleali concorrenze perfino all’interno dell’Unione Europea!) e così l’università e la scienza, la ricerca scientifica – mondo delle condivisioni per eccellenza –, quello religioso stesso che va per opzioni sempre più ecumeniche, ecc. Le stesse dinamiche migratorie – che sarebbe un perfetto infantilismo immaginare di governare con i mitra repressivi – impongono, per le loro dimensioni, motivazioni e modalità, intese internazionali, piacciano o no le concertazioni politiche e diplomatiche. La destra pare lontana anche dal comprendere queste complessità, altro che cultura di governo! Gli stessi tentativi che questa o quella dittatura ora comunista ora islamica ora militare pone in essere contro i passaggi telematici o informatici durano nulla, portano nel certificato di nascita anche la data di morte. Diceva il presidente Cossiga che il comunismo dell’est europeo sarebbe caduto comunque, perché nessun muro fisico di Berlino avrebbe retto all’impatto di internet e delle tecnologie informatiche. Lo credo anche io. S’arrenderà anche la Cina, che intanto però sta comprandosi l’Africa e importantissime infrastrutture anche in Europa. E dunque? 

Si chiamavano “patrioti” i resistenti al fascismo e al nazismo negli anni ’40. Anche in Sardegna si raccolsero fondi per sostenerli, ed erano sottoscrizioni “pro-patrioti”, definite proprio così. Quando sento la Meloni (e i suoi ignoti sodali che apparendo all’improvviso al telegiornale recitano, al pari degli altri – degli altri vicini e degli altri lontani s’intende – la particina delle cose scontate: «noi vogliamo la pace, noi vogliamo la piena occupazione, noi vogliamo il benessere di tutti») evocare come un riempitivo semantico il sostantivo “patrioti” ripenso a quelle questue sociali e democratiche del 1944 e 1945. Se ne trovano le tracce anche sulla stampa sarda allora risorta defascistizzata con L’Unione Sarda a Cagliari e L’Isola (allora affidata ad Arnaldo Satta Branca in attesa di ripartire con La Nuova Sardegna tacitata nel 1926). Patrioti: io credo che siamo patrioti con la quotidiana responsabilità del nostro servizio alla comunità, nel lavoro e nel volontariato. S’è detto e lo credo: patrioti i medici e gli infermieri che hanno speso ogni loro energia per la nostra salute in questa ancora allarmante pandemia, patrioti i poliziotti e i carabinieri che difendono la nostra sicurezza. 

La parola patria – che tanto faticò ad essere riscoperta dalla sinistra italiana e che restava una bestemmia sulle labbra di chi aveva carezzato la dittatura guerrafondaia e alleata di Hitler – è materia che deve restare franca da strumentalizzazioni ed in cui deve potersi riconoscere, per esito di educazione civile, la popolazione d’un paese, generazione con generazione con generazione, nonni e babbi e figli insieme. Ma le parole pare non abbiano più senso e la destra italiana concorre a questa confusione, al carosello del nulla: sentivo l’altro giorno la Meloni in televisione quando accennando alla sua “proiezione” internazionale parlava del gruppo dei “conservatori e riformisti” europei… Che vuol dire? Il gruppo dei “destri e sinistri”, il gruppo dei “bianchi e neri”? Io non mi sento riformista, piuttosto mi associo alla corrente radicale che nelle dottrine politiche si chiama “riformatrice”, rappresentata nell’Italia postfascista dall’azionismo e dal repubblicanesimo di Ugo La Malfa o di quei socialisti del “socialismo possibile” di Giolitti e Ruffolo, infine soffocato dal “riformismo” craxiano privo di midollo morale. Ma ciò nonostante riconosco al riformismo italiano – quello storico e sofferto di Turati, Treves, Modigliani e Matteotti – una dignità storica di prim’ordine e, ad esso conforme, pari riconoscimento sento meriti la miglior socialdemocrazia di Saragat, Romita padre ed Ezio Vigorelli. Nella nostra storia politica, tanta parte della legislazione nazionale è passata per quelle strade, per quei contributi: nella moralità antifascista ed anticomunista, tanto più ai tempi di Stalin e Krusciov... Ma che significa “conservatori e riformisti” uniti nella stessa sigla? 

La televisione quando non “media” le fonti ma le scopre portandole all’orecchio dell’utente che è cittadino in servizio permanente effettivo aiuta tante volte a capire le cose e le persone. E qualche giorno fa – a proposito di statura della classe dirigente della destra che si candida al governo della Repubblica – m’è capitato di sentire una europarlamentare dei cosiddetti Fratelli d’Italia che pontificava su virus e infettivologi e alla domanda se si fosse già vaccinata obiettava: risponderò quando risponderà il professor Cacciari. Incredibile. Una europarlamentare priva perfino del minimo senso istituzionale, eppure la destra la candida e la elegge nell’alta rappresentanza strapagata a Strasburgo e Bruxelles (a proposito: la destra ha mai fatto una battaglia su questa costosissima duplicazione che ben potrebbe eliminarsi?). 

San Francesco e Giordano Bruno

Dovevo e volevo essere chiaro dichiarando (e motivando) il mio giudizio sulle cose, o su alcune cose, della nostra contemporaneità. E d’altra parte nella pubblicistica e nella saggistica di questi ultimi quarant’anni e più, in un’infinità di interventi pubblici ed anche, un tempo, televisivi, ho sempre marcato questa fedeltà ideale che mi riporta all’etica dei Doveri dell’Uomo di Giuseppe Mazzini, e nel concreto tradotti ovviamente con tutta la mia autonomia di giudizio e pratica. Frugo nell’agenda storica dei miei padri e fratelli che ho citato uno ad uno, sacrificandone per necessità altri: fra Efisio Tola e Silvio Mastio fucilato in Venezuela cento anni dopo, trovo anche i martiri repubblicani del risorgimento e i garrotati in Spagna. Non riesco a trovare alcun padre e fratello mio di cui mi potrei vergognare. L’istanza repubblicana ed autonomista «nella unità politica della Repubblica» viene da quei padri e da quei fratelli, l’istanza della democrazia viene da loro, magari anche da Francesco Nullo che combatteva con gli eredi della Giovane Polonia – quanta differenza con i governanti polacchi (o magari ungheresi) d’oggi carezzati dalla destra italiana! -, l’istanza del suffragio universale e del voto femminile veniva da quei padri e da quelle madri come la Anna Maria Mozzoni o come la nostra Bastianina Martini Musu. Anche fra i gruppi d’opinione o culturali d’oggi che – minoranza estrema ma resistente – possono e vogliono richiamarsi al magistero di Mazzini e Cattaneo, all’insegnamento e all’esempio dei grandi del risorgimento nazionale non vedo chi potrebbe inquietarmi. Ma se volgo lo sguardo alla destra italiana vedo gruppi e gruppuscoli antagonisti, vocianti ed inquietanti sì, per derive dottrinarie e condotte civili. Gruppi sgradevoli, basti l’aggettivo educato e soft.




Tutto si tiene, San Francesco e Giordano Bruno, Bacaredda e Tredici, Pintus e Truzzu, Mazzini e Turati, Anchisi e Satta Branca, Anna Maria Mozzoni con la Bastianina Martini e la terribile Meloni, La Malfa e il tristissimo Berlusconi, Giovanni Spadolini e il neorisorgimento di Carlo Azeglio Ciampi: la storia «è sempre contemporanea» ci ammoniva Benedetto Croce. E sempre mi riporto – ora che da quasi trent’anni, dalla morte di Giovanni Spadolini e Bruno Visentini, sono senza partito e senza riferimento parlamentare – a quanto il presidente Ciampi, visitando le cento province italiane (e tutte le visitò, ovunque incontrando bambini e giovani nelle scuole), segnalava come filo rosso della grande storia moderna italiana: «risorgimento, resistenza, costituzione». Costituzione che la destra non votò. Ecco il mio mondo che, nella modestia delle sue forze, nell’orgogliosa umiltà del suo sentirsi Davide e non più che Davide, non soffre complessi di inferiorità verso alcun Golia di destra e di sinistra. E’ crollato il comunismo dispotico (e anche sanguinario) dell’est europeo (e sta crollando quello cubano), sono prima crollate le dittature di Germania ed Italia e Spagna e, nel tempo, Grecia… per restare alla nostra madre Europa, non sono crollati gli ideali democratici che avevano animato la Giovane Europa quasi centonovant’anni fa e quanto da essa è germinato. L’integrazione sovranazionale dell’Europa ha salvaguardato la pace del continente.

E’ certo che bisogna guardare alla storia nelle sue dinamiche fondamentali sapendo che polvere e terra possono sporcare anche le stanze più linde. La resistenza antifascista ed antinazista è stata gloria per l’Italia stritolata dalla guerra a cui il duce del fascismo aveva costretto la patria con la famosa notifica delle dichiarazioni agli ambasciatori di Londra e Parigi: ma la resistenza conobbe anch’essa pagine buie, derive perfino criminali di cui furono vittime molti innocenti, fra cui numerosi preti e giovani chierici così come combattenti di fede laica e diversa ma non meno antifascista, furono vittime di certi partigiani comunisti molti uomini del Partito d’Azione, tanto più nel nord-est ai confini con la Jugoslavia. E in quelle terre fra loro più prossime i partigiani di Tito assassinarono con brutalità degna del fuhrer tedesco e dei suoi marescialli centinaia e centinaia e centinaia, anzi migliaia e migliaia e migliaia di innocenti nelle terribili foibe di cui la patria democratica ha recuperato, per necessità morale e storica, la memoria. Non mancano di ragioni coloro che pongono in relazione l’efferatezza delle foibe slovene, croate e serbe con la precedente persecuzione etnica del fascismo: il che spiega, o spiegherebbe, ma non giustifica, non potrebbe mai giustificare una barbarie assoluta, pari a quella delle pistolettate alla tempia delle vittime poi scaraventate nelle Fosse Ardeatine. Fra cui il nostro Salvatore Canalis. 

E’ dentro la galoppata diacronica e geografica che cerco di formarmi, con le analisi ma per le sintesi, un giudizio complessivo sulle cose della patria, e della Repubblica, e della Sardegna e di Cagliari, insomma del mondo in cui vivo.  

Tutto si tiene. Prendendo lo spunto dalla recente edizione cartacea di Excalibur mi sono permesso considerazioni che se non illuminanti penso siano quanto meno di buon senso, e attendo in pace e serena coscienza la penna rossa e quella blu che possa segnalarmi gli errori, le cadute, gli sviamenti. Sono certo però che non troverà, quella penna, furbate e… sconti concessi agli amici. Ai quali invece è sempre assicurata l’aggravante, nel caso.




Insomma, nella mia lettura degli eventi della grande storia e di quella minore o minima, non c’è destra – se non quella di Benedetto Croce o Luigi Einaudi, dei padri della patria liberale e liberista cioè – che meriti onori, né c’è destra di nobile presenza nella attualità nazionale o regionale e locale. Pochi anni fa, la Corte dei conti ha perfino imbastito un processo a carico di un presidente di giunta – di una giunta regionale sarda di destra – al quale mi ero permesso di chiedere assicurazioni sulla circostanza che fosse lui, e non fossero le casse pubbliche, a pagare al giornalista assunto (da lui) per non lavorare, cinque anni di retribuzioni (ottomila euro mensili lordi)… Quel presidente non mi rispose; procedette d’ufficio la Corte, e allora il presidente imputato scaricò ogni responsabilità sul funzionario della presidenza, infine condannato… Neppure la dignità della assunzione delle proprie… colpe. Dalla destra sarda? Silenzio. Come silenzio ci fu sempre a proposito della segretezza del bilancio interno del Consiglio regionale includente le poste di finanziamento dei gruppi (e indirettamente, e illegittimamente, dei partiti). Allora – erano ancora gli anni ’80 – investii in vari modi, e con qualche clamore pubblico, il presidente comunista Emanuele Sanna e la presidente della Commissione diritti civili e informazione Linetta Serri, pure comunista. Silenzio dai consiglieri di destra che evidentemente consideravano accettabile il sistema omertoso e… partitocratico.

Rettificando qualche paradigma

Giocano fra loro, sempre, i tempi, giocano l’ieri e l’oggi. Certo, dicevo più sopra, io stesso debbo ripensare alcune categorie di giudizio di cui sempre mi sono avvalso per interpretare gli eventi della storia moderna e contemporanea. Lo faccio – e lo confesso – accostandomi oggi con maggior… carità ai tanti che nella vita privata e pubblica nazionale di novanta e cento anni fa – hanno aderito al fascismo. Non può esser stato sempre per opportunismo, così nel giornalismo come nelle logge massoniche, in certo sindacalismo e in certi partiti politici, dal Popolare (ci si ricordi del Centro Nazionale cui aderì anche il sardo Guido Aroca, del quale tanto mi occupai nella mia giovinezza, proprio attratto dall’apparente cortocircuito di uno sturziano divenuto, pur dopo l’assassinio di don Minzoni, mussoliniano!) a quelli della liberaldemocrazia e perfino della sinistra, oserei dire, fuori della politica, perfino della Chiesa.

Certo, a voler… volare alto, uno dovrebbe dire che benedire le armi in partenza per la Libia o l’Etiopia è stato contraddittorio con la scelta evangelica che piuttosto in terre di missione aveva inviato, sempre con alto rischio, i padri comboniani o loro confratelli… e che passare dalla loggia ispirata al libero pensiero ed al sacrificio di Giordano Bruno e Sigismondo Arquer alle formazioni del Partito Nazionale Fascista (mentre le logge venivano soppresse) è stato, al meglio, uno stridio almeno sul piano ideale. Però i criteri riflessivi che potevano allora entrare in gioco dovevano essere più vari e numerosi di quelli cui si sarebbe portati a scommettere di primo acchito, appunto come la più volgare delle convenienze venali. Poteva esserci stata la sensibilità più accentuata verso alcune idee-programma intese come rinforzo e perfino espansione di alcune proprie idealità (es. quelle nazionali, esempio quelle laiche per taluni e in un tempo, quelle cattoliche per talaltri e in un altro tempo, es. quelle antibolsceviche e chiamate antirusse, es. quelle dell’ordine pubblico molestato da scioperi e agitazioni), oppure poteva esserci stata la convinzione che un “pugno di ferro” limitato nel tempo avrebbe risolto il caos degli anni postbellici.

Si legga, fra l’infinito altro, qualche articolo anche della rivista cagliaritana Battaglia! del 1924-25. Ne ricordo uno di cui ho ritrovato l’estratto e che riportai in un altro mio lavoro piuttosto datato: Professione ideologica e militanza civile degli Artieri del Tempio in Sardegna fra Ottocento e primo Novecento, Cagliari 2005: «Né si creda che Mussolini aspiri a tenere in sue mani il potere indefinitamente. E’ troppo intelligente per farlo, e d’altronde, ha già dichiarato in qualche suo discorso che tale non è punto la sua intenzione. Egli sa benissimo che anche in politica “varietas delectat”, mentre l’uniformità e la monotonia producono sempre, a lungo andare, insopportabile tedio. Non si chieda però che egli lasci a metà la grande opera incominciata: si aspetti almeno che sia bene avviata; poi egli sarà felice, senza alcun dubbio, di riposare dalle sue erculee fatiche, tanto più che, anche come semplice deputato, potrà rendere all’Italia immensi servigi…». Poteva esserci stata la convinzione della utilità del consenso ad un regime cui, col tempo, ci si era abituati con i suoi riti e ritmi e senza che nel privato di famiglia o di lavoro fossero sorti elementi di speciale contrarietà o rigetto dell’esistente…

Certamente noi possiamo elaborare, o meglio sprigionare dal nostro cuore un sentimento di avversione morale prima ancora che politica per una dittatura, quale che essa sia, ma una cosa è la retrospettiva altra è la attualità. Vero è che una coscienza vigile e critica dovrebbe sapere quando e come cautelarsi, nello stesso presente, da fenomeni degradanti sempre in agguato, ed avvertire dentro di sé l’onesto coraggio della tempestiva presa di posizione “contro”, e però...

Faccio, in conclusione, un caso tutto cagliaritano e tutto attuale, attualissimo, che prendo dalla Massoneria giustinianea. Lo scorso anno è capitato che un graduato senza cervello, un senza cervello ma graduato – valga la specularità non soltanto letteraria – abbia insultato gratuitamente, e pubblicamente, le più alte autorità della Repubblica (i presidenti Mattarella, Napolitano e Fico) e così Giovanni Bovio, il filosofo del diritto, il parlamentare che di Mazzini fu il più autorevole continuatore, rispettato e amato in Parlamento, per un quarto di secolo, anche dai suoi avversari liberal-monarchici. Ci si sarebbe aspettati la rivolta contro l’insensato. Io, che non ho tessera di partito né di associazione ormai da quasi quarant’anni (ultima è stata quella dell’AVIS cui ho dovuto rinunciare, dopo 47 anni, per seria malattia), ho preso posizione e ho pubblicato ventuno articoli per circa 300 pagine, nell’arco di tre mesi, contro la sbornia. Nessuno, dei mille massoni giustinianei tesserati oggi a Cagliari, ha preso posizione con me. Eppure – da quanto mi dicono amici informati – il numero dei giustinianei iscritti e, in politica, elettori della destra sono numerosi, anzi numerosissimi (e non entro nel merito adesso, se io trovi coerente o no la cosa). Ebbene, nel concreto, quei destri sono destri strani, ignorano la storia e ignorano la dignità delle istituzioni: ignorano ad un tempo Cavour, che la Massoneria torinese ispirò al tempo della seconda guerra d’indipendenza, e dunque prima della unità d’Italia proprio per riunire in rete i “nazionali” (non nazionalisti) unitari più o meno distanti da Garibaldi, e ignorano la pretesa nobiltà della destra che dice di amare oggi e ancora oggi i principi, i valori alti della comunità e delle istituzioni. Invece… il grigio indistinto e conformista. Al dunque, destri e sinistri, autonomisti e centralisti, agnostici e religiosi non si distinguono e fanno massa, al meglio nicodemica, ma direi più ignava che nicodemica, attorno al reo e al reato. 

Viaggiando fra le pagine di Excalibur    

Ma qui dovevo dire di Excalibur e concludere con essa. E mi rimando, con la memoria, a quando, ancora adolescente iscritto alla Federazione Giovanile Repubblicana, infatuato – posso dirlo? ma nobilito il verbo con i più puri umori risorgimentali e d’amor di patria – di Mazzini e Bovio, seppi dai miei amici e sodali dell’attivismo del circolo missino di vico San Lucifero intestato (salvo errore) al Fronte della gioventù. Non ero né sono mai stato in quei locali, forse ci sono passato davanti a serrande abbassate qualche volta. A un passo dalla piazza Gramsci, che un tempo era stata battezzata Carlo Sanna, per celebrare più il primo presidente del Tribunale speciale che non l’eroico comandante della “Sassari”. Il mio mondo era altro, dai fascisti o neofascisti più lontano di quanto non lo potessero essere i comunisti (che con Breznev e le gerarchie del Kremlino ancora in quei primi anni ’70 non potevano certo vantare alcuna purezza democratica davanti a noi che stavamo integralmente con Sacharov perseguitato dal PCUS). Mentre si schieravano un gruppo estremista contro l’altro estremista – ne scrissi sulla “pagina dei giovani” de L’Unione Sarda del 1972. Credevo agli “opposti estremismi”, che erano il riassunto semantico di una cosa complessa che gli anni successivi, con il terrorismo di destra e di sinistra, ci avrebbero spiegato con dolore.

Scriverne da ventenne poteva indurre a qualche semplificazione di troppo, ma cinquant’anni dopo mi pare di potermi ritrovare ancora integralmente nella sostanza della cosa, nel sentimento e nel giudizio morale. 

Offro questa lunga riflessione, o chiamala affabulazione, a chi ha avuto la cortesia di mandarmi il volume di Excalibur. Della rivista ho riferito e poi mi sono… allargato, indugiando molto o forse troppo sul personale, ma spero di non aver fatto cosa del tutto inutile. E d’altra parte sono ormai fuori da ogni partecipazione alla vita pubblica. Mi rimane soltanto la tastiera di un computer per relazionare col mondo.


Fonte: Gianfranco Murtas
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