La Massoneria cagliaritana celebra Giordano Bruno e Sigismondo Arquer vittime della “santa” Inquisizione
Dedicato a Leopoldo Biggio, Giuseppe Loi Puddu e Matteo Savatta. Di Gianfranco Murtas
Dopodomani giovedì 12 settembre si celebreranno le grandi memorie di Giordano Bruno e Sigismondo Arquer, che già tanto (e a lungo) coinvolsero lo spirito pubblico cagliaritano ai tempi di Bacaredda, cento anni fa. Sarà a palazzo Sanjust, sede degli uffici circoscrizionali isolani del Grande Oriente d’Italia e delle 27 logge cagliaritane (altre 21 lavorano fra Sassari ed Oristano e Nuoro, Carbonia Alghero e Tempio Pausania, Iglesias, La Maddalena e Tortolì), e sarà anche l’occasione di un festeggiamento ideale e sentimentale: per il 50° compleanno della Sigismondo Arquer n. 709. Una loggia interessante sotto molti punti di vista, tanto più perché un tempo si caratterizzò per una spiccata sensibilità civile che faceva giusto pendant con i prevalenti orientamenti alla riflessione esoterica e ritualistica oppure allo studio storico obbedienziale (invero accompagnato sempre da attività di segno solidaristico ed umanitario) seguiti dalle consorelle operanti nello stesso capoluogo o altrove nell’Isola.
In tempi di società liquida, e cioè di smarrimento di forti valori di riferimento, anche la Massoneria vive, mi pare, la sua incertezza. Quella sarda non fa eccezione, pare colpita, all’ingrosso, dal fenomeno e forse, purtroppo, non se ne è resa neppure pienamente conto, se è vero, come mi dicono in molti, che non mancano e fanno perfino numero addirittura i cosiddetti “sovranisti”, massoni-contromassoni per eccellenza, gli occhieggianti alle formazioni del semplicismo dialettico della piazza di Barabba, mentre la Libera Muratoria, cui pure hanno consegnato il loro nome e una dichiarata generosità di coscienza, è una società impiantata su una tradizione ed un respiro universale e portatrice di un vocazionale approccio alle complessità, e le sintesi le trova sempre nell’abbraccio ecumenico, non nel settarismo pagano. Valgano per tutti e per sempre i versi di Rudyard Kipling, sempre recitati ma forse non sempre e non da tutti elaborati.
Ma proprio per questo rischio (spererei ancora marginale) di deriva, sembra rilevante e ampiamente significativa l’iniziativa assunta dalla loggia Sigismondo Arquer ai fini di rilanciare il programma umanistico della Massoneria – compresa appunto quella regionale sarda, forte ormai di oltre 1.600 appartenenti –, un programma fortemente radicato nei faticosi doveri della ricerca e nel libertarismo civile, non contraddetto ed anzi rinforzato dai valori patriottici nella migliore e più alta visione, perennemente attuale e democraticamente avanzata, mazziniana e garibaldina: quella secondo cui “ogni patria è la mia patria”. Tutto il contrario degli imbecilli slogan semplificatori di leghisti-expadani, irridenti alla bandiera nazionale, e sovranisti (inclusi quelli che abusivamente si chiamano Fratelli d’Italia, figli e nipoti di coloro che nel 1925 incendiarono e saccheggiarono le logge, i templi e le biblioteche, e per un ventennio tennero prigioniera, portandola alla guerra devastatrice, la patria: Fratelli d’Italia che fanno oggi rivoltare nella tomba il nostro imbattibile Goffredo Mameli poeta e precursore eroe patriota di sangue cagliaritano… Nel suo “Inno degli italiani” non a caso è richiamato il dramma polacco, parallelo a quello nazionale italiano, ed a me pare di individuare in esso uno sviluppo coerente della prima memoria europeista mazziniana, quella della Giovine Polonia associata alla Giovine Germania e alla Giovine Italia nel patto “dell’edera”, della Giovane Europa del 1834 cioè. Davvero altro che sovranismo!).
Tema della giornata datosi dalla loggia per onorare un rimando ideale di tanto alto profilo è “Giordano Bruno e Sigismondo Arquer – Due fedeli credenti, due tristi destini”. La scelta pare felice, almeno sotto questo aspetto, e tanto più si tratterà di una valida scommessa se si saprà cogliere l’occasione non soltanto per godere del film superbo, per gustare cioè il bianco e nero della pellicola che fissa una tradizione (tutto il contrario dell’anticaglia), ma anche e soprattutto per impegnare se stessi ad una sequela, nel complesso mondo contemporaneo: bisogna penetrare la lezione dei due martiri e saperne attualizzare il portato nella vita pubblica e privata di ciascuno, all’interno di questo inizio di terzo millennio, e viverne l’anticonformismo, il coraggio morale di difendere la coscienza – la retta coscienza – sopra tutto.
Fu indovinata la scelta di intitolare a Sigismondo Arquer – arso vivo dall’Inquisizione di Toledo nel 1571 (in ciò precedendo frate Giordano che il suo autodafè romano avrebbe concluso, a Campo de’ Fiori, nel 1600) – la loggia cagliaritana costituitasi nell’aprile 1890. Ripartendo da quei locali dell’ex Fatebenefratelli che già aveva ospitato la primissima loggia cagliaritana, la Vittoria, nel 1861, negli anni che dall’Unità cavouriana avrebbero portato al rinforzo dell’ordinamento istituzionale nel quadro dello Statuto albertino. E che a Cagliari avrebbero portato, superati i fastidi degli irriverenti “goccius de is framassonis” (1865), ad un corposo restyling della loggia liberal-monarchica, impegnativa di alcuni dei maggiori opinion-leader cittadini, in una più aperta formazione di ritualità scozzese, direttamente impegnata nelle opzioni civili e sociali, a cominciare dalla determinante cooperazione alla fondazione del Ricovero di mendicità ed al sostegno delle Società operaie di mutuo soccorso. Apripista di similari iniziative in altre località isolane.
Arquer e Bruno furono nomi associati nella temperie della belle époque che non si ridusse mai ad essere soltanto una conquista estetica, ma fu un passaggio al modernismo materiale, economico, in accompagno ad un modernismo di costume in logica di secolarizzazione. Basterebbe sfogliare i giornali degli anni ’90 dell’Ottocento e dei primi due decenni del Novecento, perfino bypassando la grande guerra, per cogliere la presenza, e talvolta la pervadenza di umori progressisti in una città che pure Enrico Costa, non a torto, aveva definito “spagnolesca” e perciò ipotecata da un guelfismo sovente rozzo e intollerante…
Il 17 febbraio, data anniversaria del sacrificio di frate Giordano – che a Cagliari avrebbe avuto il suo monumento nel 1913 (e che i fascisti avrebbero rimosso nel 1926) –, a Cagliari come anche a Sassari ed Iglesias, a Tempio e altrove, i liberi pensatori (e nel novero i massoni) erano richiamati a rimeditare l’esempio offerto da quel rogo ingiusto e ancora difeso da qualche monsignore confuso in un controvangelo ideologico e politico ed impaurito dai rischi della libertà.
Nel 1908 a Tempio Pausania parteciparono anche gli artieri della Sigismondo Arquer ai lavori del primo (e unico) congresso regionale del libero pensiero, presente anche Sebastiano Satta. Fu quello un meeting in cui si trattarono questioni non da poco, come ad esempio la laicità scolastica, e fra gli organizzatori, con i bruniani socialisti, radicali e repubblicani della Gallura e del Sassarese-Algherese, erano gli attivi della locale loggia intitolata ad Andrea Leoni, un giovane bersagliere tempiese caduto proprio nel giorno e nell’ora della storica breccia. Per dire dell’alta simbologia di quell’assemblea.
Alludere ad Arquer ed a Bruno insieme, riunendo le tradizioni valoriali che molto segnarono la Sardegna liberale e quella socialista di cento anni fa, significa richiamare una storia lunga e complessa, ricca di mille episodi e di mille nomi. Appunto una storia che ha definito un’epoca e che meriterebbe un ripasso per una nuova semina nella Massoneria d’oggi esposta – lo ripeto – all’intrusione dell’imbecillità paraleghista ed all’assalto irresponsabile di deviazioni dai fondamentali. (Tutt’altra cosa fu l’appartenenza, negli anni ’50 ed anche ’60, di esponenti ed elettori monarchici e perfino, pochi ma presenti, missini: allora era un “amor di patria” di rimando legittimista a casa Savoia a specchiarsi nei fondamentali degli Antichi Doveri e mai ci si sarebbe persi nelle volgarità d’un sovranismo d’accatto come quello corrente!).
La Dante Alighieri che i massoni sostennero cento anni fa, in appoggio alle correnti migratorie italiane nei continenti d’Europa e delle Americhe, favorì, saldando le tradizioni migliori, le integrazioni, e la Corda Fratres – con quell’inno in latino scritto da Giovanni Pascoli – declinò la sua fede universalista con grande entusiasmo anche in Sardegna, a Cagliari come a Sassari, a Nuoro…
709 è il numero d’ordine della nuova formazione
La storia della Sigismondo Arquer che celebra il suo 50° dalla fondazione avvenuta nell’autunno 1969 è di tutt’altro genere rispetto a quella che il fascismo mise a tacere definitivamente, dopo anche gli indebolimenti subiti per l’opportunismo di molti che preferirono il fascio del regime al delta del tempio segreto. Non ha collegamenti diretti (e direi neppure indiretti, se non nel nome del titolare) con le vicende sofferte e godute-gustate, con forte intensità, prima della dittatura e soprattutto prima della grande guerra che alle logge sarde costò molto patimento e molti lutti. Bisogna dirlo perché dignitari anche importanti d’essa hanno ripetutamente accreditato, per conoscenza assolutamente superficiale delle carte, una continuità inesistente, e diciamo anche di pura fantasia. La nuova Sigismondo Arquer fu la risultante della regolarizzazione di un gruppo cosiddetto “P” (leggi Propaganda) che, costituitosi accentrato in Roma fin dagli anni ’70 dell’Ottocento, il Gran Maestro Giordano Gamberini decise nel 1966 di spalmare organizzativamente sull’intero territorio nazionale, restituendo spazi di operatività alle singole formazioni.
Fu Francesco Bussalai, funzionario pubblico (alle Dogane) e musicista (dilettante e provetto) con un bellissimo passato di partigiano comunista approdato intanto al socialismo riformista, l’incaricato della missione. E il gruppo “P” – che ebbe un suo doppio a Nuoro (inclusivo anche di uno stretto congiunto di un vescovo-arcivescovo sardo) – si costituì nel 1967 e lavorò, riunendosi nella sede dei partigiani cosiddetti “bianchi” nel corso Vittorio Emanuele, per l’intero 1968 e nei primi mesi del 1969. Era formato da una trentina di personalità per il più in vista nel mondo intellettuale, artistico e politico, con prevalenti simpatie socialiste. Al centro delle sue discussioni le questioni dell’attualità isolana di fine decennio, dalla industrializzazione (modernizzatrice ma anche speculativa, così nella petrolchimica come nel turismo costiero) al banditismo in recrudescenza, dalla contestazione giovanile e universitaria alla petizione operaia prossima alla conquista dello “statuto dei lavoratori”, dalla riforma ospedaliera promossa dal centro-sinistra moroteo alla svolta attesa nel diritto di famiglia a partire dalla legalizzazione del divorzio, ecc.).
Fu quello un percorso parallelo alla quotidianità più riposata e tradizionale che si riservavano le logge ordinarie, nelle quali non mancavano peraltro Maestri di forte piglio innovativo e visione democratica come Mario Giglio, dirigente del Banco di Napoli nella vita professionale e di militanza socialdemocratica nella vita politica, prossimo ad ascendere a posizioni di vertice nel Grande Oriente d’Italia (fino alla Giunta Esecutiva dove, e con successo, avrebbe combattuto la malapianta intanto montata della “P” gelliana). E fu per la decisa pressione, costruita come fronte comune, dei tutti i Maestri Venerabile delle logge sarde del tempo, in primis proprio Giglio con Alberto Silicani, che il Gran Maestro Gamberini impose ad un certo punto la regolarizzazione del gruppo: non più “gruppo di lavoro” ma loggia simbolica ordinaria, certo autonoma nei suoi programmi ma altresì interna ad uno stesso ordinamento e ad una condivisa disciplina rituale e fraternale.
Dunque nessuna relazione fra l’antico e il nuovo, troppo lontani (non soltanto temporalmente) anche i contesti storici di riferimento.
Nella circoscrizione giustinianea sarda che la tradizione bruniana aveva recuperato (a Cagliari in particolare) fin dagli anni 1947-48, alla ripresa cioè delle attività postbelliche e postfasciste – si pensi alla biblioteca di Paglietti Stiglitz offerta al Grande Oriente –, una loggia intitolata a Giordano Bruno venne nel 1966 (ne era Venerabile un prestigioso docente universitario e oceanografico, Carlo Anichini), e successivamente, ancora a Cagliari, un’altra ne sarebbe venuta (ed è oggi in perfetta salute) nel 2004, affidata al Maglietto di personalità che il loro giovanile apprendistato avevano compiuto fra le Colonne della nobile loggia intitolata ad Alberto Silicani.
Della materia, del culto bruniano in Sardegna ed a Cagliari in particolare, ma, già prima, dei focus obbedienziali circa la figura storica di Sigismondo Arquer e la tradizione liberomuratoria derivatane al ritorno della delegazione dei nostri studenti universitari dall’evento di Campo de’ Fiori, nel 1889 – oratore fu Giovanni Bovio, il monumento firmato da Ettore Ferrari, prossimo Gran Maestro – mi sono occupato nell’ultimo… quarantennio ripetutamente, con una decina di libri e molte conferenze (la più recente nell’Accademia Giordano Bruno promossa dalla Comunione di Palazzo Vitelleschi, erede di Piazza del Gesù).
Non invitato ora al nuovo evento promosso dalla Circoscrizione sarda del GOI e dalla loggia 709 che celebra il suo giubileo, mi è sembrato bello rioffrire qualche pagina – soltanto qualche pagina – dei miei studi già sepolti forse, ma non… impoveriti, dalla polvere. Sia quelli riferiti alla Sigismondo Arquer del 1890, sia quegli altri più recenti, riguardanti la Sigismondo Arquer del 1969.
L'antefatto, fra Bruno ed Arquer
Incerto il sostantivo – unione, circolo o associazione – cambia sicuramente l'aggettivo, che ad un certo punto da "anticlericale" evolve addirittura in "antireligioso" e la dice lunga, così, sugli statuti di coscienza e non solo sull'impegno civile, culturale o etico-politico dei protagonisti del sodalizio.
E' una pagina della storia minore di Cagliari, un segmento appena di quella babele dell'associazionismo ideologico che, sul fronte chiamiamolo ghibellino (o, saltando le ere, giacobino), da colore alla città nei primi dieci-quindici anni del nuovo secolo, "moderno" per definizione.
Brilla alta, nel firmamento dello scetticismo, la stella di Giordano Bruno. Gli universitari per primi ne sono conquistati. Lungo gli anni 1900-19 11 – e nel '13 verrà poi inaugurato con larga pompa il monumento all'eretico – prosegue e si accentua, pur fra alti e bassi, la presenza dell'anticlericalismo organizzato, si coniugano tra loro le parole d'ordine del "libero pensiero" e il mito del domenicano arrostito dall'inquisizione romana a Campo de' fiori.
E' difficile mettere assieme i tasselli di questo mosaico iconoclasta eppure, come sovente capita agli estremi, tentato da un nuovo conformismo. Forse sarà impossibile scrivere mai questa storia perché non esistono (o non sono stati rinvenuti) documenti di prima mano, ma soltanto invisibili trafiletti di giornale, brevi comunicati-stampa, cronache veloci. Qualche traccia è rimasta del congresso tempiese del "libero pensiero", celebrato nell'autunno dell'anno di grazia 1908. E' poi nota la presenza, nel panorama culturale cagliaritano degli anni 1907-8, del circolo intitolato, come altri nel continente, ai "martiri del libero pensiero" (e tra essi specificamente a Giordano Bruno), di cui fa parte anche Antonio Gramsci nel suo trascorso liceale a Cagliari, quando il "Dettori" è proprio in cima alla centralissima e storica strada della Marina dove hanno le rispettive sedi – fra loro comunque distinte – i bruniani e i massoni: via Barcellona.
In qualche misura l'associazionismo promosso dall'ideologia del "libero pensiero" si interseca anche con le vicende di altre organizzazioni e politiche e culturali, e fra esse soprattutto della Corda Fratres, il sodalizio universitario di vaga ispirazione massonica ed a raggio internazionale il cui scopo statutario è quello, nobilissimo, di «riunire in una grande e concorde famiglia gli studenti di tutti i paesi, quindi adoperarsi utilmente a dissipare gli odii, i pregiudizi, le diversità di nazione e di razza che li tengono divisi, e favorire l'opera per la pace e per l'arbitrato internazionale».
Sicuramente laica e anticlericale, con una specie di alto patronato di Giovanni Pascoli che ne ha steso l'inno ufficiale (in latino), la Corda Fratres arriva a Cagliari nel novembre 1901 (primo console-direttore Gavino Porcu-Leo, studente in Giurisprudenza, e primo console-segretario Giuseppe Frau-De Gioannis, frequentante a Medicina, prossimo direttore dell'Ospedale militare), e conta su una base iniziale di un centinaio di soci, che periodicamente riunisce nella sede di via Spano (parallela, ma "fuori le mura", della via Università).
Tuttavia, se una data volesse indicarsi, come per dare inizio al movimento anticlericale cagliaritano – e non trascurando la celebrazione bruniana del 17 febbraio 1888, oltre che, ovviamente, diverse altre manifestazioni ancora precedenti, più legate al contenzioso della "questione romana" –, ci si potrebbe riferire al 9 giugno 1889. Quando un gruppo di studenti della locale Università, insieme con qualche collega sassarese e svariati rappresentanti delle Società Operaia e del Tiro a segno di Iglesias, presenzia alla solenne cerimonia di scoprimento della statua di Giordano Bruno a Campo de' fiori, luogo del martirio, nella capitale.
Alla sequela dell'abbrustolito
Aprile-giugno 1889. Anche Cagliari partecipa al movimento che, in onore del santo eretico, interessa tutta l'Italia. La Roma papalina sembra ormai definitivamente sconfitta, la Terza Roma del laicismo nazionale – razionalista e scettico, positivista ed ateo – s'è affermata come nuovo faro della storia universale. Un monumento deve sorgere a Campo de' fiori per celebrare la vittima innocente, per ammonire gli oscurantisti, per incoraggiare i nuovi profeti.
Ad organizzare il tutto è un supercomitato universitario che ha pubblicato un manifesto dagli accenti giacobini: «Vittoriosa nella lotta, combattuta per oltre dieci anni, contro l'intolleranza clericale, la statua del grande Nolano sorgerà finalmente, nel luogo stesso del supplizio, il 9 giugno 1889.
«Il segno che denota il centenario del 1789 compiersi razionalmente è l'inaugurazione del monumento a Bruno in Roma. Qui non è il dissidio tra la Dea Ragione e l'Ente Supremo e, tra l'una e l'altro, arbitro il patibolo; è invece l'adempimento del più alto ideale civile; dall'una parte la Chiesa cattolica, dall'altra lo Stato moderno, e, tra l'una e l'altro, il monumento a Bruno, simbolo di mutua tolleranza, nella libertà del pensiero, delle religioni, dei culti.
«Qui il papa può pontificare libero di fronte allo Stato che discute libero i diritti della sovranità; qui i frati possono nelle chiese minacciare ai credenti i terrori della morte di fronte all'Ateneo che riabilita i diritti della vita e le leggi della natura; e qui, tra l'una e l'altra civiltà, sorge il monumento a Bruno, che nell'unità del pensiero abbraccia i due mondi e li sospinge a meta comune.
«Da qualunque terra l'uomo arrivi innanzi a questo monumento, ei sente di aver lasciato indietro molte differenze di nazioni e di lingue, e di essere giunto come in una patria senza confini e senza privilegi; perché, dove il pensiero rinasce sul suo cenere, ivi è tutta la storia dell'uomo e ivi le lingue tendono a convergere verso una comune parola umana.
«E quanti, in ogni paese civile, sono dotti ed animi liberi, Accademie, Atenei, Scuole, Associazioni, accettando l'invito ed accorrendo ad onorare la inaugurazione di questo monumento, fatto col consenso e con l'obolo di ogni paese, mostreranno ricordare che Bruno, per molte nazioni, portò la voce del pensiero, e volle con la morte consacrarla nella città universale».
A rappresentare l'Ateneo cagliaritano sono stati designati il decano del Senato accademico, il prof. Gavino Scano, e quattro studenti, di cui tre di Legge: Marco Scano (figlio di cotanto padre), Emilio Sanna e Giacinto Orrù, ed uno - Michele Ambrogi - di Medicina. E attorno all'Università le istituzioni e le associazioni, la politica e la società civile. Così il prof. Scano ha ricevuto il mandato di rappresentare pure, all'inaugurazione romana, la polisportiva e filodrammatica "Gialeto" non meno del Municipio. (E a proposito della decisione della Giunta, da parte clericale non può non commentarsi: «Conviene tenere nota di certi fatti, che denotano chiaramente l'influenza che l'ambiente dei tempi esercita sugli uomini e sulle cose»).
La delegazione parte giovedì 6, ed il 9 è in prima fila ad osannare il santo abbrustolito dai salmodianti confratelli. Intanto, riuniti in contemporanea alla celebrazione di Campo de' fiori, gli studenti deliberano di accogliere – quando sarà tempo – con ogni solennità la rappresentanza reduce da così nobile trasferta ed invitano perciò tutte le associazioni, le scuole e la stessa Amministrazione civica a partecipare al coro: anche Cagliari celebrerà Giordano Bruno. E con i loro delegati nella capitale intrecciano un'opportuna corrispondenza.
«Roma, 9. Ieri la nostra rappresentanza è stata ricevuta entusiasticamente. Oggi il discorso del prof. Trezza è stato applauditissimo. Stasera ha luogo il ricevimento all'Università». Hanno risposto: «Studenti universitari, plaudendo apoteosi Giordano Bruno, martire, filosofo, augurano maggiori trionfi pensiero umano contro ogni forma dispotismo». Hanno ancora ricevuto: «Roma, 9. Il ricevimento all'Università della nostra bandiera è stato entusiastico. Il corteo oggi si componeva di millequattrocento bandiere. L'accoglienza è stata commovente». Hanno di nuovo risposto: «Studenti universitari inneggianti ieri libertà pensiero, glorificazione Giordano Bruno, oggi commemorazione Garibaldi, augurano trionfo libertà politica».
L'intera Italia liberale è in stato di effervescenza ideologica. Il papa si mostra, invece, invariabilmente offeso. Ha dato disposizioni a tutte le milizie pontificie (guardie palatine, guardie svizzere, guardie nobili e gendarmi) di consegnarsi nei rispettivi quartieri. Per parte sua il cardinal Rampolla ha notificato alle potenze cattoliche del mondo la decisione di Leone XIII, motivandola con l'insicurezza che il pontefice ravvisa nell'attuale condizione del Vaticano. Dal sacro soglio partono altri ordini: il 29 – festa di San Pietro apostolo e, anche lui, martire – sia organizzata per le strade di Roma una contromanifestazione. Ceri e palloncini a tutti. Vedranno i laicisti...
A Roma tutto secondo programma. Seimila rappresentanze da ogni provincia d'Italia e anche dall'estero, quasi duemila bandiere, 104 bande musicali in continuo esercizio, tra Inno di Garibaldi e Inno di Mameli, Marsigliese e Marcia reale. Corteo di molti chilometri, da piazza Termini a Campo de' fiori. Discorsi di Basso, presidente del Comitato universitario, del sindaco di Roma marchese Guiccioli, del sindaco di Nola e, infine, dell'on. Giovanni Bovio, filosofo e studioso del rinascimento e della «scienza derivata da quel gran movimento intellettuale italiano». Poi, verso mezzogiorno, in Campidoglio ad onorare – attraverso la parola del repubblicano Matteo Renato Imbriani – Garibaldi. Quindi il banchetto, nel salone dell'esposizione, con 700 coperti e... quasi altrettanti discorsi, fra cui – dopo quelli di Molesschott, Ferrari, Pianciani ecc. – quello di Pietro Fontana, presidente della Società Operaia e del Tiro a segno di Iglesias (il quale dice di sognare una statua-bis proprio in Vaticano).
Sulla scena cagliaritana, L'Avvenire di Sardegna ha recuperato qualcosa del suo antico spirito libertario ed eccolo così pubblicare – giovedì 13 – un infuocato editoriale titolato "Impertinenti!". Sono invettive, quelle di Giovanni De Francesco, ma, frammiste ad esse, anche considerazioni di pacato buon senso che dovrebbero far breccia sui lettori anche di parte avversa...
«Noi vogliamo anche ammettere che le proteste piovute al Vaticano, a quanto dicono, d'ogni parte d'Italia, contro l'erezione del monumento a Giordano Bruno, e contro le feste inaugurali, siano state spontanee – scrive fra l'altro –. Vogliamo anche ammettere che queste proteste siano frutto naturale di un sentimento nobilissimo. Arriviamo perfino ad ammettere che molti per rispetto umano non abbiano protestato, i quali avrebbero pur voluto farlo. Ma quando si pensa che a produrre il movimento non solo italiano ma universale, manifestatosi ed accentuatosi domenica in Roma, è bastata l'azione di un comitato composto di pochi giovani studenti, mentre le proteste di devozione al papa, a produrle, è bisognato l'intervento, più o meno diretto, di cardinali, arcivescovi, vescovi, prelati e preti di tutte le scale della gerarchia ecclesiastica [...], non si può non ammirare l'alto e benefico intervento della divina provvidenza. La quale fa uscire di senno – avveduta strategia – coloro che vuol perdere.
«Tutte queste proteste, invero, fomentate, eccitate dal Vaticano, non solamente rappresentano una molto scarsa forza rispetto a quella grande e irresistibile del movimento liberale; ma anche sono segno che il Vaticano ed i più caldi aderenti suoi come non sanno profittare dei benefici della esperienza, così neppur sanno leggere nell'animo del popolo. Di tanta gente che è accorsa, a Roma, in pellegrinaggio al monumento a Bruno, pochi, ben pochi obbedirono ad un sentimento profondo di aborrimento contro l'essenza della religione cattolica. Per il più [...] la religione è qualcosa di superiore ed estrinseco che neppure va messa in discussione, padroni tutti di avere nell'anima il culto del soprannaturale [...].
«Il dogma non c'entrava. La relazione v'era affatto estranea. Il papato non ci entrava se non come rappresentante di un periodo storico. Ora i clericali, chiamando Bruno rappresentante di Satana, commettono anzi tutto la piramidale sciocchezza di ammettere che le porte dell'inferno possano prevalere. Ma un'altra peggiore anche ne commettono, venendo a confessare implicitamente che la Curia vaticana deve guardare sempre di occhio torvo tutto ciò che è affermazione di libera coscienza, tutto ciò che è anche lontano indizio dei trionfi dell'umanesimo [...]. Ecco spiegato come mai si vada facendo sempre più aspro il dissidio tra papato e popolo [...].
«Badino in Vaticano. Tutte le loro proteste, tutte le loro querimonie, tutte le loro apostrofi aspre, violente, inumane, hanno questo effetto immediato: divulgare e difendere la convinzione che religione cattolica e libertà devono costituire una contraddizione in termini, se il rapido concetto della libertà non si può in veruna delle formule cattoliche adagiare liberamente. Ora, dalla resistenza passiva all'azione offensiva non v'è che un passo; i popoli offesi nel sentimento che sono il grande retaggio dell'umanità, facilmente lo varcano [...]. Le riforme in Germania ed in Inghilterra trionfarono perché l'ambiente politico e sociale erasi fatto ostile, in generale, alle pretese vaticane. Badino i curiali vaticani [...].
«Forse – è la conclusione del direttore dell'Avvenire – essi avrebbero già acquisito piena ed intera la coscienza della loro impotenza ed avrebbero agito conseguentemente, se noi liberali avessimo avuto a cuore sempre la sorte del basso clero, sottraendolo alla dominazione economica del Vaticano. Il giorno che avvenisse questo, la questione che pare adesso a molti impaurente, acquisterebbe una grande apparenza di semplicità, nella disgregazione della gerarchia».
I discorsi all'Università
Tornano come eroi, venerdì 14, i cagliaritani che hanno assistito all'evento del secolo, che hanno festeggiato colui che fu «assassinato dalla corte papale». Ad accoglierli, alla stazione delle Reali (dove giungono dopo… una corsa di dodici ore da Golfo Aranci), centinaia e centinaia di giovani e studenti. All'interno del recinto ferroviario, la Banda civica, le varie rappresentanze di scuole e sodalizi: dal "Martini" al "Dettori", al ginnasio "San Giuseppe", alla scuola tecnica "Cima", al Convitto Nazionale, all'Istituto Stenografico, alle società sportive "Garibaldi" e "Gialeto", alle società dei Sarti e dei Macellai, del Tiro a segno nazionale, dei Reduci delle patrie battaglie. Dodici bandiere vivacizzano, con la loro policromia, l'intera stazione e anche la piazza antistante, dove attendono con i... grigi docenti dell'Ateneo, i giocondi cromatismi dei ginnasti… e degli alunni del Convitto Nazionale...
Di buon grado è stato raccolto, evidentemente, l'invito contenuto nel manifesto affisso, di prima mattina, alle cantonate delle strade (e che qualche discordante, o intemperante di parrocchia, non lascerà a lungo integro): «Cittadini, oggi rimpatriano i rappresentanti dell'Università, del Municipio e della società Gialeto che, a Roma intangibile, festeggiarono Giordano Bruno, assassinato dalla Corte papale.
«A Roma, il 9 giugno si è fatta l'apoteosi del suo pensiero, si è iniziata la Religione dell'avvenire.
«Le Associazioni tutte, i Cittadini non mancheranno all'appello, di recarsi cioè alle ore 5 pom. alla Stazione delle Ferrovie primarie…
«I Roghi valgono le Croci. Intendiamoci».
Alla vista del convoglio, vaporano in cielo le note dell'Inno di Garibaldi, che muovono di sentimento patriottico l'animo di tutti quanti: «Si scopron le tombe, si levano i morti, / i martiri nostri sono tutti risorti!». Musica e colore. Gli studenti che scendono dal treno portano, in capo, il berretto frigio e recano un labaro con il nastro azzurro datato «9 giugno 1889». Subito circondati e festeggiati, con applausi, evviva ed abbracci, dai loro colleghi, si mettono in marcia, con la gran folla, alla volta dell'Università.
Il corteo segue il tragitto fissato: la via Sassari, il corso Vittorio Emanuele – c'è un avvocato che getta fiori sulla processione, da cui pronta si alza una ovazione di ringraziamento –, le vie Manno e Mazzini. Dappertutto acclamazioni: «Evviva Giordano Bruno!», «Abbasso il Vaticano!», «Viva Trento e Trieste!» (davanti al Consolato austriaco, a pochi passi dalla chiesa di Sant'Antonio abate), ed altre filofrancesi, nell'auspicio d'una fratellanza anche politica fra le nazioni latine...
Nelle prossimità del Seminario qualcuno chiede che la banda rinnovi l'Inno di Garibaldi «e appena questo viene intonato – riferisce il cronista dell'Avvenire – una sibilata solenne salutò le finestre chiuse dell'istituto cattolico».
L'aula magna dell'Università non è in grado di accogliere l'intera massa dei partecipanti alla dimostrazione. Moltissimi debbono attendere fuori, sulle scale, nell'atrio, nella strada. Gli echi dei discorsi, che pur giungeranno a distanza, avranno anche da loro la giusta dose di applausi. Si apprezzerà l'equilibrato mix di accenti anticlericali ed accenti patriottici. La professione filosofica di Giordano Bruno sarà infatti rivissuta, da ciascuno degli oratori, in singolare ma non abusiva combinazione con le urgenze politiche dell'ora, nel segno della separazione fra Stato e Chiesa...
Le prime parole di saluto sono naturalmente del rettore, il prof. Giuseppe Todde, che – ringraziato in primis il suo delegato prof. Scano – loda la componente studentesca della rappresentanza: «Ben avventurati son dessi che, baldi di gioventù e di speranze, poterono far sventolare in Roma la bandiera del nostro Ateneo al sole del meriggio della vita italica, dinanzi al monumento eretto alla libertà del pensiero». Aggiunge che, in Bruno e nel suo martirio, «riassumesi tutta la lotta del dubbio scientifico, che è il diritto dello spirito umano, contro l'ignoranza e la superstizione, la lotta dell'umana coscienza contro la forza brutale di chi volle inceppare i liberi moti, le libere aspirazioni».
E infine: «Il campo della scienza è campo di lotte anch'esso, dove se vien meno la fede che crea gli eroi della parola come quelli della spada, perduta è la causa del progresso, tronca ogni speranza di miglioramento umanitario. Giovani! – conclude il prof. Todde – serbate fervida e perenne nei vostri vergini cuori la fiamma sacra di questa fede, ritempratevi al culto di essa dinanzi all'esempio solenne lasciato al mondo dal filosofo Nolano!».
Dai presenti emerge una voce: «Abbasso i clericali, morte ai preti!», ma subito il magnifico corregge: «No, morte a nessuno. Libertà per tutti, anche per chi non la vuole, anche per chi della libertà si serve per combatterla».
La parola è quindi al prof. Gaetano Orrù, pro-sindaco della città. Espressa la gratitudine del Comune al prof. Scano ed agli studenti «che si recarono con lui a Roma per assistere all'atto civile e patriottico compiutosi in quell'alma città», egli specialmente ringrazia il giovane Marco Scano, che nel banchetto di Tivoli non ha mancato di ricordare «la nostra povera isola», associandola a quella Roma che, allo stesso modo in cui è stata «la regina del mondo come guerriera e come legislatrice», è oggi – dice – «maestra di civiltà a tutte le genti, perché in tutte le sue leggi e nei suoi atti ha consacrato le libertà civili, politiche e religiose».
Tocca adesso finalmente al prof. Antonio Campus-Serra, oratore ufficiale, il quale attribuisce un senso addirittura religioso alla trasferta dei cagliaritani. «E siate i ben tornati, o illustre signor Preside e distinti giovani della rappresentanza universitaria – così esordisce, con qualche inevitabile svolazzo retorico –, che all'alma Roma recaste il nostro saluto e lo stendardo venerato, insegna dell'ordine nostro, faceste, con orgoglio santo, sventolare sul Campidoglio! I fati di Roma si compirono e Roma, redenta da essi, si consacra, col grande evento, alla sua terza missione: missione educatrice di civiltà, di fratellanza, missione di pace e di progresso umanitario.
«I fati d'Italia si compiono e i massi rovinati il 20 settembre 1870 dalla breccia di Porta Pia stanno oggi a piedistallo dell'effigie che raffigura l'eroe della ragione e dell'emancipazione umana, Giordano Bruno lume del mondo intellettuale...
«Il vaticinio ispirato del martire Nolano si è avverato per l'Italia, si avvererà per il mondo. Roma cuore dell'Italia festeggia e decora di corone verdeggianti il monumento che sorse sul rogo che consumò Giordano Bruno; Parigi repubblicana, cuore del mondo civile, del mondo umano, eleva il monumento più ardito e pregiato della moderna industria sulle rovine della Bastiglia; sepolte rovine del dispotismo del passato.
«Trionfo dell'idea sulla materia: trionfo della ragione sulla forza. Qual vincolo più degno e più nobile poteva stringere i due popoli? – si domanda l'oratore, fra gli applausi di sostegno del pubblico – ... E qui, nel tempio della scienza, all'ombra di questa bandiera che pur lorda di sangue, ma fulgida di fede incancellabile nella libertà e nel progresso, qui è dunque giusto che si elevi l'inno della lode agli eroi dell'umanità, ai precursori di questa fede, ai martiri di essa oggi santificati dal plebiscito nazionale.
«Con questi sensi, consentite che, a nome della facoltà giuridica ed obbediente all'incombenza che me ne dà l'inclito signor rettore, io, modesto biografo di Giordano Bruno, saluti nella commissione degli studenti i nostri degni rappresentanti e vanti in essi ed ammiri i liberi sensi e civili della gioventù studiosa onore della patria».
La parola va infine al sen. prof. comm. Gavino Scano: «Forse – esordisce – qualcuno dirà che questo uomo, vecchio e stanco... non avrà la forza di rispondere al quadro che in questo momento si presenta a lui, in questa magna aula dei nostri studi. No: perché dal lampo dei vostri occhi, dagli entusiasmi che si descrivono sui vostri volti, o giovani, egli si sente quasi ringiovanito per risalire sull'erta della vita fino alle fantasie della prima giovane età. E ciò accade anche oggi, in mezzo a voi, o venerandi colleghi, o giovani elettissimi, o concittadini apprezzabili, nel ritornare a questo luogo, a tutti spettabile e a me carissimo e sacro. E innanzitutto io sento il dovere di ringraziarvi tutti delle accoglienze affettuose che venite di farci, e del plauso col quale avete abbracciato i vostri compagni di studi...
«Cadente io d'anni fra loro, sento di dover affermare solennemente che degnissimo fu il loro contegno e che compirono ogni loro dovere nel soddisfare al patriottico incarico, che fu loro affidato; e che nel loro concetto era, non solo il sentimento di onorare la memoria ed i fasti del filosofo e martire di Nola, ma era eziandio il proposito di far conoscere solennemente che i giovani sardi profondamente sentono quanto valga la libertà del pensare, del credere, del sentire; e nella coscienza loro è scolpito il convincimento che, tolta dal pensiero e dal cuore la virtù libera, e il culto libero di grandi ideali, le generazioni si corrompono e gli stati decadono.
«E valga ciò affinché i loro compagni di studi, che combattono le battaglie del pensiero e delle idee, si stringano tutti nell'apostolato sublime di collaborare allo scopo che le grandi idee si diffondano, si moltiplichino e diventino quasi invincibili falangi a respingere la ignoranza, l'errore, la superstizione».
E così continua: «Giovini eletti! Giordano Bruno passò dal rogo e dal martirio al trionfo; perché i secoli non possono disperdere le grandi memorie; e noi che vidimo inaugurarsi il monumento al grande filosofo, potemmo ammirare il trabocco delle menti e dei cuori che si raccoglieva, sul Campo de' fiori, attorno all'apostolo, che rinfacciando ai suoi giudici la ferocia del loro ferocissimo pronunziato, scriveva una pagina immortale che voleva essere un inno per la libertà del pensiero, delle credenze e delle dottrine, che dovevano riguardare i popoli, per avviarli sul cammino del progresso intellettuale e morale e di una civiltà salda e incrollabile.
«Signori, i giovani che sosteneano il fianco antico, pronunziarono ed affermarono altamente il nome della loro patria diletta: la Sardegna – e nei comizi e nelle comuni esultanze e nei liberi e castigati tripudi che li contornarono, questo nome nel recinto della Sapienza, nell'immenso corteo, a Tivoli, sulla via Nazionale e nel Corso, fu, tra grida festose, affettuosamente ripetuto ed applaudito. E ciò vuol dire che nobili e generosi sentimenti non si legano a zone, a terre, a luoghi o province; ma hanno il pregio dell'universalità delle coscienze, che, prone al culto della libertà e del credere giusto e leale, fa, del convivere civile e libero, una fratellanza indistruttibile ed una famiglia che crede, ama e spera per compiere gli alti suoi destini nel tempo e nello spazio».
Sono parole che colgono nel segno. Il sentimento liberale e laico è effettivamente diffuso nella nuova generazione colta della Sardegna, quella che dai libri sta per calarsi nelle professioni, nella responsabilità degli uffici pubblici... E la sintonia che si percepisce fra i discenti ed i loro professori sembra proprio la via giusta per procedere, nella sequenza delle generazioni ed ora nel passaggio quasi di secolo, al consolidamento delle istituzioni e della cultura civile dell'Italia venuta dal Risorgimento unitario.
A chiudere la serata è, opportunamente, uno studente: Emanuele Canepa. Anche lui ringrazia, a nome del Comitato (del quale fanno parte pure Ignazio Macis, Domenico Rubbiano ed Ettore Atzara, tutti di Giurisprudenza), quelli che a Roma sono andati e quegli altri che, serbando in sé l'idem sentire, li hanno accolti al proprio ritorno: rettore, sindaco, associazioni, studenti, cittadini d'ogni categoria. Poi soggiunge: «Molesschott ha detto: "Il Vaticano ha paura d'una statua!". Ebbene, rendiamo un cimitero tutta quanta l'Italia, ma buttiamogli in faccia le sue vittime. Hanno un monumento Arnaldo da Brescia e Giordano Bruno, lo abbiano Paolo Sarpi, Savonarola, Cecco d'Ascoli, Fra Fulgenzio, Tomaso Campanella, Lucilio Vanzai, Aorio Palerario, Ugo Bassi!...».
Dedica le ultime parole a quell'esortazione – «Intendiamoci!» - apparsa sul manifesto nelle strade. «Siano distinti i partiti, si combatta a faccia aperta, si abbia il coraggio delle proprie opinioni; non ipocrisie, non menzogne: conosciamoci d'una buona volta!». Poche battute ma, per l'entusiasmo che scatenano in sala e fuori, sembra quasi che esse facciano crollare il pur robusto palazzo Belgrano! Poche parole, anche e soprattutto, destinate ad avere un grande risultato.
Scioltasi infatti, fra rinnovate acclamazioni, l'assemblea dell'Ateneo, un seguito sarà dato registrare già nei giorni immediatamente successivi. E sul campo cattolico e, più ancora, su quello del laicismo scettico e razionalista, un po' baldanzoso e – s'è accennato – pure esso a rischio di... dogmatismo (ancorché al rovescio di quello dei clericali).
Le proteste dell'arcivescovo sul pergamo
«Parlerà monsignore, risponderà per le rime…», è la voce che corre in città. E infatti giovedì 20— solennità del Corpus Domini - parla mons. Vincenzo Gregorio Berchialla, da ormai otto anni metropolita della Diocesi. Difende il giudizio storico e teologico espresso dalla Chiesa di Roma sul sistema filosofico del Nolano, non senza allargare le sue considerazioni – anche lui – all'attualità del dibattito dottrinario e politico, alle ragioni del papato "prigioniero" nella città leonina, alla inaccettabilità per il mondo dei credenti, o per il cattolicesimo organizzato, dei postulati scientisti così come della rivendicazione laicista in tutte le sue variazioni...
Niente di nuovo rispetto a quanto ha affermato il giorno di Pentecoste, in occasione del solenne pontificale celebrato nella primaziale giusto in contemporanea alla «cerimonia massonico-giudaica» - parola di arcivescovo – in svolgimento nella «capitale del cattolicesimo». Allora ha protestato – cos'altro poteva fare, senza l'arma della profezia? – contro il «nefando monumento, che rappresenta la glorificazione della turpitudine e del vizio, l'odio più feroce contro il cattolicesimo e il papa». Al termine della messa si è addirittura prostrato ai piedi dell'altare ed ha recitato alcune preghiere in riparazione dell'«iniquo oltraggio».
A Berchialla – autorizzato o meno che sia – si è subito associato a San Domenico, cogliendo l'occasione della festività del Sacro Cuore, un ignoto religioso. All'uscio della chiesa il sacrista («scaccinosmoccolatore» io chiamano, con qualche disprezzo, gli "anti" che ne contestano l'iniziativa) ha affisso l'"invito sacro" con il programma della complessa liturgia: santa messa solenne, esposizione del Santissimo Sacramento, benedizione, corona del Sacro Cuore e... «discorso di protesta e atto di riparazione per lo scandalo compiutosi in questi giorni nella cattolica Roma».
Né mancheranno, più avanti, altre occasioni per rinnovare preoccupazioni e proteste. Tutto il residuo calendario liturgico del 1889 sembra anzi ritmato dalla bruciante necessità di difesa dall'assedio: iniziando dalle solennità del "Cuore adorabile di Gesù" (28 giugno) e dei Santi Pietro e Paolo (29 e 30 giugno), occasione speciale per invitare a pregare «il glorioso principe degli apostoli perché protegga e difenda la sua Chiesa, la liberi dalle insidie palesi ed occulte dei suoi nemici e mantenga incolume il suo glorioso successore Leone XIII»...
Ma ciò vale anche per le non rare circostanze di pubblicazione delle circolari episcopali, per accompagnare ora l'allocuzione pontificia al Concistoro romano, ora l'enciclica Quamquam pluries: appunto per deprecare la «guerra ostinata che si fa oggidì alla Chiesa e al Papato» e le «dimostrazioni a cui dette luogo recentemente la inaugurazione del monumento innalzato dalla Massoneria nella capitale stessa del cattolicesimo al disgraziato apostata di Nola», appunto per sostenere le ragioni pontificie affidando alla celeste «regina della Vittoria» ogni combattimento «contro l'inferno ed i figlioli del Demonio che sono i perfidi giudei, i franchi muratori, i figli innaturali del giudaismo e gli empi, d'ogni fatta che contaminano la terra ed ammorbano l'acre con puzzo dei loro vizi sfrontati».
Un'appendice bruniana si avrà, nella pubblicistica cittadina, a novembre. Dall'archivio storico della Confraternita di San Giovanni decollato (la stessa che doveva assistere, con i conforti di santa religione, i condannati a morte, quelli politici compresi) è sbucato un memoriale importantissimo. Vi si legge: «Andata la compagnia a togliere il frate heretico al carcere di Tordinova per condurlo al supplizio, pria di menarlo a Campo de' fiori fu dato in mano a sette frati, ossia 2 domenicani, 2 del Gesù, due filippini, e un girolamino, perché lo inducessero a ritrattare. Ma egli – dice l'ammonitore – stette saldo nella sua ostinazione e, condotto al rogo, è stato legato nudo al palo e gli si diede il fuoco mentre i fratelli di San Giovanni intonavano le litanie e le altre preci misericordiose... E così terminava quella vita misera et infelice...».
Bruciato vivo. Commenta Il Risveglio, il settimanale cattolico (obbedientissimo a mons. Berchialla) che si stampa presso la tipografia di Sant'Eulalia: «Ma che perciò? Il bruciar vivo un malfattore, nel secolo XVII, era come condannarlo oggi alla galera a vita ( ... ). La Chiesa cattolica non ha da vedervi. Essa non faceva, come non fa attualmente, che giudicare delle dottrine professate e predicate, e trovatele condannabili e non ritrattate, consegnava l'autore al braccio secolare che gli applicava le pene prescritte dal codice allora vigente ( ... ). Noi certo non vorremmo vedere bruciare vivo un uomo, ma non vorremmo neanche vedere la carneficina che da infami assassini si fa dei galantuomini per tutta Europa. Se per impedirla fosse necessario lo spettacolo di una combustione, noi chiuderemmo gli occhi per non vederla, ma non andremmo a gettar acqua su quel rogo».
Un "no" ai roghi ma con riserva, insomma, quello dei clericali cagliaritani novembrini, cento anni dopo la Rivoluzione francese. Da essi non manca neppure l'anticipazione di una chicca giornalistica: risulterebbe che Giordano Bruno sia stato condannato sì per apostasia ma anche per «gravosissimi delitti contro il buon costume». Sicché...
I roghi e la Chiesa. Sbaglia – scrive ancora Il Risveglio – il giornalismo pagato «cogli stipendi della setta giudaico-massonica» a gettar la croce addosso all'Inquisizione: «Il sistema di procedura (era) poco dissimile a quello che si usa oggidì dai tribunali laici dei popoli civili, e cioè con tutte le garanzie possibili per l'accusato».
Ancora novembre. Da Bari giunge notizia di un violento conflitto che oppone l'arcivescovo Mazzella al Capitolo palatino, che s'è rifiutato di celebrare, nella basilica di San Nicola, il triduo espiatorio contro il povero Giordano Bruno. Dopo la disubbidienza, monsignore ha preteso che i canonici salissero in episcopio per scusarsi, ma al rifiuto di quelli li ha sospesi dalle confessioni. Nuova ribellione, con il singolare appello del Capitolo al ministro Zanardelli, liberale e massone: «Noi dipendiamo non dal metropolita di Bari ma da sua maestà il re d'Italia!» (non importa se scomunicato).
Davvero ultimo scampolo novembrino, con riverbero di curiosità a Cagliari. Nella capitale si costituisce una nuova associazione denominata "Circolo rivoluzionario repubblicano Gesù Cristo", il cui scopo statutario è quello di «diffondere nella gioventù le dottrine umanitarie dei grandi propugnatori dell'uguaglianza, della fratellanza e della libertà: Cristo, Bruno, Mazzini e Garibaldi».
Verrà una loggia nuova a Cagliari
Ma è soprattutto sul fronte alleato dei massoni (a Cagliari senza loggia ormai da quasi un decennio, dopo la demolizione della "Libertà e Progresso") che la celebrazione di Campo de' fiori ed il suo bis cagliaritano nell'aula magna dell'Università producono effetto: perché la santa memoria bruniana finirà per estendersi fino a recuperarne un'altra, addirittura temporalmente precedente, non meno nobile e, nonostante le sue radici locali che pur l'avrebbero dovuta rendere maggiormente interessante ai sardi, confinata nelle ingiallite pagine dei libri. Quella di Sigismondo Arquer.
All'interno del «movimento iniziatosi a favore della libertà di pensiero e di coscienza», e con lo scopo precipuo di onorare «la memoria di coloro i quali santificarono, col sagrifizio della vita, il trionfo di un'idea», Museto – pseudonimo dietro il quale si cela un qualche ghibellino cagliaritano - indirizza infatti all'Avvenire di Sardegna (che la pubblica il 25 giugno) una lettera di sollecitazione ad una fiera reviviscenza laica che investa Cagliari tutta. Senza equivoci però, ché pare finalmente giunto il tempo della conta fra chi è per la libertà di pensiero, di culto e politica, e chi resta abbarbicato sui fronti dell'oscurantismo.
Memore di quello slogan che è circolato in città nei giorni dell'apoteosi bruniana («I roghi valgono le croci! Intendiamoci»), argomenta e propone, dunque, il buon Museto: «Il risveglio che si accentua nella nostra gioventù, che con la gioventù di tutta Italia, col sangue vivo della nazione, è andata all'alma Roma a proporvi l'unica gloria che ancora mancava alla città eterna: la gloria della giovinezza forte e amorosa di fronte alla senilità vacillante nel proprio orgoglio; questo grido di "excelsior", che pare tutti i giovani d'Italia s'abbiano passato come la parola d'ordine dell'esercito dei futuri riscatti, m'incoraggia a una proposta.
«Recentemente un giovine studente, spiegando una parola, disse: "Intendiamoci!, leviamo di mezzo gli equivoci, conosciamoci".
«E sia! Combattiamo d'una buona volta per un ideale che sia qualche cosa di nobile e di santo, e combattiamo come si combatte fra apostoli di diversi principii, non come si lotta tra clienti o liberti di diversi padroni.
«Ogni città d'Italia, che sa d'avere annoverato fra i suoi figli un martire da porre innanzi al vessillo della ribellione contro il comune nemico, si appresta ad erigergli un monumento; e così Venezia avrà il suo per fra Paolo Sarpi e Firenze per il Savonarola. Anche noi abbiamo il nostro Sigismondo Arquer, che fu arso vivo a Toledo nell'autodafè del 4 giugno 1571 accusato come luterano, per avere egli, che avea studiato teologia, esposto le condizioni tristi della Sardegna sua patria – era nato in Cagliari nel principio del secolo XVI – censurando i vizi del clero sardo: meriterebbe la sua statua.
«Ora la mia proposta è semplicissima: le condizioni del paese non permettono certo di erigere dei monumenti grandiosi; facciamo una modesta lapide, col concorso di tutti i liberali. Gli studenti prendano l'iniziativa aprendo una sottoscrizione a cinque, dieci centesimi ciascuno. Dalla sottoscrizione siano esclusi gli anonimi, ciascuno firmi col proprio nome e cognome e non sia permesso sottoscrivere per una somma maggiore onde facilitare il concorso a tutte le borse; il numero dei sottoscrittori supplirà alla povertà della somma.
«Non è questione di quattrini: è semplicemente questione di intenderci! [...]».
Sarà questa la proposta che il prof. Leonardo Ricciardi, titolare di chimica e preside del "Martini", reitererà nel febbraio 1890 dopo la conferenza del suo collega Manzi all'Università e la pubblicazione del testo, prima a puntate sull'Avvenire di Sardegna e quindi in un volumetto di laica testimonianza.
Appunto quella conferenza, quella ricerca di Luigi Manzi, docente di geografia allo stesso Istituto Tecnico Commerciale e Nautico. Si svolge tutta nel periodo intorno a Natale la polemica su Sigismondo Arquer che vede rispettosamente (senza amicizia ma anche senza rancore) "duellanti" l'egregio conferenziere ed il collega "dettorino" Felice Uda, degno nipote di Ludovico Baylle (nonché, pure lui, di remota esperienza latomistica fra le Colonne della loggia "Vittoria"). Una polemica alla quale L'Avvenire di Sardegna offre il campo, naturalmente neutro.
20, 21, 23, 25 dicembre: sono i quattro tempi di una partita combattuta dai due concorrenti (pur se, va ripetuto, ideologicamente solidali). Inizia Luigi Manzi che, in vista della programmata pubblica conferenza sull'orgogliosa, nobilissima vittima della prepotenza politico-confessionale del tardo Cinquecento sardo-spagnolo, si rivolge «a tutti coloro che possano avere documenti inediti su tale importante argomento», affinché glieli facciano conoscere: «perché le ricerche a tal'uopo già fatte siano possibilmente completate!». E le ricorda, a questo punto, le ricerche e così i documenti disponibili: le lettere degli Aymerich, conservate nell'Archivio di Stato, e le notizie fornite dalla Storia dell'Inquisizione di Spagna del Llorent, uscita nel 1820. Poco, troppo poco.
E' immediata la protesta del prof. Uda – appassionato indagatore di storia locale e poligrafo inesauribile – il quale riferisce che il brano del Llorent relativo all'Arquer fu da lui «unito, dopo averlo trascritto – precisa – di mio pugno, all'unico esemplare che nella biblioteca universitaria si conserva del libro dello stesso Arquer. O perché, dunque, non usare la gentilezza di citarmi?».
Questa la ragione della protesta: l'orgoglio ferito del ricercatore. Il quale ricercatore ferito, congedandosi, spiega che il motivo «ond'egli [l'Arquer] cadde in mano e fu assassinato religiosamente dall'Inquisizione di Spagna e dal Santo Ufficio di Valladolid, si fu l'avere egli scritto nella sua storia queste testuali parole contro i preti di Sardegna: Magis valent procreandis liberis quam legendis libris».
Manzi è pronto a replicare: spiega che il brano era stato già scoperto, citato e commentato dal Martini nella sua Bibliografia degli uomini illustri di Sardegna; rileva che Uda non fa che ripetere le osservazioni del Tola le quali, peraltro, appaiono eccessive perché «la critica storica oggi non può ammettere che egli [l'Arquer] sia stato condannato per queste sole parole»; avverte che dirà cose nuove, nella prossima conferenza, proprio su questo punto.
La palla torna ad Uda che propone l'elenco intero degli autori che hanno scritto sull'Arquer (Vico, Manno, Siotto-Pintor, Tola, Martini), oltre al Llorent, il quale fu il segretario dell'Inquisizione e «registrò, da archivista coscienzioso, la dottrina, i principii e il martirio dell'Arquer in faccia ai suoi carnefici». Egli manifesta poi scetticismo circa la concreta possibilità di portar fuori – se non minutaglia cronologica e interpretazioni vacue e di comodo – nuova interessante documentazione: «Quando si sarà rievocato il ricordo di Giordano Bruno e di Arnaldo da Brescia con molta retorica, molto arrosto e molto Brabande – insistendo per un monumento che non avremo forse mai – allora che cos'altro ci sarà da dire se non questo che io scrivo?». Resta l'ammirazione fiera e incondizionata di Uda verso la memoria del martire suo concittadino.
La risposta definitiva di Manzi viene con la pubblica conferenza (e la successiva stampa del testo) e, poco tempo dopo, con la fondazione della loggia intitolata proprio a Sigismondo Arquer.
Il testo della lunga e dotta relazione (letta il 2 febbraio davanti a un foltissimo pubblico) viene presto stampato, presso la Tipografia Editoriale dell'Avvenire di Sardegna, sotto il titolo di Sigismondo Arquer geografo e storico del secolo XVI, ed è prefato dal prof. Leonardo Ricciardi, di cui è riprodotta una lettera inviata a Giovanni De Francesco, direttore dello stesso Avvenire di Sardegna, e da questi pubblicata nell'edizione del 5 febbraio. Il quale Ricciardi – primo Maestro Venerabile (e poi, dopo il trasferimento da Cagliari, Venerabile ad honorem e ad vitam) della nuova Officina libero-muratoria cittadina – coglie lo spunto per ricordare la sua proposta di «un ricordo marmoreo nell'atrio dell'Università, per eternare il glorioso nome di Sigismondo Arquer» e segnalare alla considerazione di tutti che «il martire cagliaritano precedette Bruno nell'affermazione della libertà di coscienza».
Aggiunge quindi il Venerabile (destinato a sua volta a una bella carriera nel Tempio, fino al grado apicale di Sovrano Gran Commendatore del Rito Scozzese Antico e Accettato negli anni di poco successivi alla scissione ferana): «A Roma, nella stessa piazza, ove i preti bruciarono vivo il grande filosofo, oggi sorge di contro al Vaticano un monumento, che dirà ai secoli la libertà, che ci siamo conquistati. Ebbene, perché Cagliari, anche modestamente, non deve eternare il suo martire? Io propongo perciò di aprire una pubblica sottoscrizione pel conseguimento della mia proposta, e metto fin d'ora a disposizione della S.V. il mio modesto contributo di lire 10».
La stampa auspicata (e quindi effettivamente realizzata, prezzo 50 cent. la copia) della conferenza del collega-Fratello Manzi, oltre a «risvegliare nei giovani il sentimento liberale contro l'oscurantismo», potrebbe – ad avviso di Ricciardi – «concorrere ad affrontare in parte le spese della lapide».
Un desiderio, questo, purtroppo rimasto tale. Nonostante l'evidente opportunità ed anche il convergente auspicio con il quale lo stesso prof. Manzi ha concluso il suo lavoro detto e scritto: «E noi dobbiamo in questa Università fare scolpire a caratteri d'oro il suo nome [dell' Arquer], perché qui, dove la storia dev'essere imparziale dispensatrice del biasimo e della lode, qui dove oggi si riconosce il dritto spettante a ciascun uomo di stabilire la propria fede senza alcun pregiudizio alla personalità giuridica, ogni cittadino riverente chini il capo dinanzi a quegli che col sacrificio della vita ha iniziato il trionfo della libertà di coscienza».
Nessuna lapide, o almeno questo risulta. Ché neanche della formale comunicazione al Gran Maestro Lemmi del progetto della loggia "Sigismondo Arquer" di voler «apporre un ricordo marmoreo per eternarne la memoria» si ha alcuna documentazione di un seguito effettivo.
«Prima di promuovere un'agitazione nel mondo profano, la Loggia vuole procurarsi l'adesione morale dei più cospicui uomini, che oggi vanti l'Italia, e perciò si rivolge a voi, Potentissimo Fratello, per avere l'autorevole vostra adesione»: queste le intenzioni e questo l'appello inoltrato nel 1890. Cui, sollecito, risponde Adriano Lemmi: «Plaudo all'idea di rammentare ai presenti ed ai posteri Sigismondo Arquer, bruciato vivo il 4 giugno 1571 in Toledo, per opera dell'Inquisizione cattolica. Scrivete dunque il mio nome fra i promotori di un ricordo marmoreo a quest'altro martire della libertà del pensiero.
«Per quanto alcuni dicano che oramai i monumenti son troppi, io credo che questo vittorioso risorgere di coloro che soffersero supplizio per intolleranza sacerdotale, valga a rendere più luminosa l'idea per la quale morivano, e ricordando alle moltitudini gli orrori sanguinosi del vecchio fanatismo, affretti ed assicuri il trionfo della civiltà e della ragione».
Sarà, con tutta probabilità, il contemporaneo trasferimento sia di Ricciardi che di Manzi da Cagliari a – rispettivamente – Reggio Calabria e L'Aquila, in logica di avvicinamento alle sedi di residenza, all'inizio del prossimo anno scolastico, a depotenziare l'istanza e il movimento che s'è cercato di animare attorno al "ricordo marmoreo", lasciando questo nel cassetto dei sogni...
Anticlericalismo militante? La supplenza massonica...
Non c'è niente da fare. Il volontarismo studentesco è destinato a durare, per forza di cose, il tempo degli studi. Poi – venuta la laurea – altre priorità ed urgenze subentrano negli interessi individuali, piuttosto legate agli sbocchi professionali. Così le stesse associazioni che hanno animato la scena della protesta ideologica sono soggette alle cadenze dei percorsi personali. Perché talvolta il ricambio "generazionale", o almeno di classe anagrafica, non è felice, la cessione di entusiasmo non sempre riesce perfetta né positiva o fruttuosa. Conseguenza: pausa, temporeggiamento, forse demotivazione, forse dispersione di chi pur avrebbe desiderato continuare...
Il subentro, magari, di elementi meno interessati, se non addirittura indisponibili a perseguire fini non condivisi – come può accadere nel Circolo Universitario, che cerca di barcamenarsi non spingendo troppo sulle scelte marcatamente dottrinarie e di parte –, tutto questo finisce per determinare un andamento a singulto, a stop and go insomma, che rischia di vanificare in un anno quel che si è seminato in un lustro o in un decennio... Ma questo è proprio quel che succede. All'anticlericalismo vissuto nell'organizzazione capita, a Cagliari, giusto questo, perché è anticlericalismo di giovani.
Di lato c'è quello politico, anch'esso in flusso irregolare, modulato dalle contingenze della scena parlamentare, dalle risultanze elettorali delle spinte e controspinte di comitati, leghe, unioni o sodalizi d'area. E' questione spesse volte di tattica, e perciò di opportunità, che consiglia o sconsiglia le formazioni politiche di spingere o meno l'acceleratore sulla rivendicazione laicista.
Ma fuori dagli ardori giovanili e dalle convenienze dei partiti, l'anticlericalismo "istituzionale" nell'Italia umbertina e crispina, non ancora giolittiana, non può esser che appannaggio della Massoneria, passata – giusto un lustro prima dell'inizio del nuovo secolo – al supremo maglietto di quell'austero mazziniano di sangue israelita e di nome Ernesto Nathan. Tanto devoto ai lasciti, anche libero-muratori dei padri del Risorgimento (ma nel segno più della democrazia che del liberalismo), quanto rigoroso nella difesa della pregiudiziale laica nell'ordinamento dello Stato e nel governo stesso della capitale di cui sarà sindaco: la città – va ricordato – il cui vescovo è nientemeno che il pontefice rinchiuso nella città leonina, ancora offeso per l'esproprio manu militari dei secolari domini della Santa Sede Apostolica.
Nathan Gran Maestro dopo Adriano Lemmi, il banchiere del Risorgimento, significa tutto un fervore di iniziative, di templi nuovi, di più ardito proselitismo e protagonismo civile e anche politico della Comunione massonica...
E Cagliari? E la Sardegna? Da quasi dieci anni non funziona una loggia in tutta l'Isola quando, a metà 1889 in quel di Ozieri e nella primavera dell'anno successivo nel maggior capoluogo provinciale, alcuni artieri di buona volontà rialzano i primi le Colonne della "Leone di Caprera" ed i secondi – in uno sforzo inedito e sorprendente – s'approssimano al cantiere della "Sigismondo Arquer".
In città hanno capitolato, una dopo l'altra, negli anni fra il 1877 ed il 1880, la "Vittoria e Fedeltà" e la "Gialeto", e nel 1881 la "Libertà e Progresso". Altrove la crisi non è stata meno dolorosa e radicale: demolite, in successione, nel decennio che pur avrebbe dovuto onorare Roma capitale, sono la "Eleonora" di Nuoro e la "Mariano d'Arborea" di Oristano, la "Goffredo Mameli" di Sassari e la "Leone di Caprera" (prima edizione) di Ozieri, l'"Antro di Nettuno" e la "Giuseppe Dolfi" – entrambe algheresi – e la "Spartaco" di Tempio Pausania, l'"Eroica Macopsissa" di Macomer e la "Domenico Alberto Azuni" di Porto Torres, la "Sivilleri" di Villasor e l'"Ugolino" di Iglesias.
Quest'ultima – così come l'ozierese – conoscerà una stagione di ripresa, ma non sollecita come si sarebbe sperato. Perché il "la" al risveglio latomistico lo può dare soltanto Cagliari. E dalla città che saprà onorare Sigismondo Arquer il moto nuovamente si allarga, infatti, all'intera Isola: nel 1891 tocca a Carloforte (loggia "Cuore e Carattere"), nel 1893 a Sassari (loggia "Gio.Maria Angioy") ed a La Maddalena (loggia "Giuseppe Garibaldi"). Poi ancora ad altri siti: nel 1898 ad Iglesias con la "Ugolino" bis, nel 1901 al capoluogo stesso con la "Nuovo Secolo", e dopo nuovamente a Sassari con la "Roma", ad Alghero con la "Vincenzo Sulis", a Tempio con la "Andrea Leoni", ad Oristano con la "Libertà e Lavoro", di nuovo a Cagliari con la "Karales", a Sassari con la "Efisio Tola", a Bosa con la "4 Novembre"...
Il filo rosso che tutte le collega queste esperienze templari sparse per l'intero territorio isolano, è il "libero pensiero", l'antidogmatismo e l'anticlericalismo, financo con spunti di irreligiosità che pur non sarebbero coerenti con il pacchetto ideale o teorico della Libera Muratoria. I discorsi ufficiali in occasione dell'insediamento delle cariche rituali, quegli altri occasionati dal calendario civile – per San Mazzini o San Garibaldi, per il XX Settembre o quant'altro –, tutti ripetono argomenti e toni, più spesso enfasi, d'un ghibellinismo inarrendevole...
… e gli ardori dell'estrema sinistra
Ma se a Cagliari e, in generale, in Sardegna la bandiera dell'anticlericalismo nell'ultimo decennio del secolo è appannaggio quasi esclusivo – sul piano civile della loggia "Sigismondo Arquer" (e appunto, a Carloforte della "Cuore e Carattere", ad Iglesias della risorta "Ugolino", a Sassari della "Gio.Maria Angioy", a La Maddalena della "Giuseppe Garibaldi"), insomma della Massoneria sostenuta o affiancata da autonomi sodalizi di vario rango patriottico, liberal-monarchico o liberal-democratico che sia, su quello propriamente politico essa è portata, senza tentennamenti, dalle forze dell'Estrema radicale, repubblicana e socialista.
In forme varie le sezioni dei partiti – i repubblicani dal 1896, i socialisti dall'anno prima (mentre i radicali si struttureranno in partito soltanto nei 1904, a Cagliari come a Sassari) – riusciranno a combinare l'istanza sociale a favore dei ceti deboli con la forte rivendicazione laica: così ad esempio, e soprattutto, nel campo dell'istruzione primaria. Certo, i repubblicani non come i socialisti, e viceversa.
Non allignano ancora, invece, circoli ed associazioni come quelli iesce a prendere piede, non a Cagliari e tanto meno altrove, quel variegato movimento organizzato che nella penisola ed in Sicilia (oltre che all'estero) ha posto al centro del suo programma la più rigorosa laicità dell'ordinamento, ma anche l'affermazione di valori civili e culturali nel segno del razionalismo.
Nella lettura che ne danno, sia pure ciascuna con una vibrazione particolare, le forze dell'Estrema democratico-socialista, la battaglia laicista si giustappone, spesso fino a confondersi con essa, all'istanza politica. Sarà per l'ideale repubblicano nei mazziniani – in prevalenza giovani studenti ed operai, qualche avvocato e medico, qualche artista –; per la disciplina pubblica dei servizi a larga utenza civica per i radicali; per la contrattazione perequativa in fabbrica o in cantiere e le case popolari per i socialisti. Ma insieme c'è il rifiuto delle avventure coloniali (e siano pure volute dal maggior esponente – quasi solo superstite – dell'epopea risorgimentale: Francesco Crispi), c'è la resistenza all'autoritarismo censorio monarco-governativo – almeno a partire dal fatidico 1898 – e la solidarietà agli irredentisti, c'è il culto delle memorie patrie – soprattutto fra repubblicani e radicali – sempre nel segno della democrazia: la Repubblica Romana, Cavallotti, Mazzini, Garibaldi, il XX Settembre, Oberdan...
Il calendario democratico cadenza la partecipazione civica delle minoranze, con le loro devozioni, le processioni, i canti, gli slogan, le corone d'alloro sulle lapidi (ora a palazzo Onnis ora al municipio castellano, ora al Monumentale), i discorsi celebrativi.
Ci sono poi le gare elettorali, una volta politiche e un'altra amministrative. Con alterne soluzioni – ora di cartello ora di lista autonoma –, certo è però che un filo rosso collega fra loro formazioni e attività: la diffidenza e anzi l'avversione per tutto quanto sa di dogma religioso e, ancor più, di chiesa...
La testimonianza degli evangelici
Chi, nel campo anticlericale o degli avversari della Chiesa-potere, fa la sua parte muovendo chiaramente, però, da motivazioni non scientiste o razionaliste bensì spirituali e bibliche è la piccola comunità evangelica che, nell'ultimo decennio dell'Ottocento, ha il suo oratorio, a Cagliari, giusto all'angolo fra il corso Vittorio Emanuele e la piazza Yenne.
Pastore battista è un mazziniano irredento tutto fuoco repubblicano e garibaldino – Pietro Arbanasich –, che alle ragioni dell'anima unisce, in perfetta simbiosi, quelle civili e patriottiche. Così, nella calendarizzazione delle periodiche conferenze ai suoi Fratelli non manca di portare gli argomenti che soltanto apparentemente sono fuori dal tracciato religioso. Avrà, negli anni e decenni successivi, ottimi eredi: fra essi merita ricordare, per la somiglianza intellettuale, soprattutto Francesco Lo Bue, che oltre ad essere anche lui repubblicano è pure massone, oratore della loggia "Sigismondo Arquer", e di motivi per "puntualizzare" su libertà di coscienza e laicità dello Stato ne avrà forse anche di più...
A scorrere, sia pure rapidamente e rapsodicamente, l'agenda delle trattazioni svolte nel tempio evangelico lungo l'ultimo decennio del secolo XIX non sorprende dunque incontrare, fra il molto altro, una commemorazione di Luigi Kossuth (aprile 1894), o temi come "Il sentimento religioso in Italia e l'opera di Giuseppe Garibaldi" (maggio 1894), "Clericali e anticlericali" (settembre 1894, in coincidenza con la ricorrenza di Porta Pia), "E' il popolo una gloria d'Italia?" (aprile 1897), "Il 2 giugno e gli evangelici" (giugno 1897), "Il plebiscito del 2 ottobre 1870" e "Giù la maschera" (settembre-ottobre 1897), "E' il matrimonio civile un concubinaggio secondo le Scritture?" (giugno 1899), "Uno dei nostri morti, Arnaldo da Brescia" (novembre 1899), e così via. Magari fino alle conferenze – tre in successione – del 1902, dedicate al tema del momento: il divorzio. Così, "L' Antico e Nuovo Testamento, in dati casi, non sono contrari al divorzio", "Due sacramenti in lotta fra di loro", "La legge canonica, i concili e la storia: le ragioni di opposizione alla Chiesa dell'oggi".
Ma il pastore Arbanasich non si risparmia mai neppure davanti alla chiamata dei compagni politici. Così nel 1896 è lui a tenere la commemorazione garibaldina, al Monumentale, dopo che un lungo corteo di democratici, repubblicani e socialisti ha raggiunto, per la deposizione di una corona di fiori e d'alloro, la lapide a suo tempo collocata dagli studenti universitari: «Nel nome grande di Garibaldi, il popolo deve fulminare i ladri, gli affaristi, gli speculatori che cercano di insozzare e di inceppare il progresso civile dell'Italia... Un altro uomo sorga a compiere l'opera di Garibaldi, piantando sulle balze del Trentino, sulle rive di Trieste, il vessillo tricolore.. . ». E' il sogno della patria unita, repubblicana, laica.
E' presente, Arbanasich, quando si tratta di ricevere a Cagliari i deputati Taroni e Zavattari – quest'ultimo capo dei facchini di Milano – venuti per inaugurare un'altra lapide – questa a Vincenzo Brusco Onnis – la cui epigrafe è stata dettata nientemeno che da Giovanni Bovio. E' presente alla commemorazione di Felice Cavallotti, caduto nel 1898 in una sfida alle armi, e – sulle scale del municipio, di fronte alla cattedrale offesa, per una commemorazione bis – nel primo anniversario. E' presente, il 20 dicembre 1897, per celebrare l'eroico Oberdan, «pieno e ardente di santo amor per la sua terra, desideroso di toglierla al giogo straniero». E' presente ancora il 2 giugno 1900, nei locali della Fratellanza repubblicana, per ricordare «le gesta gloriose del Generale e le sue virtù civili».
La sparsa galassia anticlericale
Le prime associazioni del "libero pensiero" sono sorte in Italia nel 1865: a Siena, Milano, Firenze, nelle altre grandi città. Fino a Cremona, nel 1867, su incitamento diretto di Garibaldi ed a cura di Mauro Macchi ed Arcangelo Ghisleri.
Al Concilio piino del-1869 – quello dell'Infallibilità – ha risposto l'Anticoncilio napoletano convocato da Giuseppe Ricciardi, con delegati da mezzo mondo: Messico, Austria, Ungheria, Germania, Transilvania, Romania, Stati Uniti, Sud America, Tunisia... Massoni ma non soltanto massoni. Nel novero dei Fratelli anche i cagliaritani della loggia "Libertà e Progresso", con il proprio Venerabile pro tempore Bartolomeo Ciotti, ed il deputato Giorgio Asproni – sardo di Bitti, mazzinianissimo amico di Garibaldi.
La fatidica breccia di Porta Pia ha condotto a Roma il centro delle attività anticlericali. C'è stato chi ha sofferto, in un'aula di tribunale, per non aver voluto giurare sul Vangelo cristiano. Associazioni come quella operante nella capitale (ad iniziativa del veneziano Ferdinando Swift) sono germinate in altre città, fra cui Venezia, dove la Società Atea ha potuto vantare la presidenza onoraria di Garibaldi e la partecipazione, fra i molti altri, di Felice Cavallotti – leader del radicalismo parlamentare – e Stefano Canzio, Alberto Mario ed Agostino Bertani, ecc.
Nei primi anni '80, nella Roma ormai di Leone XIII, un numero impressionante di circoli – uno almeno in ogni rione, ciascuno di 500 e 600 associati – ha aderito alla Lega Anticlericale Internazionale, fondata in Francia dal pur inquietante Leo Taxil (che infatti abbandonerà, un giorno, il campo, passando a quello avversario, per inquinare anche quello). Altri circoli – questi riuniti nella Lega Anticlericale Popolare (editrice del giornale L'Anticlericale) - hanno iniziato la loro attività nelle ex capitali Torino, Firenze, Milano, Napoli...
A Napoli, appunto, con "Gli Umanitari" (e il giornale L'Umanità) soci Garibaldi e Giovanni Bovio, fra i numerosi altri; a Firenze con il gruppo "Michelangelo", fieramente antigesuita, e l'appoggio di Federico Campanella..., non manca forse nessuna, fra le grandi città, a puntare l'indice sulla vera o presunta revanche della Compagnia di Gesù o della Chiesa cattolica tutta all'ingrosso, a detrimento dello Stato liberale e del costume civile della popolazione...
Da Buenos Aires sono giunte ad Aurelio Saffi ben 500 lire per sostenere la campagna anticlericale, e lui – il triumviro della nobile e sfortunata Repubblica Romana – le ha destinate alla stampa degli scritti mazziniani...
Il primo congresso internazionale del "libero pensiero" – purtroppo in imprevedibile concomitanza con i funerali parigini di Victor Hugo (il che ha finito per trattenere in Francia diversi autorevoli delegati e relatori transalpini) – s'è svolto, nel maggio 1885, nella capitale italiana, presso la sede della Federazione Democratica. Hanno partecipato quasi quattrocento società italiane, spagnole, svizzere, francesi. Questa la finale delibera del congresso: «... fa voti che i liberi pensatori di ciascuna nazione uniscano i loro sforzi per ottenere dai governi rispettivi la soppressione dell'ambasciata presso il Vaticano».
La chiusura dei lavori ha coinciso con il terzo anniversario della scomparsa del Generale Garibaldi, ma nessun discorso celebrativo – né al Campidoglio (dov'era previsto) né a Campo de' fiori (dove le associazioni s'eran date convegno) – ha potuto essere tenuto per l'intervento violento della forza di polizia che non s'è peritata di sequestrare anche una bandiera francese con la scritta «né Dio né preti»...
Questo per dire della Lega Internazionale e dei suoi primi congressi, o dell'Associazione Nazionale del Libero Pensiero e dei suoi circoli. Ma in parallelo ad essi va pure ricordata, anche per qualche pur indiretta parentela sarda, l'Associazione elettorale "Giordano Bruno" nel rione Borgo della capitale. Nel Comitato direttivo è anche Ulisse Bacci, a lungo Archivista-Segretario del Grande Oriente d'Italia negli ultimi decenni dell'Ottocento. L' Associazione "Giordano Bruno" segue da presso, a fine 1888, portatrice di un intransigente programma razionalista che spaventa lo stesso Crispi... Ad essa collegato è il Comitato Universitario cui partecipa anche il mezzo sardo Paolo Orano (al tempo sociologo/antropologo in fieri e prossimo deputato sardista e poi fascista), ed è a tale organizzazione che si deve, soprattutto, l'iniziativa di giugno 1889 a Campo de' fiori.
La "Giordano Bruno" diventa, grazie al suo attivismo, il maggior protagonista della galassia anticlericale ed irreligiosa degli anni '90, o almeno del primo lustro degli anni '90: ad ogni 17 febbraio essa trova il modo e il luogo per un'acconcia commemorazione del suo eroe, o per l'inaugurazione di un monumento, se a Garibaldi invece che a Bruno va bene lo stesso (come avviene infatti nel 1891 a Nizza).
Il suo nemico principale – più ancora di quello "chiercuto", che è scontato e dichiarato – è la polizia che non perde occasione di reprimere ora le proteste per l'avvenuta proibizione delle feste per il XX Settembre nel rione Borgo, ora la campagna per l'abrogazione della legge delle guarentigie ed il primo articolo dello Statuto Albertino (quello sulla religione di Stato).
Come un tempo sotto il governo pontificio, tornano – nei tempi pur di Crispi, di Rudinì e Giolitti – le catacombe laiche. L'ultima riunione semiclandestina è quella del 17 febbraio 1895.
Del volumeDei circoli anticlericali e del monumento a Giordano Bruno, Cagliari 2004, quella che precede è la parte iniziale del primo capitolo, che sviluppa poi in successione i seguenti altri paragrafi: “Flashback cagliaritano, dopo Porta Pia”, “Una eccellenza bruniana”, “Antioco Zucca, il materialismo evoluzionista”, “La conferenza del professor Salvatori”, “La questione del divorzio sull’ampio scenario”, “Quattro milioni di firme no”, “Congressi nazionali, nel primissimo Novecento”, “Alle gare elettorali, con destri e sinistri”, “Una sfida fra canonici e assessori”, “La fischiata di Stampace”.
Il secondo capitolo, dal titolo “Lenta traversata d’un decennio”, è composto da 29 paragrafi e lumeggia l’affermazione, tanto più dal 1904, dell’associazionismo anticlericale, in parte di marca giovanile e studentesca, le spettacolari effervescenze del 1907 preparatorie anche del congresso del libero pensiero svoltosi a Tempio Pausania l’anno successivo, quasi all’indomani della scissione del Supremo Consiglio scozzese (scissione cosiddetta poi di Piazza del Gesù), l’evoluzione del bacareddismo dalle posizioni del liberalismo”organizzatore” alla vera e propria liberaldemocrazia insaporita di molti umori laicisti.
Il terzo capitolo, titolato “Il mito e la colletta” ed articolato in sedici paragrafi, punta la sua attenzione soprattutto sull’impegno diffuso in città e provincia, fra 1912 e 1913, per la erezione di un monumento a Giordano Bruno, promosso da un comitato composto dai tre partiti dell’estrema repubblicana, radicale e socialista, e da tre associazioni – quella Democratica vicina al Bacaredda e forte della presenza di numerosissimi militanti della Sigismondo Arquer, quella d’Avanguardia anticlericale, e quella propriamente fraternale dei liberi muratori organizzati in città e provincia: sei enti rappresentati ciascuno da due elementi (sui dodici del plenum, otto i massoni).
Il quarto capitolo, in 20 paragrafi, è titolato “Dalla piazzetta al nicchione” e riferisce della rimozione, ad iniziativa dell’autorità comunale fascista, dell’erma bruniana nell’autunno 1926, della sua prigionia in un volgare sacco per un anno e più, della sua liberazione nel gennaio 1928 con nuova collocazione nell’atrio dell’università (da dove andrà via nel 1946, unitamente alla facoltà di Lettere, intanto trasferitasi in via Corte d’Appello e successivamente, nel 1960, a Sa Duchessa).
Ecco, anche di quest’ultimo, uno stralcio riguardante specificamente l’asportazione del monumento dalla piazzetta Mazzini.
Dalla piazzetta al nicchione
Giugno 1926. Mancano ormai soltanto quattro mesi alle grandi celebrazioni del settimo centenario francescano ed ovunque fervono i preparativi tesi a solennizzare l'evento. Un modo concreto per marcare la partecipazione spirituale, ma anche civile, delle popolazioni è l'erezione di una statua che nell'effigie esalti la maggior virtù del Poverello: l'evangelica mansuetudine.
A Cagliari – ma certo la cosa potrà aver interessato anche qualche altro capoluogo del Bel Paese – c'è chi pensa che l'occasione sia buona per sistemare altri conti rimasti in sospeso: quelli con le simbologie del tempo passato "che mai più ritornerà". Forse è giunto il momento di sostituire, proprio con San Francesco, colui che indegnamente, e da troppo lungo tempo, è stato monumentato senza alcuno speciale diritto né merito. V'è qualcuno, nel quadro del nuovo regime, che potrebbe opporsi?
L'Italia dell'estate 1926, IV anno dell'era fascista, ha già fatto molta strada da quella che era prima della fatidica marcia con divise e manganelli. Aboliti la festa del lavoro e il diritto di sciopero, riformata la legge elettorale, limitata la libertà di stampa e quella associativa... e nel frattempo ucciso don Giovanni Minzoni (agosto 1923), ucciso Giacomo Matteotti (giugno 1924), ucciso Piero Gobetti (febbraio 1926), ucciso Giovanni Amendola (aprile 1926), affollate di oppositori le carceri...
E ancora, soltanto fra estate ed autunno dell'anno di grazia, fra il proclama francescano di Mussolini e la data sette volte centenaria del prossimo patrono d'Italia (o giù di lì), pronti all'approvazione sono, nell'agenda della dittatura in fieri, i decreti di annullamento dei passaporti per l'estero, di soppressione dei giornali democratici, di scioglimento di tutti i partiti nonché dei sindacati non fascisti e delle associazioni contrarie al regime, di istituzione del confino di polizia per gli oppositori... Il resto verrà poi, nulla sarà risparmiato.
Allora, San Francesco come primo ponte di "conciliazione", in chiave di instrumentum regni, verso la Chiesa? E magari doppio ponte, se sarà possibile cogliere l'occasione anche per abbattere un richiamo ideologico che alla Chiesa ha procurato infinite umiliazioni, quel certo simulacro che i laicisti d'ogni luogo almeno d'Italia, nell'ultimo quarantennio, hanno opposto, con rabbia e scherno, come prova provata dell'arrogante e perfino sanguinaria prepotenza dei successori di Pietro e delle loro corti...
Per questo, lancia in resta, parte l'ottimo Raffaele Di Tucci – funzionario dell'Archivio di Stato di Cagliari, studioso di livello della paleografia isolana e della storia delle istituzioni sardo-aragonesi e sardo-spagnole soprattutto –, conosciuto e rispettato nel mondo della cultura regionale e anche della politica, per il suo tempestivo allineamento agli indirizzi che il governo fascista ha già notificato a tutte le amministrazioni del regno.
Di Tucci si professa cattolico ed antimassone. Considera la Massoneria l'ente che ha voluto tener desto, ingiustamente, il mito bruniano in Sardegna ed a Cagliari. Lottare contro la Massoneria – in ossequio anche alla volontà del fascismo che, dopo il fallito attentato di Zaniboni e Capello a Roma, sta per essere definitivamente dichiarata fuori legge (appunto come i partiti, i sindacati, le associazioni civili, i giornali liberi) – può benissimo voler dire anche dichiararsi antibruniani ed antilaicisti. La rimozione del monumento di piazzetta Mazzini trova finalmente il suo contesto, di volontà e di circostanza. Tanto più – questo sarà il leit motiv di tutta la campagna antibruniana – che il filosofo di Nola, oltre ad essere soltanto un «eclettico incerto», non è neppure un pensatore significativo per la Sardegna: con l'Isola non ha avuto rapporti, all'Isola non ha dato niente, né scienza né onore.
La crociata di Raffaele Di Tucci
Prende dunque coraggio, carta e penna e scrive un bell'articolo l'archivista dello Stato, per L'Unione Sarda, che lo pubblica il 3 giugno. Titolo: "San Francesco e Giordano Bruno".
«Qual è il diritto di cittadinanza che può accampare Giordano Bruno verso di noi? Non è stato, ai suoi tempi, un filosofo che riuscito a chiudere in un sistema le linee universali della vita e pensiero dell'umanità [...]. Il nolano, quando non è un discepolo altezzoso e turbolento, è un eclettico incerto, è uno spirito combattuto fra le temerità e la paura, un espositore involuto e pesante, che destò interesse non per la sua originalità quanto per l'audacia del suo atteggiamento. Alla sua stregua Giovanni Maria Dettori e Giambattista Tuveri ebbero il merito di espressioni personali e quello di una superiore sincerità di scienziati.
«Come filosofo –aggiunge Di Tucci –, Bruno, dunque, non aveva titoli specifici per il monumento: e Cagliari che ha la sua bella piazza col simulacro dell'Immacolata, e il suo crocevia più frequentato con un ricordo ai Caduti per l'indipendenza nazionale, e ha lasciato senza statue tutti i migliori figli di Sardegna, ha, come simbolo dell'attività spirituale, unica eccezione, l'apostata domenicano. Un uomo straniero alla razza e alle sue correnti storiche, e un eretico. Mentre si sa bene che la Sardegna non ne ebbe mai, di eretici. Le costituzioni dell'Università di Cagliari, tre secoli fa, lo rilevarono come giusto titolo di orgoglio. E durante la signoria spagnola, neppure qualche dottrina ambigua del Molina e del Suarez trovò terreno favorevole: fu uno sconosciuto anche quell'insidioso e brillante Pietro Valdo che, nel secolo decimosettimo, fece proseliti nella stessa curia papale. In tutti gli atti delle sinodi sarde non vi è accenno ad eresie locali e se una critica di maniera ha voluto indicare in Sigismondo Arquer un precursore del libero pensiero, la verità è che l'Arquer fu la vittima di odii e di rancori di un gruppo di cittadini potenti e fu difeso dallo stesso arcivescovo Parragues».
Ancora: «Cagliari ha avuto ed ha come sostanza della sua storia spirituale una profonda, lucida e immutabile fede cattolica: c'è, ora, una piccola bottega evangelica, che fa pochissimi affari. Sicché la statua di Giordano Bruno, atto d'omaggio eccessivo pel valore del filosofo, inesplicabile nella storia della stirpe, è stata pure innalzata in antagonismo con la disposizione religiosa totalitaria della città e della regione che rappresenta. Ed è stata collocata in un punto che è il passaggio obbligato di tutti coloro che devono recarsi in Castello, il rione che chiude il Duomo, l'Episcopio, la Prefettura, l'Università, gli Uffici Giudiziari, il centro della vita tradizionale e civile della cittadinanza.
«Si aggiunga che l'esempio di Bruno non è tale da suscitare il rispetto, l'emulazione, il senso civile e l'ordine morale della popolazione. Il periodo che attraversiamo concepisce le forze ideali di una rivoluzione, non quelle, meschine e personali, di una ribellione. La storia accomuna Giulio Cesare, Cromwell, Mirabeau, Mussolini, in una sola sintesi umana, perché rappresentano gli inizi di una nuova civiltà, ma considera Ario, Simon Mago, Priscilliano, Mauiche, Giordano Bruno e tutti gli altri dissidenti in materia di fede, come i generali messicani in materia di politica.
«Allora, che cosa sta a fare la statua di Giordano Bruno in via Mazzini? – domanda Di Tucci in conclusione –. A farvi figurare una reliquia massonica, quando proprio il Governo nazionale ha soppressa la massoneria? Perché il solo significato che potesse avere era proprio quello di una costruzione massonica».
I francescani e l'erma bruniana
Il Sottocomitato locale costituitosi apposta per le celebrazioni del Santo d'Assisi e, in tale quadro, per l'erezione di un degno monumento raccoglie la sollecitazione di Di Tucci, che di esso fa parte. La sua è un'idea ritenuta «bella ed opportuna».
Il governo del duce ha stabilito che il 4 ottobre sia giornata di celebrazione nazionale. Lo stesso Mussolini, in un suo messaggio, ha esaltato, con spunti lirici, la figura di San Francesco. Cagliari – che ha avuto con sé i primi nuclei francescani quando il Santo fondatore era ancora vivo, prima cioè del 1226 – non può mancare all'appuntamento. Ed erigere in suo onore una statua proprio «sul posto dov'è ora Bruno» sarebbe adempimento d'un «chiaro dovere della cittadinanza e della provincia». Così anche nell'opinione della redazione dell'Unione Sarda. Che, abbandonata l'antica ed onorata tradizione liberale ed entrata da alcuni anni nell'orbita fascista – prima con Sorcinelli (proprietario dominus all'insegna dei manganelli), poi con i fasciomori (e la formalizzazione della sua appartenenza ideologica al PNF) –, decide in fretta di porsi a sostegno della causa opposta a quella che appoggiò or sono passati già tredici anni...
Lancia addirittura un appello alla cittadinanza, il giornale. Chi condivide l'idea del prof. Di Tucci può sottoscrivere la propria adesione rivolgendosi direttamente al presidente del Sottocomitato, il padre Felice Carta della comunità conventuale dell'Annunziata, a Stampace.
Il Solco sardista: una mitezza armata di lancia?
La linea Di Tucci, se è accolta e condivisa perfino con gioia dai perpetui antipatizzanti del "libero pensiero", certo desta perplessità in chi non vede la necessità che, per "promuovere" un modello di santa virtù, si debba contestualmente rovinare un'altra storia che non configge con quell'altra ma, semmai, le è parallela. Perché può essere santa virtù – al pari dell'obbedienza – la disobbedienza.
Non sono quindi in mutua opposizione San Francesco e San Giordano. Essi possono convivere sulle dolci colline cagliaritane, c'è spazio per entrambi... E la stroncatura del giornale dei sardisti, che della vicenda ha voluto occuparsi, non può essere più netta, almeno in questa fase.
Un affondo lo merita forse, personalmente, lo stesso Di Tucci («al quale – scrive Il Solco – le peripezie del passato non hanno ancora insegnato che egli farebbe meglio ad occuparsi solo di ricerche d'Archivio e di discipline giuridiche»), ma certo anche le tesi portate a supporto della sua perorazione, esigono puntualizzazioni critiche. Magari al momento soltanto accennate, perché appare da subito chiaro che questa è una storia destinata a trascinarsi fra polemiche e riserve mentali, dispetti e nuove ripicche.
In un corsivo dal titolo "Giordano Bruno, l'eresia e il prof. Di Tucci", il quotidiano del Partito Sardo d'Azione colpisce duro, riassumendo in poche parole il sogno del combattivo paleografo:
«Bruciare in un simbolico rinnovato rogo l'innocua effigie di Giordano Bruno e fare della modesta piazzetta di Via Mazzini un secondo Campo dei fiori. Sostituire infine all'erma Bruniana l'effigie del Poverello d'Assisi. Ecco la proposta, dottoralmente preceduta da una rassegna in cui entrano Aristotele, Platone, S. Tomaso d'Aquino, Bacone, Cartesio, Leibnitz, Spencer, Giovanni M. Dettori, G. Battista Tuveri, Sigismondo Arquer, il Duce e lui, il prof. Raffaele Di Tucci.
«Noi non sappiamo se il sullodato Professore abbia mai appartenuto alla Massoneria, per quanto una simile proposta lo faccia fondatamente supporre: ma, anche concesso che egli sia stato sempre persuaso da nobilissimi sentimenti cattolici, non può non destare meraviglia il suo improvviso spirito guerriero.
«Diciamo spirito guerriero perché se è vero che egli propose l'esaltazione del mite Santo non è men vero che egli intende prima devastare col ferro e col fuoco, demolire e disperdere. Il che, a nostro modesto avviso, appare ben poco francescano.
«E non poca meraviglia ha destato, fra quanti conoscono il paziente studioso delle carte catalane, questa sua inattesa preparazione teologica. Egli infatti arriva alla conclusione della geniale trovata partendo dalla considerazione che bisogna estirpare dell'eresia persino i più lontani ricordi, specie se si pensi che la Sardegna non ha mai avuto eretici. Il che è sorprendente.
«Se le stesse cose avesse detto qualche preclaro rappresentante del centro Cattolico nessuno avrebbe avuto il diritto di stupirsi. Ma così parlando il prof. Di Tucci ci fa pensare. E dovrebbe far pensare anche il Padre Felice Carta che al fanatico professore ha dato così lieta ospitalità. Egli certamente ricorda.
«Quando Lutero lanciò il grido della ribellione, fra lo stupore generale (in termini ridotti press'a poco sul tipo dei nostro) spuntò fuori Enrico VIII e con la "Affermazione dei sette Sacramenti" partì furioso press'a poco come ora ha fatto il professore contro il filosofo di Nola, a difesa della fede contro l'eresia.
«Se il comitato di cui s'è fatto iniziatore il prof. Di Tucci sommuovesse l'opinione pubblica e la Prefettura ritenesse nel caso farlo commendatore (cavaliere riteniamo lo sia) egli avrebbe meritato compenso, proprio come il Re inglese nel titolo Papale concesso con Bolla.
«Ma noi non sapremmo oggi giurare sulla sua costanza in materia di fede e di teologia, proprio come i buoni fedeli d'allora sulla tenacia dell'improvvisato teologo Anglo-Sassone.
«Ecco ciò che dee ricordare il Padre Carta se dal richiamo storico vuol trarre una deduzione.
«Noi ci auguriamo di vivere abbastanza per assistere alla fu proposta del prof. Di Tucci, quando deposto il Poverello in Museo, sosterrà Dio solo sa quale altra effigie.
«In ogni caso, anche in quello in cui il professore fosse in materia di fede religiosa inflessibile come lo è stato in politica, egli sarebbe sicuramente ricordato come lo studioso più simpatico e contemporaneamente il politicante più arcifanfano apparso in quel di Cagliari dall'anno I all'anno IV dell'era nuova».
Puxeddu: «Non sono massone, ma libero pensatore»
Contrario alla proposta Di Tucci è anche l'antico presidente del Comitato che fra 1912 e 1913 s'è felicemente impegnato, in città, per le giuste onoranze all'eretico abbrustolito dall'Inquisizione, raccogliendo centinaia di offerte – e sia pure di modesto o modestissimo ammontare – per l'erezione del monumento ora contestato.
Così il prof. Ernesto Puxeddu scrive anche lui, il 4 stesso, al direttore dell'Unione Sarda per chiarire, argomentandola, la posizione sua e di quanti con lui hanno partecipato alla trascorsa impresa.
«Il prof. Di Tucci – questo l'incipit – desidera che anche la nostra Cagliari festeggi degnamente l'anno francescano e propone di far sorgere la luminosa figura del più santo fra i santi proprio nel luogo in cui ora è collocata la accigliata effigie del filosofo nolano.
«L'idea a me sembra quanto mai bizzarra, come assai poco convincenti mi sembrano gli argomenti con i quali il proponente la giustifica. Ma, ad ogni modo, io non mi sarei risoluto a muovere rilievi a questa e ad altre consimili proposte, se nel citato articolo del prof. Di Tucci non si affermasse categoricamente che il busto che Cagliari eresse al pensatore martire, è una costruzione massonica.
«Come presidente del Comitato Bruniano per le onoranze al grande filosofo debbo dichiarare che "non ho mai appartenuto, neppure per un minuto secondo, a nessun genere di Massoneria"; e che, di conseguenza, l'opinione manifestata dal prof. Di Tucci sullo spirito che animò il Comitato Bruniano di Cagliari è, per lo meno, inesatta. Né è da credere che io fossi un docile strumento nelle mani di quei massoni che del Comitato facevano parte: un simile convincimento (lo affermo con sicura coscienza) è semplicemente assurdo.
«Onorare Giordano Bruno significa – o significò allora per me e per tanti altri – onorare il grande iniziatore della filosofia del Rinascimento, l'appassionato apostolo della libera speculazione filosofica e l'invitto martire che per un'idea seppe vivere, sopportare ogni umana sofferenza e – quando fu necessario – morire.
«E' ragionevole pure un monumento alla memoria dello Sposo sublime di Madonna Povertà; ma facciamolo con spirito il più che sia possibile francescano, cioè con spirito di amore, di pace e di concordia. Ed ho finito».
Per parte sua, il quotidiano accoglie con rispetto la precisazione del professore libero-pensatore, ma non di meno riconsegna, con piena convinzione, l'iniziativa bruniana – anche quella cagliaritana di tre lustri avanti – ad una ideologia e ad un interesse "politico", o di predicazione civile, che appartengono, e l'una e l'altro, al mondo ormai sconfitto, e illegale, delle logge. Scrive infatti:
«Diamo atto volentieri al prof. Puxeddu che non è stato massone neppure per un minuto; gli diamo pure atto che egli, in illo tempore, non fu docile strumento della massoneria, che componeva il comitato. Resta però il fatto che il comitato era massonico, che il danaro era in massima parte massonico, che l'iniziativa è stata massonica, che l'inaugurazione, se se ne eccettua il prof Puxeddu, fu compiuta da massoni. Il significato del monumento non può essere dunque che massonico, anche se non fu tale nelle intenzioni del prof. Puxeddu.
«L'"invitto martire", come lo chiama con forte eleganza il prof. Puxeddu, fu proprio quel ribelle che la massoneria contrappone di preferenza alla Chiesa, e su ciò le argomentazioni del prof. Puxeddu non fanno che avvalorare la tesi che gli è contraria».
Se in questa prima parte della sua risposta L' Unione è sembrata comunque insistere, convinta, sulla matrice latomistica del monumento del 1912-13, nella seconda essa introduce una variazione polemica, inquisendo la linearità di comportamento del prof. Puxeddu il quale, oggi propenso alla pacificazione, assai poco disponibile ad incontrare l'altrui sensibilità si sarebbe mostrato nel tempo passato... Infatti:
«Perché, poi, dovremmo essere francescani, e cioè [...] tolleranti noi, – osserva il giornale – quando il Comitato Bruniano non tenne conto delle infinite proteste che la cittadinanza e i cattolici di Cagliari mossero contro l'idea di innalzare il monumento?
«E lo stesso prof. Puxeddu, che è un distintissimo chimico, perché non ha presieduto un comitato che si fosse proposto di onorare uno scienziato che non sia stato, come Bruno, un apostata e un simbolo della massoneria?
«Alla prima domanda si risponde che è sempre facile invocare la tolleranza degli altri anziché biasimare la propria intolleranza; alla seconda facendo notare che in Bruno non si volle onorare soltanto il filosofo».
Insomma, L'Unione Sarda sposa la proposta Di Tucci e contesta le ragioni dei bruniani di ieri e di oggi... Essa che ha avuto, nei tempi andati, direzioni sempre lealmente liberali e parte non secondaria del suo staff amministrativo immersa nella tranquilla consentaneità della loggia, ora partecipa toto corde alle attese (e agli interessi) della nuova civiltà totalitaria.
Ancora Di Tucci: «Anch'io, Massoneria mai»
E il dibattito procede. Adesso con una nuova lettera di Di Tucci che vuole assicurare, attraverso L'Unione, di non muoversi per un intento di ripicca verso la Massoneria che non ha abbandonato semplicemente perché non c'è mai entrato.
Scrive il professore: «Caro Direttore, fammi ripetere, ti prego, per tutti coloro che non mi conoscono e per quelli che non vogliono conoscermi, la dichiarazione che pubblicai nella stessa Unione Sarda del 30 marzo 1923 e cioè che, lungi dall'esser stato mai massone o filomassone, ho uniformato costantemente la mia condotta pubblica e privata, per quanto mi è stato possibile, al più profondo convincimento cattolico.
«A qualcuno che voglia smentirmi, con precisazioni e non con insinuazioni, offri tu stesso il mezzo di farlo liberamente».
In effetti, a scorrere le pagine già ingiallite della stampa rilegata e custodita nelle emeroteche, l'antica precisazione si trova. Ma non può essa escludere che, quasi trent'anni dopo – nello scorcio degli anni '40 cioè –, Di Tucci trovi proprio fra le Colonne della loggia ferana "Mazzini Garibaldi", una gratificante collocazione come Fratello Oratore.
Ma quale che sia la temperatura del dibattito, o dello scontro, che lo oppone ai suoi antipatizzanti, ciò che emerge come fatto sempre più chiaramente percepito dall'opinione pubblica cittadina è che si vanno formando opposti schieramenti: con il fronte antibruniano, manco a dirlo, assolutamente soverchiante il suo antagonista.
Così l'8 giugno, L'Unione Sarda, tornando in argomento, ritiene di mettersi anche lei – o lei per prima – fra quelli che vogliono fare, proponendosi anche come collettore di offerte... Giusto quel che vuol fare una delle residue testate concorrenti, Il Corriere di Sardegna, organo del (morituro) Partito Popolare Italiano. E dopo aver rilevato che la decisione dell'avvicendamento fra le due statue «ha trovato il consenso entusiastico della massima parte della cittadinanza», la quale avrebbe così confermato, una volta di più, «l'intuito equilibrato che è proprio di Cagliari», osserva (ripetendo, fascisticamente, argomenti già noti):
«Tutti poi hanno convenuto che la Cagliari di una quindicina anni or sono aveva accolto con stupore o con indifferenza il decreto di cittadinanza bronzina dato ad un filosofo di statura assai piccola che ebbe un solo grande merito: quello di diventare, col tempo, il simbolo della massoneria.
«Non è dunque dichiaratamente contro il nolano in quanto filosofo, ma contro il significato massonico che rivela il suo monumento che reagisce la coscienza cittadina; e facendo ciò non crede neppure di essere mossa da spirito settario, ma dalla volontà di riequilibrare valori etici della nostra gente con una rappresentanza più adeguata [della] vera sensibilità dei cagliaritani.
«Ecco perché le adesioni si aggirano sulle ottomila e fra di esse sono quelle di alte personalità del mondo degli uffici pubblici della cultura e del commercio.
«L'iniziativa poi è stata ideata da un fascista, ed è escluso quindi da essa ogni carattere di ritorsione o di rivincita esclusiva; cosa che del resto era da escludersi anche se l'ideatore non fosse stato del nostro partito».
Il manifesto nazionale
Dalla capitale, intanto, il comitato esecutivo per il monumento nazionale a San Francesco da innalzarsi sul monte Subasio, ha diffuso un bel manifesto che la stampa nazionale e anche quella regionale ospitano per lo più in prima pagina, a dimostrazione dell'importanza che annettono al complessivo evento patriottico-spirituale (o fascistico-patriottico-spirituale)...
«Italiani! La storia di S. Francesco, eletto fra i Santi, è il riflesso più puro di quella del Redentore divino. Come la vita di Gesù, quella di frate Francesco fu povera, semplice, umile, consacrata all'esercizio delle più eroiche virtù.
«Dalla sua persona emana un fascino di bontà infinita che da sette secoli si è tramandata di generazione in generazione ed oggi, in cui più terribile è il cozzo delle passioni che travagliano l'umanità, si erge più maestosa la sua figura di Santo, benedicente ancora una volta la Patria.
«Giustamente perciò, le supreme autorità dello Stato hanno dichiarato il 4 ottobre 1926, che segna il settimo centenario della morte di S. Francesco, Festa Nazionale e lo stesso primo Ministro, facendo eco alle esortazioni del Padre comune di tutti i fedeli, nel suo magnifico messaggio alle rappresentanze dell'Italia all'estero, ha riaffermato con frasi scultoree, i destini spirituali e morali della nostra Stirpe ed ha segnalato nel Poverello d'Assisi l'esemplare più sublime di quelle virtù cui devesi ispirare il nostro popolo.
«Sorretto dalla benedizione del Santo Padre, che si degnava impartire il 15 febbraio 1926, si è costituito in Roma un Comitato nazionale, sotto la presidenza onoraria di S.E. Benito Mussolini, per l'erezione di un monumento sul Subasio, che sia indice solenne ai posteri della venerazione che l'Italia rinnovata nella sua coscienza spirituale e nazionale, tributa al più popolare dei Santi suoi».
Il protagonismo del Corriere neoguelfo
E' press'a poco da quel giorno che almeno ogni città capoluogo – così come Cagliari, con il suo prof. Di Tucci e le polemiche da lui animate – è stata coinvolta nel gran programma presentatosi da subito come suscettivo di molte letture, avendo esso molti ispiratori, taluni mobilitati da nobili ragioni, altri mossi invece da motivi alquanto strumentali.
Certo, chi si sente spinto da scopi intimamente ed esclusivamente religiosi gode soltanto nel vedere onorate nell'Assisiate le virtù che sono dono puro di Provvidenza e nella carità, più ancora che nelle summae della teologia, custodiscono il senso autentico del creato sociale come di quello cosmico. Altri avvertono, al contrario, un interesse che pare combinare motivazioni nazionali, o politiche, e motivazioni spirituali, cercando in queste ultime una legittimazione alle prime. E' questione di interpretazioni: qualcuno potrebbe – può – addirittura arrivare a sposare – e sposa – le armonie francescane all'ordine "donato" all'Italia dal nuovo regime di dittatura, magari rassomigliando l'obbedienza francescana a quella che ogni "buon" italiano deve al nuovo governo del regno.
Del Comitato cagliaritano impegnato a promuovere e coordinare i prossimi solenni festeggiamenti è stata chiamata a far parte, con il vertice ecclesiale locale ed i rappresentanti delle tre Famiglie Francescane storicamente attive in città – minori osservanti, minori conventuali, minori cappuccini –, la nomenclatura civile e militare, giudiziaria, accademica ed amministrativa, e con essa l'espressione degli ambienti economici e dell'associazionismo culturale, perfino la direzione, o condirezione, dell'organo di stampa del PNF. Con le autorità istituzionali, i più eminenti personaggi della "nuova" Cagliari fascista e anche, per necessità di cose, del laicato cattolico non confluito, in parte "resistente", ma con curiale educazione, al nuovo ordine di cose.
Il Corriere di Sardegna, il quale (senza saperlo) ha i giorni contati dalla non infinita… pazienza di chi comanda, ha rivendicato a sé l'orgoglio di promuovere e assecondare «una giusta riparazione»: praticamente supportando la "prima linea", impegnandosi nella raccolta dei fondi per la fusione di una degna statua, se non per pagare l'artista; individuando un luogo idoneo ove collocare il monumento e seguendo da presso tutte le pratiche per i placet delle amministrazioni interessate; organizzando infine la grande cerimonia che investa l'intera città – anzi, l'intera provincia, l'intera Sardegna – nel tributo di fede ed amore al Santo della Povertà.
Ed eccolo lì, da subito, il problema del "dove": dove posizionare l'opera? A Castello, nel raggio della primaziale, oppure in una delle antiche appendici? Magari a Stampace, dove i francescani più ancora di sette secoli addietro hanno messo piede e missione – il Santo ancora vivo – o in un luogo bisognoso magari di "riqualificazione"? C'è qualcuno che osserva come davvero non manchino a Cagliari piazze e vie intitolate a uomini «riesumati nel bagaglio di una vecchia mentalità avvelenatrice della gioventù e inquinatrice di coscienze; piazze ingombre di tristi figuri – questa la profezia (o l'illusione? o la minaccia?) – attendono colpo gagliardo di piccone demolitore». Sì, anche Cagliari attende "questa" giustizia vendicatrice, etica ed estetica. Occorrerebbe soffermarsi nel dosaggio dei meriti, raffrontare la figura del Santo ancora senza strada o piazza con quella di «qualsiasi altro feticcio», ingiustificatamente re d'uno spazio largo o stretto che sia. Certo è che, per gli scrittori del Corriere popolare, che a loro volta riflettono la suggestione di taluno del Comitato, tutti i cagliaritani attendono «una riparazione»...
Quell'intrigante "dove" del Comitato
Non sono soltanto parole, né propositi astratti. L'idea bella e concreta c'è già, ed è appunto quella di Di Tucci, dell'Unione Sarda, della Federazione provinciale fascista: «tutta Cagliari sollevi in alto Francesco e lo deponga là, sul cucuzzolo di via Mazzini, a perpetuo ricordo della rinnovellata fede riscaldata dallo spirito di carità di frate Francesco».
La cosa piace, non si può negarlo. La gente che nelle parrocchie ha un suo riferimento, e non solo nelle parrocchie ma anche nelle famiglie della nobiltà nera od ex feudale, e in quelle che vivono l'esperienza delle associazioni religiose diffuse nei quartieri, la proposta che è stata lanciata viene accolta, discussa, rilanciata alla più vasta opinione rimbalzando, come conferma, alle autorità. Perché prima è questione di un comune sentire, poi di una delibera amministrativa. Il monumento sarà collocato dove lo indicherà la «universalità» dei cagliaritani. Bisogna ripeterlo e magari ancor più esplicitamente denunciarlo, scrive press'a poco Il Corriere neoguelfo: anche Cagliari dovette subire l'onta dell'innalzamento di monumenti e l'intitolazione di vie a uomini «la cui riesumazione risultò beffarda alla Chiesa, al Papato ed al nostro patrimonio religioso».
Stampata in migliaia di esemplari, a giugno arriva a destinazione – nelle case come negli uffici – una lettera del Sottocomitato per i festeggiamenti francescani. Eccone il testo: «Ill.mo Signore,
«la statua di Giordano Bruno collocata alla porta del rione che accoglie, dall'Episcopio alla Prefettura, le più elevate espressioni di vita spirituale e civile della città, è oggi, come quando fu eretta, non solo in profondo antagonismo con la coscienza storica e religiosa dei cagliaritani, ma il segnacolo palese di quella massoneria che il Governo nazionale ha solennemente condannata e soppressa.
«Questo sotto-comitato interpretando il lungo e diffusissimo desiderio di Cagliari cristiana, si è proposto di sostituire a quella dell'apostata nolano l'effigie di S. Francesco d'Assisi, per dare alla città il simbolo appropriato sulla disposizione morale e religiosa, e per ricordare in modo duraturo il settimo centenario del transito del Santo.
«Chiede perciò alla SV. Ill.ma, che voglia inviare con cortese sollecitudine la sua adesione al presidente del Sotto-Comitato pro-Monumento Padre Felice Romolo Carta Francescano Minore Conventuale, parroco dell'Annunziata in Cagliari».
Ormai è tutto definitivamente chiaro: tocca ancora all' «heretico pertinace» liberare la strada, è lui la vittima predestinata degli uomini in dark, fascisti e clericali uniti. Lui, la disubbidienza fatta persona, deve avvicendarsi con il Santo della Mansuetudine. Allora, fra il 1912 e l'anno successivo, un comitato fu costituito in città per glorificare, assurdamente – si dice ora –, il frate apostata. Non fu un gran raccogliere fondi, ché la memoria rimasta dell'evento non registrava meriti speciali; e anzitutto quel che è rimasto, di allora, è soltanto l'improba fatica del «povero presidente» per raggranellare i quattrini necessari all'impresa. Fu quindi, certissimamente, determinante il soccorso offerto dalla «mano della massoneria locale», che sopperì generosamente.
E dunque? «Oggi, a distanza di dieci anni – scrive Il Corriere il 9 giugno –, si dimentica o si finge di ignorare: la massoneria è scomparsa, o almeno non si trova più un massone a pagarlo un occhio». E ancora: «L' intolleranza di pochi settari recò offesa sacrilega al sentimento cattolico di Cagliari cattolica; Cagliari cattolica reclama la riparazione. E la riparazione non sarà completa sino a quando Giordano Bruno continua a rimanere sul cucuzzolo di Via Mazzini. Questo è il pensiero di Cagliari». Chiaro? San Francesco come testa d'ariete dei guelfi, o neoguelfi, in tempo già di dittatura, contro i ghibellini cagliaritani di un tempo e quelli residui d'oggi... Toccherà poi anche ai guelfi, o neoguelfi, insieme con i pochi residui ghibellini di Cagliari e d'Italia accompagnarsi nella peggior sorte della perdita della libertà.
Eppure sembra di cogliere, nel dibattito in corso e nelle prese posizione soprattutto della politica, un tanto di trasformismo. Proprio il giorno prima di questa uscita del Corriere popolare, sul Solco sardista è apparsa una lettera, a firma di Cassiodoro Frongia, che, "A proposito di steli e di busti", qualche considerazione di sano e critico buon senso l'ha proposta al direttore del giornale: «la lettera del prof. Ernesto Puxeddu pubblicata e commentata dall'Unione Sarda mi suggerisce un'idea molto semplice, che ti comunico perché tu la rivolga, come proposta, al prof. Puxeddu.
«Egli, che fu presidente del Comitato Bruniano, dovrà ricordare con assoluta precisione, i nomi delle personalità che fecero parte di quel Comitato e anche di quelle che al Comune stesso dovettero mandare la loro adesione. Perché non riesuma egli l'elenco e lo porta a conoscenza del pubblico? Io sono certo che in buona parte vi figurano i nomi di quelli che oggi sono favorevoli alla relegazione in soffitta del filosofo nolano e sono per la maggior gloria del poverello d'Assisi che in quel tempo ignoravano o figuravano d'ignorare.
«Non ti pare che la pubblicazione di tale elenco direbbe assai più delle chiacchiere che certi scemi o finti tonti vanno oggi sgranando come se per incanto avessero lasciato il braccetto del diavolo per cascare nell'acquasantiera?».
Sono questi gli ultimi giorni di uscita del quotidiano del Partito Sardo d'Azione, diretto dal giovane avvocato Anselmo Contu, che è uomo di fede e pratica cattolica. L'opposizione sardista al regime porta da tempo a frequentissimi sequestri dell'intera tiratura ed al collasso l'amministrazione del giornale. La sua linea politica è assai prossima a quella del Partito Repubblicano, del cui organo di stampa riprende ogni giorno gli articoli più significativi di cultura democratica e commento sull'attualità. Ancora giusto una settimana e le insegne del glorioso quotidiano cadranno definitivamente. Per il Corriere popolare si tratterà invece di aspettare altri quattro mesi, prima del saccheggio e dell'interdizione: così sia le voci che, nella lunga estate del 1926, difendono Bruno sia quelle – appunto dei guelfi, o neoguelfi – che lo attaccano sono zittite dallo stesso nuovo ed unico padrone d'Italia.
Del marchese Quesada e dell'arcivescovo Piovella
Le cose procedono al meglio. L'appoggio del complesso sistema diocesano è stato promesso e già concesso dalla Giunta Diocesana al Comitato promotore, e questo, unitamente ai suoi Sottocomitati o Sottocommissioni, ha doverosamente ringraziato rimbalzando alle singole strutture del laicato l'invito alla partecipazione, per la migliore riuscita dell'iniziativa intrapresa in onore dell'«Apostolo di pace e di bene».
«In seguito all'adesione ed appoggio della Giunta Diocesana e segnatamente per l'erezione in città di un monumento al Serafico San Francesco, che ricordi perennemente al nostro popolo il Santo Poverello Assisano..., destinato a sostituire l'erma dell'apostata Giordano Bruno e riparare la grave offesa al sentimento religioso di Cagliari cattolica.. . », l'invito del Comitato è adesso rivolto all'intera articolazione del movimento di Azione Cattolica presente nell'ambito diocesano ed anche oltre: Federazioni e Sezioni degli Uomini Cattolici, delle Donne Cattoliche, della Gioventù Cattolica maschile e femminile, Reparti scoutistici, Congregazioni ed Associazioni, tutti sono interessati a far capo direttamente e sollecitamente al parroco dell'Annunziata, in quel di Stampace e Palabanda, che gestisce la grande operazione di raccolta fondi.
Mercoledì 7 luglio, all'indomani della riunione svoltasi in episcopio – presente mons. Ernesto Maria Piovella – fra l'intera Giunta Diocesana guidata dal marchese avv. Vittorio Quesada di San Sebastiano e le rappresentanze francescane, onde fare il punto delle cose, l'arcivescovo diffonde una sua lettera esortativa:
«Benediciamo di gran cuore i Signori del Comitato promotore del Monumento a San Francesco d'Assisi in Cagliari, e coloro che colle offerte favoriranno la realizzazione di esse, che vuol essere una espressione di ammirazione e di amore a Colui che seppe colla Sua vita serafica richiamare l'umanità alla pratica dell'amore evangelico». Ed aggiunge, monsignore, la sua offerta, prefigurandola d'esempio agli altri: £. 500. Esempio e «comando», precisa Il Corriere, mettendo anch'esso a disposizione quanto può: gli uffici della propria redazione, le colonne del giornale per seguire passo passo l'iniziativa e documentare, attraverso la pubblicazione degli elenchi, il diffuso buon cuore degli amici.
Si sono intanto formati – s'è accennato – due Comitati: quello d'onore e quello esecutivo.
Nel primo – copresieduto dall'arcivescovo Piovella con il commissario prefettizio del Comune, rag. Vittorio Tredici, ed il prefetto della Provincia, comm. Renato Malinverno – figurano una cinquantina di autorità ecclesiastiche, civili, amministrative, accademiche, giudiziarie, militari, nonché dirigenti di uffici pubblici e rappresentanze associative. Un numero pressoché pari di esponenti del clero secolare e religioso, nonché del laicato più impegnato nei vari campi dell'apostolato, compone il secondo. Presieduto dal vicario generale can. Giuseppe Miglior, questo si avvale anche della diretta collaborazione, fra vice presidenti e segretari, dei delegati delle tre Famiglie Francescane: i minori osservanti padri Felice Marras (guardiano) e Mariano Fiori, i conventuali padri Felice Romolo Carta (superiore e parroco) e Leonardo Loddo, i cappuccini padri Ignazio da Carrara e Placido.
Il ritorno di «laudatore» (?) Azzolina
Per cinque numeri di seguito - fra il 16 ed il 22 luglio (e in mezzo il 18, 20 e 21) —Il Corriere di Sardegna ospita, a puntate e in capocronaca, un contraddittorio, invero unidirezionale, con il prof. Liborio Azzolina che sulla figura di Giordano Bruno si è espresso – da filosofo – con toni di rispetto e anche di ammirazione. Sono trascorsi quasi tre lustri dalla trattazione dello stesso argomento compiuta dal professore del "Dettori" su, allora, le colonne del giacobino Giornale Democratico.
Già Azzolina ha detto la sua sull'Unione Sarda e le sue argomentazioni, che esprimono forse anche una certa condivisione del pensiero del gran ribelle, oltre che ammirazione per la sua testimonianza di coraggio, lasciano l'amaro in bocca a redattori e collaboratori del quotidiano di via Cima.
«Abbiamo voluto impugnare le parole di Azzolina, formatore di menti ed educatore nelle nostre scuole», è l'incipit. E da qui, giù a catinelle le riserve, le contestazioni... «La sua dottrina non è che una rivisitazione dell'Ars Magna...», «Permette che molti animali possano avere più ingegno e molto più intelletto dell'uomo. Ammette la metempsicosi, senza nessuna prova. Afferma che bisogna godere della vita presente senza preoccuparsi della futura…», «Per il popolo non ha che ingiurie e continue contumelie, esalta Lutero che aveva esortato i nobili a schiacciare quei cani e bestie feroci dei contadini, i quali contro loro non osavano alzar faccia»...
Male anche in politica: «...invocò i francesi, gli inglesi, gli alemanni, e cioè i seguaci di Calvino, di Enrico ottavo e di Lutero. Questo è il patriottismo di Giordano Bruno [...] e questo il patriottismo dei suoi ammiratori e fanatici laudatori».
Ancora? «Gli scritti bruniani sono spesso tessuti di parole triviali [...], la forma è spesso illeggibile, bandito stile, decoro ed eleganza», «Un pazzo, un ribelle, un osceno, un eretico; un furfante bruciato potrà compiangersi e la memoria tenersi in orrore e non già conservare in effigie per essere venerato!»...
Peggio, peggio ancora: sull'Unione Sarda l'esimio professore del liceo di piazzetta Dettori ha scritto che «Il nolano nulla fece o pensò che offendesse la fede, che nutrì profondamente, che anzi valorizzò attestando la presenza di Dio dentro e fuori dall'uomo». Ed invece è notorio che egli... «Disse favola Cristo ed ignoranza il cristianesimo, i dogmi pazzia d'imbecilli, i credenti nel vangelo ed i santi puledri e somari materialacci, a Wittemberga fece il pellegrino di satana [...], predicò il libero amore, la poligamia ed i diritti del senso sullo spirito, l'anima umana passare dopo la morte in asini e cavalli».
Conclusione certa ed evidente: oltre che eretico ed apostata, Bruno ben può essere definito «losca figura» e, addirittura, «vaso che puzza e non purifica».
Agosto: appelli, pellegrinaggi, discorsi
Intanto iniziano a pervenire adesioni significative all'iniziativa pro-monumento. Il Sottocomitato, che da un mese ormai ha spedito numerose centinaia di inviti, non può che dirsi soddisfatto. Il fedele Corriere di Sardegna pubblica quasi ogni giorno i nomi degli oblatori ed il tanto offerto.
Fra gli oboli "motivati" c'è quello dell'avv. Luigi Colomo, già consigliere comunale di solida fede guelfa ed ora affiliato, da cattolico, al nuovo regime: «Aderisco toto corde alla nobile iniziativa di riparare allo sconcio indecoroso per la cattolica città di Cagliari, sostituendo al busto dell'ignobile apostata nolano la statua del serafico Sposo di santa Povertà. Ossequi».
Ma alcune adesioni valgono doppio: come quella – la prima di tutte – del deputato (e prossimo sottosegretario) Giovanni Cao di San Marco, o quella del tenente generale Gastone Rossi, comandante militare della Sardegna (già grado 32. del Rito Scozzese Antico e Accettato dell'Obbedienza di Piazza del Gesù, giusta delibera dell'A. 0005923 V.L.)...
Secondo l'invito di mons. Piovella, nella notte fra sabato e domenica, che è anche di passaggio fra luglio ed agosto, le chiese francescane della città – San Mauro e Santa Rosalia officiate dai minori osservanti, l'Annunziata affidata ai minori conventuali, Sant' Antonio da Padova affidata ai minori cappuccini – si riempiono di fedeli: un'ora di adorazione notturna del Santissimo Sacramento, ed a seguire la celebrazione della messa con comunione generale.
Le intenzioni di preghiera non mancano: anche d'ordine internazionale, se si volge lo sguardo al Messico "anticlericalizzato" dal governo al potere, ma soprattutto – guardando all'Italia – per la compattezza della nazione e la sua crescente cristianizzazione, in coerenza alla via francescana: l'ultima raccomandazione monsignore la rivolge infatti proprio ai sacerdoti diocesani, affinché spieghino al popolo l'enciclica diffusa dal Santo Padre ed interamente dedicata al Poverello «in modo che non sia una cantilena monotona». Una autentica «gara di pietà», che fa ben sperare nella migliore riuscita dell'intero programma.
Di sera, poi, nel salone dei ricevimenti del municipio, ecco l'apertura "civile" dell'Anno Francescano. Presenti tutte le maggiori autorità, arcivescovo compreso, partecipano in massa anche i tesserati al Fascio, che sono stati all'uopo sensibilizzati (o precettati) da una direttiva del vertice federale. Per parte sua, il Comitato ha diffuso un caldo appello alla cittadinanza: «O Popolo di Cagliari, dove sono il tuo cuore, il tuo anelito, l'ansia pel tuo domani?»...
Introdotta da un breve discorso del vicario generale e conclusa da poche parole esortative dell'arcivescovo, la serata ha per protagonista assoluto il conte Giovanni Cao di San Marco. Un bel discorso, il suo, con l'annuncio, anche, della ferma volontà del duce di pervenire, finalmente, dopo 56 anni, alla «pace tra lo Stato e la Chiesa», e la profezia che questa sarà «il miglior frutto del settimo centenario francescano...». Appare chiaro che, in adesione alla linea scelta in campo nazionale, le gerarchie fasciste locali hanno adottato il francescanesimo come occasione e mezzo di rinsaldamento del loro rapporto con la società religiosa.
All'ingresso viene distribuito un foglio per la raccolta di altre firme di consenso alla proposta di sostituire, con quella dell'Assisiate, la sgradita statua del Nolano. Il Corriere – sempre attento ai sentimenti che corrono nelle larghe schiere dei fedeli – ribadisce: «Il popolo Cagliaritano ha già espressa solennemente la sua volontà. Giordano Bruno segna un anacronismo ed un'onta al sentimento cattolico di Cagliari. Deve, dunque, scomparire. E la cittadinanza attende fiduciosa l'atto di riparazione».
L'11 dello stesso mese il direttorio provinciale del PNF, riunitosi a Cagliari con la presenza dei deputati Giovanni Cao ed Umberto Cao (l'antico radicale capo dell'opposizione anticlericale alle passeggere alleanze di Bacaredda con i guelfi), dei generali Zirano e Sirchia, e di un'altra ventina di gerarchi, fra cui anche donna Maria Ziccardi Timon, vota un ordine del giorno in cui sostiene di consentire integralmente con la proposta formulata dal rag. Tredici, vale a dire (testuale):
«1 - di approvare la rimozione della statua di Giordano Bruno, che nell'angusta piazzetta ove trovasi rappresentato nient'altro che lo spirito settario delle Amministrazioni massoniche, anticattoliche del passato;
«2 - di approvare l'erezione di una statua a San Francesco in altra sede degna della sublime figura del poverello d'Assisi;
«3 - di richiamare tutti i fascisti della provincia perché in ogni Comune, durante il Centenario, si onori lo spirito di umiltà, di carità, di amore del Santo Italianissimo».
Questa sarebbe, forse, la notizia: l'esercizio di «umiltà, carità, amore» da parte dei fascisti. Ma il commento dell'Unione Sarda guarda, ovviamente, ad altro: «Degno di rilievo, tra i deliberati, il voto consultivo [...] circa la asportazione della Statua di Giordano Bruno dalla Piazzetta che dà accesso al Castello. Degno di rilievo, non solo perché mette in evidenza lo spirito di responsabilità e di vera disciplina dal quale è animato il Fascista che amministra la Città di Cagliari, ma soprattutto perché riafferma la concordia e la maturità di pensiero della Federazione in questioni così gravi e, diciamolo pure, così spinose come quella esaminata.
«Il voto del direttorio provinciale è quanto mai chiaro ed esplicito: Giordano Bruno, leader delle associazioni massoniche, anticattoliche, Giordano Bruno, noto all'ignoranza dell'anticlericalismo di maniera per la materialità del suo rogo fiammeggiante, non per il pensiero, non per il sistema filosofico, non può più erigersi a ricordo di una congrega distrutta e di sistemi tramontati, ormai lontani dal cuore del nostro popolo.
«Che se è vero che la maggioranza della popolazione ignora il "libero pensiero" del Nolano, se è vero che ignora anche che a lui sia stata innalzata una statua, è pur vero che con profanazione del sentimento cattolico le donnette del popolo e della Provincia, ingannate dal cappuccio, si sfiorano col segno della croce nel passare davanti alla statua del ribelle.
«E l'odg è altrettanto esplicito nel consigliare che alla statua di San Francesco venga assegnata una sede più degna, che non sia la angusta e scoscesa piazzetta. Anche perché il collocare il mite San Francesco nello stesso luogo ove sorge il ribelle nolano, potrebbe sembrare oltreché una irriverenza un ripicco: e se San Francesco nella immensità della sua grazia e della sua bontà divina può perdonare una irriverenza non può certo perdonare che ci si serva del suo nome e del suo sacro simulacro per un ripicco».
Sotto il più caldo sole d'estate Cagliari cattolica e Cagliari fascista si incontrano nel fare. In Seminario, e prima e dopo ferragosto, si susseguono le riunioni soprattutto della Sottocommissione per i festeggiamenti, quella presieduta dal can. Eugenio Puxeddu, che stabilisce il dettaglio della kermesse religiosa e profana ad un tempo... L'inaugurazione del monumento avverrà la sera di domenica 3 ottobre, il solenne pontificale verrà cantato nella chiesa di Sant'Anna – attesa l'indisponibilità del duomo a causa dei lavori alla facciata – la mattina del 4, che inizierà giusto all'aurora con le musiche delle diverse bande già pronte ad esibirsi nelle vie del centro in contemporanea al rombo delle sirene delle navi ed allo scampanio di tutte le campane della città, l'oratorio "Cantico di Frate Sole" il 5 sempre a Sant'Anna, ecc.
I sindacati fascisti, fedeli alla consegna politica, convocano i loro iscritti (obbligatoria la camicia nera) per domenica 22, in piazza del Carmine. Da lì essi muovono in corteo fino allo spiazzo davanti alla sede dei Salesiani, nel viale fra Ignazio, per celebrare in tutta... maschia intimità le virtù di «umiltà, carità, amore» - di mansuetudine, insomma – dello Stigmatizzato.
Dopo una novena di preparazione, lunedì 30 agosto, infine, partenza di ben 350 pellegrini alla volta delle sante terre d'Umbria e Marche e, ovviamente, della capitale: guida la comitiva spirituale lo stesso arcivescovo con mons. Saturnino Peri, ordinario di Iglesias, ed una ventina di sacerdoti.
Settembre: l'attentato al duce, le date e le delibere
Un'edizione straordinaria dell'Unione Sarda annuncia, la sera dell'11 settembre il «nuovo attentato al primo ministro». Con un titolo a caratteri di scatola su quattro righe, il giornale tranquillizza però l'opinione pubblica: «Il Duce è immortale: non v'è forza che possa colpirlo». «Rendiamo grazie a Dio che protegge l'Italia». L'ammonizione è in chiave di... necessaria vacanza francescana: «Perisca di piombo chi di piombo ferisce».
Puntuale, per obbligo di calendario, viene anche nell'anno di grazia 1926 il 20 settembre. Ma certo la "questione romana", nel contesto del regime che rappresenta la contraddizione più evidente del risorgimento patrio, unitario e liberale, assume connotazioni nuove e diverse. Lo scrive – così come l'altra stampa già allineata alla filosofia della dittatura – anche il quotidiano di Terrapieno: «La celebrazione [...] ha nel IV anno di era fascista una significazione ben più nobile di quelle che, negli ultimi decenni, ha voluto darle la massoneria dominante…».
E quasi a celebrare gli auspici di nuove relazioni fra Stato e Chiesa, in perfetta linea con quanto anticipato e profetizzato dall'on. Cao di San Marco ora sono giusto cinquanta giorni, il rag. Tredici firma la doppia, speculare delibera già autorizzata dalla Federazione: placet al Comitato francescano per la sua parte, ordine di "ripulitura" del «ginocchio» antecastellano, che è in competenza dell'Amministrazione.
San Giordano: rimozione non sostituzione
Appunto l'atto commissariale che mette fine alla storia (almeno sembra). San Francesco avrà la sua brava statua – ma alla plazuela di Castello e non in piazza Mazzini –; San Giordano dovrà comunque smobilitare alla volta di un certo magazzino comunale, in attesa del risveglio in tempi migliori.
A due settimane dal tanto atteso evento religioso-profano, il commissario prefettizio succeduto non democraticamente, ora sono già mille giorni, all'ultimo sindaco democraticamente eletto – l'avv. Gavino Dessì-Deliperi cioè (giunto sullo scranno sindacale all'indomani della scomparsa di Ottone Bacaredda avvenuta nel dicembre 1921) –, delibera, infatti, «di autorizzare il Comitato costituitosi per i festeggiamenti in onore di S. Francesco d'Assisi [...], a collocare nella piazza Carlo Alberto un monumento[...] secondo il progetto presentato ed in conformità alle direttive che saranno date dall'Ufficio tecnico Comunale;
«di disporre, a cura dello stesso Ufficio Tecnico, la parziale o totale rimozione delle piante che possono ostacolare la posa del monumento, ed occorrendo, lo spostamento dell'aiuola ora esistente nella piazza predetta.
«Delibera di provvedere alla rimozione del monumento eretto a Giordano Bruno sulla sommità della via Mazzini; di provvedere all'impianto di aiuola fiorita nel sito medesimo, incaricandone l'appaltatore dei servizi di manutenzione dei giardini».
Il «bene» e la «ribellione», e i monumenti
Fra il 3 ed il 4 ottobre Cagliari in cor unum festeggia il «Serafico», come è chiamato sul basamento di calcare che viene sistemato nella plazuela. Tutti presenti, attorno al clero ed alle autorità politiche, agli esponenti delle amministrazioni civili e militari, per la gran benedizione impartita dall'arcivescovo Piovella e i discorsi di monsignor vicario e decano capitolare Giuseppe Miglior, del delegato del commissario prefettizio, del professor Di Tucci, che non parla – e ci mancherebbe – di San Giordano l'abbrustolito, ma nelle cui parole è forse possibile intravedere come in filigrana un profilo francescano stilato proprio in contrapposizione a quello del Nolano. Soprattutto quando esalta la «volontà del bene, stimolo e passione di tutta una vita», com'è ora simboleggiato nel monumento all'Assisiate, contro «la passione partigiana, l'apostasia e la ribellione» (che è come dire la colpa di Giordano Bruno, che meritò il fuoco purificatore).
Tutto ciò mentre l'Italia – questo è il sottostante motivo del discorso – celebra l'incontro fecondo di... fede e dittatura. Infatti: «La graduazione e l'inquadramento dei valori sociali e nazionali, il rispetto al principio di autorità nell'ordine religioso e politico, l'intangibilità del focolare domestico e la disciplina dei costumi, i rapporti fra capitale e lavoro delineati e regolati dalla corporazione, il ritorno delle scuole allo studio della grandezza di Roma imperiale, parallelo con quello della grandezza di Roma cristiana, la proclamazione di fatto del culto cattolico come manifestazione di vita e di tradizione nella stirpe, sono giuste rivendicazioni che l'Italia attribuisce al governo fascista, come una realtà di comprensione cristiana». Per giungere poi al clou del giorno: «E questo monumento che Cagliari cattolica e fascista ha voluto erigere dovrà ricordare con quale alata venerazione è stata accolta dalla nostra fede e dal nostro patriottismo la Voce del Santo».
E venne dal gruppo “P” una loggia tutta nuova, originale e senza avi
Riservo ad una prossima pubblicazione il dettaglio delle vicende del gruppo “P”, nella seconda metà degli anni ’60 del Novecento, e della sua regolarizzazione come una loggia ordinaria all’obbedienza del Grande Oriente d’Italia, fino alla calendarizzazione dei propri impegni nel circuito giustinianeo almeno nel primo triennio, vale a dire press’a poco fino al passaggio all’Oriente Eterno del Venerabile (e fondatore) Francesco Bussalai e poi, a breve distanza, dell’Oratore Anton Francesco Branca (esponente di punta del PSI e consigliere e assessore regionale). Mi limito qui, invece, ad anticipare una scheda d’inquadramento temporale, di natura politico-sociale, cui collegare la narrazione della singolarissima esperienza, appunto, della “P” cagliaritana nella sua saldatura con la nuova Sigismondo Arquer.
Stesi tale scheda in premessa alla relazione preparata, ma poi (per ragioni organizzative del pubblico convegno) non letta in occasione del 40ennale della loggia, ora sono dunque già dieci anni. Nulla si perde mai però – l’ho già sottolineato –, e in mancanza anche della pur prevista stampa di quegli atti, per relazioni anche soltanto date per lette, spero di poter offrire presto un buon contributo editoriale alla santa causa.
Riguardo all’apporto personale di Francesco Bussalai rimanderei adesso a quanto riportato nel mio lungo (lunghissimo) articolo uscito nel sito di Fondazione Sardinia il 21 marzo 2014 dal titolo “Riflettendo circa la presenza della Massoneria italiana (e sarda) sulla scena pubblica, fra storia e cronaca. Il rapporto con la religione (e la Chiesa) e la politica”. (Valga qui ricordare che ogni anno, in occasione della visita cimiteriale dell’interloggia cagliaritana che ho promosso tempo addietro e mi onoro di guidare, è proprio dalla tomba di Francesco Bussalai e dei suoi congiunti, tutti o quasi anch’essi virtuosamente compromessi con le idealità della Libera Muratoria, che si parte, in associazione all’altro sepolcro simbolico, quello dei Grassi).
Merita considerare che una parte cospicua dei materiali documentari utilizzati, e rifluiti nel mio Archivio storico generale della Massoneria sarda, proviene proprio dalla famiglia Bussalai cui fui legato – in particolare con Fides Pilo, Pino, Bruno e Anita – da solidi rapporti fiduciari e, con alcuni, anche di intensa amicizia. Essi mi furono consegnati perché ne dessi pubblica conoscenza, valorizzando così i termini della generosa partecipazione di Francesco e dei suoi agli accadimenti liberomuratori isolani del secondo Novecento (ivi inclusi quelli relativi al Capitolo Sandalyon U.D. dell’Ordine della Stella d’Oriente ed all’Arco Reale/Rito di York negli anni ‘70).
In ordine ai contenuti veri e propri della vicenda obbedienziale, ed ancora nel rispetto delle regole generali della privacy, credo comunque di poter qui presentare il primo breve e sapido capitolo introduttivo alla esperienza del gruppo “Propaganda”.
Per una corretta intelligenza di tale elaborato (si tratta di un inedito che inquadra un periodo lontano mezzo secolo da oggi) occorrerebbe tenere presenti alcune circostanze di fatto assolutamente rilevanti e anzi decisive:
1, la debolezza strutturale, ancora per gran parte degli anni ’60, della Massoneria giustinianea sarda – l’unica sul campo –, che soltanto dal 1966-67 poteva contare su una sua autonomia circoscrizionale, per gemmazione dal Collegio del Lazio;
2, la dichiarata propensione della Fratellanza a non consentire status speciali ad alcuno, ma ad affermare nel concreto il principio base della “uguaglianza” fra tutti gli iniziati quotizzanti iscritti ai piedilista;
3, l’orgoglio tutto isolano di non dar spazio ad interpretazioni di convenienza profana della norma che impegna ogni loggia ad operare, nella più assoluta trasparenza e nella logica dei “vasi comunicanti”, escludendo forzature foss’anche programmate dai vertici obbedienziali;
4, il riferimento alla “regolarizzazione” dei Fratelli nuoresi cui si dirige la delegazione venuta da Roma e scortata da Francesco Bussalai (“regolarizzazione” nel GOI e specificamente nel gruppo “P” locale) riguarda lo status massonico di elementi che provengono dalla Comunione di Piazza del Gesù, e per essa dalla demolita loggia Ortobene: situazione che sembrerebbe non ripetersi, salvo però puntuale verifica, a Cagliari.
Si consideri inoltre che la forza numerica delle cinque logge attive nell’Isola nel 1966 – l’anno di riferimento circa l’avvio delle procedure di radicamento del gruppo/loggia “P” – e nel 1967 – l’anno di istituzione del Collegio circoscrizionale sardo – non superava le 120 unità, e rappresentava quindi una minoranza assoluta e perfino marginale (tutto il contrario oggi!) nei confronti anche di pressoché tutte le altre realtà latomistiche territoriali del continente e della Sicilia.
Al capitolo “Il gruppo di lavoro P”, dunque appresso riesposto nella parte iniziale e documentaria, fanno seguito questi altri che, come detto, sono, dal 40° del 2009, in riserva di pubblicazione: “Memoriale Giglio”, “Le testimonianze Cossu, Satta e Tocco”, “Parola di Botticini, l’obiettivo socialista”, “Cicito Masala, lo specifico di un intellettuale”, “Fra i rituali, una compagine all’esordio”, “Proselitismo e organizzazione”, “Nelle Tavole, idee e responsabilità”, “Masala e la questione marxista”, “Qualche defezione dolorosa…”, “… e qualche acquisizione importante”.
Anche i materiali utilizzati per tali elaborati sono di provenienza dei Fratelli che, lungo gli anni, mi hanno donato la loro confidenza, con sentimento di franchezza e liberalità. Ricordo fra essi, appunto, Francesco Masala ed Antonello Satta, Giuseppe Tocco, Renato Botticini (in limine della sua vita) e naturalmente – per speciali intese e come esito di una lunga fraterna consuetudine – Mario Giglio.
Concludo ricordando che alle vicende della “P” sarda nelle sue varie fasi storiche – ché dopo quella esauritasi nel 1969 con la fondazione della Sigismondo Arquer altre, ma di diversa tipologia, ne sarebbero seguite, tanto in regime virtuoso quanto in regime problematico e perfino inquietante (quello gelliano) – ha guardato l’amico mio Franco Arba che, nell’a.a. 2003-2004, ha discusso la sua tesi “La Massoneria in Sardegna dal secondo dopoguerra alla fine degli anni ‘70” presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna (relatore il prof. Luigi Ganapini).
Si è trattato di una ormai remota collaborazione, quella del mio Archivio storico generale con Arba – un sardo serramannese di mille esperienze intellettuali e di vita fra Sardegna, Italia continentale e Gran Bretagna, e scrittore di grande presa –, che ha valorizzato insieme, in direzione biunivoca, per implementazione dei notiziari, il suo lavoro di ricerca e la mia dotazione documentaria. Lo stesso Grande Oriente premiò, nell’equinozio di autunno del 2005, il lavoro del dottor Arba con un assegno che aveva il valore simbolico del riconoscimento di valore (ex Premio Treves, per le mani del Gran Segretario Giuseppe Abramo: cf. Erasmo notizie n. 17-18/2005).
La Sardegna fra il 1964 ed il 1972
Breve premessa. Nell’arco del primo triennio di vita della loggia – ottobre 1969-novembre 1972, mille giorni pochi di più – la Sigismondo Arquer n. 709 tiene una sessantina di tornate – non sono molte – fra Camera d’Apprendista (in larga prevalenza), di Compagno d’Arte e di Maestro (soprattutto per deliberare e per concedere ritualmente, pur in forme abbreviate, il cosiddetto aumento di paga), e anche seduta bianca cioè non rituale.
Non è usuale riportate nel dettaglio, in occasioni pubbliche, i materiali riferiti a tempi relativamente vicini nel tempo. Ma una lettura discreta – discreta, e comunque non banale né superficiale e perciò alla fine inutile – delle Tavole architettoniche di tornata (i classici verbali) può rendere più d’una idea dei caratteri tipici dell’officina nel suo passaggio da “gruppo di lavoro P” – con iniziazioni solitarie e riservate e attività di dibattito civile in luogo non ritualmente attrezzato – a loggia canonica, impiantata e impostata secondo tradizione non derogabile. Dico tradizione non derogabile in quanto ad assetti d’autorità e funzioni – il Venerabile, i dignitari, gli ufficiali – e in quanto a disciplina e modalità operative del “fare Massoneria”. Il che – “fare Massoneria” – significa realizzare un tanto di immateriale e talmente intimo, strettamente personale cioè, da non potersi raccontare: realizzare – si potrebbe dire così – una certa armonia tra portatori di idealità ed esperienze esistenziali diverse che conferiscono il proprio non come in una gara ma come una gratuita elargizione al collettivo, cosicché possa infine dirsi che l’assunzione, certo critica ed elaborata criticamente ma anche gustosa e felice, da parte di ciascuno, dei tesori altrui, porti gli Operai del Tempio simbolico alla soddisfazione umana e morale e la loggia ad una promozione da comunità a comunione. Ecco la missione: una missione per un fine sociale.
Premessa o puntualizzazione importante questa, perché è anche e soprattutto da questo punto di vista che andrà letta la vicenda della Sigismondo Arquer n. 709 fra il suo impianto formale – nell’ottobre 1969, tempo socialmente travagliatissimo nel mondo e in Italia, e peculiarmente in Sardegna – e il passaggio all’Oriente Eterno del suo fondatore principale Francesco Bussalai.
E dunque vediamola questa loggia che denuncia da subito, in singolare coesistenza, un punto di forza e uno di debolezza. Il primo mi pare costituito dalla volontà di introdurre nella Massoneria sarda una sapida anima civile, quasi un osservatorio su quanto si muove nella società, tanto più in quella regionale, quando molto ribolle in pentola: dal banditismo di speciale matrice barbaricina e spettacolarizzazioni delle imprese di Mesina, ai cruenti conflitti in cui spesso i caduti sono gli uomini dell’Arma e della Pubblica sicurezza (allora ancora corpo militare), dai primi tentativi di compensazione di una crisi che non s’arresta, nonostante le ristrutturazioni nelle miniere, con la industrializzazione per poli di sviluppo attraverso lavorazioni sporche che rischiano di ferire il territorio (senza saper attivare le tanto attese o sognate verticalizzazioni produttive) e, ad essi speculari, i primi investimenti importanti nel comparto territoriale con la valorizzazione e il lancio turistico delle coste, tanto più nel nord isolano algherese e gallurese.
Le grandi questioni che fra il 1967 ed il 1969, e poi anche dopo, hanno investito il presente della Sardegna hanno avuto una eco nelle discussioni del “gruppo di lavoro P” da cui la loggia deriva. Sono state viste nei loro antefatti, nei loro sviluppi, nelle loro proiezioni.
Ho tentato, con qualche obbligato azzardo di sintesi, di riepilogare quanto, nella società e nella economia, nell’ordine pubblico e nella politica, ribolle in Sardegna nel lustro 1964-65/1969-70, fino cioè al radicamento della loggia, passando per l’intera esperienza della “P” cagliaritana che proprio a quell’attualità della questione sarda porta – secondo le numerose e qualificate testimonianze raccolte – la sua insistita attenzione e qualche sforzo di analisi.
La Sardegna agricolo-pastorale, la Sardegna dei salassi migratori di sempre, con il Piano di Rinascita divenuto legge nel 1962 e con le più varie formule politiche vocazionalmente riformatrici che allora esordiscono, sembra poter e saper scegliere nuove strade per il suo futuro. Le nuove direttrici del suo sviluppo sono nel segno del turismo costiero e nell’industrializzazione che da una parte rilanci le miniere – comparto tradizionale che passa anche per l’acquisizione della Carbosarda da parte dell’ENEL – e dall’altra vada, con alte tecnologie e per livelli di lavorazione e circuiti integrati fra stabilimenti distribuiti sul territorio anche in chiave di arresto dello spopolamento delle zone interne. Le contraddizioni saranno infinite, anche per la inadeguatezza della classe dirigente politica ed amministrativa
Agosto 1964, gennaio ’65: inaugurazione del porto turistico di Porto Cervo; inizio delle produzioni della Saras di Sarroch (gli impianti saranno poi benedetti nel giugno 1966 dal ministro Andreotti).
Aprile 1965: avvio della produzione SIR a Porto Torres e assorbimento totale da parte dell’Enel, titolare delle concessioni, delle miniere dell’intero bacino del Sulcis-Iglesiente; ma anche lunga marcia da Ollolai a Cagliari del professor Columbu, sindaco barbaricino, per denunciare alla politica regionale la sofferenza delle zone interne.
Maggio 1965: avvio della costruzione a Villacidro dello stabilimento delle Tessili Sarde Associate; verrà presto anche la SNIA (e il suo stabilimento sarà benedetto dall’eterno ministro Andreotti nell’ottobre 1968).
Stagioni anche di grandi processi – in Corte d’Assise, nel 1965, il dibattimento per il giallo di Borore – e di azioni banditesche – evasione da San Sebastiano di Mesina e Miguel Atienza nel settembre 1966.
Supportata anche da letture sociologiche che derivano il disagio di ampie aree di popolazione dalla debolezza della struttura economico-produttiva isolana, la politica regionale esita per alcuni anni tutta una serie di amministrazioni rivendicative e contestative del governo nazionale (presidenze Dettori e Del Rio); nel maggio 1966 il Consiglio approva il piano quinquennale di sviluppo a valere sul Piano di Rinascita, nel novembre un’assemblea di sindaci dà corpo alla politica contestativa, cui lo Stato non sa rispondere se non con forme repressive del disordine sociale che monta: nel gennaio 1967 sbarcano in Sardegna 600 celerini e 300 carabinieri.
Nello stesso gennaio 1967 viene occupata la facoltà di Chimica a Cagliari, seguono le altre; idem a Sassari, a partire da maggio, capofila Farmacia; il corpo docente si divide, fra la paura del nuovo che rimane indefinito, e pieno coinvolgimento anche ideologico con i protestatari.
Il 1967 – l’anno di impianto della “P” cagliaritana – è anno di speciale sofferenza economica: le gelate dell’inverno uccidono 8mila pecore e 500 capi vaccini soltanto nel Goceano; d’estate le devastazioni del territorio boschivo e a pascolo vengono dagli incendi; i minatori inscenano una protesta dopo l’altra; di speciale sofferenza civile: ad aprile la SIR compra il pacchetto di maggioranza, poi la totalità del capitale, della Nuova Sardegna (e lo stesso Rovelli comprerà, con altri e attraverso una finanziaria svizzera (posizionata/relazionata poi in Liecntenstein), l’Unione Sarda, monopolizzando l’informazione quotidiana; e di speciale sofferenza sociale, a guardare il numero dei sequestri di persona, gli scontri a fuoco con le forze dell’ordine: a maggio il presidente della Repubblica Saragat presenzia a Nuoro al funerale di un agente di PS, uno dei sei i caduti nella lotta ai fuorilegge e latitanti (con essi cadrà anche Atienza sodale di Mesina), Orgosolo ed Orune sono circondate da polizia e carabinieri.
La RAI, nella stessa estate 1967, impedisce alla sua sede di Cagliari di accogliere un intervento del presidente Del Rio, e intanto una giornata di protesta contro i ritardi governativi a pro della Sardegna è proclamata dal Consiglio regionale: scioperi e manifestazioni attraversano ovunque. Il Parlamento approva il Piano quinquennale di Rinascita in un testo che Consiglio e Giunta hanno definito ampiamente inadeguato.
Nuovo conflitto a fuoco, con morto, in Barbagia, a capodanno 1968. Viene il ministro dell’interno Taviani, ma dalla Regione si denuncia ancora l’arretramento complessivo della economia isolana – miniere, agricoltura, pesca (è sospeso l’esproprio a Cabras), industria sporca a sovvenzione pubblica e ad altissimo rapporto capitale/addetti –, alla base di tutto o quasi tutto il malessere sociale.
Nelle città, a Cagliari soprattutto, la contestazione anticipata nel gennaio 1967 esplode ora alimentata da circoli ideologizzati extraparlamentari e spesso terzomondisti e da gruppi cd anticolonialisti di rimando latosardista. Occupazione di aule universitarie e scuole superiori. A Lettere scoppia una bomba. In autunno nuove manifestazioni popolari esplodono in Goceano e Barbagia con occupazione dei municipi. Nasce il fenomeno dei murales politici, sospesi fra ideologia identitaria e minaccia. S’affacciano pulsioni etnocentriste, rivendicazioni delle “lingue tagliate”, ecc.
Proseguono i sequestri di persona: tocca a Cagliari a Moralis, ad Ozieri a Campus e Petretto padre e figlio; viene catturato Mesina che dal suo nascondiglio ha mesi prima rilasciato lunga intervista a puntate all’Unione Sarda e alla stampa nazionale. Alla Camera viene depositata una proposta di legge per una commissione di inchiesta sul banditismo
Nella stessa settimana delle elezioni regionali (quelle che segneranno la prima importante affermazione del prossimo Fratello Corona – sarà iniziato a Carbonia quattro mesi dopo) ben 7.000 militari della Brigata Trieste sono trasferiti per esercitazioni nel salto di Orgosolo. Il territorio si ribella, la protesta dei pastori coinvolge famiglie intere, centinaia di donne – madri moglie e figlie – partecipano al fronte che vuol rompere l’accerchiamento da che si sentono imprigionati: è la rivolta di Pratobello. Allontanati verso i confini di Fonni, i militari s’addestrano in una specie di guerra simulata con bombe e tiro di proiettili.
Nel 1969 – l’anno della installazione della Sigismondo Arquer – il malessere è quello stesso del biennio precedente e la instabilità politica, con i cambi frequenti di giunta, ne è insieme concausa e conseguenza.
Ad ottobre – l’ottobre della Sigismondo Arquer – il Consiglio regionale approva la legge che finanzia il piano della pastorizia; pur ormai industrializzata (ma ancora non c’è Ottana e quel che significherà, nel bene e nel male, l’industria nella media valle del Tirso), pur ormai lanciata nello sviluppo costiero a nord e a sud (dalla Costa Smeralda ad Alghero a Santa Margherita e a Villasimius), il comparto agricolo-pastorale rimane un asset rilevantissimo nel PIL regionale: verrà presto, esito di intese assembleari fra maggioranza e minoranza, la legge nazionale sui fitti agrari, che tante tensioni determinerà nelle campagne e nella politica punitiva della proprietà sterile.
Quei Fratelli che nella “P” regionale hanno forse fornito un contributo maggiore in termini di lettura dei fenomeni sociali isolani – Francesco Masala e Antonello Satta fra loro – qualche attenzione continueranno a porla anche nel nuovo contesto di loggia, ma – da quanto emerge dai verbali – certo con minor libertà espressiva che nelle tornate bianche precedenti, atteso che le tornate rituali non consentono allargamenti impropri verso il contenzioso politico.
La fatica degli ultimi anni ’60 non può infatti scomparire per magia nei primi anni ’70, che sono quelli di esordio della Sigismondo Arquer che pur ama la discussione e il fronte civile. Vittima d’un sequestro è la cognata del Fratello Gardu, nel settembre 1970 – una Calamida, figlia del medico più santo che Nuoro abbia mai avuto dai tempi del Fratello asproniano Giuseppe Cottone – e con lei sono altri quattro i sequestrati dell’anno.
Eventi come la visita di papa Paolo VI e lo scudetto del Cagliari di Gigi Riva confortano tante pene e aiutano senz’altro a porre Cagliari e la Sardegna all’attenzione della opinione pubblica e della politica nazionale più che prima. Non verranno miracoli, perché tutto va conquistato, ma qualche più concreta speranza sembra venire dal lavoro compiuto dalla Commissione Medici con impegno rigoroso e interessato di parlamentari d’ogni schieramento.
Al malessere sociale si capisce che deve rispondersi con iniziative di sviluppo economico e sostegno alle istituzioni scolastiche in generale. Nel 1971, fra le proteste di massa, chiudono però le miniere, e massive operazioni di polizia (200 militari perquisiscono interi paesi ogliastrini) continuano a riempire le pagine dei giornali.
Proseguono i sequestri di persona, i tentativi talvolta finiscono nel sangue (come a Villa d’Orri), riprendono le occupazioni delle aule universitarie – la Regione risponderà con una legge (con tratti forse demagogici) di elargizioni a sostegno del diritto allo studio, neppure cessa la sofferenza delle zone interne che certificano il sostanziale fallimento del Piano di Rinascita (diventato sostitutivo e non aggiuntivo dei trasferimenti statali) e di tutto quell’assetto che esso s’era dato di governo del territorio attraverso le zone omogenee.
Ma qualche fattore di dinamismo si vede: SIR e Rumianca, che pur hanno inquinato e alimentato giornalismo, e distratto i malinconici magari finanziando i successi nazionali del Brill Cagliari, sono state fra le prime industrie in Italia ad abolire le gabbie salariali, e comunque hanno favorito una emancipazione di cultura, nel segno del modernismo, di giovani e meno giovani altrimenti senza futuro e indirizzati ad una emigrazione dequalificata.
Ogni fenomeno sociale può avere chiavi di lettura diverse e si presta al chiaroscuro: come nel 1972 sarà per l’insediamento a Santo Stefano della base militare per sommergibili americana. Certo è, però, che pur con le sue neppure leggere contraddizioni, la Sardegna ha intrapreso, tanto più con accelerazione negli anni di passaggio fra anni ’60 e anni ’70, una corsa verso la modernità, di cui magari sono stati segnali la prima donna diventata pretore, il lancio di una compagnia aerea regionale, il primo congresso degli emigrati sardi, una progressiva coscientizzazione della identità di popolo degli isolani.
Di questo e di altro, in progressione quando la loggia sarà arricchita di Artieri, e quando essi saranno portatori di conoscenze ed esperienze che sapranno porre nel comune patrimonio, la Sigismondo Arquer tratterà a lungo, naturalmente – bisognerà ripeterlo – con lo specifico massonico che è ideologicamente neutro.
Il “gruppo di lavoro P”
[…]. Il 16 giugno 1966 una delegazione di Fratelli a piedilista della romana loggia riservata intitolata al Gran Maestro dell’era prelemmiana Giuseppe Mazzoni sbarca al porto di Olbia e prende i suoi primi contatti appunto con quei piccoli gruppi di regolarizzandi – una quindicina di elementi in tutto – sui quali l’intera Giunta Esecutiva del GOI e personalmente il Gran Maestro Gamberini fanno molto affidamento per elevare – secondo specifiche ottiche ed aspettative – la qualità morale-intellettuale-professionale dell’Istituzione in Sardegna.
Fanno parte della delegazione – accompagnata, quale “membro di collegamento”, da Francesco Bussalai – i Fratelli Silvio Rea, Quinzio Granata (rispettivamente Oratore e Segretario della loggia) e Rolando Renzoni. La cosa vale per Nuoro ma vale, di tutta evidenza, anche, e per molti aspetti (dandosene le condizioni), per il capoluogo.
Gli obiettivi della missione sono dettagliati in una lettera d’incarico a firma del Gran Segretario Umberto Genova, datata da Roma il 14 giugno. Eccoli:
«1) perfezionare le operazioni di regolarizzazione con la raccolta del giuramento di rito secondo i moduli da datare e sottoscrivere dai regolarizzandi;
«2) operare il censimento dei FF. nuovi accolti nella Comunione, chiedendo loro il rilascio di moduli anagrafici, con la indicazione precisa dell’attività profana e della posizione massonica (compresi i gradi superiori al 3°);
«3) raccogliere la manifestazione di volontà dei FF. regolarizzati circa l’attività che intendono svolgere e che può consistere:
«a) in una posizione isolata individuale, facente capo direttamente al Gr. Oriente d’Italia – Via Giustiniani 5, avente carattere riservato (P);
«b) in una creazione di un gruppo riservato di lavoro, nell’Oriente da precisare in attesa della costituzione di una Loggia riservata, di cui dovrà essere precisato il titolo distintivo;
«c) in una creazione di Triangoli dislocati della Loggia o del gruppo di lavoro iniziale sino a che esso non disponga del numero sufficiente per la formazione della Loggia;
«d) a provvedere alla elezione delle cariche di Loggia nella eventualità che ne potesse essere proposta la costituzione».
Fra il 19 e 20 giugno 1966 la delegazione della Giuseppe Mazzoni procede, per superiore incarico, alla regolarizzazione di coloro che, nei due Orienti capoluoghi di provincia, ancora non hanno perfezionato, riempiendo i moduli anagrafici e siglando i verbali di giuramento (anche il perfezionamento della posizione dello stesso Bussalai – che porterà la data del 26 giugno – è evidentemente del novero). E’ altresì l’occasione per un censimento più largo dei frequentanti, cui si chiede di dichiarare, oltre all’attività professionale (sempre utile a conoscersi, per le correnti esigenze della solidarietà ad intra e ad extra), anche la posizione massonica (compresi i gradi scozzesi).
Nel 1967 – mi riferisco a Cagliari – sorgono (e sfiancano) delle querelle tipiche di certi brutti momenti della Massoneria litigiosa – dannazione di ogni minoranza estrema! – attorno agli exeat da concedersi oppure no ai Fratelli Gardu e, più ancora, Pargentino, i soli quotizzanti in una loggia ordinaria. Con la Gran Segreteria che preme a loro favore, ed il Venerabile della Hiram che s’attesta su una linea di rigoroso e paralizzante rispetto della norma. Ma non è boicottaggio fine a se stesso. La segretezza non piace ai massoni organizzati e ligi alle tradizioni, che non concepiscono gli status speciali.
Nella Circoscrizione sarda operano “allo scoperto”, nel 1967, le tre officine prima citate all’Oriente di Cagliari – la Nuova Cavour, la Giordano Bruno e la Hiram – mentre altre due funzionano rispettivamente a Carbonia – la Giovanni Mori – ed a Sassari – la Gio.Maria Angioy. (Ad Oristano è andata in crisi, dopo il passaggio all’Oriente Eterno di Ovidio Addis, la Libertà e Lavoro e se ne attende la formale demolizione).
Nella loro assemblea del 31 ottobre di quell’anno i Venerabili riuniti in Collegio ed il loro stesso presidente Vincenzo Delitala – nella vita civile funzionario della Corte dei Conti, personalità distinta d’antica e signorile educazione e simpatie monarchiche (ma ammiratore anche di Mazzini e Garibaldi) – predispongono una mozione da presentare alla successiva Gran Loggia, nella quale chiedono, apertamente, «che nelle nuove Costituzioni vengano definiti la fisionomia ed i limiti di attività della Loggia “P”; che per l’ammissione alla stessa si tenga rigidamente conto dei requisiti necessari per l’appartenenza all’Ordine Massonico e che si precisino, quindi, i motivi che possono validamente autorizzare la copertura di tali Fratelli nell’interesse generale dell’Ordine e non dei singoli».
In un documento che inoltrano al Gran Maestro, i Venerabili Silicani (Carbonia), Oggiano (Sassari), Olla (Nuova Cavour cagliaritana) e Giglio (Hiram cagliaritana) denunciano apertamente l’intrusione di «profani assolutamente privi dei requisiti necessari» nonché di «transfughi dalle Logge regolari» – chiaro il riferimento polemico – i quali, aderendo «alla R.L. “P”», paiono proporsi o, comunque, di fatto costituirsi in una “supermassoneria”: personalità o personaggi tentati di raggiungere il loro obiettivo cercando di svuotare gli organici regolari, «promuovendo defezioni e rendendo di pubblico dominio piedilista ed attività delle Logge».
Enorme questione, di prospettiva e di disciplina generale ispirata al principio di uguaglianza di status morale dei Fratelli: questione però che non oscura gli aspetti più particolari e domestici ben conosciuti e sofferti nell’ambito della Circoscrizione sarda. Il Grande Oriente vive una sua contraddizione e i Venerabili sardi non intendono mollare la presa.
S’accompagna infatti al documento Delitala una loro lettera al Gran Maestro, scritta e spedita fra febbraio e marzo. Nove alinee di premesse, quindi la logica conclusione: «che nella tornata della Gran Loggia del 30 marzo 1968, con assoluta priorità su qualsiasi altro argomento, data l’eccezionale gravità del caso, venga regolamentata l’attività della L. “P” e finché tale regolamento non sarà approvato secondo gli statuti dell’Ord., cessi l’attività di detta L. in particolare per quanto attiene ai lavori per delega».
Le parole sono chiare e serie: denunciano il «grave disorientamento che pervade i Lavori di tutte le officine regolari, in conseguenza dei fatti denunciati» e il «disagio di fronte al quale [i Venerabili] si trovano per le lagnanze che [...] pervengono da parte di FF. che ricoprono autorevolissime posizioni nel mondo profano (Alti funzionari dello Stato, Magistrati, Professori universitari, Presidenti e Direttori Generali di Enti Pubblici, Ufficiali in S.E.P. e Membri del Consiglio Regionale della Sardegna, nonché Consiglieri Prov.li e Com.li, Pubblicisti, Segretari Regionali di Partiti al Governo, ecc.)», circostanze tutte che minacciano, o minaccerebbero, «la completa dissoluzione dell’Obbedienza regolare nell’Isola».
Insomma, i rilievi critici sono di questo tenore: i massoni sardi, tanto più quelli che nella vita profana ricoprono ruoli pubblici importanti, non chiedono per sé protezioni particolari, ma chiedono altresì di non essere esposti quali obiettivo indiscreto di strutture fraternali più o meno segrete.
Ma quale, dunque, l’evoluzione del caso “P” in Sardegna? Quale la successione degli episodi che tanto riesce a turbare la serenità di spirito e l’impegno costruttivo dei Fratelli massoni delle Valli sarde?
La scorsa dei nove alinee introduttivi aiuta a scoprire fatti e antefatti che vedono per protagonista il “gruppo di lavoro”, «direttamente dipendente dalla Gr. Maestr. che sarebbe stato incaricato di ricostruire in Sardegna la Fam. su nuove basi». E dunque, secondo la ricostruzione logico-cronologica dei Venerabili:
«1) elementi estranei alla LL. della Sardegna, sconosciuti (fatte due sole eccezioni) al Coll. dei VV. ed anche ai Consiglieri dell’Ord., svolgono lavori, non rituali, ai quali vien dato un carattere Mass. soltanto per una asserita delega concessa dalla Gr. Maestr.;
«2) detti lavori si svolgono prevalentemente in Cagliari;
«3) le cerimonie sono presiedute da un elemento che fu quotizzante fino a qualche anno addietro in una delle LL. dell’Or. di Cagliari;
«4) nel corso di tali riunioni sono state effettuate “iniziazioni” anche di giovanissimi elementi, previa semplice lettura della formula del giuramento Mass.;
«5) detti lavori, comprese quindi le “iniziazioni”, si svolgono in nome della Risp. L. “P” di Roma, alle dirette dipendenze della quale il cosiddetto “Gruppo di Lavoro” per la Sardegna dice di espletare la sua attività;
«6) l’anzidetto Gruppo (composto di elementi in gran parte assolutamente indegni di appartenere all’Ord. e per il resto privi di quei requisiti che, nell’interesse della fam., ne consiglierebbero l’inserimento in una L. coperta) – sono queste parole pesanti e… certamente eccessive!! – è tuttavia informato del piedilista delle LL. di tutta la Sardegna;
«7) nel corso di dette riunioni è stata rivelata la viva preoccupazione del Gr. Or. sulla inattività e quindi l’inutilità delle LL. operanti [...] in Sardegna ed il conseguente incarico dato al detto Gruppo di Lavoro di assorbire i migliori elementi delle diverse LL. condannando in tal modo le diverse Off. all’esaurimento:
«8) in esecuzione a tale programma sono stati avvicinati da parte di elementi qualificatisi come inviati dalla Gr. Maestr., Fratelli delle diverse LL. che sono stati invitati ad abbandonare le rispettive Off. per prendere parte ad attività di “livello superiore” affidate al predetto Gruppo;
«9) i dirigenti del gruppo di che trattasi sarebbero stati ricevuti dalla Gr. Maestr. in Roma, il giorno 27 gennaio 1968 (come dagli stessi interessati ripetutamente asserito) ed in quella occasione, alla presenza di Autorità Mass. della Capitale, sarebbe stata offerta al Presidente del Gruppo una medaglia ricordo “per i servizi resi alla Famiglia”».
Avranno ragione i Venerabili delle logge sarde, e il gruppo “P” sarà costretto a valutare, in piena autonomia, se sciogliersi oppure regolarizzarsi assumendo lo stesso status delle altre officine simboliche. L’origine della nuova Sigismondo Arquer nel circuito giustinianeo, per quel tanto di Artieri che vorranno compiere il passaggio nella regolarità anche rituale, è tutto qui. Nell’A.D. 1969.
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