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Gianfranco Murtas

La Massoneria e la Vergine Maria. E quel crocifisso dalle braccia spalancate ma senza il legno

di Gianfranco Murtas

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L’argomento non è dei più facili a trattarsi: problema di vocabolario, problema di pertinenze lessicali e grammaticali. Ma debbo tentarci, peraltro soltanto limitandomi alla cronaca, dunque ai fatti: dico ai fatti della Libera Muratoria sarda e cagliaritana e ai suoi incontri con la religione. Per il tanto che quei fatti hanno ispirato bisognerà trovare le occasioni e le sedi nelle quali potersi concentrare e sviluppare una adeguata, approfondita riflessione.

Dicendo di Franco d’Aspro

Se scorri il catalogo delle opere d’arte, ora bronzi o argenti ora terrecotte, di Franco d’Aspro – scultore nostro deceduto ormai da un quarto di secolo (fu nel settembre 1995) ma indimenticato e presente nel sentimento di molti – trovi svariate decine di soggetti ispirati a motivi spirituali e della fede “dei padri e delle madri”: il Cristo dileggiato e sofferente nei faticosi inoltri per il Calvario e il Cristo radioso nella sua vincente resurrezione, il Cristo protettore nell’accoglienza dei deboli e indifesi; con Lui la Vergine Maria, Lei icona della promozione dell’umano all’inimmaginabile rango divino. E con il Cristo e la Vergine Maria – Loro sopra tutti gli altri, e talvolta riuniti nel gruppo della Pietà (come nella chiesa di Santa Lucia a Cagliari, o nei due camposanti) – appunto gli altri, i santi scolpiti nei portali o nei monumentali candelabri (come nel santuario di Sant’Ignazio), l’angelo e gli angeli, i cavalieri dell’Apocalisse, la Donna che partorisce sulla testa del drago, le anime che riprendono vita terrestre come nella filmica rappresentazione della valle delle “ossa secche” (quella proposta dal profeta Ezechiele, VII-VI sec. A.C.)… e nelle città del mondo e della Sardegna, i vescovi mitrati nei pontificali così come i pellegrini umiliati nei passaggi di processione. 

Diverse di queste opere si trovano nei maggiori centri dell’Isola, dal capoluogo al Sulcis-Iglesiente, ad Alghero e altrove, e sono presenti nelle piazze e non soltanto nelle chiese o nei cimiteri – quanti davvero al nostro Monumentale ed al civico di San Michele! –, presenti anche negli spazi già delle facoltà universitarie cagliaritane (come a Medicina Legale) ed in area anfiteatro di Palabanda, nelle collezioni dell’ex-EPT ed a palazzo Belgrano, sede della biblioteca universitaria (e un tempo seminario arcivescovile), sulle cuspidi dei campanili e al museo diocesano, e in diversi quartieri, antichi e moderni, della nostra città-regione di Cagliari. Innumerevoli pezzi d’arte sono entrati nelle collezioni private, altri nella felice raccolta che il Comune di Sinnai – per la benemerita iniziativa dell’allora sindaco Maria Barbara Pusceddu (mentre nel capoluogo la giunta Floris manifestò un imbecille disinteresse!) – ha acquisito anni addietro allestendone una mostra permanente.

Le Vie Crucis, come quella che presidia l’intero perimetro della chiesa del Poetto, alta arte vincolata dalla Soprintendenza ed ancora, appunto, il gigantesco Cristo morente ma rappresentato privo della sua croce – come l’Uomo di Buchenwald della mia collezione familiare e richiamato nella nota monografia e silloge fotografica di Bruno Rombi (“I crocifissi di Franco d’Aspro”, Cagliari, editrice Sarda Fossataro, 1963) come in qualche tesi di laurea (fra esse quella di Myriam Deidda discussa con la prof.ssa Maria Luisa Frongia nel 2006: “Franco d’Aspro tra sacro e profano. I crocifissi”) – e, ancora e sempre, in accompagnamento di appoggio e riparo, la Vergine Maria effigiata nelle diverse sue missioni: ora Stella Maris ora patrona dei Minatori, ora Signora del Carmelo, ora la Bonarina sostenuta dalle onde o visibile sulla caravella, com’è quella doppia che sentinella dal 1970, nel suo grande piazzale, il santuario-basilica officiato ormai da quasi settecento anni dai padri mercedari…

L’artista e la religione, il massone e la spiritualità cristiana e mariana, d’Aspro e Bonaria – il centro delle maggiori devozioni cittadine e sarde che accoglie nella parte santuariale le spoglie del massone Domenico Alberto Azuni, maestro fondatore del diritto marittimo, e in quella basilicale le opere (e/o la memoria delle opere) di quegli altri artieri della loggia Sigismondo Arquer prefascista: da Antonio Ghisu – che fu anche fra i protagonisti dell’erezione di un busto a Giordano Bruno (nel 1913) e qui decoratore e pittore di una decina di tele (purtroppo andate perdute sotto i bombardamenti del 1943: eminente quella della cupola) – a Francesco Ciusa, autore della Madonna “del combattente”… 

Sono in una cappella dello stesso transetto di destra della grande basilica i nomi dei caduti cagliaritani nella grande guerra: fra essi quelli di svariati massoni attivi nel Tempio simbolico di via Barcellona, all’inizio del Novecento, e altrove, e certo rappresentano essi una delle tante anime culturali e civili della Cagliari quale fu nelle complesse stagioni della sua conquistata modernità: Anchisi, Della Cà, Morganti… e bisognerebbe aggiungere chi da noi fece famiglia come Romanelli, come Sola... e gli altri ancora…

E a dire di chiese cagliaritane e di mani d’artista massone certo il cerchio si potrebbe allargare, ad iniziare da Sant’Antonio abate (nella via Manno) e da Guglielmo Bilancioni, lo stesso pittore cui si deve l’ovale di Attilio Serpieri al Monumentale di Bonaria e il grande ritratto di Enrico Serpieri dignitario dell’apripista loggia Vittoria, custodito alla Camera di commercio della quale fu tra i fondatori.

E Ghisu e Ciusa, e Sommaruga e Mela…

Ma per tornare a d’Aspro: che massone fu dal 1947, fra i primi della loggia Mazzini Garibaldi e Venerabile poi della Leonardo da Vinci nonché grado apicale del Rito Scozzese Antico e Accettato, perfettamente inserito in una storia familiare che dalla stagione delle Vendite carbonare, in cui aveva militato da giovane o giovanissimo suo nonno abruzzese, arrivava a quella delle officine liberomuratorie dell’Italia ormai unita e, riscattata dalle abominie del fascismo, finalmente retta da ordinamenti liberali in repubblica.

D’Aspro – al quale giusto quattro anni fa una piazza è stata dedicata in un lato di via della Pineta, fra la chiesa di San Pio X e lo stadio Amsicora – venne a Cagliari, per una esposizione alla galleria Palladino, nella primavera 1938 e a Cagliari restò per il resto della sua vita. Qui si fece appunto massone all’indomani della caduta della dittatura (che le logge aveva messo fuorilegge) e dopo che la guerra, con le devastanti distruzioni dei bombardamenti aerei – distrutto anche il suo laboratorio di via Rossini –, lo aveva costretto a riparare per qualche tempo a Villamassargia, ivi collocando il suo studio e la fornace per le fusioni metalliche. 

Nel 1963, aderendo alla storica e più prestigiosa Comunione di Palazzo Giustiniani, si presentò nel Tempio della loggia Nuova Cavour, presso il palazzo Chapelle, e qui formalizzò la propria associazione solennemente leggendo e sottoscrivendo proprio la formula del “giuramento” che cento e passa anni prima era stata adottata dai carbonari. Impossibile per lui – per Franco d’Aspro – uscire da questo corso ideale perché stretto da ragioni morali e sentimentali che lo riportavano alle generazioni che lo avevano preceduto e preparato. E dopo l’iniziazione e le responsabilità rituali eccolo, assai più di prima, impegnato a dar forma ai suoi soggetti religiosi: impegnato a rispondere a commissioni di parrocchie e comitati patronali, eccolo già dal 1949 impegnato a realizzare – primo di una serie – il bacolo pastorale del nuovo arcivescovo di Cagliari, monsignor Paolo Botto. Un modello poi variamente replicato per le promozioni episcopali di monsignor Pier Giuliano Tiddia, di monsignor Antioco Piseddu… 

Argomento certo suggestivo, questo degli artisti iniziati alla ritualità liberomuratoria, laici del filone socialista o mazziniano o liberale nella disputa politica, e piegati con la partecipazione del cuore, non soltanto con la tecnica del mestiere, ad illustrare i migliori motivi della spiritualità e della devozione tradizionale…

Questo colpisce delle generazioni massoniche del passato: come l’anticlericalismo non fosse mai straripato nell’irreligione. Tanto che quando, nel 1869 – l’anno della convocazione del Concilio Vaticano I (quello della definizione dogmatica della infallibilità pontificia nelle pronunce ex cathedra in materia di religione e morale) –, il Venerabile della loggia di Sassari (era la Goffredo Mameli) propose la riformulazione del tradizionale distico dedicatorio e finalistico “Alla Gloria del Grande Architetto dell’Universo” in quello di tono positivista “Alla Patria Universale e al Progresso Indefinito”, l’assemblea costituente dei rappresentanti di tutte le logge d’Italia respinse, con un voto “bulgaro”, l’azzardo…

Così fu nel tempo, e anche nel primo come nel secondo dopoguerra non mancarono gli episodi illuminanti al riguardo e le figure che direttamente o meno – anche oltre le iniziative umanitarie – dettero testimonianza: a partire da Germana Sommaruga (serva di Dio, prossima beata) cresciuta dal padre libero muratore (artiere della loggia Sigismondo Arquer) nella Cagliari degli anni ’10 e ’20, e da Mario Mela, intimo patrono delle vincenziane dell’Asilo della Marina (artiere della loggia Risorgimento)… 

Interno a quella certa sensibilità intimamente religiosa della ritualità massonica e scozzese e ancor più calato dalle sue impressioni di vita in un cristianesimo visto come mite sequela e, insieme, come catino di necessaria consolazione dei più umani fra i bisogni, l’artista ha lavorato sui suoi soggetti in essi trasferendo la propria pietà e le proprie attese, forse mai declinate a parole, e invece materiate nelle espressioni di quei cento Cristo e di quelle cento Vergine-e-Madre…

Nella loggia Sardegna, fra Kipling e Quasimodo, Brecht e Cambosu…

Sono temi, questi, che si sono sobriamente affacciati anche di recente, in una bella tornata, sì informale ma disciplinatissima, attenta e, direi, moralmente attrezzata ed elegante, della loggia giustinianea dal titolo “Sardegna” attiva a Cagliari ormai da 41 anni e di cui, in varie occasioni – sulla carta stampata e nell’web –, ho ricordato alcuni dei nomi di coloro che, nel tempo, ne hanno marcato l’autorevolezza culturale, professionale e civile e più ancora lo spessore umano: da Gianfranco Contu a Luigi Dessì a Piergiorgio Pasolini, ad altri ancora come loro.

Mi era stato chiesto di delineare alcune tappe delle vicende massoniche isolane, e più specificamente cagliaritane, dal secondo dopoguerra ad oggi, con focus su figure e episodi di maggior momento. In questo contesto mi è stato facile ed oltremodo gradito, introducendo gli echi virtuosi, perché ecumenici, della “Loggia Madre” di Kipling, dopo che le suggestioni di Quasimodo (“Mater dulcissima…”) e gli ammonimenti così diversi e pur così somiglianti di Bertold Brecht («Sia lode al dubbio!... / Oh bello lo scuoter del capo / su verità incontestabili! / Oh il coraggioso medico che cura / l'ammalato senza speranza!... / Sono coloro che non riflettono, / a non dubitare mai. / Splendida è la loro digestione, / infallibile il loro giudizio. / Non credono ai fatti, credono solo a se stessi…»), e del nostro Salvatore Cambosu di “Miele amaro” («De cundennare no ti let sa presse», da “Un celebre processo”), di soffermarmi su Helder Camara. 

L’idea era stata di richiamare alcune singolari pagine, intensamente autobiografiche, del celebre libro-intervista di quel vescovo autorevole ed amato in ogni latitudine e in ogni meridiano del mondo, tanto più dopo l’esperienza del Vaticano II e le sue scelte radicali in favore dei derelitti delle favelas. Promosso all’episcopato (per una felice coincidenza che, all’accenno, ha… simpaticamente rallegrato l’uditorio) proprio nel giorno della nascita del Venerabile della loggia che mi ha ospitato! di lui ho evocato le confidenze circa la propria formazione prima ancora degli anni del seminario, dico della educazione ricevuta in casa dal padre massone. Camara figlio di massone, in una famiglia in cui anche il nonno e gli zii erano frequentatori della loggia…

I tenores di Bitti e l’Ave Maria nei saloni di palazzo Sanjust  

Ma prima di rimbalzare qui le parole di monsignor Camara, replicandole dal discorso tenuto nell’aula dell’ensemble fraternale, vorrei indugiare un momento ancora su Cagliari e l’arte mariana accolta in loggia. Lo spunto mi è dato da un calendario di recente riscoperto in cui è annotato: «Palazzo Sanjust, sabato 1° marzo 2008 – convegno su Giorgio Asproni; tenores di Bitti: Ave Maria e s’Iscravamentu». Ne riferii già allora con un articolo uscito sul mensile Chorus (n. 3/2008), e vale la pena di richiamare adesso l’episodio.

Alla serale presentazione degli Atti di un convegno di studi sul Bittese, canonico-deputato (e fra i leader della sinistra democratica all’opposizione dei governi post-cavouriani), massone dal 1867, nonché di una bella biografia di Guido Laj (di radici cagliaritane, studente del Dettori e giovanissimo collaboratore de L’Unione Sarda), gran maestro dei giustinianei nell'immediato secondo dopoguerra, intervenne un folto pubblico, non soltanto di… colti risorgimentisti o di impegnati liberi muratori. E vennero anche i tenores “asproniani” di Bitti che, in omaggio al momento quaresimale, si esibirono nel canto doloroso di s'Iscravamentu, ed offrirono anche le alte suggestioni dell’Ave Maria sarda e barbaricina.

Così, dopo la riaccoglienza nella navata di Santu Caralu, fortissimamente voluta dal clero nuorese, delle spoglie onorate di Francesco Ciusa, in vita doppiamente scomunicato da un diritto canonico stolidamente in tensione col Vangelo, ecco il palazzo liberomuratorio di Castello – fucina, fra XIX e XX secolo, dell'antimassonismo più puntuto fra quelli distillati nell'Isola che pur era l’Isola di Gio.Maria Angioy e Domenico Alberto Azuni –, ospitare questa specie di pacificazione degli animi: ché infine tutti si è sardi e bisognosi di pensiero e religione. Tutti siamo stati battezzati e tutti siamo destinati a miglior residenza, chiamalo grembo di Dio o grembo del Grande Architetto non fa differenza.

Quel canto dolce e potente dell’Ave Maria sarda, dodici anni fa, si combinò, come in un gioco di rimandi speculari, alle quotidiane letture, dalla stazione di Radio Bonaria, dei versi di Tagore, maestro-Artiere di loggia pure lui e poeta universale. 

Concludendo con dom Helder Camara

Nel circuito fraternale cagliaritano dunque, pochi giorni fa – vigilia di solstizio d’estate e vigilia della festa di San Giovanni Battista (primo patrono secolare della Libera Muratoria) –, nuovamente si è dunque preso lo spunto dalle carte di religione per giungere ad una franca riflessione: non per discettare di teologia, ovviamente e sia pure nell’informalità dell’incontro, bensì per ammirare una concreta esperienza di vita e trarne motivo ciascuno per una sua propria elaborazione. Al centro, le confidenze personali del grande vescovo brasiliano, tante volte proposto per il Nobel per la pace e la giustizia.

Dom Helder Camara partecipò al Concilio Ecumenico, nel 1962, provenendo da posizioni dottrinali e letture politiche piuttosto integriste e conservatrici, neppure distanti da quelle proposte-imposte dai governi autoritari e classisti allora al potere nell’America latina. Confessò poi che il Concilio lo aveva cambiato, anzi, lo aveva convertito, rovesciato addirittura. Lo fece nel bellissimo libro cui ho fatto riferimento: Le conversioni di un vescovo, uscito nel 1977. Uomo già di età matura, con una formazione radicata nelle certezze dogmatiche della sua fede e timoroso di un impegno sociale per non essere scambiato per un comunista rivoluzionario – fu lo stesso percorso del più giovane monsignor Romero, oggi santo – confidò/confessò di esser stato travolto “dallo Spirito” e riposizionato davanti “agli uomini”. Nel privato domestico, il padre massone era stato il suo primo educatore “all’onestà”, e da lì egli era partito nei suoi complessi percorsi di vita. 

Ecco alcuni passaggi della sua intervista: 

«[Mio padre] Lavorava in una ditta commerciale. Era impiegato nel reparto scritturazioni. A quel tempo, si diceva guarda libros. Era la ditta Fratelli Boris. Il signor Boris era un ebreo di origine francese. Fino alla fine della sua vita, mio padre guadagnò sempre pochissimo. Aveva un posto modesto. Soltanto dopo trentacinque anni di lavoro gli fu donata la casa che la ditta Boris gli dava in affitto.

«Ricordo che ciò che guadagnavano mio padre e mia madre [insegnante statale] bastava appena ad assicurare il necessario. Più di una volta mia madre ci riunì per dirci: “Sentite, bisogna eliminare qualcosa”. Una volta era il burro, un'altra volta la frutta.

«Mio padre e mia madre avevano orrore dei debiti. Bisognava vivere con gli stipendi e soltanto con quelli. Di lusso non era nemmeno il caso di parlare.

«Ricordo che la prima volta che montai su un'automobile fu per il matrimonio di uno dei miei fratelli. Che festa! Avevamo chiamato un taxi e i vicini stavano tutti là a guardare. Era un avvenimento!

«Quando entrai in seminario, i miei genitori non riuscirono a pagare interamente la mia retta, solo metà...

«Quando ripenso a mio padre ho l'impressione che lui, suo padre, i suoi fratelli, tutta la sua famiglia appartenessero alla massoneria per un atteggiamento anticlericale e non per un atteggiamento antireligioso o addirittura anticristiano... Non si trattava affatto di un atteggiamento contro i “veri” preti. Mi sembra, oggi come allora, che si trattasse piuttosto di una reazione contro certi atteggiamenti della Chiesa in questo o quel campo, e forse anche contro certi preti.

«Mio padre era massone ma non era antireligioso. Ricordo che per tutta la mia infanzia mantenne la tradizione ricevuta da suo padre. In casa c'era un piccolo santuario di famiglia, in legno. Mi ricordo, d'un grande crocifisso, un Cristo in croce ma senza la croce. C'era la Vergine, e San Francesco d'Assisi. E così mio padre, per ogni mese di maggio, dal l° al 31 maggio, riuniva tutta la famiglia e diceva personalmente il rosario. Poi cantava le litanie della santa Vergine, in latino. Naturalmente aveva il testo sotto gli occhi. Cantava tutte le litanie e c'era sempre, alla fine, un canto in onore della Vergine. Il mese di maggio era sacro, per noi.

«E così quell'uomo, quel massone, che portava al dito un anello con il simbolo della massoneria, ma che non vedeva in Dio soltanto il Grande Architetto, onorava la Vergine Maria, la pregava con tutto il cuore nel mese di maggio...: “Madre di Dio, Madre di Dio, prega per noi, poveri peccatori...”. In questo si trovano tutti i misteri cristiani: il mistero della creazione, dell'incarnazione, il peccato, la salvezza...

«Ho anche detto che mio padre non era contrario alla Chiesa né contrario ai veri preti. Non riesco a ricordare la prima volta che dissi che volevo farmi prete. Avevo forse tre o quattro anni. Ma un giorno, quando ero già più grande, mio padre mi chiese: “Figlio mio, sento dire che vuoi farti prete. Ma sai veramente che cosa vuol dire? Sai che un prete non può permettersi di essere egoista? Essere prete ed essere egoista è impossibile. Sono due cose che non possono stare insieme. Io so che è impossibile esser prete e restare egoista... “. E continuava, sviluppando tutta la sua visione del prete e la sua visione dell'Eucarestia: “I preti credono che quando danno l'Eucarestia, c'è Cristo stesso. Hai pensato, allora, alle qualità che devono avere le mani che così direttamente toccano Cristo?”. Naturalmente io ero felice mentre lui parlava. Diceva esattamente ciò che, forse inconsciamente, conservavo nella profondità del mio essere.

«E quando arrivò alla fine del suo ritratto del prete, io dissi: “Padre mio, voglio proprio essere come dice lei!”. Allora disse: “Se è così, figlio mio, che Dio ti benedica. Che Dio ti benedica... Sai che non abbiamo molto denaro, ma ad ogni modo vedremo come potremo aiutarti ad entrare in seminario”.

«Mio nonno era il direttore di un giornale di Fortaleza, A Republica, ma io non ebbi mai l'occasione di leggere quel giornale perché, quando arrivai all'età adatta per poter capire, mio nonno era già morto e il giornale non esisteva più.

«Certo, a Fortaleza come altrove, i massoni seguirono attentamente la “questione religiosa”. Ma ho l'impressione che i massoni condannati da Dom Vital, mio predecessore a Recife al tempo della “questione religiosa”, non fossero veramente antireligiosi né anticristiani, per parlar propriamente, e nemmeno contrari alla Chiesa, ma forse soltanto contrari a certi abusi della Chiesa, a quelle che essi ritenevano allora ingerenze della Chiesa in campo profano. In ogni caso, così fu vissuta quell'esperienza nella mia famiglia.

«Una delle mie sorelle, che stava per farsi religiosa – ora è morta – chiese a mio padre di abiurare la massoneria. Era una cosa normale, in armonia con quei tempi, ma per mio padre era molto crudele. Diceva: “Figlia mia, io desidero avvicinarmi ai sacramenti, certo lo desidero con tutto il cuore. Non ho problemi con il Credo, lo recito, lo so a memoria. Ma per me abiurare la massoneria vuol dire tradire la memoria di mio padre, di tutta la mia famiglia. E io dico questo: mai nessuno, nella massoneria, mi ha insegnato alcuna idea contrarla a Dio o alla Chiesa, alcun controvalore No, assolutamente!”.

«Per fortuna c'era un prete molto comprensivo che capì bene mio padre: “No, lei non deve fare nessun proclama contro la massoneria così come l'ha conosciuta e vissuta. Basta che lei dica il Credo con tutto il cuore...”».




Fonte: Gianfranco Murtas
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