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Gianfranco Murtas

«La patristica, il gregoriano e la pallavolo». Cuglieri nella formazione intellettuale e religiosa di don Ottavio Cauli. Un libro di Tonino Cabizzosu

di Gianfranco Murtas

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Non recentissimo ma recente sì, uscito dalla stampatrice nel giugno 2020, il terzo volume di Per una storia del seminario regionale di Cuglieri – la bella e preziosa collana di testi fra il documento e la testimonianza curata da Tonino Cabizzosu – merita un cenno almeno (ma meriterebbe ben più che un cenno soltanto) per quanto rivela di… segreto della Chiesa sarda per come l’abbiamo conosciuta nei suoi uomini – gli officianti il culto – e ancora la conosciamo e anche frequentiamo. Segreto perché? Perché oltre la lettura sociologica che può essere fatta di un’esperienza collettiva durata ben 44 anni, dal 1927 al 1971, le pagine di questo nuovo volume danno tutto lo spazio alle confidenze, con i ricordi e oltre i ricordi, di ben cinquanta presbiteri che quella esperienza hanno compiuto. Fra essi anche alcuni che sono stati chiamati alla responsabilità dell’episcopato (da Carta a Tiddia, da Piseddu a Sanna).
Tutte le diocesi sono rappresentate in questo ideale “convegno” che Cabizzosu ha avuto l’intelligenza, la sensibilità e la capacità di organizzare per le edizioni della facoltà Teologica della Sardegna (PFS University press), ed offrire alla generale conoscenza con mirata prefazione del condiocesano cardinale Angelo Becciu. Tutte le diocesi: le dieci “storiche” sarde, che erano undici al tempo della missione cuglieritana, perché ancora Bosa ed Alghero non erano state unificate. Non mancano le pagine consegnate da chi Cuglieri la abbandonò cammin facendo, mai però ripudiandola e anzi serbandone utile (e talvolta romantica) memoria, e anche da chi Cuglieri la completò e abbandonò invece il ministero nel tempo futuro (Fiori, Ledda, Floris, ecc.: c’è una bella biblioteca firmata da presbiteri che hanno scelto, ad un certo punto, di dimettersi dallo stato clericale conquistandosi, non senza difficoltà ma sempre con valore, la loro vita professionale e familiare).
Commuovono – il verbo è quello giusto e adeguato – le pagine scritte e l’accompagnamento fotografico, a partire dalla copertina del libro che ben restituisce il senso comunitario. Ai padri gesuiti l’incarico (vaticano) della gestione didattica ed economica appunto della grande comunità impiantata da Pio XI nel cuore del Montiferru, ai ragazzi – adolescenti liceisti e giovani teologi e filosofi – provenienti dai vari territori isolani il compito di costituirsi come nuove falangi clericali, sperabilmente efficaci esempi ed evangelizzatori, guide e compagni delle minori comunità parrocchiali di montagna e pianura, di costa e città.
L’umanità dei quindicenni, l’umanità dei ventenni, l’umanità di quanti con gli studi scalarono gli ordini, dalla tonsura in su quelli minori, fino al suddiaconato che significava anche impegno celibatario, e poi raggiunsero il diaconato e finalmente il presbiterato: obiettivo l’ordinazione solenne per le mani del vescovo e (l’indomani) la prima messa là dove erano stati battezzati e cresimati, ed avevano imparato il catechismo e magari servito all’altare da chierichetti.
In cento pagine Cabizzosu analizza anche criticamente (“identità isolana ignorata”), e sotto varie prospettive, quel quasi mezzo secolo nel quale si dipanò l’esperienza cuglieritana che sorse a dittatura fascista ormai affermatasi, raggiunse e attraversò l’emergenza bellica superandola nella lunga stagione della ricostruzione (e del duro pacellismo, invero non da trascurarsi nelle sue pur rare aperture anche liturgiche), per arrivare al Concilio dei papi Giovanni XXIII e Paolo VI, conoscendone i travagli attuativi quando anche la società civile – e mi limito qui al solo recinto nazionale – visse i sommovimenti della contestazione giovanile, della rivendicazione operaia, del secolarismo che portò anche alla legislazione divorzista.
Par doveroso elencarli i titoli degli approfondimenti tematici entrati nel racconto e nell’ampia analisi del curatore: “Prime impressioni”, “Rapporti con la comunità di Cuglieri”, “Linee di un progetto pedagogico”, “Linee di formazione spirituale”, “Aspetti della formazione filosofica e teologica”, “Rapporto Compagnia di Gesù-Vescovi”, “Identità isolana ignorata”, “Cura animarum e mondialità. Conferenzieri”, “Educazione alla liturgia e al canto”, “Rapporti studenti-educatori. Figure caratteristiche”, “Clima di cameratismo”, “Fermenti pacelliani e giovannei. Concilio e trasferimento”, “Fermenti del preConcilio”, “Concilio e istanze di rinnovamento”, “La chiusura del Seminario: posizioni diverse su questioni opinabili”. Ogni focus raccoglie i suoi materiali dalle testimonianze rilevate, perché consegnate a scritti per il più pubblicati a suo tempo (si parte da due articoli a firma di Gianni Rosa apparsi
su La Nuova Sardegna del febbraio-marzo 1951), e da quelle originali ricevute in occasione della programmata uscita del volume, oppure ancora – evidentemente per il tratto temporale dello scavalco anni ’60-anni ’70 – dai ricordi e dalle riflessioni dello stesso Cabizzosu. Il quale più volte, in diversi suoi studi, ha trovato modo – sempre modo felice – di “liberare” e condividere riflessioni di vita personale.
Io credo che le cinquanta testimonianze, ripetitive soltanto in parte, direi in minima o marginale parte se si sapesse filtrare lo scritto con il cuore sociale che dovrebbe imporsi in tale circostanza, possano giungere al lettore come la corporeità d’un mosaico vivo: perché conta certamente, l’ho detto, il dato di sintesi sociologica – che va bene per gli studiosi per i quali non è peccato il distacco osservatore e l’algidità – ma va meglio, nel caso, e comunque va in parallelo, l’approccio umanistico, guidato dalla capacità di comprendere l’intimo delle persone, le dinamiche interiori sentimentali ed emotive che sono il propellente della vita. Tanto più, mi ripeto, quando oggetto di studio è quello zampillante protagonismo di ragazzi e giovani impegnati nella loro formazione non soltanto religiosa e/o culturale, ma personale e identitaria.
Essendo in gioco una scelta di vita, il seminario non può evitarsi di essere selettivo. La scelta esistenziale del seminarista/chierico quindici/venticinquenne è destinata ad impattare “impegnativamente” nelle vite altrui, nelle vite delle comunità e di ciascun membro delle comunità – giovani e anziani, uomini e donne, poveri e ricchi, colti ed ignoranti –, della comunità particolare, sociale e territoriale, ricevuta come un dono per un percorso da condividere. Da condividere. Da condividere, senza troppi innalzamenti sui pergami di antico marmo istoriato e, tanto meno, senza abusive tribune e svolazzo di addobbi nella divisa di tutti i giorni.
Da ogni contributo viene come una luce speciale, personalissima, utile alla conoscenza del tutto. E se non appare sgradevole segnalare qualche preferenza mi permetto di citare le pagine di don Antonio Porcu quartucciaio-quartese, quelle di padre Raimondo Turtas bittese (passato ai gesuiti dopo esser stato diocesano), di don Rosario Menne del clero nuorese e di don Pietro Puggioni suo condiocesano, di don Angelo Pittau villacidrese della diocesi di Ales-Terralba, del prof. Luciano Carta, del prof. Tonino Loddo, di don Tonino Nieddu… ma davvero c’è profumo di verità in ciascuno dei depositi, in quelli dei quattro Delogu, dei tre Sanna e dei due Mura, di don Tagliaferri e don Spada (brillantissimo), e di quanti altri Muggianu e Leone, Addis e Sau, Loriga e Lintas, Cherchi e Loi, Bacciu e Appeddu, Cani e Marche, Pipia e Pometti, Sciolla e Cocco, Porru e Fara, Angioni, Muscas e Pittau e Carta… Belle bellissime, anche nelle sciabolate, le confidenze di don Gesuino Mulas, personalità alla quale Cabizzosu ha dedicato un libro che, contrastato per tanti aspetti, vanta pregi non da poco per quanto riferisce cronachisticamente e, naturalmente, come intima ricaduta (Diario Mulas. Un sacerdote sardo tra crisi e rinnovamento conciliare, Cagliari, Zonza 2001; vedi anche “Un presbitero isolano tra inquietudine e sete di assoluto” in Miscellanea ieri e oggi. Una Chiesa in cammino Storie e Personaggi, vol. III, a cura di Gianfranco Zuncheddu).
Meritevole di speciale apprezzamento, a mio avviso, è la titolazione che Cabizzosu ha dato ai singoli contributi, taluno forse suggerito dallo stesso autore ma per il grosso certamente attribuibile al curatore. Ne fornisco qualche esempio e prova: “Anni provvidenziali per la mia formazione umana”, “Merito indiscutibile: ha unito nord e sud Sardegna”, “Tutto era bello e facile. Purtroppo non si poteva giocare a calcio”, “Un giullare di Dio e la musica fatta preghiera”, “Il Concilio segnò profondamente tutta la mia vita”, “Per me andare a Cuglieri fu un salto di vita. I gesuiti ci presentavano una Chiesa di cultura, che volava”, “P. Marchesi ci insegnò che, nella visita ai poveri, dovevamo fare sacrifici per fare la carità”, “La campana canterina scandiva e regolava le giornate”, “Contatti minimi con l’esterno, assenza totale del genio femminile”, “Un castello medioevale austero e quasi minaccioso: un’avventura umana e intellettuale irripetibile e ancora oggi stimolante”…
Pressoché da tutti, naturalmente con una varietà di accentuazioni, viene un giudizio complessivo positivo del “castello mediovevale” che, pur non valorizzandola ideologicamente, la sardità aveva riscoperto o scoperto associando “nord e sud” della regione e insieme orientandola alla visione universalista propria del cattolicesimo missionario.
Peraltro, nata in un’era di regime di dittatura, quella fascista, l’avventura cuglieritana – questo emerge dalle testimonianze (invero non sempre in modo pienamente consapevole, a mio parere) – si declinava attraverso regole che infine erano quelle della… dittatura clericale, della disciplina modulata secondo schemi padagogici datati, definiti in struttura fin dalla controriforma. Ne veniva al seminario – rivelo questa mia sensazione – una misura, almeno fino alla stagione conciliare, come di allevamento d’una casta, ché tale era e si percepiva (e autopercepiva) il clero: corpo “autonomo”, presente con una sua “alterità”, autoreferenziale e perfino gerarchica (non soltanto negli onori, ma sempre comunque negli onori), nella società. La vocazione sociale, comunitaria, cui ho fatto riferimento come motivazione e indirizzo della scelta di vita dei singoli allievi, ancora scambiava, o rischiava di scambiare, il ruolo carismatico con l’esercizio d’una paternità sovente scadente – per fissità del ruolo – nel paternalismo, in un’autorità che era autoritarismo nell’interno, primazia e comando, riconoscimento cercato nell’esterno. (Accenno soltanto a questo scivoloso tema che avrebbe bisogno di maggiori e migliori messe a punto. E comunque tutto questo non c’entra nulla con la santità di vita di tanti presbiteri che hanno onorato le loro comunità, affiancandole con la fraternità più che pretendendo di guidarle con la paternità).
Fra le testimonianze riportate in questo terzo volume cuglieritano, che non a caso porta come sottotitolo Il ricordo degli alunni (il precedente diceva Le relazioni dei rettori), è quella di monsignor Ottavio Cauli, del clero di Cagliari, tratta da una lunga lunghissima intervista che potei raccogliere alla fine degli anni ’90 e pubblicai successivamente sul Notiziario Diocesano n. 2/2004.
S’avvicinano ora i vent’anni dacché Cagliari e la sua diocesi, popolo e clero, hanno perduto, con don Cauli, un prete colto e buono, parroco fondatore (nel 1956) della parrocchia di San Pio X, dopo esperienze in provincia, tanto più a Senorbì, e come beneficiato in cattedrale (dal 1950). Fu il suo amore più intenso la comunità di San Pio X che, secondo le progettazioni del secondo dopoguerra dell’arcivescovo Paolo Botto, andava a coprire o presidiare una delle zone di espansione della città – la città rinata e moderna –, oltre l’area di Bonaria e in direzione di La Palma, San Bartolomeo, Sant’Elia ed il Poetto. Per vent’anni la chiesa fu contenuta tutta in un capiente umile magazzino, nel 1976 poté essere finalmente consacrato il nuovo edificio che nel tempo, lentamente per penuria di risorse, s’era alzato ai margini di via della Pineta, a cento metri dallo stadio Amsicora: provvide l’arcivescovo Giuseppe Bonfiglioli, a Cagliari allora già da tre anni. Di lato alla modesta gradinata esterna mi piace ricordare che uno spiazzo alberato ed ospitale è da qualche anno intitolato allo scultore Franco d’Aspro.
In memoria del caro monsignore presento qui di seguito il testo integrale di quella intervista.

Un monsignore per amico
La firma è confidenziale - «Don Ottavio» - su un biglietto da visita più formale: «Mons. Ottavio Cauli - Canonico della Cattedrale - DI: (Difensore del Vincolo) al Trib. Reg. Sard.». Senza data, ma coincidente press'a poco con il suo sessantesimo di sacerdozio. Fu ordinato in duomo da mons. Piovella nella solennità dell'Assunta - la patrona appunto della cattedrale cagliaritana - del 1938.
Il testo: «Gianfranco carissimo, giace presso di me una tua lettera, antica quanto Partenia. Vero è che tante volte ho cercato di raggiungerti per telefono: ma invano! Eri nella tua Partenia della SS. Trinità dai tuoi malati. Ricorda che anch'io gradirei una tua visita e ne ho il diritto: sono un povero vecchio che vive con una vecchia sorella novantenne! Ti par poco? Ti aspetto con gioiosa speranza! Ti abbraccio. Don Ottavio».
Il biglietto dattiloscritto racconta molto, nella mia memoria, del personale rapporto intrattenuto con monsignor Cauli che ci ha lasciati ora sono quasi vent’anni, il 26 giugno 2002. Paradossalmente, seppi della sua morte molti giorni dopo e casualmente, proprio in cattedrale. A dimostrazione, forse, della inverosimiglianza di taluni accadimenti nella nostra vita di imperfetti (o, nel mio caso, di sbagliati).
Ci conoscevamo allora da diciassette anni, anche se io lo ricordo fugacemente - con un'immagine di severità - parroco di San Pio X dal tempo della mia prima media, che frequentavo nell'edificio, al suo debutto, della N. 1 (poi GB. Tuveri) di via Venezia. Distavano forse soltanto cento metri, scuola e chiesa, entrambe sorgenti sul calcare brullo e desertico che guardava al vecchio stadio Amsicora, un lustro prima dei trionfi di Riva e Nené.
Fra primavera ed estate 1981 preparai uno speciale di quasi un'ora dedicato al celebre pittore Foiso Fois, per l'emittente tv La Voce Sarda. E registrai con monsignore, proprio a San Pio X, una bella conversazione, anzi una bella lezione sulla grande, enorme tela del Cristo crocifisso/risorto, donata dall'artista alla nuova chiesa parrocchiale.
Poi facemmo società, con sacerdoti diocesani di forte spiritualità e esperienza umana: Ettore Cannavera, Salvatore Loi, Andrea Portas, Efisio Spettu, e con il diacono Pierpaolo Loi e altri ancora e prima di tutto con Armando Mura, già vice parroco di Sant 'Elia al tempo della visita di Paolo Via Cagliari. Scopo dell'associazione era la cura di una rubrica settimanale di riflessione sul vangelo domenicale che pure venne trasmessa, fra ottobre e dicembre 1981, dalla Voce Sarda.
Monsignor Cauli era del gruppo: e anche dalla sua partecipazione, dalle sue omelie "mediatiche", limpide ed efficaci, per quanto ne sia rimasto nei nastri registrati, potrebbe trarsi documento non insignificante per dire di lui.



Ci incontrammo, negli anni, numerose volte, per lunghe conversazioni, per scambio di libri. Una volta - il 13 agosto 1984 - mi scrisse, con la libertà e l'ironia del presbitero colto, una lettera di fuoco contro certo clericalismo presente nella stessa nostra archidiocesi che mi aveva insolentito («Tu sei stato anche fortunato: perché in altri tempi gli apologeti clericali ricordavano al malcapitato avversario la sua genealogia "per breviorem "… Perché tra gli altri privilegi dei chierici c'era quello di aver sempre ragione e di essere maleducati». E più oltre, riferendosi all'improbabilità di un dialogo con certa stampa diocesana: «... memore di quello che sentii dire da un Arcivescovo cagliaritano negli anni sessanta: "La nostra forza è il silenzio, ignorare l'avversario"». Per concludere con un incoraggiamento da amico: «Vai avanti e sii sempre e solo te stesso: non bruciare incenso a idola tribus... o fori... o specus... che siano»).
Verso la fine degli anni '80 registrammo una conversazione interessantissima sul canonico Giuseppe Lai Pedroni da lui frequentato assiduamente per lungo tempo e tenuto per certi aspetti come modello. L'ultimo suo dono fu un testo di riflessioni sul Paraclito: Credo nello Spirito Santo, del cardinale Anastasio Ballestrero.
Risposi al biglietto agostano di monsignore - quello che faceva riferimento a Partenia con una telefonata urgente: concordammo di vederci la sera del 1° settembre, appunto del 1998. L'idea che gli esposi fu quella di raccogliere al registratore i ricordi del suo sacerdozio, partendo dai tempi della sua formazione seminaristica, fra il Tridentino di Cagliari ed il Regionale di Cuglieri (fra l'8 dicembre 1927 cioè ed il 15 agosto 1938). Intendevo assumere la sua vicenda umana e sacerdotale come emblematica e riassuntiva di quella di tutta una generazione di preti che hanno formato spiritualmente la mia generazione, quella nata qualche anno dopo la fine della seconda guerra mondiale.
In realtà potei raccogliere soltanto la prima parte - ancorché certamente significativa - della sua testimonianza: bella, precisa, fluida. Per molte altre difficoltà (di natura privata, e da una parte e dall'altra) intervenute in successione, tutto finì lì. Il lavoro è rimasto perciò parziale, benché esprima una certa sua compiutezza. E credo comunque di poterlo presentare com'è, rispettoso, nella riscrittura, del tono colloquiale che tu tipico di monsignore, e in più alleggerito delle mie domande. È il testo del suo lungo discorrere sul filo della memoria...

Il regime, fra lo Stato e la Chiesa
«Io sono nato nel 1914, e ho detto tante volte che ringrazio Dio per essere nato in questo secolo, perché sono pochi i secoli che hanno visto tanta evoluzione come quella che c'è stata nel Novecento. Pensiamo per esempio alla "grande guerra" del '14-18, quella che il papa Benedetto XV aveva definito una "inutile strage", e che poi è risultata proprio una "inutile strage"; oppure alla guerra di Spagna, che da chierico mi interessò da vicino.
«A Cuglieri ho avuto parecchi professori gesuiti spagnoli, che portavano nel seminario una folata di novità, sia perché erano molto intelligenti e preparati, sia perché erano molto diversi, dal punto di vista del comportamento, dai gesuiti della provincia torinese dalla quale dipendeva il seminario di Cuglieri. La provincia torinese in Italia è sempre stata considerata quella più austera, più seria, più formale, mentre questi spagnoli tenevano un rapporto umano molto aperto, molto allegro...
«C'era un sacerdote, padre Lacruz, appassionato di calcio - cosa che agli altri gesuiti non interessava proprio -, il quale ci raccontava le partite che venivano trasmesse già per radio. Parlava l'italiano un po' mischiato allo spagnolo, "la pelota ya correva de porteria in porteria", cioè il pallone andava da una porta all'altra...
«Questi gesuiti hanno portato da noi la realtà della guerra di Spagna. Non sono restati a Cuglieri per tutto il periodo del conflitto. Erano stati cacciati dalla Spagna nel '33, poi, dopo la vittoria di Franco, sono potuti rientrare in patria. Ma anche questo ha influito nella nostra formazione, perché qualche interrogativo noi seminaristi ce lo siamo dovuti porre: perché hanno cacciato via proprio i gesuiti?
«Poi è venuto il tempo della seconda guerra mondiale, che è stata veramente tragica per tanti. La guerra è sempre una tragedia, ma quella è stata forse la guerra dopo la quale l'Europa ha dovuto arrendersi alla pace: dopo quella non ce ne sono state altre proprio perché si è provato quanto la guerra è brutta, è cattiva, è tragica.
«Conoscevamo l'andamento degli eventi dalla lettura del giornale, dall'Osservatore Romano che leggevamo a pranzo. Leggevamo i discorsi che faceva il papa Pio XI. Ricordo quelli iniziali contro il comunismo russo. Se c'è stata una persona che in quel periodo, negli anni '20-30, ha alzato la voce contro il totalitarismo staliniano, contro la persecuzione della religione, e non soltanto della religione cattolica, quella persona è stata papa Ratti.
«Lui era stato nunzio a Varsavia e conosceva bene anche la situazione della Russia. Di conseguenza parlava in difesa della Chiesa ortodossa più di quanto facessero gli stessi responsabili della Chiesa russa, che erano costretti al silenzio. Quella convivenza col comunismo non lasciava spazi alla Chiesa...
«Io ero già prete quando sono state pubblicate le leggi razziali in Italia, nel 1938. Sono cresciuto, grazie a Dio, in una famiglia antifascista, anche se papà non entra nei libri di storia. Ricordo - è uno dei ricordi più lontani della mia vita, avevo dieci anni -, l'uccisione di Matteotti: ricordo che doveva essere un giorno di fine estate, forse, era venuto zio a casa, e aveva detto queste parole: "Hanno ucciso Matteotti".
«Sapevamo, dunque, delle leggi razziali, e siccome ero parroco a Serri, mi ricordo che male sopportavo, ed ero andato da monsignor Piovella per chiedergli come mi dovevo comportare... Se un mio parrocchiano che si trovava in Africa voleva sposare un'abissina, perché doveva essergli impedito? Io mi ero detto: li sposo. L'arcivescovo mi aveva risposto: "Figlio mio, non far questo perché susciti un caso diplomatico". Meno male che non mi capitò il caso... Peraltro, in Sardegna non è che ci fossero molti ebrei, così il problema, di fatto, non si sentì più di tanto.
«Il sentimento comune della gente era che si trattasse di una legge iniqua. Io già da allora avevo visto male questa combutta tra Mussolini e Hitler, perché avevo capito che il più forte, chi comandava, era Hitler. Mussolini l'ho sempre considerato un buffone tragico, però... un uomo vuoto, che usava questi slogans roboanti dei quali la gente si riempiva le orecchie e la testa... Lui pensava alla guerra: alla guerra d'Abissinia, alla guerra di Spagna, ecc.
«La gente, mi ricordo perché c'era stato qualche nostro parente stretto fra quelli partiti per l'Abissinia, andava a combattere queste guerre proprio come mercenari, perché non c'era lavoro in Italia. L'assistenza statale era modesta e fondi per le imprese, per le iniziative economiche, non è che ce ne fossero molti, di conseguenza era grande la disoccupazione, e la gente andava in Abissinia come è andata in Spagna, al soldo di qualcuno. Questo valeva specialmente per i poveri. Magari gli intellettuali applaudivano il Duce perché mangiavano del fascismo.
«Di quello che oggi si chiama Olocausto, o Shoah che dir si voglia, non si sapeva assolutamente nulla. Io mi ricordo soltanto delle posizioni che aveva assunto in Germania il vescovo di Munster, che era il cardinale August Von Galen. Anticamente, fino all'Ottocento, questi Von Galen erano proprio i feudatari di Munster, e mi ricordo, perché era stato pubblicato sull'Osservatore Romano, che quando si sparse in città la notizia che i nazisti volevano arrestare l'arcivescovo tutta la città era corsa a fare un sit-in, come si dice oggi, nei dintorni del duomo, in modo da impedire ai nazisti di accedere all'episcopio.
«Un altro grande vescovo tedesco è stato il cardinale Michael Faulhaber, arcivescovo di Monaco di Baviera e Frisinga. Egli si mise a parlare sempre contro il nazismo, contro il razzismo nazista. Ed un altro ancora, del quale però mi sfugge il nome, mi dispiace..., era l'arcivescovo di Tolosa, in Francia, cardinale anche lui, che una volta dal pulpito aveva detto, esplicitamente: "Figli miei, lo sapete voi di che cosa sono colpevoli gli ebrei? Del fatto che sono ebrei". Per dire che la loro sola colpa era quella della razza.
«In Italia, invece, l'episcopato, non dico che fosse tutto fascista, perché le generalizzazioni sono sempre pericolose, però, certo... il regime era tollerato bene dall'episcopato italiano. Perché? Perché, passato il tempo dell'anticlericalismo, il fascismo aveva favorito la Chiesa. Dal punto di vista politico era stato un grande gesto da parte di Mussolini. Con i Patti Lateranensi la Chiesa ha potuto vivere tranquillamente.
«Mi ricordo una pagina di Antonio Gramsci, dove dice che l'Azione cattolica era il braccio religioso della Chiesa e il Partito popolare era invece il braccio politico. Di fatto, nell'episcopato nessuno rimpiangeva il Partito popolare, anche perché era durato troppo pochi anni prima dell'avvento del fascismo.
«Invece ricordo un nostro canonico molto in vista, monsignor Sauna, che era stato per trent'anni, mi pare, il parroco a Quartu, e prima era stato a Gergei. Siccome era mio visitatore arcivescovile, quando ero parroco a San Pio X, capitò una volta che gli chiedessi: "Monsignore, lei ha vissuto gli anni tra gli '80 del secolo scorso e il 1910, 1920, gli anni del liberalismo. Come si viveva allora nella Chiesa?". Lui era entusiasta del governo di Giolitti, perché diceva che la Chiesa non aveva avuto mai tanta libertà quanta ne aveva allora. Parlava tra l'altro, per esempio, dell'Opera dei congressi, delle associazioni, del campo finanziario (tutte queste banche popolari, sorte specialmente in alta Italia, sono tutte di origine clericale: l'Ambroveneto, per esempio, la banca della curia di Milano, era stata fondata dal beato cardinal Ferrari...).
«Prima di Giolitti era un'altra cosa... Accennava a quei fattacci di un secolo fa, del '98, quando Bava Beccaris sparò sui dimostranti, poveri operai che chiedevano lavoro e pane, non è che chiedessero cambiamenti istituzionali, la caduta del re per esempio. Ricordo d'aver letto di un fraticello cappuccino che, essendo salito sul campanile per suonare le campane perché era mezzogiorno, era morto per le pallottole che gli avevano sparato contro, credendo che stesse suonando le campane a stormo, le campane manzoniane...



«Per tornare al tempo della mia fanciullezza, è vero, la mia famiglia era, grazie a Dio, cattolica praticante, e anche nonno era molto praticante, anzi, era stato, a Orroli, anche presidente della confraternita del Rosario, ne era stato anche priore, negli ultimi anni, specialmente. È morto a 97 anni. Tutti i giorni andava a messa, faceva la comunione, e quando, da seminarista, ero in vacanza in paese, andavamo insieme a messa, e ricordo ancora le parole, le ultime parole che ho sentito da lui...

Ad Orroli, una vocazione nell'infanzia
«Era il nonno paterno, nonno Cauli. A Cuglieri si faceva un mese di vacanze, dal 15 agosto al 15 settembre, ce ne andavamo per l'Assunta e tornavamo per l'Addolorata. Siccome nonno viveva un po' lontano da casa mia, ero andato a salutarlo. Era settembre, il tempo già fresco, e l'avevo trovato solo, seduto, nel vano della porta di casa, a prendersi il sole, mi aveva fatto sedere, gli avevo parlato un po', spiegandogli che ero andato a salutarlo perché dovevo tornare in seminario, e lui mi aveva dato un consiglio che era poi il suo testamento spirituale: "Figlio mio, se ti fai prete, fatti prete buono, perché il prete deve dire la messa, ci assolve dai peccati, e deve predicare il Vangelo...". Era analfabeta ma saggio. Queste sono le parole che io ricordo ancora. È morto nel '34, e io ero già in teologia, proprio all'inizio della teologia, e sarei voluto venire a casa per il funerale, non me lo permisero però, perché - mi dissero - "se mandiamo te poi vogliono andare via anche tutti gli altri".
«Se mi chiedessero: perché sei entrato in seminario? Io risponderei, come dico sempre, che è stato per colpa di dottor Paderi. Dottor Paderi era il nostro parroco, ed io ero molto affezionato a questo sacerdote. In quei tempi, negli anni '20, aveva cominciato a portare un po' d'aria fresca in questa parrocchia, un rudere in capo al mondo si può dire, e ricordo che pensai se farmi prete, però non mi piaceva la sottana, questo fatto che i preti usassero questa veste lunga, nera, non mi piaceva troppo. Una notte che ero nella casa parrocchiale, dottor Paderi doveva appendere un qualche cosa al muro, e mi chiese di mantenergli la scala. Allora vidi che aveva i calzoni, e cambiai parere.
«Andavo anche alla funzione, oltre che alla messa. Finite le scuole elementari, avevo fatto un esame per una borsa di studio, per la provincia di Nuoro, e siamo risultati vincitori io, figlio di un pastore, e il figlio del prefetto. Si capisce che l'hanno data al figlio del prefetto. Ho perso quella chance.
«Allora si è messo il problema in casa, perché capivano che io non ero fatto per le cose della pastorizia, dell'agricoltura, insomma non ero portato proprio per la campagna. Qualcuno ha proposto il seminario, perché c'era già un chierico in paese, si è pensato quindi di mandarmi in seminario... Intendiamoci bene: io sono contentissimo di essermi fatto prete, anche perché la vocazione si può manifestare in tanti modi, c'è Dio al finestrino che ti chiama, fai questo e fai quell'altro... Non c'è stata mai da parte della mia famiglia una pressione, una spinta. Oggi sono prete e sono felicissimo di essere prete, e ringrazio Dio se sono potuto entrare al servizio Suo e della Chiesa. Il servizio a Dio si manifesta proprio con il servizio alla Chiesa.
«Si parlava tra ragazzini il primo anno di ginnasio - 12, 13 anni -, si parlava di vocazione, si parlava di qualità dei preti, di virtù ecclesiastiche, ecc. Forse c'era allora un certo difetto di didattica, ecco perché solo da grande io ho aperto gli occhi su certi problemi, e non perché fossi cieco... Grazie a Dio ho avuto sempre uno spirito critico, nel senso che mi accorgevo prima di tutto delle mie deficienze e avrei anche voluto che tutti fossero dotati di certe virtù, soprattutto i superiori. Ma mai una critica per malevolenza, anche per l'educazione che ho avuto..., mai bugie, calunnie, oppure mantenere odi o antipatie, no assolutamente, questa è stata proprio la mia educazione di famiglia.
«A Cagliari ho frequentato in quattro anni tutto il ginnasio che era d cinque anni perché, tra la terza e la quinta ginnasiale, ho preparato durante l'estate la quarta. Andavo molto bene, specialmente in materie letterarie, e quindi avevo superato facilmente anche l'esame ad ottobre per entrare in quinta, così ho recuperato almeno un anno che avevo perso alle elementari.
«Ho ripetuto tre anni alle scuole elementari. Nessuno ci vuole credere a questo, però basta cercare nell'archivio della vecchia scuola elementare... Papà purtroppo aveva dovuto emigrare in Francia perché doveva cercare lavoro, e mamma non è che si interessasse molto... Mi avevano rimandato e boh, non mi ero presentato neppure agli esami a settembre, così ho dovuto ripetere la seconda e la terza per la seconda volta e poi alla scadenza successiva..., e così ho ripetuto per tre anni. Però mi sono serviti, perché almeno una cosa l'ho imparata: l'ortografia.
«È rarissimo che debba consultare, anche oggi, il vocabolario per vedere se una consonante è doppia o semplice, e ripetere la scuola mi è servito molto per questo. Una volta ricordo di aver scritto cuore con la q, e ho sempre davanti la pagina dove avevo cercato di correggere la q...



«I primi anni di ginnasio li ho fatti nel vecchio seminario di via Università, che aveva questo di bello: lo splendido panorama su tutto il golfo di Cagliari... L'impatto per me è stato grandioso perché papà mi diceva sempre: "Se ti promuovono il prossimo anno andiamo alla sagra di S. Efisio", ma poi trovava sempre la scusa per non venirci. Quindi io sono venuto a Cagliari quando sono entrato in seminario; il 6 dicembre del 1927 era la prima volta che venivo in città e la prima volta che vedevo il mare.
«Eravamo ospiti presso la famiglia dell'avvocato Mulas, originario di Gavoi, amico di famiglia. Abitavano nel palazzina di via Roma che sta accanto alla Rinascente, dove c'è una specie di altana con le colonnine... Io sono restato tutto il giorno seguente, il 7 di dicembre, a guardare il mare. Finalmente vedevo il mare.
«A Cagliari ero arrivato con la linea secondaria, era ancora in funzione quella ferrovia... Allora c'erano due corse, una che faceva Cagliari-Seui, e un'altra che faceva Cagliari-Arbatax. La giornata era una di quelle tipiche di dicembre, non fredde, un po' coperte però, con questo mare liscio come un piatto d'argento, una cosa proprio bella. Io guardavo e mi venivano le lacrime agli occhi.
«L'8, poi, festività dell'Immacolata, sono entrato in seminario. Mi ha accompagnato mia madre.

Il ginnasio al Tridentino di via Università
«Io ho sentito molto il distacco da casa, sentivo molto il freddo dell'inverno. In seminario non c'era il riscaldamento, non l'avevamo neppure a Cuglieri. Negli anni che sono stato a Cuglieri il freddo si sentiva... Poi mi mancava tutta questa vita di famiglia, che si riuniva di sera, intorno al focolare, a sa forredda, per la cena, per le chiacchiere...
«Io poi mi aspettavo che il seminario fosse un collegio di ragazzini buoni, seri, invece mi sono trovato in mezzo alla marmaglia, anche perché in casa, in paese, i parenti abitavamo tutti vicini, quindi l'ambiente era abbastanza chiuso, e uscire fuori dal proprio ambiente, anche nel paese stesso, era un'avventura. Quelli di un altro rione, per esempio, non li conoscevamo. E in seminario, ecco, mi sono trovato all'improvviso in mezzo a questi ragazzini che mi sembravano molto maleducati, un po' grezzi. Poi io ero timido...
«Scrissi quasi subito, a casa, che non mi piaceva l'ambiente, e che venissero a prendermi. Ma siccome il rettore, che era un gesuita - padre Alberto Pedracino, un musicista che ci faceva cantare in cattedrale -, leggeva le lettere in partenza e in arrivo, è andata che lui mi ha chiamato e mi ha detto: "Caro, perché te ne vuoi andare?" Io glielo avevo spiegato, e lui: "Eh, figlio mio, vedrai, quando ti abitui...", e mi aveva dato questo consiglio: "Cerca di recuperare questo tempo che hai perduto" - perché io ero entrato quando i miei compagni avevano già due mesi di scuola, ed erano già alla terza declinazione, e quindi io mi ero perduto tutto l'inizio - "prendi una bella pagella al primo trimestre e vedrai che le cose si assestano".



«Questo fatto era stato provvidenziale. Io avevo portato da casa qualche libro che avevamo, e fra gli altri libri avevamo un manuale della grammatica italiana della editrice Hoepli, quei volumi con la copertina in tela rossa che, alla fine, hanno tutti gli elementi di latino, così ho imparato, parlavo la lingua e la traducevo. Nella lingua latina non c'è l’articolo, né le proposizioni articolate, allora diceva: il è soggetto, del, dei, delle… è genitivo, al, allo, alla... è dativo, e così via per gli altri casi. Io, giocando su quelli, ero riuscito a recuperare al primo trimestre. Mi ricordo che avevo preso 5 in storia, tutti gli altri voti erano stati buoni. A me la storia come materia mi era sempre piaciuta, e così ho continuato, anche perché mi sono adattato.
«Quello di Cagliari era un piccolo seminario, anche se era ospitato in un bel palazzo, ma c'erano delle grandi carenze logistiche, igieniche, ogni camerata aveva a disposizione un piccolo gabinetto, non ci facevamo mai il bagno. Va bene che, quando ero piccolo, a casa non è che ci facessimo tutti i giorni il bagno, a parte il fatto che mamma alla pulizia ci teneva, ma almeno d'estate potevamo andare al fiume e farci il bagno. Qui, una volta ogni 15 giorni, mi pare, ci facevano lavare i piedi... Così, quando passavano in piazza Martiri, queste file di seminaristi lasciavano dietro una puzza...
«Dal punto di vista formativo, c'era questo insistere sulle devozioni. Verso metà mese facevamo il ritiro spirituale, e si finiva con la preghiera per ottenere una buona morte. Ad ogni invocazione c'era un "Misericordioso Gesù, abbi pietà di me, quando i miei occhi spenti e tremanti..." e frasi del genere. Oggi, a posteriori, penso: ma perché invece di farci pregare per crescere sani, buoni, per crescere nella virtù e nella salute, a noi che ci affacciavamo alla vita ci facevano pregare per una buona morte?
«Non c'era un rito particolare per la vestizione, da seminaristi. Ciascuno si portava la sottana da casa. Quella era obbligatoria. La nostra divisa era la talare con la zimarra. Era una talare senza maniche, con una piccola cappa che copriva le spalle e il berrettino.
«L'abito, e cioè l'essersi mostrato con l'abito, può aver indotto qualcuno a continuare sulla via del sacerdozio perché, se se ne fosse andato, tornando in paese certamente gli avrebbero appioppato il soprannome di "predi scullau", e magari ci sarebbero stati i ragazzacci a seguirlo gridandogli dietro "predi scullau". Io mi ricordo proprio quello che era capitato a un chierico che chiamavano "predi scullau": quello è tornato in seminario, anche perché lo avevo incoraggiato pure io a tornare, ed è poi diventato un bravo sacerdote prima di me, andandosene quindi in missione.
«Al Tridentino la levata era alle 6, alle 6,30 eravamo in cappella per la meditazione e la messa, alle 7,30 c'era la prima colazione, alle 8,30 l'inizio delle lezioni, erano quattro ore di mattina e due di pomeriggio. Di sera, dopo le due ore di scuola, si usciva tutti i giorni per una passeggiata verso i giardini pubblici, verso Buoncammino, un'oretta di aria aperta. Cagliari però l'ho conosciuta dopo, dopo che ho letto... mi sono interessato di questa città: che cosa aveva di bello, di antico, ecc.
«Andavamo in cattedrale tutte le domeniche, a classi alternate, però nessuno mai che ci avesse spiegato cosa significasse "cattedrale", quali erano le parti più pregevoli, gli stili architettonici, questo mancava. Come scuola, però, ringrazio Dio per i professori che ho avuto, perché si studiava sul serio, e se oggi leggo ancora il latino e il greco, qualche volta leggo Tacito, proprio per diletto, lo devo proprio agli insegnamenti che ho avuto negli anni del ginnasio al Tridentino.
«Il fatto che dovessimo andare a Cuglieri a sostenere gli esami di ammissione al liceo, era già una cosa che, specialmente in quarta e in quinta ginnasiale, ci metteva la zanca, perché cercavamo di fare bella figura anche per la Diocesi, non potevamo mica andar lì a far fare brutta figura.
«Dei compagni di quegli anni ho conservato un bellissimo ricordo, perché poi, una volta superato quell'impatto iniziale, ho accettato tutti per come erano. Ricordo in particolare uno che poi è andato salesiano: Terenzio Sanna, molto buono. Ricordo qualche altro che è morto da sacerdote: don Antonino Abis di Quartucciu, un santino proprio, Antonino era un bravissimo ragazzo. Ho un ricordo gradevole di monsignor Valenti, che è finito a Roma: quella sarebbe dovuta essere l'esplosione dalla Diocesi di Cagliari, invece poi non successe nulla. Ricordo monsignor Salvatore Casu, che è un canonico del Capitolo, col quale siamo stati sempre molto uniti. Quest'anno è morto don Pibiri, molto bravo anche lui, era stato cappellano militare in guerra, con i tedeschi del maresciallo Rommel, che comandava le truppe in Africa. Era riuscito a tornare in Italia, altrimenti sarebbe stato fatto prigioniero, ed era venuto a Senorbì, dove ero diventato parroco, a chiedermi se avevo un breviario disponibile perché lui in Africa aveva perso tutto. E io, scherzando, gli rispondevo: "Tu hai lasciato apposta il breviario li, per non essere obbligato a dirlo"... Un altro che sopravvive e che farà 60 anni di messa l'anno prossimo è monsignor Giovanni Serra. E poi monsignor Salvatore Lecca, che fa 61 anni, perché ha detto messa nel '37. Tutti bravi sacerdoti, sia dal punto di vista della cultura, sia dal lato umano.
«Le famiglie dei ragazzi davano ciascuna quello che poteva: c'erano quelli fortunati, per esempio quelli di Nuraminis, di San Sperate, che godevano di borse di studio fondate anticamente, come quella del cardinal Cadello per i ragazzi di San Sperate. Mi ricordo che c'era un giovane di Nuraminis, che poi se n'è uscito via, Mario Pisano. Sfoggiava sottane di taglio di grandi sarti ecclesiastici, tutto frutto della borsa, perché la borsa era sulle 4 o 5.000 lire, e lui poteva permettersi quel lusso! Così come c'era una borsa di studio di Borore, non so da chi fosse stata fondata, e ricordo che ne aveva goduto monsignor Sini, anche se era di famiglia benestante, perché aveva vinto il concorso... Con lui ci conoscevamo da ragazzi, in collegio siamo stati sempre molto amici. E dopo è toccato a Pietrino Masala, anche lui originario di Borore.
«Io ho un ricordo proprio affettuoso dei miei professori di latino della prima, seconda e terza ginnasiale. Erano monsignor Manunza e don Cosentino, quest'ultimo zio degli ottici di via Manno. Qualcuno mi diceva, poco tempo fa, di aver trovato, ben conservata, una statuetta del Sacro Cuore che sulla base aveva scritta una specie di preghiera di don Riccardo, in cui venivo ricordato anche io, insieme a monsignor Lecca e non so a chi altri. Infatti mi disse: "Guardi, sono contento che l'abbia lei perché...".
«Ecco, i professori del Tridentino erano preti che avevano l'incarico di insegnare, e lo facevano con molta attenzione, lo facevano con molto rispetto verso noi che eravamo proprio ragazzini, che venivamo da Orroli o da paesetti così, che non eravamo mai usciti prima di allora... E insegnavano anche con molta chiarezza. E non è poi che telefonassero "Oggi non posso venire", erano molto, molto precisi. Erano beneficiati della cattedrale e l'arcivescovo dava loro questo incarico, che per loro era un incarico onorifico, si sentivano proprio al servizio della Diocesi insegnando gratuitamente in seminario.
«Della quarta e quinta ginnasiale ricordo, con molto affetto, per le materie letterarie, monsignor Lai-Pedroni, che insegnava italiano e francese, e monsignor Giuseppe Orrù, originario di Orroli, professore di greco. È poi diventato delegato dell'arcivescovo Piovella per le Ancelle della Sacra Famiglia.
«C'erano poi le materie scientifiche. Funzionava anche al Tridentino di Cagliari il gabinetto di fisica, dove trovavo tutti quegli strumenti necessari a capire come si conduce l'elettricità, o la rotondità della terra..., insomma, una saletta abbastanza attrezzata. Il professore della materia era monsignor Francesco Cogoni, futuro vescovo di Ozieri, che era laureato in fisica e in scienze, e per qualche anno era stato anche docente al liceo scientifico.
«Da poco ho celebrato una messa in memoria, non dico suffragio perché questi erano santi sacerdoti che sono stati tanto buoni. Ho molti ricordi simpatici di quando frequentavamo le lezioni, al ginnasio... Dall'altra parte del cortile interno c'era, e c'è tuttora, la piccola terrazzina che unisce le due ali del seminario che formano una U: la facciata sulla via Università, due bracci verso la Marina. Lì c'erano due aulette scolastiche, e qualche volta si vedeva il parlatorio, l'ingresso solenne del seminario, molto bello, arioso, con grandi archi, grandi pilastri. Venivano per la ripetizione di latino - allora erano proprio piccoli - Paolo De Magistris e suo fratello minore Luigi, oggi vescovo, che è diventato un gran latinista. E ricordo anche un Edoardo "irridente": "Don Paolo de las Merdonas, aspetta che arrivo subito", gli gridava dall'altra parte...
«Anche questa vicinanza è rimasta bene impressa nella mia memoria, soprattutto i contatti con i giovani universitari, perché in una sala, che era stata l'aula magna della vecchia facoltà di teologia dell'università, c'era la sede della FUCI, cioè degli universitari cattolici. C'erano, in quegli anni che ricordo, i fratelli Diaz, i Cerioni, Cenzino ed Efisio Corrias, tutti grandi. Venivano lì perché c'era la FUCI.
«Non è che fra noi e questi giovani ci fosse un muro, anzi. Quelli della Congregazione mariana festeggiavano il giorno dell'Immacolata, che era la loro festa, proprio in seminario, con una grande accademia letteraria. Per carnevale, poi, organizzavano delle recite, avevamo nel sottosuolo un teatrino. Tutte cose che a Cuglieri non c'erano.

Al seminario regionale di Cuglieri
«Gli esami, a fine anno scolastico, li facevamo ovviamente in seminario. A Cuglieri si andava, a giugno, per l'esame di ammissione dalla quinta ginnasio al primo anno di liceo. Si era ammessi al liceo o non si era ammessi. Noi di Cagliari eravamo in diciannove, quando siamo andati al regionale di Cuglieri. Siamo stati tutti promossi, però al sacerdozio siamo arrivati in quattro: io, monsignor Casu, monsignor Valenti e don Abis. Quando siamo stati ordinati, però, c'era con noi anche un salesiano che era laureato in ingegneria, Giuseppe Cadoni di Villacidro. Poi c'erano due francescani, dei quali ne sopravvive uno, padre Gerolamo Pinna, che mi ha fatto gli auguri il giorno dell'Assunta, perché anche lui era stato ordinato il giorno dell'Assunta, e si trova ora al convento di Ittiri.
«A Cuglieri c'è stato l'impatto con le altre diocesi, perché non ci conoscevamo. Io dico questo: se il seminario regionale ha un merito indiscutibile, è quello di aver unito il nord e il sud della Sardegna, perché prima l'isola era divisa in un capo di sopra e in un capo di sotto, con scontri storici... Si ricorda la famosa querelle per il primato, nel '600, fra Cagliari e Sassari, ma era tutta roba di vescovi spagnoli, affetti dal loro spagnolismo... Di primati ora il codice canonico non ne parla neppure, soltanto del papa si dice che è primate d'Italia, ma lui è primate di tutto il mondo...



«Conoscendoci, fra noi tutti, ragazzoni oltre i 18 anni, si sono fatte tante amicizie, sono caduti tanti pregiudizi, ci siamo conosciuti a vicenda e quindi questo è stato un grande bene per la Chiesa sarda. Anche perché, poi, tutti gli anni si riunivano a Cuglieri i vescovi dell'isola: c'era già il germe di quella che si chiama Conferenza Episcopale Sarda. Tutti gli anni venivano per una settimana a Cuglieri: c'era il giorno del ritiro, poi discutevano dei problemi pastorali comuni a tutte le diocesi, ciascuno riceveva i suoi chierici, anche per conoscerli un po' meglio. La Santa Sede, quando ha costituito questi seminari regionali, ha estromesso i vescovi dalla loro gestione. I gesuiti dovevano rendere conto solo alla Congregazione dei seminari e delle università, non ai vescovi. Se un vescovo veniva a Cuglieri, per poter parlare con i suoi chierici doveva chiedere il permesso al padre rettore.
«L'idea stessa del seminario maggiore regionale è stata un bene. Perché sono scomparse le due antiche facoltà di teologia di Cagliari e di Sassari, che a livello catechistico potevano reggere, non a livello scientifico però. Basta dire questo: il Migne, la patrologia greca, è un'opera immensa, perché sono più di trecento volumi in folio, in cui sono contenuti tutti gli scritti della patristica greca e della patristica latina, fino al 1400 circa. Nella facoltà teologica di Cagliari, non c'era il Migne. A Sassari, pure sede di facoltà teologica, c'era il Migne. La biblioteca del seminario regionale la si è fatta tutta con gli apporti diocesani. Il Migne che c'era, e che c'è tuttora, fu regalato dalla diocesi di Alghero, che ne aveva due copie.
«La biblioteca di Cuglieri, dicevo, è nata dai contributi di tutti i seminari diocesani della Sardegna, ma Cagliari, la diocesi più grande dell'isola, non aveva dato nulla della sua biblioteca... Cosa che pochi sanno, Cagliari aveva il fondo bibliotecario di Giovanni Maria Dettori, che era stato professore di teologia all'università di Torino. Siccome era di tendenze giansenistiche o rigoristiche, i gesuiti fecero di tutto per cacciarlo via, senza riuscirci. E lui, al momento della morte, lasciò la sua biblioteca al seminario di Cagliari. Vorrei sapere quanti alunni del liceo Dettori sanno che Dettori era un prete, professore di teologia all'università di Superga...



«Io a qualche ragazzo ho detto: "Quando fai la tesina, falla sulla biblioteca della facoltà teologica", per vedere da dove provengono i libri che spesso sono libri di grande valore anche dal punto di vista scientifico, per esempio, per i Concilii. C'è l'opera classica, il Mansi, che era l'arcivescovo di Lucca del XVIII secolo: aveva raccolto in 24 volumi in folio i testi di tutti i Concilii ecumenici, di tutti i Concilii particolari, dei Sinodi diocesani, ecc. In Sardegna mi risulta ce ne sia una copia soltanto a Castelsardo, nella biblioteca del Capitolo di Ampurias. I canonici quello non l'hanno dato a Cuglieri...
«Molte biblioteche pubbliche o ecclesiastiche venivano dai conventi incamerati dal demanio, dai comuni, il secolo scorso. A Cuglieri, per esempio, c'era il convento dei serviti, il convento dei cappuccini. La loro biblioteca, che era passata al comune, il comune l'ha poi regalata al seminario.
«Da parte dei gesuiti c'era una certa supponenza nei riguardi del clero anziano, perché lo vedevano ignorante. Io, per l'esperienza che ho avuto di sacerdoti, - sia diocesani che religiosi, cioè di frati - non condivido quel loro giudizio. Per esempio, dottor Paderi - il mio parroco di Orroli - era un uomo di Chiesa di grande cultura per suoi tempi, laureato in teologia, anche se era una teologetta... L'ultimo laureato di Cagliari fu monsignor Dino Locci, perché nel '34 uscì la Deus Scientiarum Dominus di Pio XI, che aboliva tutte queste facoltà ed aveva allora eretto, nell'Italia meridionale specialmente, questi grandi seminari regionali, che ebbero il merito di riunire anche culturalmente il clero che andava formandosi. Erano una quindicina questi seminari regionali. Solo a Cuglieri eravamo circa trecento giovanotti. C'era un cospicuo corpo insegnante, c'era il personale di servizio, i camerieri, ecc. Che andavano pagati, e la Santa Sede come ha potuto se n'è scaricata... Se non ricordo male le famiglie dovevano contribuire con 1.500 lire all'anno, in quel tempo...
«A Cuglieri, a differenza che a Cagliari, cioè à differenza del nostro Tridentino, eravamo molto segregati. Infatti uno dei motivi per cui il cardinal Baggio, al tempo in cui era nostro arcivescovo, d'intesa con la Santa Sede, ha trasferito la sede da Cuglieri a Cagliari, è stato proprio questo. Ce lo ha raccontato lui stesso: "In questo paese sperduto non c'è una sede universitaria, dunque che si porti a Cagliari o si porti a Sassari è secondario, l'importante è che il seminario non resti così separato e lontano".
«Purtroppo a Cagliari non c'era nessuna struttura adatta ad accogliere un seminario regionale. La Santa Sede lo aveva chiesto a monsignor Botto, il quale aveva risposto: "Se del seminario regionale date la direzione al clero diocesano, si può trovare un posto, altrimenti non c'è". Non è che avesse molto torto, perché i gesuiti hanno grandi meriti per gli aspetti educativi, questo è indubitabile, però un prete diocesano, conoscendo la materia che ha in mano e coloro a cui essa è destinata, dà una diversa formazione. Oggi infatti il seminario regionale è affidato al clero diocesano: il rettore maggiore è Spettu, gli assistenti che seguono i ragazzi sono pure del clero diocesano, tutti molto preparati.

Professori di liceo
«Il liceo l'ho fatto senza sforzo, arrivavo a Natale e avevo già tradotto tutti i testi di greco e di latino, poi vivevo di rendita... Il primo anno avevo tradotto dal greco Le Trachinie di Sofocle ed Il Prometeo di Eschilo. Eschilo è molto duro, molto difficile. Uno di quei professorini spagnoli ci aveva chiesto una volta: "Di greco che cosa traducete? ". Io gli avevo risposto: "Il Prometeo incatenato". Ed ecco che lui si mette a declamare ritmicamente un coro dell'Eschilo: "Oh sole, oh sole ti invoco...". Si chiamava padre Francesco D'Assisi Solà. L'altro invece, quello che ho avuto come professore di psicologia ed etica, poi professore di fisica, era padre Levin, che successivamente è uscito dalla Compagnia. Parlava l'italiano meglio di noi.
«Tenendo presente quello che dicevo prima, lo spirito di emulazione tra le varie diocesi ci ha aiutato molto, perché tutti desideravamo tenere alta la bandiera. C'era, fra noi, un forte spirito di corpo, senza fanatismi però. C'era, si sentiva: tu sei di Sassari, io sono di Cagliari. Mi ricordo che avevo detto a papà: "Questi caposopresi ci dicono maurreddus, ma si può sapere perché?". Lui mi aveva risposto che maurreddu in sardo si riferisce alla zona che storicamente era la più esposta ai maurreddi, cioè ai saraceni,... "oppuru giaurru". Si parla della Cabilia, dell'Algeria, no? La Cabilia identifica i paesi dell'interno, il villico, o "giaurru". Ho scoperto che questa è una parola o araba, o turca, certo usata dai turchi, "giaurru" vuoi dire miscredente. Ci ridevamo su queste cose qui, anche perché eravamo ragazzi ormai già grandi.
«All'inizio facevamo delle partite di calcio animatissime, poi avevano abolito il calcio. Perché? Perché giocavamo con la veste talare, e c'erano ragazzi però che usavano i calzoni corti, quindi si scoprivano le gambe, e i gesuiti insistevano molto su questo fatto delle amicizie particolari. Così, però, si otteneva forse proprio l'effetto contrario, anche perché l'adolescenza, più che la gioventù, è la vita affettiva che scoppia, no? Quindi, se non si sta attenti si possono dirigere gli affetti in posizione sbagliata. Era esagerata questa insistenza sullo stare in guardia dalle amicizie particolari..., finiva che uno, innocente, si chiedeva che cosa fossero queste amicizie particolari... Comunque non mi risulta si siano mai verificati episodi deprecabili.
«Finita l'era del calcio, si è diviso il campo centrale dove giocavamo e si sono ottenuti due campi di pallavolo. E siccome io ero alto, uno dei più alti, ho fatto la mia figura. Ciascuno giocava con la propria classe, per esempio la prima liceo sfidava la seconda.
«A Cuglieri c'erano tre camerate di liceo e quattro di teologia. Ogni camerata comprendeva fra i 30 e 35 alunni. Mentre la prima liceo era abbastanza numerosa - forse erano anche 35 o 37 ragazzi -, la seconda e la terza erano più snelle. Ogni tanto succedeva che qualcuno andasse via.
«In liceo io avevo come professore di italiano padre Egidio Boschi. In prima e seconda avevo avuto, però, il padre Girolamo Sessarego, genovese, preparatissimo. Ho fatto tutta la Divina Commedia: il primo anno l'Inferno, il secondo il Purgatorio... Bisognava sentire i commenti di quest'uomo. Io fino a qualche anno fa ricordavo canti interi dell'Inferno, perché mi piaceva molto, oltretutto perché l'avevamo in casa, proprio la prima edizione, dell'Ottocento, con le illustrazioni di Gustavo Doré. Purtroppo quando siamo venuti a Cagliari, abbiamo perso tutto, un nipote di mia sorella, alla quale papà aveva lasciato la casa, ci ha fuliau tottu, ha bruciato tutto, perché cose vecchie, cose che non servivano... Era una rarità, mi pare che le hanno ristampate in questi anni scorsi, in copia anastatica.
«Poi, il terzo anno, ebbi padre Boschi, con il quale avevo fatto il Paradiso. Di latino, avevo lo stesso padre Sessarego, il primo e il secondo anno. Nel terzo anno, invece, padre Greppi, che era fatto per tutto fuorché... per l'insegnamento. Mi ricordo che avevamo una bella antologia latina, nella quale erano riportati alcuni epigrammi di Marziale, un distico: chi era console quando è stato fatto questo vino della campagna? Risposta: "Nullus erat", io avevo risposto che non c'era console perché ancora non esistevano i consoli, lui diceva di no, non poteva essere vacante perché l'elezione del console era finita un anno prima e quindi entrava in carica dopo un anno. Come predicatore, organizzatore degli uomini era invece impareggiabile. Proveniva dal Piemonte, era della provincia torinese.
«Di greco avevamo quello che era professore di Sacra Scrittura ai corsi teologici, cioè monsignor Francesco Sole, che aveva la licenza in Sacra Scrittura, non la laurea ma la licenza che era equiparata alla laurea, che maneggiava il greco. Era quello che sceglieva Il Prometeo incatenato e Le Trachinie... Il terzo anno di liceo abbiamo poi tradotto opere di San Giovanni Crisostomo, che era un grande scrittore, anche di greco, era il greco classico. C'era quel libro con le lettere alla diaconessa Olimpia, che ricordo con piacere, perché quel santo vescovo scriveva dall'esilio a questa diaconessa, a questa signora, diciamo, con le espressioni più tenere, più affettuose, un po' come San Francesco di Sales con Santa Francesca Chantal.
«Di scienze, il primo anno avevo avuto padre Lanz, che è stato un sant'uomo, ma in quanto a preparazione o pratica non ne aveva proprio. Ed in seguito - in seconda e in terza - questo padre Francesco D'Assisi Solà, di Barcellona, e padre Levin. Scienze era una materia globale, c'era dentro matematica, algebra, trigonometria, logaritmi, botanica, zoologia, fisica con tutte le sue parti...



«Per quanto riguarda la musica, io sono stato fortunatissimo perché ho imparato il gregoriano. Tutti i giorni, dal lunedì al sabato, veniva un chierico già esperto col quale imparavamo i canti, tutti in gregoriano puro, della domenica seguente. La domenica e nelle grandi feste c'era la messa polifonica. Questo professore di musica aveva messo su una schola cantorum molto attiva, molto vivace, con messe di grande peso, la messa solenne di Beethoven, di Palestrina...
«Al ginnasio si faceva canto, perché ci insegnavano canto pratico, ecco, ma non teoria. A Cuglieri si studiava anche la teoria, si studiavano le note gregoriane, ecc., ed alla fine del quarto anno di teologia si faceva un esame specifico sul canto gregoriano, anche se non rientrava nelle materie curricolari. Dicevano: "Mi legga questo", oppure: "Mi canti questo"... Io ho svolto il corso magistrale, ho il diploma, e mi avevano fatto cantare, all'esame di musica, proprio l'introito della Pentecoste: "Spiritus Domini replevit orbem terrarum, alleluia...". Ho due cassette dei benedettini di Silos, in Spagna, ci sono tutti questi pezzi più conosciuti di canto gregoriano.
«Certo è che se uno era stonato bisognava che s'intonasse. Sì, uno poteva essere stonato, pazienza, era un problema ma la Chiesa latina non ne ha mai fatto una grave questione... Invece nelle Chiese orientali il prete deve avere una bella presenza e un bella voce. Bisogna vederli nella liturgia russa, tutti bei giovani, quelli che fanno il servizio al patriarca... Erano come gli ussari dello zar. Giovani con le barbe bionde, le treccioline in testa, con belle voci. Una volta ho assistito, proprio a Mosca, il giorno dell'Assunzione, a un pontificale solenne del Patriarca Pimen, quello che c'era prima dell'attuale Alessio. Ho assistito a tutto il pontificale. Nelle chiese orientali non ci sono né sedie né banchi, tutti stanno in piedi, perché Cristo è risorto in piedi, quello è il significato.
«Ero andato con una signora di Sassari, che però da tanti anni risiede a Milano, la signora Manno, e con due ingegneri ebrei, sono voluti venire anche loro alla messa. Dovevamo lasciare Mosca al mattino, la domenica del 15 agosto, e invece all'ultimo momento, quando avevamo già tutti i bagagli pronti, ci hanno detto del rinvio della partenza alla sera. Allora il solito problema: cosa facciamo? Io ho detto che me ne sarei andato alla cattedrale patriarcale ad assistere alla messa. I due ingegneri e la signora erano voluti venire con me, così abbiamo raggiunto tutti quanti la cattedrale patriarcale. Il patriarca è l'autorità più alta di tutta la Russia, a differenza del metropolita che ha la sua diocesi... A Mosca hanno ricostruito la cattedrale del Salvatore, vicino al Cremlino. Due anni per ricostruirla, Eltsin ne ha fatto un regalo al patriarca. Stalin l'aveva fatta abbattere perché dai campanili si vedeva l'interno del Cremlino, non lo tollerava, l'ha fatta abbattere e ci ha fatto una piscina...
«Dopo il pontificale, quando siamo usciti, i due ebrei mi hanno detto: "Don Ottavio, se non si offende dobbiamo dirle una cosa: ieri sera al Bolscioi abbiamo assistito a un balletto profano, oggi in questa chiesa abbiamo assistito a un balletto sacro". Dal punto di vista artistico l'esempio era proprio calzante, perché è stato tutto proprio così esatto, la musica, la liturgia che è molto bella. Loro non usano strumenti, però hai l'impressione che la schola, che non si vede, faccia le funzioni dell'organo. Hai sentito qualche volta su basciu, questo coro di Bitti, o quelli di Orgosolo? C'è un basso continuo che si dovrebbe fare all'organo, in tempi in cui l'organo non esisteva si usava questo.
«Quand'ero in quarta elementare, la maestra, che mi voleva molto bene dato che conosceva anche papà, la mamma ecc. - perché allora le insegnanti in paese vivevano, e non scappavano come fanno oggi - mi regalò un bell'atlante che era appartenuto a suo fratello che era capitano di marina, un atlante in tedesco, mi appassionavano tutte queste carte del mondo, e mi è venuto il gusto di viaggiare, oppure di comprendere certi termini... Oggi se qualche ragazzo sente alla televisione che l'epicentro del terremoto, o del maremoto, è stato vicino alle isole Azzorre... "Me lo sai dire cosa è l'epicentro?". Dal greco io ho capito cosa significava; la pressione, ..., iperbolico... Questa maestra mi aveva poi regalato anche un portfolio, cioè un volume con fotografie di città di tutto il mondo, e poiché avevo il desiderio di andare a vedere questi posti, io ringrazio Dio perché mi ha dato il modo di... onorare l'atlante».

Addenda
La prima messa di don Ottavio, il 16 agosto 1938
Ho voluto recentemente compulsare, fra le annate de La Sardegna Cattolica (1928-1947) custodite alla Biblioteca Universitaria di Cagliari, i numeri fra agosto e dicembre 1938: alla ricerca della cronaca, eventuale, dell'ordinazione del ventiquattrenne Ottavio Cauli, in un contesto temporale che era quello delle leggi razziali antiebraiche, cui monsignore stesso, iniziando il suo racconto autobiografico, ha fatto spontaneo riferimento.
Quanto emerge dal giornale, a tale riguardo, può apparire oggi sconfortante. Sul dramma degli ebrei nulla o quasi, quasi fiore solitario un articolo del direttore can. Lai-Pedroni su "Gli ebrei e il papa", e soltanto per riaffermare la "paternità universale" del pontefice romano. E invece abnormi spazi erano concessi, nella foliazione, alle cronache del regime, alle titolazioni troppo spesso allineate al trionfalismo della dittatura (a caratteri cubitali, il 1° ottobre, riferendosi al patto di Monaco: "Spetta al genio di Mussolini il successo della concordia europea" o a dicembre, per l'inaugurazione di Carbonia: "Salute al Duce! Il genio del Duce ha dato l'ordine di partenza e i capi della provincia cagliaritana hanno raggiunto la meta in marcia serrata...").
E mentre contro gli ebrei si accelerava la persecuzione, la stampa cattolica locale abbondava con le cronache devozionali, attorno a cui pareva dovesse consumarsi l'intera informazione e la giornata stessa dei pii cagliaritani: il calendario ed il messale ricordavano ora Santa Caterina ora i SS. Martiri cagliaritani compagni di San Saturnino, l'agenda delle associazioni la giornata francescana e le messe giubilari, il taccuino vescovile la "tre giorni" diocesana in onore di San Carlo Borromeo: per il
seminario, per l'Azione cattolica, per le Opere catechistiche... E intanto, in quell'ultimo scorcio d'anno, a Teulada si celebrava il congresso eucaristico regionale, a Carloforte veniva festeggiato don Gabriele Pagani - l'amico di gioventù di Angelo G Roncalli - da quindici anni parroco nell'isola di San Pietro ed ora nominato canonico onorario del capitolo iglesiente, ad Oristano veniva trasferito da Nuoro monsignor Giuseppe Cogoni, mentre al porto di Cagliari sbarcava dalla nave proveniente da Genova la salma di monsignor Igino Serci vescovo di Ozieri; scompariva a Bologna Raffa Garzia e nel capoluogo sardo l'avv. don Giovanni Sanjust...
Ad Orroli la parrocchiale s 'era fatta luogo di frequenti solenni liturgie, fra estate ed autunno del 1938. Perché a fine settembre si doveva onorare, secondo tradizione, San Vincenzo Ferreri, e a novembre occorreva festeggiare il venticinquesimo di messa di monsignor Giuseppe Orrù... Ma intanto, già a metà agosto... Ecco la corrispondenza dal paese, nella rubrica "Notizie dell'Isola" - "Orroli. Prima messa" -, in quarta pagina del numero 36 datato 10 settembre 1938:
«Il 15 a sera, rientrata la solenne processione della SS. Vergine Assunta arrivava da Cagliari il novello Sacerdote Don Ottavio Cauli, il quale impartì al popolo la Benedizione Eucaristica.
«Il mattino seguente alle 10,30 fu accompagnato dalla casa paterna alla chiesa parrocchiale tra gli auguri di tutta una folla in letizia. All'ingresso della chiesa fu salutato dalle note "Tu es sacerdos "; poco dopo cominciava la Messa solenne. Assistevano il novello sacerdote i Rev.di Dott. Paderi, Dott. Cossu, Don Tarcisio Sirigu e Don Boi. La Schola Cantorum parrocchiale cantò la messa "Laureatana" del Campodonico, e alcuni pezzi liturgici. Al Vangelo Mons. Orrù celebrò il sacerdozio cattolico in modo originale: facendo risaltare l'opera di cattolicismo del Sacerdozio nella nostra terra, dando alla trattazione un sapore folkloristico di cui il popolo andò soddisfatto.
«Alla sera una riuscita Accademia preparata dall'A.C. locale disse al nuovo Sacerdote gli auguri di tutto un popolo.
«Va data lode al MR. Don Salvatore Lecca di tutta la sua opera prestata all'harmonium che trattò da maestro in ogni brano musicale eseguito. Ad multos annos!».

Il Cristo di San Pio X, opera di Foiso Fois
Questo è il testo sbobinato della presentazione che don Ottavio Cauli registrò nell’estate 1981, allorché andavo preparando uno speciale televisivo sulla produzione pittorica di Foiso Fois.
Nei primi anni del 2000 da più parti erano saliti giudizi critici su quella grande imponente tela. Fu allora che mi parve giusto recuperare il testo parlato dell’ex parroco di San Pio X. Non ebbi, mi pare di ricordare, disponibilità generose da chi avrebbe potuto, pubblicando quello sbobinato, restituire il giusto onore all’artista autore, a monsignor Cauli stesso, alla comunità parrocchiale che per lunghi anni quella “scandalosa” e meravigliosa pittura aveva accolto e benedetto come motivo di pensiero e di preghiera. Fu Chorus, mensile prodotto da Paolo Matta, ad accogliere quella mia modesta fatica, ospitandola nel numero del 1° giugno 2007. Io poi ripubblicai il testo, con brevissima nota introduttiva, in Una voce nel Chorus. Raccolta degli articoli 2001-2007.



Se prevalenti (e ampiamente rispettabili) appaiono, per numero, le sensibilità disturbate dal Cristo “morto e risorto” di Foiso Fois nella parrocchiale di San Pio X, certo non minori per pregnanza d’argomenti sono le opinioni di chi la gigantesca tela la difende anche nella sua collocazione: una collocazione fondativa degli spazi liturgici della grande chiesa che sorse, con tanti sacrifici, per merito della allora piccola comunità presieduta dal compianto don Ottavio Cauli.
E di quel benemerito, colto ed ecumenico parroco-fondatore – scomparso ora sono già cinque anni – merita anche ricordare le “letture”, insieme umanistiche e dottrinali, che dell’opera offerse in più occasioni. Una di esse mi capitò di coglierla, registrandola per conto dell’emittente televisiva La Voce Sarda nel lontano 1981. Eccone il testo:
«La sua origine è molto lontana e bisogna inquadrarla al tempo in cui gli italiani si scannavano a vicenda, vittime della ferocia nazista, fascista, ed anche di altre colorazioni. Il prof. Fois, che viveva a Vercelli, una mattina, camminando per le strade di quella città, si trovò all’improvviso davanti ad uno spettacolo orribile: un giovane partigiano era stato ucciso dai nazisti e crocifisso al balcone di un palazzo… Vedere questo corpo straziato, martoriato, esposto come un verme al monito degli altri cittadini, fu per lui un richiamo istantaneo, immediato, a un altro Crocifisso…
«Da quel momento nacque in lui il desiderio prepotente di fare qualcosa che incarnasse questo suo bisogno morale in tutta la sua pregnanza cristiana e sociale: lasciare qualcosa di proprio alla Chiesa – intesa non come costruzione di pietre e mattoni, ma come comunità di carità e di amore – che fosse di ammonimento per gli uomini contemporanei, vicini e lontani, e per quelli futuri. Poiché in questa chiesa di San Pio X l’immensa parete dell’abside era completamente nuda, essa fu messa a sua disposizione… Si trattava di dimostrare proprio che “l’arte è sempre a Dio nepote”, come dice Dante.
«Ecco quindi questo Crocifisso. Nessuno può entrare a San Pio X senza notarlo! Se si potesse applicare anche alla pittura la nomenclatura propria della teologia e dell’esegesi biblica, potremmo dire che questo Crocifisso è “apocalittico”. È proprio come un pugno sullo stomaco! Nessuno può passargli davanti indifferente: lo può accettare o non accettare. Ma, chi non lo accetta subito, non se ne dimenticherà. A poco a poco farà pace con lui e un giorno, forse, lo accetterà. Il nostro Crocifisso è apocalittico, perché questo “Christus patiens”, questo “Cristo sofferente”, è proprio la sintesi di un evento teologico di enorme importanza per tutti noi. In quel giovane partigiano martoriato, impiccato, esposto al ludibrio di tutti, Foiso vide il Cristo vittima di tutti, che soffre per tutti, carico dei peccati di tutti.



«Fino ai nostri tempi, dal Rinascimento in qua, i Crocifissi troppo realistici non sono stati più di moda: facevano paura, disturbavano. Il realismo del Crocifisso di Nicodemo ad Oristano, che d’altra parte è influenzato dalla iconografia sarda del Crocifisso, anch’esso disturbava, perché eccessivamente realistico, per l’espressione di dolore terribile, atroce, che finisce in una smorfia sconcertante, reputata indegna di un Dio. I Crocifissi dovevano essere più accettabili, più accomodanti, più belli, quasi efebici, dolci, carnosi, ben coloriti, quasi, oserei dire… erotici. Perché fa più comodo pensare al Cristo che cancella i peccati del mondo… Nella liturgia non diciamo forse: “Agnello di Dio che togli i peccati del mondo”, come se, questo agnello, avesse una spugna con la quale cancellare i peccati dalla lavagna? E se invece si trattasse di un Agnello che si è “caricato” dei peccati del mondo, facendoli suoi, fino ad apparire lui stesso non soltanto peccatore, ma addirittura peccato: “factus est ipse peccatum”?
«Eccolo questo Crocifisso, che manifesta tutto il suo dolore, tutta la sua angoscia per il peccato e in questo grido terribile che gli esce dalla bocca nella immensa solitudine – che poi è la “discesa agli inferi” – rappresenta il momento culminante della “passione”. Ma è un Cristo trionfante, un Cristo vincitore. Fois non ha messo neppure una croce! Della croce resta soltanto un chiodo sui piedi. E il celebrante, che siede proprio sotto quei piedi, quando si leva dal suo seggio vellutato, ha quasi la sensazione d’andare a sbattere il cranio proprio sulla punta di quel chiodo.
«Per il resto, è un Cristo sofferente sì, ma consapevole d’essere vittorioso sulla morte. Infatti si può notare che, mentre la mano sinistra è ancora livida (realizzata con colori scuri, macabri, funerei), la mano destra è tutta illuminata, come in un annunzio di risurrezione. È un Cristo trionfante sugli “elementi”: ai suoi piedi c’è un mare bellissimo in tempesta; sopra, in secondo piano, è rappresentato lo spazio immenso e, sopra ancora, un cielo di nuvole scure, grigie, con lampi di folgori rosse, è “bucato” da due occhi maestosi. Sono gli occhi del Padre, che dall’alto guarda verso l’Uomo col quale si è ormai riconciliato.
«Possiamo perciò dire che questo Crocifisso è apocalittico perché ci disturba, ci fa pensare, ci fa rientrare in noi stessi e ci ricorda quanto sia vero quel che ha detto Cristo stesso: “Quello che avete fatto ad uno di questi lo avete fatto a me”. Non soltanto nel bene, ma anche nel male. E soprattutto ci ricorda San Paolo che dice: “La passione di Cristo continua in tutti quelli che soffrono, senza distinzione di razza, religione, cultura”. Dove c’è un uomo che soffre, è Cristo che in lui soffre. Ma, attraverso questo dolore, l’umanità è ancora redenta».



Di mio qui aggiungo, a difesa della tela da conservare, disvelata, nella collocazione originaria, un motivo tutto cagliaritano, che tocca l’identità di una parrocchia di quartiere nata, nel pionierismo anche edilizio del secondo dopoguerra, in un sottoscala evolutosi poi – e siamo già a ridosso dell’avventura del Cagliari per la prima volta in A – in un capannone a soli cento metri dall’Amsicora festoso ed ottimista. Un grande artista offriva il meglio della sua umanità, non soltanto della sua tecnica, alla nuova Cagliari: una città (come impianto urbanistico ma più ancora come generazioni anagrafiche) che si affacciava al mondo in un tempo fattosi di progressivo benessere materiale, ma che non poteva neppure dimenticare il suo recente passato, bagnato dal sangue delle vittime belliche nei quartieri storici... Forse quel Cristo “sofferente e vincitore” intendeva ancora saldare in uno stretto, insuperabile nesso i due tempi, storici e di memoria ammonitrice, del prima e del dopo, di questa Cagliari già sofferente (appunto per la povertà e i lutti) e ora proiettata verso la modernità…
Se don Cauli confidava in una graduale comprensione dei valori simbolici di quella grand’opera foisiana, per una piena accettazione di essa, credo che questo motivo intimamente cagliaritano dovrebbe entrare anch’esso nella riflessione di chi oggi avareggia verso la fatica di uno dei maggiori pittori isolani – laico e universalista – del Novecento.

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