La “robaccia” di Sant’Agostino vecchio si può chiedere che fine abbia fatto e perché e come?
di Gianfranco Murtas
Non vorrei aver capito male o non possedere la conoscenza neppure delle coordinate elementari della questione che qui affaccio con il punto interrogativo. Dunque senza sfida ad alcuno, ma soltanto con l’intento di saperne di più. Perché, così come mi è stata prospettata, la cosa mi è sembrata piuttosto assurda: che, cioè, lunetta ed arredi, non antichi e non preziosi (sul piano venale) ma certamente bisognosi, come persone affamate che chiedono il pane, di recupero del loro sobrio decoro e ripristinati nell’accompagno dello spazio religioso salvato nel suo primo impianto di millecinquecento anni fa, sarebbero stati scaricati forse nei cassettoni della nettezza urbana. O, ipotesi alternativa alla anonima discarica degli ingombri e dopo una qualche ora di sosta all’esterno di palazzo Accardo in fase ora di rifacimento delle facciate, o forse, non saprei meglio, di fianco all’ingresso di Sant’Agostino nuovo in via Baylle, dispersi o messi a disposizione del primo passante interessato.
Messa così la cosa, ripeto, non viene in mente nessun pensiero buono: né sul regista dell’operazione, né sui suoi referenti d’ufficio (trattandosi sempre di custode e non di padrone, sia che sia questione di Comune sia che sia questione di diocesi), né sugli organi di informazione che – datosi consumato, l’episodio, ormai da diversi giorni – non hanno ripreso l’argomento quanto meno per chiedere un chiarimento od offrirlo, d’iniziativa, anticipando le domande, alla città più agostiniana della Sardegna.
Conosco bene, purtroppo, i casi di dispersione o distruzione di molti arredi anche liturgici e di devozione popolare che per lungo tempo hanno riempito le agende rinnovatrici da parroci di città e di paese e le smanie di rettori in cerca di “ammodernamento”, o per ammissione di sconfitta davanti all’assalto di tarli voraci. Non conosco il caso specifico ed attuale di Sant’Agostino vecchio, ma sono toccato dalle immagini che documentano lo sfratto e che ripubblico così come le ho avute.
Mi auguro che una risposta chiara venga, non tanto a me che non conto nulla in nessuna agenda, ma alla città nella sua dimensione ideale che è poi, evangelicamente parlando, quella gran pasta che il poco lievito dei testimoni (del buon pensare e del buon fare) deve fermentare.
In tempi di chiericotti lefebvriani che invadono, anche a Cagliari e in diocesi né da oggi soltanto, ogni spazio disponibile alimentando ancor di più, come per spirito ostile e gusto del recinto, quello scisma silenzioso di cui soltanto i preti e i vescovi non si accorgono e che è il segno invece doloroso della sfiducia crescente verso una Chiesa-apparato che, Caritas a parte, non sa rispondere alle domande più semplici di noi quidam – quidam come quidam sono o erano quelle panche (e magari anche il lunetta) –, l’episodio di Sant’Agostino vecchio mi pare trovi una sua coerente e sgradevole collocazione.
Ho dedicato tanto tempo e tanto ho scritto sulla parrocchia di Sant’Agostino – che godette dagli anni ’20 (dal 1925 per la precisione) e fino alle devastazioni belliche – la sua autonomia da Sant’Eulalia, affidata a parroci “strappati” dalla storica collegiata (si partì, se ricordo bene, con dottor Amedeo Loy) e sento questa vicenda bruciarmi dentro. Nella grande navata di Sant’Agostino nuovo che allora, a vent’anni dai bombardamenti, era ancora per gran parte un cumulo di macerie, ho trascorso gli anni della mia preadolescenza, al servizio disciplinato di monsignor Ezio Sini che curava con speciale dedizione le “zitine” e le celebrazioni agostiniane (e di Santa Rita) che erano, allora e dopo, larga festa cittadina. Con don Vincenzo Fois e i suoi formidabili giovani, Sant’Agostino risorse e risorse anche la sua cappella ipogeica, la… chiesa madre di Sant’Agostino nuovo ferito dalle bombe. Ad essa, o anche ad essa, aveva dedicato qualche bella pagina monsignor Antioco Piseddu in Le chiese di Cagliari (Zonza 2000), primo dei due volumi finora usciti (del secondo volume mi sono occupato con un lungo articolo qualche mese fa proprio su Giornalia).
A chi ama il genere sono poi certamente note le quattro paginette riservate dal can. Giovanni Spano alla chiesa-convento del Largo – sorta di fronte a quella porta che per cinquecento anni introduceva alla Marina e che non a caso si chiamava Sant’Agostino (oggi diremmo alle spalle della Rinascente): paginette, quelle del nostro can. Spano, illustrative dei diversi assetti del compendio chiesastico, a partire da quello rilevato extra muros degli anni ‘50/60 dell’Ottocento per tornare, all’indietro, a quello dei secoli XI-XII e a quello probabile o immaginato del tempo in cui i duecento vescovi esuli dall’Africa trasferirono a Cagliari le spoglie del Dottore loro illustre collega di Ippona. E se la nota del can. Spano lascia dubbi nella ricostruzione storica degli eventi del primo millennio (fino all’acquisto del corpo di Sant’Agostino da parte di re Liutprando) – perché mette in ballo quel re Gialeto mai esistito in realtà ma celebrato dai falsi d’Arborea – certo pare fondata e rispondente la rappresentazione del manufatto di pur modesta architettura e prima e dopo.
Con la costruzione del palazzo della famiglia del cons. Accardo – una personalità che meriterebbe una sua esplorazione tanto sul versante professionale (come rappresentante ed agente di grandi case nazionali ed estere) e come amministratore pubblico (assessore alla Finanze nelle giunte Bacaredda e Marcello) – la chiesa residuale fu abbattuta, ma salvato restò fortunatamente l’ipogeo e la saletta soprastante). Un francobollo per dimensioni ma del valore storico immenso. Anche la sua lunetta e i suoi poveri mobili mi parevano illuminati da quel valore immateriale.
Mi auguro che la soprintendenza – se competente – sia stata informata. Nel caso, pur se sempre dispiaciuto, mi arrenderei davanti al licet dell’autorità tutoria.
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