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Gianfranco Murtas

Contabilità tragiche di una guerra che sembra una fiera, nel Vietnam. Il reportage di don Angelo Pittau, fra i montagnards, mezzo secolo fa

di Gianfranco Murtas

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Quelli che seguono sono due capitoli, i centrali, del reportage sul Vietnam in guerra cinquant’anni fa, come don Angelo Pittau – trentenne allora – lo scrisse per le bolognesi edizioni Dehoniane: Vietnam: una pace difficile.

“Due modi di fare la guerra” e “Una vittoria che costò cara”. Fucili e mitragliatrici e bombe esplosive nella foresta e anche nelle città dell’estremo oriente indocinese in quel tempo tragico, e ad ogni azione decine e centinaia e migliaia di morti soldati e civili, di innocenti, bambini quanti ne avrebbero potuto riempire una città di cinquantamila residenti pacifici, ridenti, progettanti il loro futuro, sognanti lo sviluppo dei loro talenti di nascita e d’ambiente. Fucili e mitragliatrici nella boscaglia e bombe dal cielo, ma al pari di quel fuoco impietoso, di quelle e mitragliatrici e bombe esplodenti valsero queste pagine per provocare reazioni, per provocare la rimozione della verità dei fatti, per allontanare, con prepotenza, chi denunciava corruzione e scempi crudeli, per portare don Angelo Pittau villacidrese fuori dai confini dal Vietnam. Vinsero – credettero di vincere – i militari fascisti e fracidi e gli americani delle industrie di guerra parassite del bilancio pubblico USA, vinsero anche i vietcong, vinsero – credettero di vincere – tutti gli attori della guerra, cacciando il prete reporter. 

«E' una guerra ai margini della vita, accettata come una calamità, senza motivazioni e chi ha motivazioni cerca di dimenticarle subito. Spesso è una guerra gradita perché fa moltiplicare i milioni». «Naturalmente se si parla di queste cose, se ne parla uno straniero i vietnamiti, soprattutto cattolici, si offendono perché credono che sia denigrazione, dicono che non si conosce il paese, che non si sa interpretare. Ma c'è poco da interpretare nella corruzione: è mancanza di vero amore di Patria e della libertà, mancanza di vero impegno nella lotta al comunismo e all'oppressione». «Un uomo piange venti persone della sua famiglia, negli spazi liberi delle piazze si seppelliscono i morti delle rovine. Le piccole croci sono vicine alle bacchette d'incenso dei buddisti. Naturalmente non ci sono bare. Molti corpi soprattutto di vietcong sono restati insepolti, vengono mangiati dai cani, dai polli, dai porci che si aggirano nelle rovine: anche queste cose ho visto». Frasi brevi, come un’infinità di scatti di macchina fotografica, per film lungo un milione di fotogrammi. Un documento, una coscienza parlante che spera d’incrociare menti aperte a comprendere (magari rovesciando iniziali impostazioni e pregiudizi) …

(L’amor di Vietnam – non un amore di bassa emozione, ma un amore di partecipazione intima e continuativa alla sorte di una popolazione e di un territorio fisico e storico – resisterà in don Pittau, non lo lascerà più. Diverse volte, in Confronto – il mensile che vedrà la luce nel 1977 per durare tre lustri interi, con oltre cento uscite – il tema “Vietnam” tornerà nelle riflessioni cidresi e negli aggiornamenti comunitari. In copertina è il titolo di uno di tali articoli – questo a firma di Francesco e Mariella Campo –, nella pagina dei dibattiti del periodico edizione maggio 1979).



Stragi facili, a confronto mentalità e interessi nel gran gioco del sangue

Gli americani in Vietnam sono 545 000, a loro si aggiungono altri 75.000 uomini delle forze alleate, appoggiano un esercito vietnamita che con la mobilitazione generale è salito a 850.000 uomini, senza contare le forze popolari e la polizia in tutto si arriva a quasi due milioni di armati.

I vietcong, Fronte di Liberazione Nazionale ed esercito nord vietnamita dalle 300 alle 350 mila, non di più. Ma queste forze tengono testa ormai da cinque anni agli americani e ai vietnamiti

Inutile dire le cifre in dollari impiegate dagli USA in questa guerra: l'anno venturo saranno 30 miliardi di dollari se non arriva la pace. Dagli aerei ai piccoli biposto di osservazione, agli elicotteri, agli F 111, ai B 52, piccole basi, basi di appoggio, basi giganti, mostruose per la loro immensità, guardia coste, mezzi da sbarco, cannoniere, corazzate, portaerei, Marines, Air Force, Navy, corpi speciali, piani militari e di pacificazione, polizia militare e CIA Dio solo sa i numeri esatti di questa guerra, di questo materiale e di questi uomini.

Quasi non è una guerra ma una fiera, una mostra di materiali, di mezzi, di tecniche, di uomini. Di uomini ben nutriti, ben vestiti, ben pagati, ben distratti, psicologicamente preparati per l'anno che devono passare qui 12 mesi, 350 giorni non di più e non di meno Possono restare i volontari, saranno pagati il doppio, si sarà indulgenti con loro, faranno carriera i carrieristi, gli avventurieri, gli spostati sociali restano magari a fare i sergenti. Del resto in questa guerra per la libertà del Sud Vietnam qualche volontario pilota arriva a guadagnare 80 dollari all'ora e le ore di volo si accumulano con una facilità incredibile.

Ma i 300.000 vietcong, mal vestiti, mal nutriti, con sandali di caucciù, armati con le armi più disparate controllano un territorio più vasto di quello governativo che va sempre più aumentando: impauriscono di più, condizionano di più il sudvietnamita. Sanno impiantare operazioni spettacolari come quelle di Dakto, di Con-Thien, Gio-Linh, l'attacco del Tét, la presa di Hué, l'assedio di Khe-Sanh, la beffa alla ambasciata americana presa da un comando vietcong e tenuta per nove ore in pieno centro di Saigon.

Ma di solito i due eserciti non si incontrano. Gli americani combattono di giorno, fanno i loro bombardamenti di giorno, di giorno le perlustrazioni, di giorno si scontrano qualche volta con le pattuglie nemiche. All'americano piace tirare soprattutto dall'alto degli aerei e degli elicotteri contro tutto ciò che si muove nelle zone di operazione: una bestia selvaggia, un civile, un bambino, una donna, un vietcong? Fa niente, si tira. A volte sono state bombardate con B 52 mandrie di elefanti.

I vietcong combattono di notte. La notte è il loro regno. Conquistano villaggi, esigono tasse, indottrinano le masse, trucidano senza misericordia e barbaramente chi non si piega, fanno il censimento e l'arruolamento.

Gli americani hanno le città, i vietcong le campagne. Gli uni parlano un linguaggio occidentale, e vogliono che tutti si adattino a loro. Abitano in belle ville, grandi appartamenti, confortevoli campi militari, hanno belle ragazze abbondantemente pagate.

Il vietcong abita nei villaggi o nella foresta, si è costruito la sua capanna, scavato il rifugio contro i bombardamenti, magari anche il tunnel per scappare, coltiva il suo campo, va qualche volta all'attacco e poi ritorna. Nessuno l’accuserà mai: riceve ospitalità nelle famiglie, aiuto, collaborazione. Lo temono, lo rispettano, gli sorridono perché incute paura. Indottrina politicamente, ideologicamente, psicologicamente senza sforzo. Non ruba, non approfitta delle donne: le ragazze si danno per amore, riceve, ciò di cui ha bisogno spesso con offerte spontanee, a volte esige tasse e da una ricevuta, chiede gentilmente ma con autorità, vuole che lo capiscano. Allo stesso tempo uccide senza scrupoli: impianta un processo, giudica il nemico del popolo e l'uccide. 

Il carro armato ha dinanzi la bicicletta, la cannoniera il fucile, la guardiacoste superdotata di radar la zattera, il bombardiere sterminati campi, boschi e foreste dove a stento si vede un piccolo contadino. 

Il supernutrito, supervaccinato americano dalle 2.700 calorie, non una di più e non una di meno calibrate nelle varie razioni ermeticamente chiuse per i microbi, ha dinanzi un fantasma di inafferrabile vietcong nutrito di una bolla di riso. Uno sogna continuamente il confort lasciato nella lontana patria, l'altro sogna una libertà da venire, crede ai suoi ideali e non pensa nemmeno lontanamente che si sta sacrificando: è vissuto sempre male che peggio non lo potrà mai. 

Camminano l'uno contro l'altro, di fronte all'altro per scontrarsi e non si scontrano quasi mai perché camminano su binari paralleli. A volte si sfiorano ed è tutto. Si gioca a chi si stanca prima. 

Le statistiche dicono che sono stati uccisi 425.000 vietcong dall'inizio della guerra, senza contare le vittime nel Nord e nel Laos. Il Fronte di Liberazione Nazionale all'inizio della guerra aveva al massimo 5.000 uomini, oggi ne ha 300 mila. 

Sono stati uccisi quasi 30.000 americani, 72 mila sudvietnamiti (senza contare i civili), spesi in operazioni militari 60 miliardi di dollari senza contare l'aiuto economico per lo sviluppo e la pacificazione, lanciate 2.825.824 tonnellate di bombe. Ma la guerra non è finita, il Fronte non è stato schiacciato, Johnson piuttosto è stato costretto a trattare. E non è strano tutto questo perché questa non è una guerra combattuta sul serio nonostante i mezzi e gli uomini impiegati, i morti e le distruzioni.

E' una guerra ai margini della vita, accettata come una calamità, senza motivazioni e chi ha motivazioni cerca di dimenticarle subito. Spesso è una guerra gradita perché fa moltiplicare i milioni.

Dopo il Tét si è corso ai ripari a questa atmosfera ma Saigon, Dà-Nang e gli altri centri hanno dimenticato presto il Tét e le leggi di severità nazionale hanno avuto solo l'effetto di fare aumentare i prezzi del vizio.

La campagna lanciata da Huong (primo ministro del Sud Vietnam dopo l'allontanamento di Loc) nel maggio 1968, contro la corruzione ha colpito troppo pochi dimostrandosi quasi inutile. Ciò che il Vietnam è andato guadagnando sul piano politico in quest'anno è stato neutralizzato sul piano interno ed internazionale da questa corruzione. Corruzione che non allarma gli americani dai grandi mezzi, ma che l'opinione pubblica mondiale condanna. Naturalmente se si parla di queste cose, se ne parla uno straniero i vietnamiti, soprattutto cattolici, si offendono perché credono che sia denigrazione, dicono che non si conosce il paese, che non si sa interpretare. Ma c'è poco da interpretare nella corruzione: è mancanza di vero amore di Patria e della libertà, mancanza di vero impegno nella lotta al comunismo e all'oppressione.

Per questo i vietcong possono sfruttare a loro favore sul piano interno politico e militare questi intrallazzi Per loro è facile proprio per questa corruzione lavorare e contare sull'omertà di molti, rifornirsi di armi e di viveri, ricattare e comprare, inserirsi lentamente in tutti gli strati della società, dall'esercito alla diplomazia, ai ministri e alla polizia e alle organizzazioni parrocchiali. In una società in disgregazione morale un movimento rivoluzionario ha facile gioco. Il vietnamita non ha più giustizia, e questo gli fa perdere molte battaglie e forse la guerra.

Del resto la società vietnamita e stata disgregata nei suoi legami più solidi. La guerra ha diviso le famiglie e i costumi sono molto facili. La guerra ha annientato migliaia di villaggi: il villaggio era il legame più solido di un vietnamita. Distrutto il villaggio (ed è stato fatto espressamente dagli americani per controllare la popolazione) i legami si sono annientati e si e sentito libero, senza ritegno. La stessa religione, una volta che l'individuo è fuori dal villaggio, non ha nessuna influenza. Si è creata cosi una società più facile che vuol raggiungere la ricchezza e le comodità presto e senza sforzi e che la raggiunge senza scrupoli. Una società opportunistica, in questo senso non contraddice la sua origine asiatica e cinese, che cerca di galleggiare e di pescare al fiume di dollari che gli americani con incredibile dabbenaggine riversano pensando che alla fine saranno loro a vincere.

Il conto così resta aperto. Ma se questa guerra dura ancora, al di là di ogni considerazione politica, militare ed ideologica è per la larghissima corruzione. E forse la perderà proprio per questo come per la corruzione e la dabbenaggine francese ed americana, anche allora, la si perse nel 1954.

Le vittorie a lungo andare sono state sempre dei più duri anche se non avevano ragione.

A questa disgregazione non sembra possa sottrarsi neppure il gruppo dei «montagnards».

Nel Vietnam del Sud nella fascia montagnosa che divide il paese dalla Cambogia e dal Laos abita un milione e più di abitanti primitivi che con espressione francese si chiamano «montagnards». Divisi in una infinità di tribù e di razze sono uniti però chiaramente da una stessa origine che ha comuni ramificazioni con i due milioni di «montagnards» del Nord Vietnam, con i «montagnards» del Laos e della stessa Cambogia. Somaticamente ben più importanti che i vietnamiti, di un colore della pelle che passa dal bruno ad un nero molto denso, con una lingua completamente diversa della lingua vietnamita, e soprattutto ad uno stadio di civiltà che non è ancora arrivata a quella del ferro, (anche se ora conoscono i B 52 e anche loro si servono degli elicotteri per viaggiare in Vietnam), sono una entità a parte, una nazione dimenticata in questa guerra vietnamita che non finisce di mostrare il suo volto. Una nazione dimenticata nel chiasso di Saigon e dalle corrispondenze della stampa internazionale ma che la guerra non ha dimenticato.

Un milione e mezzo di abitanti in un territorio vasto quasi la metà del Vietnam del Sud, sperduti in foreste, brousse, montagne e colline ed altopiani infiniti, improvvisamente si sono trovati nel pieno di un conflitto da loro mai voluto e mai immaginato.

Nei secoli scorsi erano liberi tributari dell'imperatore di Hué, avevano i loro re e i loro capi tribù e di villaggio, padroni del suolo si tenevano indipendenti dagli avvenimenti del mondo «civile». Fu la conquista francese dell'Indocina che li avvicinò alle varie capitali Hanoi, Vientianne, Hué anche se i francesi gelosamente tenevano separata l'amministrazione di queste regioni da quella dei vietnamiti e dei laotiani.

Nel periodo francese praticamente ai vietnamiti era quasi proibito installarsi nei territori delle tribù montagnarde, non lo stato era padrone del terreno ma gli abitanti del luogo. Lo stesso Bao-Dai proclamò il territorio montagnardo non demanio dello stato ma territorio speciale della corona. 

La prima guerra d'Indocina però lentamente dovette mescolare la sorte di queste tribù a quelle del Vietnam. I montagnardi sotto i francesi cominciarono un lento sviluppo anche di civiltà, alcuni di loro appresero il francese, servirono nelle truppe coloniali, in quelle di riserva, nello stesso esercito. Il montagnardo è un buon soldato, coraggioso, feroce anche, anticomunista e leale alla sua parola, meno sentimentale del vietnamita quasi si sa battere con più costanza e resistenza. 

La storia registra molti atti di eroismo di queste truppe sotto i francesi, ed anche un certo loro lealismo verso la Francia incline a fare di loro lentamente uno stato autonomo. 

La partenza dei francesi e soprattutto la politica di Saigon di unità nazionale negli anni di Diém lentamente non solo ruppe l'isolamento dei montagnardi e anche il loro privilegio d'isolazionismo, quasi di riserva, ma anche rese queste popolazioni quasi cittadini di secondo ordine. Le terre delle tribù praticamente diventarono preda dello stato che le dava, (le migliori), ai rifugiati del Nord, ai vietnamiti del Sud che tentavano il commercio in queste zone, ai cinesi che videro in fretta la possibilità di sfruttamento delle enormi riserve di legno delle foreste mai sfruttate. E il montagnardo dovette sopportare. Costretto poi a servirsi di una amministrazione che usava una lingua incomprensibile a lui, si vedeva imbrogliato, giocato, insultato, sfruttato da questi nuovi stranieri ben peggiori con lui dei francesi. 

Lentamente la sua fedeltà al governo di Saigon così venne meno, incominciò piano ma efficace un movimento di indipendenza o almeno di richiesta di larga autonomia rispetto a Saigon. Il movimento si fece clandestino, armato oggi ha preso il nome di FULRO, con capi militari e politici, con ramificazioni in Laos e Cambogia, incoraggiati se non aiutati da certi ambienti francesi profondi conoscitori e amici di queste popolazioni e forse anche dal governo francese, anche se per rispondere al FULRO esiste pure un'altra organizzazione nel Laos finanziata e diretta dalla CIA.

Il FULRO nelle sue richieste moderate chiede una grande autonomia, chiede il rispetto delle proprietà delle tribù, una riconversione delle proprietà private o statali nei territori montagnardi, una certa autonomia culturale per la lingua soprattutto. Naturalmente di questa situazione di scontento ne ha approfittato il Fronte di Liberazione Nazionale. Anzi alcuni gruppi di montagnardi si sono uniti al Fronte stesso nella lotta contro Saigon. Ma anche il Fronte è fatto di vietnamiti e i vietnamiti disprezzano e si comportano da razzisti verso i montagnardi, esso certo non è più rispettoso di Saigon dei diritti di questo popolo.

Così i montagnardi molto spesso, soprattutto delle organizzazioni del FULRO, devono combattere su due fronti. Naturalmente anche il FULRO è abbondantemente armato e può permettersi di minacciare seriamente città come Ban-mé-Thuot, Kontum e Pleiku.

Una volta finito il problema con il Fronte di Liberazione Nazionale niente potrà fermare i montagnardi dalle giuste esigenze che richiedono a Saigon.

Intanto molti soldati montagnardi militano nelle truppe vietnamite (mai però possono salire al grado di ufficiale), combattono e muoiono contro i comunisti. Il governo di Saigon per tenerli il più calmi possibile ha promesso ampie concessioni ed ha un ministero speciale per queste popolazioni. Il ministro è un montagnardo.

Ma non è tanto l'aspetto militare e politico di queste popolazioni quanto l'aspetto sociale che interessa.

La guerra ha investito questi paesi, questi villaggi, queste foreste. Il montagnardo abituato a vivere libero oggi non lo è più. I vietcong approfittando della vastità delle regioni, delle foreste e delle montagne si sono infiltrati abbondantemente, vi hanno creato i loro campi militari, i loro posti più sicuri di vettovagliamento. La presenza massiccia del vietcong ha richiamato la presenza degli americani, soprattutto delle incursioni aeree di bombardamento e di mitragliamento. Molte regioni montagnarde sono zone di fuoco a volontà: si possono bombardare e mitragliare e cannoneggiare a volontà sorvolandole. Interi villaggi vengono così distrutti, massacrati, bruciati, gli uomini non sono più sicuri nei boschi, non possono andare nelle loro povere risaie. 

Adesso poi, riprendendo la politica degli hameaux di Dièm, intere province vengono spopolate costringendo i montagnardi ad ammassarsi in campi di concentramento di 5 000, 10.000 uomini, costringendoli a dipendere dalla razione americana, obbligandoli ad abbandonare i loro introiti naturali. Si aggiunga che mentre prima avevano una certa possibilità di difesa dai vietcong oggi se i vietcong attaccassero uno di questi campi farebbero stragi enormi essendo esse completamente indifese: e i vietcong lo possono fare. 

Così facendo Saigon distrugge letteralmente un popolo e i suoi costumi, le sue ricchezze naturali di carattere. Cerca di farne dei vietnamiti ottenendo solamente però una sotto razza perché individui fuori dal loro ambiente. 

Unica resistenza a questa politica di Saigon e all'azione razzista anche dei vietcong che si servono dei montagnardi come bestie da soma sono le missioni cattoliche in maggior parte dirette da preti delle Missioni Estere di Parigi . Essi possono molto perché la popolazione è con loro ma allo stesso tempo la situazione della guerra in questi ultimi tempi ha paralizzato molte loro opere proprio per l'evacuazione obbligatoria di molti villaggi. Convertono poco i missionari qui ma salvano l'uomo ed adesso è l'azione più necessaria. 

Un popolo minoranza sfruttato da un popolo già troppo sofferente: ecco la realtà di questo milione di montagnardi in Vietnam, conosciuto dalla stampa per le foto delle belle ragazze che camminano snelle nei boschi con i seni abbondanti nudi cariche di legna e di figli e per le foto degli uomini che in fila indiana nei sentieri marciano per ore a sentire il vento, quasi nudi fumando la pipa Ma al di là delle foto… forse l'estinzione di un altro popolo.

Solo ricerche storiche dopo il naturale filtro degli anni potrà dire l’influenza che ha avuto l'attacco del Tét 1968 anno della Scimmia, nello sviluppo della situazione vietnamita e della posizione americana rispetto al Vietnam. A distanza di mesi forse è presto giudicare ma i frutti cominciano a maturare.

Appena dopo un mese ci fu l'annunzio della sostituzione di Westmoreland, dopo due mesi l'arresto parziale dei bombardamenti al Nord, il lancio di possibilità d'incontro tra USA e Nord Vietnam, l'evacuazione di Khe-Sanh dopo quattro mesi, l'inizio delle conversazioni a Parigi. Poi il 1° novembre scorso l'arresto totale dei bombardamenti ai Nord, l'accettazione da parte degli americani almeno in linea pratica di trattare con il Fronte di Liberazione Nazionale, il cambiamento di tattica nella guerra stessa: difesa delle città, abbandono del piano di pacificazione con una concentrazione di truppe nei posti più strategici, abbondanti bombardamenti al Sud, mobilità dell'artiglieria stessa. Oggi poi si è a Parigi per le conversazioni ufficiali.

Si è continuato a dire che il FLN cercava una nuova Dien Bién-Phu a Khe-Sanh. Ma l'attacco del Tét fu una Dien Bién-Phu convinse Washington della necessità di trattare e trattare anche con il Fronte di Liberazione Nazionale. E questo nonostante le dichiarazioni di vittoria degli americani, nonostante le reali fortissime perdite del FLN e dell'esercito nordvietnamita nel Sud, nonostante la massa del popolo fuggisse dinanzi ai vietcong, nonostante che si verificasse un primo segno di unione nazionale nel Sud, nonostante che l'armata sudvietnamita avesse resistito all'attacco in un modo imprevisto.

Dien Bién-Phu è un nome per indicare un punto decisivo, un tornante della situazione sia politica che militare. Per i francesi fu una battaglia perduta nel clamore dell'opinione mondiale, nella rivolta dell'opinione francese. Essa portò alla necessità della liquidazione del problema vietnamita anche se era pur sempre una sconfitta parziale sul piano militare.

Adesso l'attacco del Tét, senza essere stato una sconfitta né per una parte né per l'altra, ma nemmeno una vittoria, piega gli americani e li obbliga a trattare, e gli altri sono obbligati ad accettare le conversazioni.

Nelle guerre rivoluzionarie o di guerriglia costringere a trattare, a considerare l'avversario alla pari è già una sconfitta. E' vero che gli americani dicono di trattare con il Nord, con un governo che praticamente è riconosciuto da tutto il mondo e che sul piano giuridico è legittimo quanto quello di Saigon e anche di più. E' vero che Saigon continua a dire che le conversazioni devono essere tra il Nord aggressore e il Sud vittima senza alcun riconoscimento dell'FLN, ma il Fronte di Liberazione Nazionale a Parigi ha il suo rappresentante. La formula bilaterale a Parigi è bizantinismo asiatico per salvare la faccia. Certo resta la possibilità: che a Parigi la delegazione di Saigon riesca ad obbligare Hanoi a riconoscerla, a trattare anche per il Fronte, se riuscisse in questo potrebbe marcare un punto in suo favore, un trasformare l'attacco del Tét in vittoria del Sud e non del Nord.

Prima del Tét, Hanoi e lo stesso Fronte lanciarono proposte di trattare. Le condizioni erano le stesse di oggi cessazione incondizionata dei bombardamenti e di tutti gli atti di guerra, abbandono del Sud Vietnam da parte degli americani. Si trattò anche per la tregua, anzi Hanoi con malafede, forse, propose che fosse assai lunga: il Sud ne accettò tre giorni, il Nord una settimana. Dico forse con malafede perché sembra che l'attacco non dovesse essere scatenato per il Tét e qualcosa d'imponderabile ha obbligato ad anticipare le date.

Una circolare telegramma di Westmoreland avvisava i comandi di tenersi pronti per un attacco subito dopo il Tét o per il Tét stesso; ma nessuno li prese seriamente in considerazione. Il Tét è troppo sacro per i vietnamiti sia del Sud che del Nord per poter approfittare di esso, anche se sul piano militare. Le truppe venute, dal Nord furono lanciate all'attacco il giorno stesso del loro arrivo si può dire. Senza preparazione, senza conoscenza dei luoghi giunsero sino a perdersi nelle città, a non conoscere gli obiettivi, le vie d'accesso agli obiettivi e le vie di ritiro.

E' stato scritto che l'attacco fu di una coordinazione perfetta in tutte le città. Ma ad un attento esame ci si accorge che non ci fu coordinazione tra le zone settentrionali, centrali e meridionali del Sud-Vietnam. Hué, Dà-Nang furono, attaccate il martedì 30 alle tre del mattino, Saigon il 31 alle tre del mattino, Dalat ed altre città più tardi ancora.

Cosa ha determinato questo sfasamento di giorni, cosa questi segni di anticipazione?

Il Nord ha avuto paura che gli americani si preparassero all'attacco e gli togliessero quindi il suo carattere di sorpresa, ha avuto paura soprattutto che Johnson si decidesse a trattare, dopo le ripetute sconfitte del Nord, su un piano di superiorità, sospendesse i bombardamenti in un momento di trionfo politico del Sud sia sul piano estero che interno.

Forse ha giocato a favore dell'anticipazione l'atmosfera di pace e di spensieratezza che invase il Sud a mano a mano che il Tét si avvicinava.

Si chiusero gli uffici, le scuole, le fabbriche, l'esercito per il 50% andò in licenza e gli altri «allentarono», la stessa polizia concesse il maggior numero possibile di licenze. Fiumi di folla nei mercati e nelle strade, dappertutto un crepitare di mortaletti per scacciare gli spiriti, salutare il nuovo anno, prendere gli auspici pei il futuro. Gli striscioni che il governo aveva messo nelle strade per ricordare alla popolazione di essere solidale con i soldati in guerra nessuno li considerava ed aumentavano così l'aria di festa.

La notte tra il 29 e il 30 gennaio, la notte della luna nuova, fu qualcosa d'indescrivibile: la popolazione si riversò nelle strade, nei balconi. Il fragore dei fuochi artificio riempiva poi tutto. Il 30 a Saigon era la stessa cosa. La popolazione si era riversata nelle pagode, il traffico era impossibile, nel volto di tutti gioia e spensieratezza incredibili per questo paese in guerra. Del resto il fiume di piastre, il guadagno facile, lo stile di vita portato dagli americani aiutavano l'atmosfera. Una simile atmosfera senz'altro ha giocato a favore dell'anticipazione dell'attacco. E sono stati i soldati di Hanoi a decidere di attaccare prima, l'FLN non era d'accordo. Il Fronte pensava soprattutto a mantenersi l'opinione del popolo favorevole. I soldati regolari di Hanoi pensavano a sconvolgere gli americani. Ebbero ragione quelli di Hanoi. Ma il popolo si schierò contro il Fronte, solo le distruzioni incalcolabili degli americani riuscirono a mantenere di nuovo un equilibrio nei sentimenti popolari a favore dell'FLN.

La sera del Tét Saigon era deserta: tutti a casa a mangiare il Tét. Verso mezzanotte rientravo a casa dopo essere stato ospite di una gentilissima famiglia vietnamita, l'editore Dao ero preoccupato per la solitudine, il silenzio delle strade. Passando vicino al quartiere residenziale, giusto dietro il palazzo Dòc-Lap a un amico che mi accompagnava dissi, non tanto per celia, che nella zona c'erano i vietcong. Rientrato a casa venni a sapere dall'ultimo comunicato della TV americana che Nha-Trang, Hué, Plei-ku, Kontum erano state attaccate e prese dai vietcong.

La tregua era stata rotta.


Una vittoria che costò cara

Si capisce perché il prete professore-e-missionario che fa del suo stesso abito di giornalista freelance una missione supplementare, civile e umanitaria, politica nel senso più largo e nobile possibile, sia cacciato dal Vietnam, dopo una permanenza di quasi mille giorni. La verità è giustiziera, la verità… Ecco alcuni dei flash di verità rimbalzati in occidente, al giudizio della opinione delle grandi nazioni, il j’accuse volto ai potenti: 

«All'altra riva il mercato è completamente distrutto, le strade, i negozi distrutti, non resta più niente, più niente delle case in certe strade. Ciò che non è stato distrutto, bruciato, è stato rubato dai vietcong, dai marines americani, dai soldati vietnamiti. La disgrazia di questa gente è ancora più dura per queste ruberie».

«L'ambiente militare sia americano che vietnamita è euforico. Dicono che siano stati uccisi nel mese di febbraio più nemici che in tutto l'anno '67: circa 45 mila morti. L'esercito vietnamita ha retto dopo la confusione iniziale, si è battuto, cosa incredibile per chi ne conosceva la corruzione, l'impreparazione e la confusione. I militari sono contenti perché è più facile colpire un avversario che attacca piuttosto che uno che svanisce nella foresta». 

«L'amministrazione soffocata dai problemi dei rifugiati, degli sfollati, non riesce a tenere un minimo di efficienza… L'attacco ha paralizzato tutto, le comunicazioni restarono irregolari per alcuni mesi, alcune città restarono completamente isolate per settimane».

«E' vero che c'è stato anche il rovescio della medaglia. La popolazione ha conosciuto gli americani ma anche la crudeltà dei vietcong. Dinanzi ai vietcong le popolazioni sono scappate, non hanno risposto agli inviti di sollevamenti, alle dimostrazioni da organizzare nelle città». 

« A Hué i vietcong pensavano di restarci e per questo scoprirono le loro carte. Fu impiantata un'amministrazione, dei tribunali popolari, la popolazione fu costretta a collaborare, molti gettarono le maschere e si rivelarono comunisti. Più di un migliaio di giovani furono costretti a seguire i vietcong, un altro migliaio fu trucidato, sepolti vivi, uccisi con il di ferro, bruciati… Non rispettarono niente, né preti né medici né stranieri né donne né giovani… A Rue tra la popolazione che non fece a tempo a rifugiarsi in posti sicuri si sparse il terrore e incominciò l'atmosfera delle accuse reciproche, della delazione. Si saldarono conti pendenti dal 1945. In 24 giorni di potere riuscirono ad aprire 1.000 fosse comuni di innocenti, a fare sparire 3.000 altre persone. Questi fatti la popolazione del Sud li seppe e li valutò. Riuscì così a trovare comprensione per quanto il governo di Saigon faceva per venire in loro aiuto: quasi si sentì orgogliosa del suo governo». 

«Difficile dire chi politicamente e militarmente ha guadagnato di più dell'attacco del Tét. I vietcong hanno piegato gli Stati Uniti, li hanno portati alle conversazioni e all'arresto parziale dei bombardamenti in un momento in cui l'opinione pubblica (dimenticando le stragi dei vietcong) si rivoltò contro l'America». 


Alle 3 del 31 una scarica di mitra mi sveglia, poi è il rumore di un paio di bombe a mano, lo scoppio di una carica di plastico. L'ambasciata filippina a cinquanta metri dalla mia camera è attaccata dai vietcong. Poi è la volta della radio nazionale, del quartiere generale vietnamita ed americano, del comando navale americano, dell'aeroporto, del palazzo presidenziale e della prefettura, di parecchie caserme, l'attacco più generale a Cho-Lon, Gò-Vàp e Phu-Tho.

Saigon alle 3 di mattina è circondata da una linea di fuoco e simultaneamente centri di combattimento sono creati dentro la città stessa nei posti più nevralgici. La mattina è il coprifuoco ventiquattro ore su ventiquattro, la legge marziale è instaurata su tutto il territorio nazionale ma è anche la confusione più nera tra i vietnamiti e gli americani. I combattimenti si generalizzano: tutte le città sono investite dell'attacco vietcong. La reazione è lenta, caotica, praticamente di sola difesa, nessuno sa cosa fare. Solo la sera del 31 si nota l'effetto della reazione: interi quartieri bruciano, gli aerei, gli elicotteri riversano, dove sono segnalati dei vietcong, fiumi di proiettili e di bombe al napalm. In due giorni Saigon ha cambiato faccia: città godereccia prova improvvisamente l'effetto di questa guerra nella quale e della quale vive prosperamente da anni.

I rifugiati o perché senza casa ò perché fuggono i comunisti passano dai 10.000 del primo giorno ai 200 mila nella sola Saigon. La fame, la sete, il pericolo di epidemie si profila su questa massa di popolo. Poi i morti, i feriti, le distruzioni, gli incendi che mangiano interi quartieri. Il metodo di combattere sa della caccia ai sorci, un quartiere lo si circonda, con gli altoparlanti si avvisano i civili di scappare entro mezz'ora poi arrivano i bombardieri, gli elicotteri a mitragliare e bombardare, dopo gli aerei e gli elicotteri avanzano i carri di assalto, le truppe con i lanciafiamme: si distrugge tutto, si uccidono tutti quelli che sono rimasti nel recinto circondato.

Le notizie che incominciano ad arrivare dall'interno non sono migliori. Una ridda di voci e di dichiarazioni alla radio sia del governo sia vietcong rende ancora più confusa la situazione. 

Westmoreland dichiara che si sapeva dell'attacco. Ma allora perché la beffa dell'ambasciata americana presa e tenuta per nove ore da un comando suicida vietcong? Perché permettere che l'esercito vietnamita andasse in licenza? Perché la confusione e il caos, i contrordini dei primi giorni? Perché permettere e quasi volere un attacco simile che sta radendo al suolo intere città? Perché una così alta percentuale di civili uccisi, feriti, rovinati economicamente? Perché permettere che la popolazione, soprattutto le masse dei poveri, subisca simili stragi, diventi esacerbata contro gli americani?

I vietnamiti parlano di complicità con i vietcong e la radio vietcong conferma la notizia.

Permettere una simile reazione dell'opinione è proprio da stupidi. Westmoreland si è condannato con una simile dichiarazione.

Si comincia a parlare a Saigon delle altre città di provincia Hué, Dà-Nang, Plei-ku Si comincia a parlare di Khe-Sanh dove 5.000 marines sono circondati da 40.000 vietcong e sembra che lo stesso Giap diriga le operazioni. E' l'attacco sulle città un diversivo di Khe-Sanh o Khe-Sanh è un diversivo dell'attacco sulle città?

Mentre Saigon comincia a respirare di nuovo e si specula sul riso e sugli altri generi alimentari (il saigonese dimentica facilmente), la pressione vietcong non tende a diminuire sulle altre città e così incominciai un giro del Vietnam che mi portò in tutte la città attaccate. La portata dell'attacco mi apparve nella sua realtà, quasi in un film cambiavo immagine a colpi non di cinepresa ma di aereo e di elicottero Dalat, Ban-mé- Thuòt, Plei-ku, Kon-tum, Nha-Trang, Qui-Nhon, Dà-Nang, Hué, Khe-Sanh e poi nel Sud. 

In tutte le città le stesse distruzioni, gli stessi sistemi di attacco, le stesse risposte degli americani e dei governativi. 

Un po' fa eccezione Dà-Nang che ha avuto meno distruzioni di tutte le altre città anche se e stata una delle prime ad essere attaccata. La città è in una posizione strategica invidiabile. Chiusa dal mare e dalla montagna accoglie uno dei più importanti porti militari ed un immenso aeroporto. 

Aeroporto e porto sono continuamente guardati da un sistema di radar, sulle montagne gli americani vanno costruendo una autentica muraglia di separazione. Per prendere Dà-Nang è necessario quindi un grande appoggio interno e l'FLN si illuse di averlo. 

L’attacco a Dà-Nang ebbe inizio il 30 gennaio alle tre di mattina assieme a quello di Hué. La battaglia attorno allo stato maggiore vietnamita durò un giorno, i vietcong non riuscirono a passare, così Dà-Nang non ebbe altri disturbi. L'aviazione poi continuò a schiacciare le truppe nord-vietnamite che si erano avvicinate alla città in massa per l'attacco: gli ospedali così furono pieni all'inverosimile di feriti civili dei villaggi attorno a Dà-Nang, gli americani usano radere al suolo tutto. 

Il sindaco di Dà-Nang, e con lui il vescovo mons. Chi, mi dissero che il privilegio di Dà-Nang, rispetto alle altre città, dipese dall'annullamento della tregua chiesto e ottenuto dal generale Lam per la prima zona militare di cui è capo. Altri mi dicono che è solo merito del sindaco perché ha riempito le prigioni di sospetti prima del Tét. Sembra un ragazzo ed ha quarant'anni: è per la guerra a oltranza, vuole l'uso della bomba atomica sul Nord e sulla Cina (del resto su questo punto concorda anche mons. Chi), l'invasione della Cina. Dopo un paio di mesi sarà sostituito: abuso di potere, metodi poco democratici... nelle prigioni di Dà-Nang la vita non era facile con lui!

Ciò che non ha subìto Dà-Nang l'hanno subìto le altre città rase al suolo per il 40, il 50, 70 per cento, centinaia di migliaia di senza tetto, popolazioni in mano al terrorismo vietcong e peggio ai soldati nazionalisti che «liberavano».

Ma la vera martire è Hué, l'antica città imperiale. Di Hué dopo la conquista del Fronte e la successiva «liberazione» americana e governativa non resta molto. Hué è stata l'ultima città che visitai durante il Tét. Dalat, Kontum, Plei-ku, Ban-mé-Thuòt e naturalmente Saigon hanno avuto perdite, interi quartieri distrutti, migliaia e migliaia di senza tetto, feriti e morti senza numero: ma non è la distruzione della città intera come ad Hué.

Hué non è una capitale di provincia come le altre. E' quanto di più bello si può trovare in Vietnam, niente di più antico, di più storico, caratteristico: ex-capitale dell'impero Viet, sede del palazzo imperiale, antica cittadella asiatica interamente conservata nelle varie distruzioni e conquiste e liberazioni avute. Anche la liberazione dalle mani dei Vietminh nel 1945 la risparmiò. Per risparmiarla i francesi l'assediarono a lungo, la conquistarono poi i legionari con il loro sangue. Questa ultima liberazione non ha risparmiato niente: non le vite umane, non le costruzioni, non i templi buddisti e soprattutto non le opere cattoliche (ci si sono accaniti in un modo tutto particolare da fare sospettare l’intenzione di raderle al suolo per ben altro motivo), non la sala al trono tra le più belle del mondo. Forse si è cercato di risparmiare il sangue dei marines americani, ma senza riuscirci: i vietcong sono dei buoni tiratori .

Sono arrivato ad Hué il 18 febbraio. Pioveva, si affondava nel fango viscido che succhia le scarpe e non permette di avanzare. Dall'aeroporto alla città ci sono dodici chilometri. Li si fa in convoglio militare, scortati da carri armati, nella polvere, nell'acqua e nel fango il convoglio procede a velocità incredibile. La guerra e la possibilità di un attacco è troppo presente: i vietcong sono dappertutto nelle campagne. Non un battello, non un convoglio che cerca di raggiungere la città sono veramente sicuri. Sicuri sono gli elicotteri soprattutto se ci sono nuvole ma ai giornalisti che adesso si sono messi a scrivere contro certi metodi sono negati gli elicotteri. 

Nella città si combatte ancora, interi quartieri sono in mano al Fronte, nella cittadella sventola la bandiera vietcong rosso azzurra. La città e centrata dai cannoni del MCV, della base di Phu-Bài, delle cannoniere, è un fuoco che si incrocia con i tiri dei vietcong che sono nelle montagne vicine. 

Nessuno osa uscire ma io esco. Forse sono il primo occidentale che cammina su Hué senza divisa, solo con la mia macchina fotografica, il mio quadernetto. La città nuova, quella europea, con le sue strade larghe, alberate, piena di ville è vuota. Le strade deserte, i fili della luce e del telefono per terra, detriti dappertutto, fossi di bombe nella strada, da qualche casa ancora in piedi qualche occhio curioso mi segue. Ma il grosso della popolazione è nei campi dei rifugiati. Ci vado. Il francese mi aiuta a parlare con questo popolo, soprattutto con gli studenti dell'università, con le famiglie di un certo livello economico e culturale, con qualche vecchio mandarino. Oggi sono tutti eguagliati dai bombardamenti che hanno distrutto ogni loro avere, raso le loro case, tutti nell'anonimato dei pochi campi di rifugiati dove trovano una bolla di riso e un po' d'acqua da bere. Nella chiesa dei redentoristi ci sono 6.000 rifugiati, 5.000 nella scuola della provvidenza, 15.000 in qualche padiglione dell’università, 10.000 nelle scuole dei fratelli delle scuole cristiane. Non è che siano più al sicuro di altrove. Se un vietcong entrasse in un campo di rifugiati il campo sarebbe bombardato: è la risposta che ottengo da un ufficiale dei marines a una domanda in proposito. Già degli obici sono caduti in qualche campo. Per i rifugiati oltre la fame, la sete, l'insicurezza c'è il freddo. Dormono per terra, non hanno coperte. In tutti i campi la tosse dei bambini è ciò che si nota per prima.

Un parente di Bao-Dai, un uomo dai lineamenti nobili, alle mie domande non ha altro da rispondere: «Non mi chieda un parere: i cani non hanno pareri, noi adesso siamo come cani randagi». 

I giovani universitari parlano di più. Parlano contro i bombardamenti americani, contro le atrocità vietcong, le loro fosse comuni, i loro tribunali popolari subito instaurati di una crudeltà inumana. E la guerra a Hué non è ancora terminata. 

Ho seguito i sudvietnamiti e gli americani che cercavano di snidare quasi casa per casa i vietcong mentre le morti e le distruzioni continuavano. I vietcong erano certi di poter tenersi la città occupata, adesso che cominciano a capire che gli americani la radono a zero piuttosto che lasciarla a loro cominciano a ritirarsi lentamente. 

Il 24 è la liberazione della cittadella, il cambio della bandiera sull'alto del pennone che dà sulla riviera. Da una caserma quasi completamente rasa al suolo un amplificatore sparge una musica militare di vittoria. Qualcosa di assurdo, di kafkiano, di alienante. Sotto questa musica migliaia di vietnamiti si riversano nelle strade dai campi di rifugiati per cercare di rendersi conto, forse per vedere se resta qualcosa delle loro case e dei loro beni, per contarsi.

Il fiume che divide la città vecchia dalla nuova va placido, dalle acque limpidissime; colonne di fumo si innalzano un po' dappertutto e la polvere dei calcinacci non si è ancora sedimentata. Il ponte Clemenceau è stato fatto saltare dai vietcong: il genio americano ne ha ricostruito uno di barche. Migliaia e migliaia passano questo ponte: l'uomo e un popolo umiliato, hanno il volto di questi vietnamiti in fila, silenziosi, carichi di ciò che hanno trovato nelle loro case distrutte. Non un sorriso, non una parola e la musica, la marcia di vittoria che continua a piovere dall'alto. Deve essere un criminale di guerra che ha ordinato di mettere questa musica ad Hué. All'altra riva il mercato è completamente distrutto, le strade, i negozi distrutti, non resta più niente, più niente delle case in certe strade. Ciò che non è stato distrutto, bruciato, è stato rubato dai vietcong, dai marines americani, dai soldati vietnamiti. La disgrazia di questa gente è ancora più dura per queste ruberie. Gli oggetti più essenziali sono scomparsi. Con sorriso amaro si dice che i marines sono i meglio serviti.

Ogni tanto dalle case si sente un odore di corpo in decomposizione. Un uomo piange venti persone della sua famiglia, negli spazi liberi delle piazze si seppelliscono i morti delle rovine. Le piccole croci sono vicine alle bacchette d'incenso dei buddisti. Naturalmente non ci sono bare. Molti corpi soprattutto di vietcong sono restati insepolti, vengono mangiati dai cani, dai polli, dai porci che si aggirano nelle rovine: anche queste cose ho visto. Sono entrato nella città imperiale. Le porte sono state sventrate dai bombardamenti e così le mura. Nei mattoni rossi delle mura ogni tiro di bomba ha lasciato ferite che sanno di sangue. Nei fossati ancora corpi di vietcong in decomposizione. Il palazzo e gli altri edifici imperiali hanno subìto danni irreparabili... misuro gli effetti della liberazione di Hué.

Liberazione è una bella parola, viene da libertà. Usata qui è una parola cinica. I vietcong non hanno mai lasciato una città, un quartiere in questo mese di combattimento senza averlo fatto distruggere prima dagli americani. Settecento mila persone sono restate senza casa, 40.000 uccisi, il doppio feriti. Le scuole, gli edifici pubblici, gli ospedali, gli uffici, le caserme, i municipi, ogni caseggiato di una certa importanza hanno ricevuto seri danni.

La guerra è arrivata dappertutto con questo attacco dalle campagne alle città. Le campagne soffocheranno il capitalismo delle città: è un principio di Mao. Qualcosa che si è mostrato terribilmente valido anche in Vietnam. Eppure la strategia americana non tenne molto conto di questo fatto. Si era relativamente tranquilli nelle città, prima del Tét si organizzavano piuttosto operazioni nelle province, si lanciò la campagna dello sviluppo, della confidenza nelle campagne. Gli americani si sparpagliarono nei villaggi. I bollettini di vittoria, di successo militare, politico e psicologico riempivano i giornali e forse anche le relazioni a Washington, Westy dava delle dichiarazioni così ottimiste che sapevano di fanfaronate.

L'attacco del Tét ha mostrato le città vulnerabilissime e ha fatto comprendere come le campagne fossero veramente perdute... alcuni mesi dopo l'attacco le truppe saranno concentrate per la difesa delle città e le campagne saranno più di prima in mano ai vietcong.

Ai problemi della guerra si aggiunsero quelli sociali. Molti hanno perduto il lavoro, i beni, la casa. Più di un milione di persone dipende dal riso che il governo riesce a distribuire dissanguando le sue finanze giorno per giorno e questi si aggiungono ai rifugiati dei villaggi. Molte fonti di lavoro sono andate distrutte soprattutto fabbriche a Cho-Lon e Saigon.

Durante il Tét si è adottato un metodo di combattimento da film western: l’ecatombe dei film qui è stata cosa reale. Si è dichiarato che era necessario per respingere i vietcong. Ma che genere di liberazione è, se richiede di radere a zero una città, se inoltre prima stupidamente la si è lasciata senza difesa? Del resto niente è migliore delle distruzioni per un esercito che combatte come quello dei vietcong. Obbligano lo stesso nemico a dissanguarsi. Nelle popolazioni si è acuito un senso antiamericano. Hanno fatto paura gli americani ma con la guerra è arrivato l'odio. 

La tanto decantata vittoria non è poi molto netta. I vietcong per mesi poterono sferrare un altro attacco simile a quello del Tét. A maggio, a soli tre mesi dopo il Tét, riuscirono ancora una volta a gettare Saigon nel caos. 

Di passaggio alla base di Cam Ram Bay, una delle basi aeronavali più grandi del Sud Est Asiatico (65 mila americani), mi dicevano che era il posto dove meglio si poteva dormire tranquilli a parte il fragore dei bombardieri sulle piste di volo. Ma alla fine di marzo la base ha ricevuto attacchi di mortai come tutte le altre basi di Vietnam. 

L'ambiente militare sia americano che vietnamita è euforico. Dicono che siano stati uccisi nel mese di febbraio più nemici che in tutto l'anno '67: circa 45 mila morti. L'esercito vietnamita ha retto dopo la confusione iniziale, si è battuto, cosa incredibile per chi ne conosceva la corruzione, l'impreparazione e la confusione. I militari sono contenti perché è più facile colpire un avversario che attacca piuttosto che uno che svanisce nella foresta. Intanto però due generali, comandanti di regioni militari (cinque con Saigon), sono stati sostituiti, la libertà che si ottenne prima e dopo le elezioni è stata soppressa, la censura, la legge marziale, i poteri speciali del presidente della repubblica ristabiliti. 

L'amministrazione soffocata dai problemi dei rifugiati, degli sfollati, non riesce a tenere un minimo di efficienza a parte la buona volontà. L'attacco ha paralizzato tutto, le comunicazioni restarono irregolari per alcuni mesi, alcune città restarono completamente isolate per settimane. L'attacco distrusse le speranze che dopo le elezioni cominciavano a nascere. Solo alla fine di giugno si entrerà di nuovo in una atmosfera un po' normale.

E' vero che c'è stato anche il rovescio della medaglia. La popolazione ha conosciuto gli americani ma anche la crudeltà dei vietcong. Dinanzi ai vietcong le popolazioni sono scappate, non hanno risposto agli inviti di sollevamenti, alle dimostrazioni da organizzare nelle città. A Saigon, in certi quartieri occupati dall'FLN, a lungo gli altoparlanti invitavano la popolazione, ma ai meetings partecipavano un po' di ragazzi e vecchi. Nelle città di provincia nei meetings qualcuno si oppose loro anche pubblicamente. Il metodo impiegato di rifugiarsi nei quartieri popolari, nelle chiese, ospedali per rallentare il nemico, per costringerlo a operazioni drastiche ha alienato da loro una certa simpatia popolare. L'aver domandato una tregua di sette giorni per poi approfittare di essa nel momento più sacro del Vietnam è stato a loro sfavore.

E ci sono poi le stragi dl Hué. A Hué i vietcong pensavano di restarci e per questo scoprirono le loro carte. Fu impiantata un'amministrazione, dei tribunali popolari, la popolazione fu costretta a collaborare, molti gettarono le maschere e si rivelarono comunisti. Più di un migliaio di giovani furono costretti a seguire i vietcong, un altro migliaio fu trucidato, sepolti vivi, uccisi con il di ferro, bruciati. La vendetta comunista si scatenò, i quadri che potevano presentare una certa resistenza psicologica, furono eliminati senza pietà. Io stesso ho partecipato alla scoperta di una fossa comune di trenta trucidati. Non rispettarono niente, né preti né medici né stranieri né donne né giovani. Quattro preti francesi, tre medici tedeschi a Hué, otto missionari protestanti furono uccisi. A Rue tra la popolazione che non fece a tempo a rifugiarsi in posti sicuri si sparse il terrore e incominciò l'atmosfera delle accuse reciproche, della delazione. Si saldarono conti pendenti dal 1945. In 24 giorni di potere riuscirono ad aprire 1.000 fosse comuni di innocenti, a fare sparire 3.000 altre persone.

Questi fatti la popolazione del Sud li seppe e li valutò. Riuscì così a trovare comprensione per quanto il governo di Saigon faceva per venire in loro aiuto: quasi si sentì orgogliosa del suo governo. Da questi fatti l'armata nazionale ha preso stimolo ad essere più efficace, meno passiva, più combattiva.

Difficile dire quindi chi politicamente e militarmente ha guadagnato di più dell'attacco del Tét. I vietcong hanno piegato gli Stati Uniti, li hanno portati alle conversazioni e all'arresto parziale dei bombardamenti in un momento in cui l'opinione pubblica (dimenticando le stragi dei vietcong) si rivoltò contro l'America. Ottennero così un respiro per le loro truppe e una possibilità di cambio e di rinforzi.

In cambio però bisogna considerare l'eliminazione di un sesto degli effettivi vietcong, il risveglio dell'armata nazionale è una prova delle possibilità della sua combattività, una dimostrazione della buona volontà del governo nei momenti più difficili, la prova di una certa efficienza (anche in momenti così drammatici) nel venire incontro ai bisogni del popolo, un prendere posizione da parte del popolo che prima viveva al margine della guerra. Nelle stesse file dei vietcong a dire dei prigionieri entrò il dubbio della riuscita finale delle loro operazioni.


Fonte: Gianfranco Murtas
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