Le dame (e i cavalieri), un affaccio nello stradario cagliaritano secondo Vittorio Scano
di Gianfranco Murtas

Nel pomeriggio dello scorso giovedì 19 giugno, presso la sala conferenze della MEM cagliaritana, è stato presentato l’ultimo libro di Vittorio Scano dedicato alle “Cinque belle strade di Cagliari” (da intendersi come le “cinque più belle strade di Cagliari”) e dal titolo suggestivo Le dame, pubblicato nelle passate settimane dalle Edizioni della Torre di Salvatore Fozzi. Un volume di formato grande ed elegante che, raccontando della via Roma, del largo Carlo Felice, del corso Vittorio Emanuele, della via Manno e della via San Giovanni e fra loro così gemellando le antiche “appendici” di Marina, Stampace e Villanova –, ha volutamente dar conto della evoluzione storica, sociale oltre che edilizia, della città “bassa”, “corona” del Castello fortificato.
Ho presentato io stesso il libro di Scano, mentre Sandra Agnesa ne ha letto alcuni stralci riferiti alle cennate cinque strade nobili per come dal medioevo ad oggi, lungo sei-sette secoli, esse hanno costituito molto o moltissimo della vita economica, religiosa, sociale del capoluogo sardo fungendo anche come premessa o motore degli ulteriori sviluppi urbani fino all’oggi.
Alla stessa Agnesa si deve la scelta anche delle immagini ch’ella ha voluto proiettare traendole dal libro e per il gusto soddisfatto dei partecipanti che, nativi o no della città, nella sua vita morale e sentimentale hanno riversato la propria…
Ha concluso la serata l’editore Fozzi che, dando merito all’autore – figura illustre del giornalismo sardo – della alta qualità del suo saggio, ha opportunamente inquadrato l’opera nel ricco catalogo della propria (ormai cinquantennale) “fabbrica” di libri, dei quali una gran parte è proprio dedicata a temi storici cagliaritani.
Vittorio Scano, assente alla manifestazione per qualche impedimento di salute, ha inviato a tutti il suo ringraziamento per l’attenzione riservata a questa ultima fatica che, indirettamente, si ricollega alla lunga stagione di vita dell’Almanacco di Cagliari (e Sardegna Fieristica), annuario che sempre ampio e favorevole riscontro ha trovato nella cittadinanza.
Quella che segue è la mia relazione esposta al pubblico.
Un libro da leggere e donare
Partiamo dalle misure di un libro bello e prezioso, da tenere in casa nel giusto scaffale, o in bella vista su un tavolo, in esposizione come un quadro (lo concede il merito della copertina).
Un libro da tenere e anche da donare: da leggere per comprendere meglio, attraversandoli tutti, i livelli storici, urbanistici, di economia e costume, di religione e società della nostra città e da donare per creare l’occasione di uno scambio con i nostri amici di conoscenze, impressioni ed opinioni, ricordi e sentimenti.
L’edizione è di lusso, il prezzo è quello di una pizzata, il gusto (che prende insieme mente e cuore) è, mi sembra, quello di cento pizzate.
Le 173 pagine di formato quadrato grande – indovinatissimo per questo tipo di libro su carta cartoncino liscia – scandiscono il racconto dell’autore, scritto come sa scrivere Vittorio Scano, elegante e rapido e accessibile, senza rampicate enfatiche e invece, spesso, col soffio di una ironia gentile, in cinque capitoli, ciascuno dei quali dedicato a una delle strade di maggior storia di Cagliari seguendo un percorso a Y: risalendo dalla via Roma nel Largo, per muovere alla sinistra della piazza Yenne nel Corso stampacino e alla destra verso la via Manno – ecco la Marina – e proseguendo verso la via San Giovanni – ecco Villanova.
Ogni capitolo ha le sue sezioni o i suoi paragrafi, a modulare la diacronia fra ieri e oggi e con titoli infratesto che paiono semafori tematici : 7 la via Roma, 5 il largo Carlo Felice, 10 il corso Vittorio Emanuele, 8 la via Manno, 5 la via San Giovanni, 35 in tutto – come si trattasse, direbbe un pubblicitario, di 35 libri in uno! tanti sono gli scenari che Scano ambienta in scansione temporale, popolandoli di operai e negozianti, pescatori e tavernieri, impresari e maestre, preti, suore e frati e massoni, quelli d’un tempo s’intende, che conoscevano e praticavano il libero pensiero, sindaci e impiegati di banca, medici e marinai, caffettieri e sportivi, tramvieri ed ortolani, picciocus de crobi e nobildonne, avvocati e servette, avventori del cinematografo all’Iris o all’Eden e dopo anche all’Olimpia e macellai o salsamentari o fruttivendoli al Partenone visitato nel 1921 – lo stesso anno della morte di Bacaredda a dicembre, e della visita del futuro Giovanni XXIII ad ottobre – da Lawrence con la sua Frida…
Il corredo iconografico è una meraviglia, dà utile complemento al testo e piacevole respiro sentimentale al lettore: sono più di cento le immagini ora in bianco-e-nero o seppiate come prova della storia, ora dell’oggi rivelato nei colori che danno ragione ad Alziator, alla Thermes e ad ogni altro cantore della “città del sole”: sono riprese di vie trafficate e di palazzi belli e solenni, anche di quelli feriti dalle bombe nel 1943 – come quelli di Galeazzo Magnini e Battistina Meloni all’angolo fra la via Roma e la via Baylle – , e sono ritratti di persone che hanno dato il meglio di sé alla città che ne serba dunque, giustamente, memoria e riconoscenza.
Fra i molti, la caricatura di Alessandro Cosentino, il titolare del notissimo negozio di Ottica della via Manno, realizzata nel 1945 dal fotografo Mario Pes: e figura, Cosentino che associo sempre anche per fede politica al cognato Riccardo Palladino – il fondatore della prima Galleria d’arte cagliaritana –, a me specialmente cara perché presente nelle animazioni civili dei mazziniani negli anni ‘11-12, quelli stessi della ripresa della sindacatura Bacaredda, che ebbe fra i sostenitori di parte repubblicana anche l’indimenticato professor Angelo Garau, il santo primario chirurgo che nel Corso abitava così come, a pochi passi da casa Cocco Ortu, e prima e dopo la lunga e rovinosa detenzione per antifascismo, il futuro sindaco Cesare Pintus, pure lui mazziniano e intransigente fedele all’idea della unità della patria.
Il bianco-e-nero ed il seppiato evocativi del ricordo storico rimandano al tempo di Bacaredda e Cocco Ortu, e anche del primissimo socialismo così come della perdurante protesta guelfa per il provvidenziale furto alla teocrazia romana della capitale d’Italia; rimandano ai vecchi tram e alle adunate della Sabauda… Sono, nel bel racconto che dai secoli volge all’oggi, anche un certo numero di etichette commerciali e pubblicitarie così rappresentative della vocazione commerciale e placido-borghese della città (dalle sartorie Caiazzo e Deplano del corso Vittorio Emanuele alla gioielleria-oreficeria-argenteria Cesare Sorrentino della via Manno allo stampacino Caffè del Giardino di piazza Yenne, e così via).
Giocano, le istantanee bianconere e le cartoline seppiate, in alternanza al colore del presente – dico al colore che è nella nostra stessa conoscenza, e perfino confidenza, di luoghi e persone, negozi e chiese – ora prospetti e campanili ora navate e cappelle ed altari – , passeggiate e mercati, scuole e abitazioni, laghetti e alberate. Si tratta, stavolta, d’una quarantina di immagini nelle quali tutti potremmo specchiarci oggi.
Del Dittamondo e dell’Arquer
Speciali suggestioni provocano certamente, fin dalle prime pagine, le riproduzioni litografiche dei costumi del carrettiere o nella “panattara”, dello stemma civico (m’è sembrata dell’edizione sabauda) e la stilizzazione dei quattro quartieri effettuata dall’Hogenberg di Colonia e datata 1572 – l’anno terribile ricordato dalla grande storia per la notte di San Bartolomeo ed indomani, per dire dei nostri archibugieri, della battaglia di Lepanto nonché, per dire anche dei roghi dell’inquisizione, dell’abbrustolimento di Sigismondo Arquer.
Ci incontriamo attorno ad un libro, per far festa al libro e per far domande al libro che vuole raccontarci di quella Cagliari che fu, per lunghi secoli, cadetta del Castello, e che poi, per tanti versi – non monumentali però, ma qualche volta sì (si pensi al barocco di San Michele ed Sant’Anna, ai due campanili e alla scalinata) – ha superato il Castello, o con questo ha conquistato la pari dignità, l’integrazione piena, come si trattasse del compimento del mosaico civico senza però omologazioni.
Senza omologazioni: qualche traccia delle antiche identità si trova ancora negli stendardi e nel colore delle giubbe dei miliziani: verde per Stampace, rosso arancio per la Marina e Villanova, come sempre ricorda Paolo Matta nei suoi annuali accompagnamenti della processione votiva di Sant’Efisio.
Perché Fazio degli Uberti – come Francesco Alziator ci ha ricordato da par suo in cento pubblici contributi e anche nella presentazione del libro per il cinquantenario bacareddiano (quando, io giovanissimo allora, ebbi modo di corrispondere con lui e iniziare ad imparare, da lui e da Della Maria e da Romagnino) – perché, dicevo, Fazio degli Uberti semplificò o esclusivizzò, nel suo incompiuto Dittamondo, al 12° capitolo del 3° libro, Cagliari in Callari, e perciò in Castello, dando alle appendici sì il rango di città d’attorno ma non quello di capitale: «Sassari, Bosa, Callari e Stampace, / Arestan, Villanova e l’Alighiera, / che le sei parti e più dentro al mar giace…».
Il Dittamondo di Fazio degli Uberti, che risale agli anni di poco successivi alla morte di Dante, guarda alla Sardegna richiamando i nomi delle sue città più importanti. E Cagliari è colta nella pluralità delle sue espressioni urbane così come essa è giunta alla conoscenza del didascalico chissà da quale particolare fonte: certo è che l’opera – vent’anni di fatica – finisce prima d’esser completata per la sopraggiunta morte dell’autore ormai sessantenne.
Così avviene a quasi un secolo dalla distruzione di Sant’Igia e dell’assassinio (per mano pisana) del giudice Chiano, a poche decine d’anni dalla erezione delle torri e delle prime fortificazioni castellane da parte del nuovo padrone della città e del giudicato. L’asse politico-economico di Cagliari s’era allora consolidato fra i palazzi di governo cresciuti a Castel di Castro e le strutture portuali di Lapola disciplinate nelle loro attività dal Breve Portus Kallaretani.
Sui fianchi di quell’asse si svilupparono allora due appendici urbane con «differenti caratteristiche sociali ed economiche»: «quartiere artigiano» Stampace, «borgo rurale» Villanova. Stampace, in particolare, «era abbastanza popolata ed aveva anche diverse chiese: Sant’Anna – dico dell’antica Sant’Anna (romanica e quasi rurale, non la barocca piemontese del primo Ottocento) –, Santa Margherita, San Giorgio, Sant’Efisio, Santa Restituta, visitate nel 1263 dall’arcivescovo di Pisa Federico Visconti (legato pontificio di Urbano IV, papa francese per mille giorni) …
«In epoca pisana, nel Castello si entrava attraverso le tre porte ferrate, munite di saracinesche e ponti levatoi e protette da fossati e antemurali. Alle prime luci dell’alba le sue viuzze si animavano: da Villanova arrivavano i carri degli ortolani mentre da Stampace e Marina si riversavano nella rocca un numero consistente di bottegai, artigiani e pescatori che offrivano i loro beni e servizi. Questi erano i veri cagliaritani». Così scrive, con bella sintesi da teatro, Antonello Angioni nel suo Profilo storico della città di Cagliari – altra bella produzione, ora già di quindici anni, delle Edizioni della Torre di Salvatore Fozzi – che reca in copertina la mappa cittadina disegnata a metà Cinquecento da Sigismondo Arquer per la Cosmographia universalis di Sebastian Munster.
Ad Arquer sarebbe da attribuire il merito – come ha ben osservato qualche tempo fa, in un dotto articolo su L’Unione Sarda (“La condanna di Arquer all’oblio”, 4 dicembre 2018), Maria Antonietta Mongiu – d’aver imposto «nella storia urbana la preminenza dell’urbs sulla civitas, ovvero la preminenza della città come concentrato di costruzioni il cui schema concettuale è abitato da numeri, lettere, segni grafici, a sìnesi di una forma immaginata e di una che misura le cose. Una pedagogia spaziale più accessibile delle intermediazioni delle Bibliae pauperum».
Bisogna dire che se siamo arrivati alle guide, anche alle guide dei territori di Cagliari, centosessant’anni dopo la celebratissima Guida dello Spano, e nel mezzo dovremmo mettere le tavole raccolte e ordinate da Dionigi Scano nella sua Forma Kalaris che è del 1934, e anche da Salvatore Rattu in apertura al suo Contributo alla storia dell’architettura militare ed alla sistemazione urbanistica della zona, fascicolo che è del 1939 – da lì dovremmo forse partire, idealmente, per raccordarci al lavoro recente, di studio e scrittura, di Vittorio Scano…
Passeggiando per la via Roma la possiamo immaginare come le antiche fotografie ci suggeriscono, con la grande alberata centrale – e quella parte finale s’era detto di recente sarebbe stata intitolata al professor Romagnino, chissà! –, con il primo traffico dei tram, con i movimenti del porto passeggeri da cui la città accoglieva i suoi ospiti continentali.
E la possiamo immaginare com’era prima degli abbattimenti della fila di case che chiudeva al porto: press’a poco di fronte all’attuale palazzo del Consiglio regionale nacque Efisio Marini il celebre pietrificatore e protagonista della saga inventata da Giorgio Todde: la famiglia poi si trasferì in via Sant’Eulalia, di fronte al futuro istituto Galileo Galilei, e prima ancora e per mezzo secolo sede della Banca d’Italia.
A dire della via Roma dirimpetto al Consiglio regionale: in una piazzuola, che fino a ieri era soltanto un parcheggio d’auto ed oggi un piccolo giardino-giochi, fu scoperta la targa dell’intitolazione ad Anselmo Contu, indimenticato primo presidente dell’Assemblea autonomistica, bella figura di sardista e fervidamente, dalla prima giovinezza, mazziniano, che passò qualche mese a Regina Coeli per antifascismo con quelli di Giustizia e Libertà.
Né Contu né noi suoi estimatori dovremmo però lamentarci troppo, se è vero che la piazza intitolata ad Emilio Lussu, come snodo della vicina via Sonnino, è soltanto una aiuola trapezoidale. Mi si consentita una brevissima digressione sulle assurdità toponomastiche cagliaritane: … a un sardo assassinato alle Fosse Ardeatine – l’avvocato azionista Giuseppe Medas – l’intitolazione è andata per Giovanni Medas. Mentre la strada che doveva essere intitolata al rettore Giuseppe Todde, celebre economista e figura di Paese d’ombre, la vediamo intitolata a Francesco Todde. E la data riportata nel basamento del busto di Giuseppe Verdi, giusto di fronte al municipio, è 1911 invece che 1901, come era giustamente fino ai tempi della guerra.
(Ho informato il Comune di tali disguidi circa quindici anni fa, andando per uffici e scrivendo lettere ed articoli – una decina almeno, con insistenza – in tutti questi anni. Senza risultato).
I luoghi costruiscono gli uomini, gli uomini fanno i luoghi, li conservano, li rinnovano, talvolta li feriscono od abbruttiscono, altre volte li impreziosiscono, comunque li rendono testimoni e coprotagonisti di una storia che supera le generazioni. I quartieri educano e formano caratteri e sensibilità – si pensi ai “bixinaus” che a Stampace, alla Marina e a Villanova furono lo spazio sociale, oltre quello della parrocchia e magari dell’associazionismo patronale o di devozione, e quello delle puntate al mercato, per le donne altrimenti costrette alle faccende nella segregazione della cucina e del governo, nei giorni pari e in quelli dispari, delle stanze di casa.
Poi anche al rovescio: i quartieri sono a loro volta portati ad un protagonismo civico e politico in più ampie e complesse realtà urbane. Si pensi a quanto di nuovo, almeno fino agli anni ’70 del Novecento, dalle appendici cagliaritane sia venuto nei ricambi elettorali in municipio, e a quanto, da allora in qua – e per i cicli di natura che han condotto tutti tutti tutti gli anziani di allora ai riposi eterni nel monumentale o nel civico di San Michele – sia venuto con i flussi migratori che sanno essere fonti di preoccupazione per amministratori e residenti, ma anche poesia piena, come la puoi cogliere se vai alla scuola Satta o ai campetti dell’oratorio di Sant’Eulalia, dove senti la cadenza cagliaritana in cinesini, bengalesi e piccoli africani dell’equatore…
Memorie dell’Almanacco
Il libro che ci apprestiamo a presentare e che ci emancipa dalla identificazione semplicistica di Cagliari con Castello, ma ci porta nella “corona” urbana del Castello, nelle appendici cioè, ha inevitabilmente molto delle sue ascendenze nell’Almanacco di Cagliari che è stato un dono di qualità di cui la città ha goduto per 53 anni, dal 1966 al 2018. In esso, ovviamente sotto la regia del fondatore e direttore della testata, Vittorio Scano, si sono come affollate nel tempo non meno di duecento firme “anagrafiche” e una buona settantina di firme “delegate”, riconducibili cioè al direttore Scano stesso il quale di recente, per l’utilizzo prevalente in sede di biblioteche pubbliche, ed anche raccogliendo un invito che più volte gli avevo rivolto, ha redatto i suoi repertori. Così anche per Sardegna Fieristica, la pubblicazione annuale pure essa di lungo periodo, essendo andata in fogli elefante dal 1962 – l’anno stesso della iscrizione di Scano all’albo dei giornalisti – e, in nuovo formato di brossura, dal 1977 al 2003: un altro mezzo secolo.
L’occasione dataci di presentare oggi Le dame. Cinque belle strade di Cagliari sembra dunque opportuna intanto per ricordare la benemerita esperienza collettiva, culturale e civile ad un tempo, originalmente promossa da Vittorio Scano, ma anche, fra le tante, almeno una figura di collaboratore – scomparsa purtroppo da diversi anni – che qualche suggestione e idea ha certamente ispirato all’autore per raccogliere centomila notizie messe narrativamente a sistema nella bellissima grafica pensata dall’editore Salvatore Fozzi.
Fu l’ambiente della Camera di Commercio e in specie della sua biblioteca quello con cui, lungo qualche decennio, Scano sviluppò un rapporto preferenziale: perfette e fruttuose le collaborazioni e le consulenze dei bibliotecari – Zardi prima, poi Bifulco e infine Rita Longhitano – e perfetta e fruttuosa si sviluppò l’intesa anche con funzionari di diversa competenza invitati quindi a collaborare con la rivista, data anche l’abilità della loro penna. Fra essi è stato Sergio Serra, che nelle gerarchie della Camera aveva il suo posto di riguardo, ma pari riguardo meritava per quanto sapeva mettere sulla carta ed aveva avuto anche espressione in svariati libri di storia cittadina a cominciare da Ville e palazzi della nobiltà cagliaritana, merito editoriale della AMD nel 1993.
Due furono i filoni tematici a lui affidati: le biografie delle famiglie patrizie cagliaritane (i Canelles, i Castelli, di Manca di Villahermosa, i De Candia, gli Asquer, gli Amat, i Siotto Pintor, i Villasanta, i De Magistris, gli Aymerich, i Carboni, i Pes, i Serra, gli Zapata, i Sanjust di Teulada, gli Orrù di San Raimondo, i Cugia di Sant’Orsola, i Ballero, i Cao di San Marco, i Lostia di Santa Sofia), e le strade cittadine.
Si trattava di rubriche che per lunghi anni Serra, firmandosi Domenico Demurtas, curò riguardo alle famiglie, e per due decenni interi – dal 1981 al 2000 – firmandosi in proprio – curò riguardo alle strade cagliaritane. Nel novero entrarono tutti i quartieri storici e anche qualcuno dei moderni: da Castello (vie Fossario, Genovesi, Canelles, Santa Croce, Corte d’Appello, Lamarmora, Università) alla Marina (via Roma), da Stampace (via Azuni) a Villanova (via San Giovanni e Garibaldi) fino a lembi di via Sonnino ed a San Benedetto (via Dante)… Onore alla memoria.
Certamente Serra è entrato negli appunti bibliografici di Vittorio Scano che poi, di suo, ha però allargato, allungato e approfondito per qualche anno raccogliendo altri materiali, ordinandoli e derivandone questa diacronica – tempo e spazio – esplorazione delle cinque strade ancora scrivendo e scrivendo e intanto ancora pubblicando piccole ma gustose opere di memoria, ora sulle paradossali vicende della facciata barocca del duomo, ora sulla figura di ziu Franciscu “su rei” della campagna trexentina, e preparandone altre sulle modeste glorie dei Bertoleoni sovrani del regno di Tavolara, ecc.
Trexentino santandriese di nascita e di radici avite, Vittorio Scano a Cagliari è cresciuto ed ha studiato, liceo e facoltà di leggi, qui ha impostato le sue attività professionali dacché era poco più che ventenne, qui ha sviluppato le sue più proficue relazioni sociali e, per un tanto, anche una certa militanza politica di cui pure è traccia in qualche studio che ha raccontato la città nel suo immediato dopoguerra e più tardi ancora. Sembra dunque lecito accogliere il suo nuovo libro come un omaggio personalissimo alla città dove anche sta per festeggiare – sarà ad ottobre – il suo onorevole 89° compleanno.
Le dame, dunque: titolo figurativo pertinente senz’altro al tema sviluppato, ma che se fosse stato Le dame e i cavalieri, considerando il genere maschile attribuibile al Largo ed al Corso, qui coinvolti – egualmente avrebbe certificato la sua pertinenza. Perché poi è anche bello, per un qualsiasi lettore che vuole essere recettore attivo, capace cioè di rimbalzo e creativo, dar le forme d’un vivente alle cose, anche alle strade, così come potrebbe fare un autore padrone della penna e con il gusto della scrittura, e come lo stesso Scano in diversi suoi articoli e saggi dell’Almanacco s’è divertito a fare.
Nel Largo risalendo dalla via Roma
Al largo Carlo Felice riservarono una bella pubblicazione, graficamente molto somigliante a questa d’oggi di Vittorio Scano, i cinque club del Rotary cagliaritano, nel 2006, e Salvatore Fozzi con le sue Edizioni della Torre dettò l’elegante forma grafica che riunì la ventina di contributi tutti di “egregie persone” e anche di cari amici competenti – ricordo qui soltanto il compianto commendator Paolo Fadda – e cui fui invitato a partecipare anch’io.
Conosciamo tutti quanti Cagliari e ci vien facile dunque seguire il percorso propostoci che restituisce onore alle cosiddette appendici – Marina, Stampace, Villanova – che hanno una lunga storia propria, né soltanto una storia propria. Ché alla complessiva storia cittadina hanno dato colore e sapore di umanità non minori di quelli che, sul lato della nobiltà nei palazzi così come su quello del sottoproletariato nei sottani, hanno caratterizzato il quartiere alto. Fu grande e penoso il fenomeno sociale e anche sanitario identificatosi nei sottani che coinvolse anche, seppure non con la stessa gravità del Castello, i quartieri a valle: esso fu studiato dalla commissione municipale Aresu-Barrago, quando nei primissimi anni del Novecento ferveva il dibattito, pro-Bacaredda o anti-Bacaredda, sulle case operaie.
Rimandare agli studi e agli scritti di Francesco Alziator sulle tre appendici (con in aggiunta le borgate di Sant’Avendrace e San Bartolomeo, anche quest’ultima, come l’altra, filiazione canonica di Stampace e Sant’Anna) sarebbe giusto ma economie di trattazione impongono ora soltanto, in linea generale, di ricordare che ancora fino ai primi anni del Novecento i censimenti della popolazione erano definiti e resi noti in tabelle di quartiere e che per quartiere erano registrati anche i decessi e le sepolture al cimitero di Bonaria. Esattamente fino al 1900. D’altra parte anche le giurisdizioni territoriali delle parrocchie – delle tre collegiate di Sant’Anna, Sant’Eulalia e San Giacomo – segnalavano l’importanza dei confini: ché i diritti di stola erano disputati da parrocchia a parrocchia, tanto più quando un lapolese o villanovese decedeva all’ospedale civile funzionante dal 1848 e il parroco stampacino di Sant’Anna si assumeva lui l’onere del funerale pretendendo però la corrispondente tariffa, valida anche soltanto – si badi bene – per l’attraversamento del territorio rionale da parte di altro officiante, di Sant’Eulalia o San Giacomo, con piviale e stola e berretta.
Le parrocchie canoniche erano ancora per tutto l’Ottocento sede subsanitaria per le vaccinazioni e pratiche di profilassi varie. Luoghi di aggregazione sociale e dotate di spazi fruibili esse avevano anche costituito nel tempo l’ufficio dei cosiddetti sindacati di quartiere – che avevano la gestione dei servizi di ronda e altri minori, come lo spazzamento delle strade o l’illuminazione pubblica, e di cui scrive, fra gli altri e fra il molto altro, Giancarlo Sorgia nel bel volume Lions del 1981 Cagliari sei secoli di amministrazione cittadina… Per non dire di quelle confraternite che rappresentavano il giusto collegamento con le corporazioni professionali, operaie ed artigiane, attive sul territorio. Basti pensare ai saltemari, i lavoratori del porto.
Nel Corso stampacino
Il percorso suggerito da Vittorio Scano al suo lettore è piuttosto semplice: dal porto commerciale-e-passeggeri lungo la via di San Francesco al molo che sarà intitolata alla capitale dopo il 20 settembre 1870 e che si avvierà ad un processo di porticazioni proprio dagli ultimi decenni del XIX secolo ai primi trent’anni del Novecento – partendo dai palazzi Magnini e Garzia per arrivare alla Rinascente nei primissimi anni ’30 – si sale per il Largo che sutura – perché dire “divide”? – il trapezio della Marina, l’antica Lapola o Bagnaria – con l’edificato di Stampace basso, il compendio otto-novecentesco fra il Corso e il viale La Playa. Quel viale La Playa al tempo strada provinciale ospitante il primo stabilimento balneare messo su da Michele Carboni, prevalente proprietario di qualche abbondante chilometro quadrato in città, dall’area Ferrovie al nuovo cimitero di San Michele (inaugurato nel 1940 e subito destinato ad accogliere anche le spoglie di tanti cagliaritani caduti sotto i bombardamenti).
Muovendo dal nuovo municipio bacareddiano e dal restante ipogeo della chiesa-convento di Sant’Agostino vecchio ed ancora dai palazzi borghesi della belle époque – da Accardo e Scano – si arriva alla piazza Yenne. E intanto si è carezzato anche il palazzo Devoto Cao rifatto Banco di Napoli (e oggi Intesa SanPaolo) con la meravigliosa cupola a velario, fra il 1931 ed il 1935, si è superata l’apertura di via Mameli realizzata nel 1955 (dopo l’abbattimento definitivo di palazzo Signoriello già sede BAI-Banca Agricola Italiana assorbita dal Banco di Napoli), si è ammirato il prospetto del palazzo della ex Comit, inaugurato nel 1916 – si era in piena guerra mondiale allora – e quello della Camera di Commercio firmato Luca Beltrami, datato 1928, fino ad arrivare a quello Birocchi Fantola divenuto prima sede del Banco di Roma alla fine della grande guerra e prima dell’avvento fascista. Negli spazi che erano stati anche dell’indimenticata libreria Cocco.
Sul fianco destro salendo, dove oggi sono le sedi della Banca Nazionale del Lavoro e della Banca d’Italia, era il nostro Partenone edificato sull’area che era stata per tre secoli dei conventuali agostiniani ed a sua volta già ospitante costruzioni romane e medievali, di cui sono rimaste ampie tracce preservate sotto terra. Scano dà largo spazio alle cronache e alle suggestioni di quella meraviglia nostra che, dalla metà degli anni ’80 dell’Ottocento, resse per sette decenni soltanto, perché le bombe americane prima e le valutazioni municipali poi – nelle riconsiderazioni urbanistiche impostesi negli anni ’50, fra le sindacature Leo e Palomba – imposero l’abbattimento dei relitti favorendo l’erezione delle torri bancarie.
Altri passaggi storici meritano almeno un pensiero: ecco intanto la bella sede del Credito Italiano, che a Cagliari nacque, alla vigilia della grande guerra, acquistando la rete sportelli della “privata” SBS di Ferruccio Sorcinelli, il quale meno d’una decina d’anni dopo ed anche con le risorse procurategli, fra il 1915 e il ’18, dal business “pescecanesco” di Bacu Abis, rilevò la proprietà de L’Unione Sarda, facendone una testata radicale in rapida virata fascista.
È in quel punto – dove oggi campa bene una grande farmacia e con ingresso però nella via Baylle – che nacque Francesco Alziator, nel 1909, battezzato al Santo Sepolcro.
Giunti alla piazza forse più canonica di Cagliari – la piazza Yenne dalla cui colonna miliare parte la Carlo Felice alla volta di Sassari – Scano propone, come si trattasse delle due braccia aperte d’un corpo umano che ha messo i piedi nelle acque del molo Sanità e della ex Stazione Marittima, un allungo stampacino, a sinistra, fin verso… Sassari addirittura, ed un altro e alternativo, a destra, che risale sa Costa, il coperchio della Marina cioè.
Ho detto: verso Sassari iniziando dal Corso, passando per Sant’Avendrace e costeggiando, almeno idealmente, il borgo dei pescatori di Giorgino (con tutto quel che il villaggio ha significato anche per i bagni estivi andati in replica del già citato apripista Carboni e prima della “scoperta” del Poetto, allora tutto quartese e luogo di ordinarie esercitazioni militari e finzioni belliche con tanto di esplodenti).
Del Corso – che rimanda alla processione religioso-pagana di Sant’Efisio nel tratto che fu detto di “sa passillara”, fino a casa Cocco Ortu – e di cui ci ha lasciato suggestive pennellate Giuseppe Dessì –,
del Corso che rimanda agli incanti della chiesa di San Francesco, da noi ricostruiti purtroppo soltanto ex post (per quel che ammiriamo, di retabli, in Pinacoteca, dopo l’abbattimento della chiesa degli osservanti),
del Corso che rimanda alla scomparsa chiesetta di San Bernardo (là dove inizia a scendere la via Carloforte), segnalata dallo Spano forse soprattutto per il titolare modellato dal Lonis,
del Corso che rimanda – ancora in tema di chiese – all’Annunziata affidata, come parrocchia, dall’arcivescovo Balestra – che era un frate francescano – ai suoi confratelli conventuali (quelli stessi di via Piemonte), ma chiesa con plurisecolari ascendenze prima paolotte, poi scolopie, fatta infine francescana ma mutila del convento espropriato dallo Stato liberale per gli usi di caserma,
del Corso che rimanda al Merello col suo opificio molitorio e al teatro Massimo come all’Arena Giardino che ne occuparono lo spazio giusto nel collegamento con quel viale Trento che ebbe il suo nuovo titolo, insieme con il viale San Pietro divenuto viale Trieste, all’indomani della grande guerra e delle nostre conquiste dei territori irredenti…
ecco, del Corso le pagine di Vittorio Scano lumeggiano, con gli avanzamenti anche edilizi della sua fuga, i personaggi di casa Savoia che vi avevano sostato tra feste popolari e messe solenni, l’arrivo delle linee elettriche e anche del tram, le sale da ballo del secondo dopoguerra, i cento esercizi commerciali d’ogni merce trattanti e le cento pasticcerie e confetterie e trattorie, diverse delle quali passate, nella gestione, di padre in figlio… Si pensi soltanto ai Dessì delle cartolibrerie professionali, ai Dessì – quelli di Mario e poi di Geppi e oggi di Mario jr. ed Alberto – con cuginanza (ma ormai passata) in via Manno.
Un viaggio nella via Manno
Appunto la via Manno. Sarebbe, la via Manno – in risalita un tempo dalla porta Stampace caduta poco prima dell’unità d’Italia alla porta Villanova caduta trent’anni dopo –, un tema anch’esso meritevole di mille focus, a pensarlo come l’ha pensato Scano per le innumerevoli attività commerciali ivi insediate e taluna rimbalzata sulla pagina anche con la foto dell’insegna.
E con Scano penso subito anch’io e per prima alla giocattoleria Bolla che fu una specie di Lourdes per noi bambini d’un tempo, e per quanti altri bambini di prima e di dopo di noi (ormai sessanta-settanta-ottantenni), in quanto pacchi-dono di Gesù o Babbo Natale destinati ai paesi del circondario… Scano indugia, e fa bene, sulle genealogie di quei benemeriti Elisabetta Pastore e Giovanni e Achille e Beniamino e Callisto e Luigia e Giuseppina Bolla… e alle loro parentele con i Rossino e con Battista Rossino il pittore che ha tenuto la scena di Cagliari fino alla morte nel 1956.
Con Scano penso anche anch’io al povero Gittelshon lettone di Curlandia, titolare dei grandi magazzini di guardaroba e telerie che morì, depresso per le troppe cambiali, suicida nel 1915, e penso anche l’UPIM – “Unico Prezzo Italiano Milano” – con la sua confortevole modernità nelle due sedi in sequenza – di fianco a Bolla dapprima, in pagana sostituzione della chiesa di Santa Caterina poi.
Penso ai cortei dei giovani interventisti, in quello stesso 1915, che passando davanti allo studio notarile del console d’Austria-Ungheria Sulis, rovesciavano il tricolore per protesta antiaustriaca…
Penso alle chiese nobili rimaste – come Sant’Antonio abate, dove predicò monsignor Roncalli a pro delle missioni, e che ogni 17 gennaio celebrava la benedizione (paganissima) degli animali – un tempo anche i cavalli, quand’ero io chierichetto soltanto cani e gatti e forse pappagalli e canarini – e alle chiese rovinate, come Santa Caterina alessandrina frequentata nel ’99 da Grazia Deledda ospite della maestra Manca e che tanti rifacimenti conobbe nella sua storia: riapertasi nel 1924 – e Scano propone una foto dell’interno appena restaurato – fu visitata da un quindicenne Francesco Alziator, il quale supponente philosophus solitarius ne annotò nel suo diario che fortunosamente recuperai e potei pubblicare...
Tante storie a grappoli potrebbero suscitarsi evocando il nome d’una strada, d’una scuola, d’una chiesa… E di Sant’Antonio verrebbe da richiamare l’insediamento, a fine Ottocento, dell’arciconfraternita d’Itria che aveva sede dov’è oggi la cappella dell’Asilo della Marina: un’arciconfraternita di elemosine pasquali che aveva ricevuto le sue patenti romane da Urbano VIII – il papa che, meno di dieci anni dopo, avrebbe condannato Galileo! –, un’arciconfraternita poco amata dagli agostiniani della vicina chiesa appunto di Sant’Agostino che per qualche tempo riuscirono ad impedire che essa avesse una propria campana, evidentemente ritenuta di disturbo alla propria…
Di Santa Caterina potrebbe anche ricordarsi l’arciconfraternita cinquecentesca cui parteciparono anche i Canepa – quelli del caffè Genovese e i loro familiari di Chiavari: fra questi ultimi, discendenti di Gerolamo non di Lazzaro, là officiante la prima messa e incaricato della cappellania, don Luca Canepa fattosi prete dopo aver funzionato da magistrato, e per quasi vent’anni vescovo a Nuoro raccontato gustosamente in un capitolo intero nientemeno che da Salvatore Satta nel suo Giorno del giudizio!
Penso ai Fatebenefratelli – i Frati di San Giovanni di Dio cioè – che accudivano i malati dell’antico nosocomio di Sant’Antonio che poi, sorto il nuovo ospedale civile del Cima, avrebbe gradualmente sbaraccato, lasciando infine, nel 1858, lo spazio ad altre realtà – dapprima le scuole: l’istituto tecnico in cui insegnò scienze naturali anche Efisio Marini, poi il Siotto, quindi le medie, e più di recente l’ostello della gioventù…
D’interessante qui è, o era, un dipinto, quello della Madonna della salute: e mi pare interessante rilevare che alcuni titoli delle parrocchie moderne di Cagliari, nei quartieri periferici, rimandino proprio a edicole o cappelle minime, magari soltanto a tele o statue di questa o quella chiesa antica: la Madonna della salute, da sa Costa ma anche dal convento dei cappuccini di Buoncammino, o da Sant’Eulalia (di mano del Marghinotti), o da San Giuseppe Calasanzio (di mano di Antonio Caboni) all’ombra della torre dell’Elefante, al Poetto, in area ex Ausonia; la Madonna del suffragio da San Domenico (ante 1943) ma anche dall’Oratorio delle Anime accosto a San Giacomo, al CEP; e così via…
La Via Manno come braccio destro della Y disegnata, nelle sue intenzioni, da Vittorio Scano a passeggio. Un braccio che si protrae – come rettifilo San Giovanni, il cuore di tante liturgie popolari del Venerdì santo – lungo tutta Villanova, in parallelo al Terrapieno e fino a penetrare nel cosiddetto rione dei tre santi – Cesello, Mauro e Rocco – che sfocia in La Vega e Is Stelladas, altri rioni di suggestioni complesse mischiando religione – le suore francesi e i cappuccini cacciati da Buoncammino al tempo delle leggi eversive, industria – la birreria – e sanità – l’ospedale psichiatrico di Monte Claro affidato all’apripista professor Sanna Salaris il massone della loggia “Sigismondo Arquer”.
In via San Giovanni, oltre la settimana santa e fino a casa Bacardda
Lasciata la via Manno e superate le piazze sorelle – quelle intitolate ai Martiri d’Italia, con la sua stele del 1886 (giusto là dove era Porta Villanova), ed alla Costituzione (quella del 1848, non del 1948) –, raggiunta la piazza Marghinotti, si procede dunque lesti, e fra due file pianeggianti di case basse – sono abitazioni e laboratori artigiani –, superando San Giovanni e anche il Cesello già delle Sacramentine, si potrebbe sostare a San Mauro, dove fu custodito per mezzo secolo, nel Settecento, il corpo di San Salvatore da Horta laico francescano osservante: fu il convento annesso a quella chiesa ad accogliere quarantacinque anni fa, nel 1980, la prima comunità di recupero dei tossicodipendenti affidata dal provinciale al caro padre Salvatore Morittu, un bonorvese di speciale carisma, bonorvese come bonorvese era il grande poeta Paolicu Mossa ed è l’editore nostro Salvatore Fozzi, e con lui una bella e affollata compagnia che s’era o s’è cagliaritanizzata senza mai rinunciare però ai tesori nativi: e fra i tanti verrebbe da menzionare, collocabili essi stessi, per domicilio o ufficio, nelle strade descritte da Scano, Angelo Dettori – il fondatore di S’Ischiglia – che funzionò alla Camera di Commercio, o il linguista Antonio Sanna, l’amico Gian Mario Selis, la giornalista Maria Paola Masala nella via Manno, ecc.
Come spinti da uno stantuffo ci pare d’essere come inseriti in un flusso avanzante, di scoperta ammirata del nuovo, e Vittorio Scano ci offre la guida. Tutto è farina del suo sacco, ma delizia del cuore m’è sembrata – in congedo dalla via San Giovanni – quella di dare l’ultima parola ad Antonio Romagnino, maestro e amico di tanti di noi, che nelle sue Passeggiate cagliaritane – queste, anche queste, e anche nel bis delle Nuove passeggiate, pubblicate ora sono già quasi trent’anni dalle Edizioni della Torre – ha offerto, degno continuatore di Francesco Alziator, le chiavi di lettura dei luoghi esplorati, combinando tanto spesso i racconti biografici suscitati dalla toponomastica, quando nominativa, alle descrizioni propriamente diacroniche delle forme materiali, edilizie e talvolta monumentali.
E la via San Giovanni di cui riferisce Romagnino, con il focus sui suoi “affluenti”, e con cui conclude appunto il suo libro Vittorio Scano mi riporta, fra cento altri spunti, al civico 402 che fu la casa di spiriti belli nostri, giovani ed anziani, già del monumentale benemerito Pippo Della Maria, cento metri prima della casa ultima di Bacaredda (condivisa con la sua Rosa Rossi Siriani genovese di nascita russa), di Ottone Bacaredda del quale appunto Della Maria fu biografo, come lo fu – ordinando 23mila lemmi – de L’Unione Sarda dal 1889 al 1958, dalla direzione di Andrea Cao Cugia e Marcello Vinelli a quella dell’a me carissimo Fabio Maria Crivelli.
Tante suggestioni: al 402 mi riportano, da ultimo, anche certe appassionate energie intellettuali che hanno aperto il cantiere di studio nientemeno che di Stanislao Caboni ed Antonio Scano, fra breve, speriamo, in gran riscoperta con i loro inediti per la gloria cagliaritana del Sette-Otto-Novecento.
Non c’è originalità in questo che dico: ognuno potrebbe, navigando pedibus calcantibus appunto alla Alziator o alla Romagnino incontrare e reincontrare conoscenze personali e santuari laici o religiosi.
Giuseppe Della Maria – era nato due o tre settimane prima dei moti antiBacaredda del 1906 e lo abbiamo perso nel 1977 – fu un generoso, quale anche mi si presentò, appunto al sesto piano della casa di via San Giovanni, coprendomi di tante piccole pubblicazioni che aveva dato alle stampe – oltreché sulla storia de L’Unione Sarda – sul carnevale cagliaritano e la beffarda “panettera”, di “sa viura” e de “su Rantantira”, le maschere anche di Ottana e della Barbagia e gli antichi argentari cagliaritani, i costumi isolani e il nostro folklore nel museo delle arti di Roma, e tanto altro che lo riportava alla sua originaria professione veterinaria in chiave sarda ma anche piegata all’alto medioevo o al periodo aragonese e spagnolo, agli ordinamenti del mercato cittadino di Cagliari dall’antichità fino alla nostra belle époque.
Ho detto del corredo iconografico che, incrociando le proposte dell’autore e il gusto fine e, direi, la sapienza professionale dell’editore, impreziosisce il grande volume, favorendo l’interessata lettura delle sue pagine.
Queste pagine di Le dame. Cinque belle strade di Cagliari, così bene inserito nelle novità del ricco catalogo delle Edizioni della Torre che accompagnerà anche le future generazioni pur in epoca di digitalizzazione, è il dono che Vittorio Scano in questa sua tarda età ha voluto offrire alla sua città elettiva. E noi che come lui non abbiamo sangue tutto cittadino, ma siamo meticci del Campidano e di altre regioni dell’Isola, accogliamo da sardi cagliaritani d’inizio Duemila il dono, ringraziandolo.
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