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Gianfranco Murtas

“Lina Merlin, una storia di confino”. Alle stampe un bellissimo volume di Raichinas e Chimas dorgalesi

di Gianfranco Murtas

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Mi viene spontaneo, prima di impegnare qualche riga (modesta) sui preziosi contenuti di Lina Merlin. Una storia di confino - un volume di quasi trecento pagine, curatissimo nei supplementi documentari così come nella grafica e specialmente nel corredo iconografico – confessare la santa nostalgia per quel mondo delle idealità civili che aveva ispirato una certa politica negli anni della mia formazione e anche della prima maturità: quegli anni che sono stati, per l’Italia, il faticoso calendario della ricostruzione e dell’attesa e pur miracolosa affermazione nostra nazionale, nel contesto delle grandi potenze industriali del mondo, nelle classifiche dei risultati anche occupativi, seppur ancora con il carico delle disuguaglianze negli standard di vita e produttivi fra le regioni del nord e quelle del sud. Ma proprio per questo, e all’interno di un mercato continentale intensamente concorrenziale, anni segnati da un formidabile impegno da parte delle classi dirigenti (e col concorso anche delle opposizioni politiche) a promuovere iniziative di allineamento o di riforma, e comunque dentro un quadro di sviluppo democratico e civile, di riconoscimento del merito sociale dei ceti lavoratori e di sana secolarizzazione della normativa in materie riservate, per antico retaggio ingessato dal fascismo e insufficientemente riscattato dalla Repubblica ancora per qualche decennio, alla Chiesa. L’Italia (e la Sardegna nell’Italia) come un grande cantiere: in un fare collettivo e inventivo, in vista di obiettivi definiti con chiarezza tanto in campo internazionale, nell’integrazione europea e nell’alleanza occidentale ed atlantica, quanto in campo interno, con largo e progressivo coinvolgimento, anche istituzionale, di tutte le forze costituzionali e sociali.

Suggestioni – la nostalgia di quel mondo che era in divenire ed era percepito in miglioramento, dopo la devastazione bellica e le penalizzazioni cui la patria era stata costretta dalla dittatura per due eterni sfiancanti decenni – che mi è stato dato di avvertire tenendo fra le mani il volume sopra menzionato e risvegliando la memoria del bellissimo convegno svoltosi nel giugno del 2023 a Cala Gonone di Dorgali, al quale ero stato generosamente chiamato a partecipare. Perché nella sequenza delle relazioni e in specie nei contributi biografici offerti circa la personalità meravigliosa di Lina Merlin, da lì emergeva quel filo rosso che tutti ci riportava a considerare come la sofferta testimonianza politica degli antifascisti – e della Merlin anche lei in prima fila – poteva spiegare, e intimamente giustificare ed ispirare, il grande cantiere della Repubblica che proprio dall’antifascismo socialista e repubblicano-azionista, comunista e cattolico, liberale e radicale e sardista e dalla lotta di resistenza traeva le sue premesse ideali. Sicché anche noi che eravamo/siamo nati nel secondo dopoguerra, e nella Sardegna povera del tempo eravamo/siamo cresciuti scolarizzati, attenti alle dinamiche di progresso che si annunciavano e già registravamo, nella piccola e nella grande patria, e sia pure fra le tante contraddizioni di cui ho detto, ci sentivamo partecipi di una storia cui la libertà liberatrice dava contenuti e indirizzi.

Così, mi parrebbe giusto dire, fino all’indomani delle esplosioni della barbarie brigatista (tanto gravemente mischiata con le perdizioni piduiste, e perciò golpiste e stragiste nel segno neofascista, e mafiose di raggio anche internazionale), così ancora fino ai tanti e troppi smarrimenti degli anni ’80, al craxismo che corrodeva e, nel costume politico, addirittura rovesciava il socialismo, al comunismo che non trovava l’energia morale per chiaramente e definitivamente distaccarsi dalle ipoteche dottrinarie tardosovietiste, ai democristiani schiacciati in un infinito collasso morale nel governo della cosa pubblica. Diciamo fino agli accomodamenti interni ad una società fattasi progressivamente liquida, e fattasi trappola un po’ per tutti, i destri e i sinistri; diciamo ancora fino alle regolazioni di “mani pulite” ed ai primi successi elettorali fraudolenti, nefasti e umilianti, del berlusconismo non credente in niente ed alle convergenze in esso dei pagani della Lega bossiana (quelli dell’ampolla del dio Po in Padania) e dei missini datisi alle pasticciate riformulazioni della propria retorica nazionalista, dei (sedicenti) socialisti tumefatti dalla legge e dei democristiani asciugati da ogni ispirazione degasperiana o morotea, così come dei laici che, ripudiando la vocazione minoritaria, montarono all’imbarco sul carro del vincitore, e, nell’Isola, dei sardisti in avvio di malora, fattisi da nazionalitari-indipendentisti quali si erano in ultimo definiti con gli spropositi più evidenti a colonizzati volontari sbranati dalle ingordigie brianzole, perfino nemici della propria storia, salvi gli specchiamenti nei fasciomori del 1923.

In stretto nesso con il nuovo episodio – appunto quello della pubblicazione degli atti del convegno sulla Merlin e di bellissime pagine biografiche sulla futura senatrice di tanto buon sentire – è andata la conferma di una (permanente) affettuosa mia ammirazione per la benemerita associazione dorgalese Raichinas e Chimas, da oltre un quarto di secolo attiva, con le sue prevalenti risorse femminili (tanto d’assemblea quanto di direzione), sul fronte della cultura sociale e storica sarda e barbaricina, o barbaricina-baroniese. Ciò con tutta una serie di iniziative, ora convegnistiche ora pubblicistiche ed editoriali, da essa promosse anno dopo anno, a partire da quella celebrativa di Francesco Fancello, giellista-azionista di lunga detenzione politica (con supplemento di confino fra Ponza e Ventotene), lui fattosi poi socialista pertiniano in evoluzione dalle remote riflessioni autonomiste (quelle di Cino d’Oristano).

Spero che il libro ora pubblicato da Raichinas e Chimas abbia ampia diffusione e costituisca, se possibile, lettura interessata, e quanto istruttiva! nelle scuole. È tempo, il nostro, che ha drammatico bisogno di figure esemplari, di modelli etico-civili che, anche sopra le distinzioni partitiche, sappiano trasmettere la santa febbre dell’impegno per una causa alta, la santa febbre della partecipazione ad ogni impresa che guardi al bene collettivo nella democrazia: con realismo certamente, ma anche con tenacia perfino eroica nell’ambito che a ciascuno tocca.


Scorrendo le pagine del libro

Le prime centotrenta pagine circa del libro ricostruiscono la biografia umana e politica di Lina Merlin con insistiti focus, naturalmente, sulla esperienza del confino, dopo la condanna del novembre 1926, seguita alla decadenza dall’insegnamento alle elementari patavine: cinque anni di “esilio” in patria, nel cuore della Sardegna, in Barbagia (in quel tempo, e ancora per un anno, circondario amministrativo della provincia di Sassari: sarà poi, il Nuorese, nuovamente provincia come lo era stato prima della riforma Rattazzi del 1859 e com’era stato vanamente invocato da Giorgio Asproni ).

Lo annota lei stessa: «di prigione in prigione, di cellulare in cellulare», finalmente Lina raggiunge Nuoro «come primo ostello». Qui alloggia in una casa al civico 12 di via Paganini. Sono soltanto tre giorni, ma intanto l’occasione cattiva si salva per la possibilità che le è data di visitare la casa della Deledda, appena dichiarata vincitrice del Nobel per la letteratura (premio ritirato dalla scrittrice l’anno seguente). Appunto quasi una toccata e fuga a Nuoro, poi qualche mese – da metà dicembre 1926 (qualche giorno prima del Natale) a fine marzo 1927 – il domicilio confinario è stabilito in Dorgali, nell’abitazione dei Mulas-Sale prospiciente la via Iosto: nella Dorgali dove seminerà relazioni discrete ma intense poi documentate per l’onore di chi vi si è coinvolto. E dopo Dorgali ecco una tappa di quattro mesi – fino a metà luglio 1927 – ad Orune, in una casa di via Cadorna. La Orune che un giorno nel 1952 (e poi nel 1962) sarà visitata, ma in ben altro contesto, da un altro confinato, o ex confinato (lui in Lucania, da cui il romanzo-memoriale Cristo si è fermato a Eboli), Carlo Levi medico e pittore oltre che scrittore. L’Orune di Antonio Pigliaru, l’Orune di Bachisio Zizi – per fare due nomi eccellenti pur di altra generazione ed altra storia, nobile sempre… Le pagine di Tutto il mieleè finito documenteranno e saranno anche riconoscimento di una concentrazione di intelligenze nell’assortimento delle chiamate e delle testimonianze sociali di cui la personalità di Margherita Sanna – cattolica e sindaca per un decennio e più, e con bis – è insieme compendio e distinzione.

Segue una permanenza più prolungata – fino al novembre 1929, ottocentosessanta giorni – a Nuoro (che… la spunta sulla candidatura di Isili): a “conca ‘e ferru”, una casa di Pietro Pirari. E Nuoro è Nuoro, con tutti quegli antifascisti che sono rimasti nella storia per la loro resistenza intellettuale e qualcuno, o qualcuna – come Mariangela Maccioni e Graziella Giacobbe – anche per il pedaggio carcerario. La Nuoro dei sardisti e dei repubblicani, da Gonario Pinna a Efisio Caria (poi comunista) a Luigi Oggiano e Pietro Mastino, la Nuoro dei Satta – i Satta di Salvatore, per citare qui l’avvocato Filippo Satta Galfrè socialista –, la Nuoro dei Mannironi, per evocare un cattolico di gran valore, privo ancora, in quegli anni, della copertura vescovile, ché monsignor Giuseppe Cogoni arriverà soltanto nel 1930 per essere puntualmente schedato anche lui dall’OVRA…

Ricche di testimonianze e di documenti, con un bellissimo corredo fotografico che dà miglior conto della Merlin impegnata, come detto, anche nelle frequentazioni sociali e nel volontario insegnamento popolare in terra barbaricina, e di lei “inculturata”, vestita con il costume di paese, sono le pagine introduttive del volume che valgono anche per le elencazioni nominative dei confinati antifascisti in ben cinquanta comuni dell’Isola (elenchi cui mise mano anni fa l’amico mio e sempre compianto Salvatore Pirastu). In tale contesto meritano una citazione un perfetto capitolo firmato da Maria Annunziata Secci sulle “Donne antifasciste e al confino. La resistenza delle donne in terra di Barbagia” ed un secondo, e altrettanto perfetto, capitolo a firma di Giulio Angioni esplorativo de “L’autobiografia della Merlin” (uscita nel 1989).


A Dorgali

Fra le tappe, dunque, anche Dorgali: e a questa tappa di cento giorni pagine di commossa delicatezza sono dedicate nel libro, impostate su alcune testimonianze e su certa corrispondenza intrattenuta dalla stessa Merlin divenuta intanto, nel 1948, senatrice della Repubblica.

Sono ricordi di umanità semplice e vera, di un tempo impiegato a ricamare e ad insegnare a leggere e scrivere ai piccoli, a farsi infermiera e, all’occasione, perfino ostetrica… «Avevo sentito da lontano il tepore di una fiamma intravista da una porta aperta e mi ero avvicinata. Una donnina mi guardò e con voce invitante mi disse – Veni in domo mea – in quel dialetto latineggiante sentii la forza di una civiltà che non era morta, ma doveva, chissà quando, vincere la barbarie di cui troppi Italiani erano schiavi…». «A Dorgali, per la sola stanza, pagavo £. 50 mensili…», «La stanza era arredata con un comò, un mezzo guardaroba, un letto, un porta catino in ferro battuto con lo specchio, il boccale, il secchio in ferro smalto e un vaso da notte nel comodino…» e davanti all’ingresso, nel cortile, «babbo Paolo» aveva allestito – dirà una testimone ormai centenaria – una sorta di corridoio di fiori e piante officinali «che dava un po’ di riservatezza».

Avrebbe vestito, Lina, l’abito dorgalese, ricco e bello, bellissimo. Giovanna, Franca e Tonino – bimbi di quattro e cinque anni – compaiono innocenti e timidi con lei in una fotografia che racconta la storia e dovrebbe educare le giovani generazioni della nostra Sardegna alla potenza onesta della democrazia.


Il convegno del 2 giugno 2023

La seconda parte del volume raccoglie e presenta gli atti del convegno del 2023. I testi, in sequenza, sono di Antonella Fancello (presidente pro tempore di Raichinas e Chimas), Angela Testone (sindaca di Dorgali), Andrea Soddu (sindaco di Nuoro), Stefano Lavra (presidente dell’ISRE di Nuoro), Serafina Mascia (presidente onoraria della FASI), tutti quanti per i saluti introduttivi. A seguire le relazioni o comunicazioni: d Gianluca Scroccu (“Il fascismo in Sardegna. Origini e sviluppi”), di Pia Locatelli (“Lina Merlin. L’onda lunga della sua azione politico-istituzionale”), di Vannina Mulas (“Una socialista al confino in Barbagia”), di Gianfranco Murtas (“Fra Mazzini e Lussu. La testimonianza antifascista femminile a Nuoro e Sassari”), di Pier Giorgio Tiozzo Gobetto (“Il superamento della damnatio memoriae”), di Laura Puppato (“Lina Merlin, un esempio per i giovani”), nonché delle coordinatrici del convegno stesso Piera Serusi e Simonetta Selloni.

Un altro centinaio di pagine con le riproduzioni dei documenti storici tratti dall’Archivio centrale dello Stato, da quello di Stato di Nuoro, nonché dagli Archivi comunali di Orune, Dorgali e Nuoro, tutti riferiti alla vicenda confinaria della Merlin (ed alla speculare eterna vergogna di chi a tanto la costrinse), conclude il volume, ben ricollegandosi agli inserti che sapientemente sono stati distribuiti a saldare fra loro i diversi capitoli.




Il mio contributo

Alla gentilezza di Nunzia Secci, presidente fondativa di Raichinas e Chimas, e di Vannina Mulas – anima sapiente della manifestazione e di quanto l’ha accompagnata – debbo la mia partecipazione al convegno e, ora, agli atti comprensivi delle relazioni.

Il mio contributo (“Fra Mazzini e Lussu. La testimonianza antifascista femminile a Nuoro e Sassari”) piantato in una cinquantina di cartelle ritenni ben opportuno non proporlo (al pubblico convenuto nel pomeriggio) nel testo canonico, limitandomi a parlare a braccio illustrando con qualche necessaria rapidità le magnifiche personalità di Bastianina Martini Musu, Ines Berlinguer Siglienti, Mariangela Maccioni Marchi, Graziella Sechi Giacobbe e Marianna Bussalai.

Piuttosto ritenni utile far precedere il tutto (e so che in You tube l’intervento è stato postato dall’organizzazione) da alcune considerazioni generali miranti a saldare (per un terribile confronto) il passato antifascismo delle mie eroine al presente piuttosto misero in quanto a tensione ideale ravvisabile nella politica (e nella società), cui certamente non saprebbero, e non sanno, rimediare una maggioranza parlamentare ed un governo di scadentissimo risalto. E sono, apposta trascritte, le pagine che offro qui di seguito a chi ne abbia interesse.


Breve premessa

Debbo, in apertura, recuperare una fascinazione proposta questa scorsa mattina da qualcuno dei relatori a proposito della retorica che – lo sappiamo tutti – si è rilanciata negli ultimi tempi, sulla scena politica nazionale, circa il concetto di “patria”, che uno scrittore-poeta come il nostro Francesco Masala – l’autore del romanzo “Quelli dalle labbra bianche” e di cento altre cose belle – avrebbe chiamato piuttosto “matria”.

La retorica viene da una polemica, neppure di oggi soltanto, da parte di quella destra che io considero non “patriottica” ma “patriottarda”, contro l’area variegata del progressismo, accusata di aver rimosso, dalle proprie tavole valoriali, l’ideale patriottico, o il sentimento patriottico, riducendo la politica al solo dato economico. Ebbene, vanno ricordate, al riguardo, almeno due cose. La prima: che nel 1944-45 e comunque dopo l’armistizio dell’8 settembre, quando cominciarono sul continente le azioni della resistenza, i due giornali quotidiani defascistizzati della Sardegna – vale a dire “L’Unione Sarda” a Cagliari e “L’Isola” a Sassari (che, in uscita dal 1924, aveva rimpiazzato dal 1926 “La Nuova Sardegna” costretta di fatto a chiudere per ventuno anni) – raccolsero le sottoscrizioni popolari a pro “dei patrioti” del continente. E cioè: i patrioti erano i partigiani. Bisogna rammentarlo: i patrioti erano i partigiani, i partigiani erano i patrioti, contro i nazisti e contro i fascisti che erano gli antipatrioti. Frequente era allora l’assunzione della qualifica patriottica da parte delle brigate resistenti in armi contro il fascismo di Salò e contro quel nazismo tedesco che aveva occupato l’intera Italia per essere progressivamente confinato, con i suoi collaborazionisti nazionali, nel nord dall’avanzare delle truppe liberatrici alleate.

La seconda: che la rivendicazione dell’autentico patriottismo viene non certo dalla destra novecentesca e tanto meno dall’attuale, ma dal risorgimento e, in esso, dalla scuola democratica di matrice mazziniana e garibaldina, secondo cui “ogni patria è la mia patria”. Per questo patrioti democratici italiani si sacrificarono sui campi di guerra di altre nazioni tese nel loro programma unitario, come il mazziniano Francesco Nullo in Polonia: quella Polonia la cui fratellanza patriottica detta “Giovane Polonia” era entrata, con la “Giovane Germania” e la “Giovane Italia”, nel cartello della “Giovane Europa” lanciata da Mazzini a Berna nel 1834. Tre risorgimenti nobilmente nazionali, l’interscambio di fatica patriottica, e di rischio di morte affrontato con gratuità gli uni per gli altri. Sarebbero cose da ricordarsi i rapporti dell’ungherese Kossuth con il nostro Mazzini, e quanti altri dall’est europeo, rumeno in particolare, furono in relazione con il nostro Giorgio Asproni.

Né fu cosa iniziata e finita nell’Ottocento, ché a quei principi anche un secolo dopo altri democratici – patrioti democratici – si sacrificarono per la causa della libertà di altri popoli, come fece il cagliaritano Silvio Mastio, un giovane chimico già segretario della sezione Mazzini della sua città, il quale in un’azione militare alla Pisacane sbarcò con i suoi, nel 1931, in una baia venezuelana per essere là abbattuto dal fuoco dei miliziani governativi che avevano saputo anzitempo di quello sbarco. Aveva trent’anni, Silvio Mastio apostolo del patriottismo mazziniano e garibaldino riassunto nella formula di universalità, o di umanesimo universale, secondo cui appunto “ogni patria è la mia patria”, lontano da ogni lettura del patriottismo come pulsione nazionalista e imperialista. Al contrario. Trentenne il cagliaritano Silvio Mastio, come trent’anni aveva il sassarese Efisio Tola, fucilato a Chambery nel 1833 perché scoperto aderente alla Giovane Italia. Giusto un anno prima della fondazione della Giovane Europa che portava quale suo simbolo la foglia dell’Edera, con le sue tre parti riferite appunto alle genti neolatine, anglosassoni e slave rappresentate dalla Giovane Italia, dalla Giovane Germania e dalla Giovane Polonia.


A dir di patriottismo e di neutralismo

Questo breve passaggio mi porta a raccogliere dagli interventi di stamattina un’altra battuta riferita al dichiarato e apprezzato neutralismo di Lina Merlin, in linea con il socialismo italiano del tempo – eccezione fu Mussolini direttore dell’“Avanti!”, e da allora allontanatosi dal socialismo nazionale – relativamente alla dibattuta partecipazione dell’Italia alla grande guerra. Un’opzione pacifista, quella del Partito Socialista, nella logica per cui non poteva chiedersi all’operaio italiano mascherato nella divisa militare si sparare all’operaio austriaco o tedesco anch’esso mascherato in una diversa divisa militare. Il dogma della neutralità fu sostenuto in Italia dal socialismo, così come, invero, da larga parte del movimento cattolico e dello stesso giolittismo liberale. Ma dico dei socialisti: era socialista, di cultura italiana e però di cittadinanza austriaca – e tale era anche il cattolico Alcide De Gasperi – Cesare Battisti, che venne da noi, a Sassari e a Cagliari, nel dicembre 1914, cinque mesi prima dell’entrata effettiva in guerra dell’Italia, infiammando le folle. Egli sosteneva i diritti dell’irredentismo, cioè degli italiani costretti dal governo imperiale austro-ungarico a soggiacere alle leggi di Vienna subendo sempre, come era capitato agli universitari di lingua italiana di Innsbruck, le repressioni violente operate dalla polizia imperiale ma in quel caso raccogliendo la solidarietà degli universitari di tutt’Italia, anche di Cagliari e di Sassari, che conoscevano il sacrificio di Guglielmo Oberdan, impiccato 24enne a Trieste nel 1882, e celebrato ogni anno il 20 dicembre, data anniversaria, anche a Cagliari e a Sassari.

Ricordo questo perché, ammirando noi tutti la figura di Lina Merlin, non semplifichiamo troppo misconoscendo le ragioni che portarono altri – quelli dell’interventismo democratico, non dell’interventismo nazionalista, e nell’interventismo democratico ricomprendo anche Bastianina Martini sassarese – a sostenere le ragioni, purtroppo, purtroppissimo, della guerra tragica che significava però anche il riscatto degli italiani dalle prigioni di Francesco Giuseppe e la emancipazione finalmente dell’Italia dalla Triplice Alleanza che ci aveva imprigionati da tre decenni e più.

Detto questo, svolgerò la mia relazione a braccio, anche per rispettare i tempi brevi assegnatimi, lasciando alla pubblicazione degli Atti il testo scritto.

Qui anticipo soltanto che dovendo riunire i profili di cinque donne antifasciste sarde coeve di Lina Merlin, ho teso ad associare fra di loro quelle figure seguendo un dato territoriale, che è obiettivo, ed uno ideale, o ideale-politico che a me sembra ampiamente documentabile ma che forse legittimamente taluno potrebbe non condividere allo stesso mio modo.


Sassari e Nuoro, repubblicanesimo e sardismo

Quello territoriale combina Sassari con Nuoro: perché Nuoro con le Barbagie costituiva dal 1859 (cioè dalla vigilia della unità d’Italia) un circondario della provincia di Sassari: i rapporti dunque di Nuoro e del suo territorio con Sassari erano assai significativi, vuoi per la frequenza, da parte di molti suoi giovani, o del liceo Azuni o della scuola Normale (anche Mariangela Maccioni studiò a Sassari, ne scrive nel suo romanzo autobiografico), o anche dell’Università – era il tempo di Sebastiano Satta e anche di Salvatore Satta, entrambi liceali a Sassari e laureati a Sassari, ricordo in particolare Salvatore con una tesi che aveva per relatore il sassaresissimo repubblicano professore Lorenzo Mossa, una cui sorella era stata compagna di classe di Mariangela alla Normale; era il tempo di affermazione de “La Nuova Sardegna” che, oltre al Sassarese, ben poteva radicarsi con privilegio rispetto alla concorrenza cagliaritana a Nuoro, ecc. – ed era il tempo in cui anche dai mandamenti elettorali del Nuorese – vedi Orani con Bardilio Delitala repubblicanissimo, il padre di Mario il grande pittore del nostro Novecento, ed era l’Orani di Mariannedda Bussalai allora fanciulla in formazione – si eleggevano i consiglieri della Provincia di Sassari. Ma sarebbe facile trovare, anche nel campo dell’arte – metti un Ciusa o un Ballero – o della pubblicistica – metti un Attilio Deffenu – un rapporto preferenziale e direi naturale fra Nuoro e Sassari nel primo Novecento.

L’altro dato d’ordine ideale, o ideale-politico, che collega Nuoro a Sassari e Sassari a Nuoro, dunque le mie Bastianina Martini e Ines Berlinguer a Mariangela Maccioni, Graziella Sechi e Marianna Bussalai, che sono mie ma ancora di più vostre, e viceversa – è l’humus democratico repubblicano da cui deriva il primo sardismo: basterebbe leggere “La Voce dei Combattenti” o “Il Solco”, negli anni fra il 1919 ed il 1925 per trovare in quelle pagine centinaia di trafiletti mazziniani, cattaneani, asproniani, tuveriani, fra comunalismo e regionalismo, meridionalismo ecc. Garibaldi cittadino onorario di Sassari (oltreché di Cagliari), e la stampa garibaldina, le fratellanze operaie del postrisorgimento, l’Unione Popolare alla Frumentaria tutto fu ambiente che accompagnò anche il primo sardismo postbellico: ci si ricordi l’intervista di Emilio Lussu raccolta da Cesare Pintus e pubblicata sulla prima pagina de “La Voce Repubblicana” nel 1924, alla vigilia delle elezioni svoltesi all’insegna del supermaggioritario Acerbo e anche dell’assassinio di Matteotti, si pensi al movimento di Giustizia e Libertà che coinvolse insieme, anche negli arresti isolani e continentali, sardisti e repubblicani, e si pensi poi al governo Parri, di Parri repubblicano-azionista e i suoi rapporti con il Partito Sardo d’Azione, con Pietro Mastino sottosegretario al Tesoro con delega agli interventi per i danni di guerra…

Dunque fra le due militanti repubblicane sassaresi e le tre sardiste (infine sardo-socialiste) nuoresi correva, e non poteva non correre, un flusso di idealità condivise sviluppatesi nel tempo. E, si ricordi anche questo, i riferimenti maggiori, a Nuoro, riguardo all’antifascismo democratico, cioè non di classe, riuniva sardisti come Mastino o Luigi Oggiano, democratico antiprotezionista il primo in gioventù, mazziniano il secondo tale professatosi in gioventù e anche in vecchiaia, e repubblicani come Gonario Pinna ed Efisio Caria. Ad essi faceva riferimento Mariangela Maccioni, secondo i rapporti dell’OVRA.

Ma tutto questo era in breve premessa ai cenni biografici, che ora proporrò, di Bastianina Martini, Ines Berlinguer, Mariangela Maccioni, Graziella Sechi e Marianna Bussalai.


Coscienza sarda e democrazia italiana

Sono sane e sante suggestioni quelle che sempre s’accompagnano alla riflessione in generale sulla partecipazione femminile alla vita pubblica e sul protagonismo delle donne in numerose scene capitali della storia non soltanto locale né soltanto nazionale: ciò perché alle donne di decenni fortunatamente ormai lontani fu imposta una dolorosa condizione di minorità sociale che tendeva a rinchiuderle nel recinto del privato familiare, al massimo sdoganandole nei ruoli dell’insegnamento inferiore e in certe funzioni ausiliarie della sanità o ancora, qua e là, nel lavoro operaio od agricolo, negando loro ogni diritto di piena cittadinanza, a cominciare da quello elettorale attivo e passivo.

Indotti dalla vicenda di vita, e dalla testimonianza politica giustamente e finalmente riproposta, di Lina Merlin, socialista confinata in Sardegna – fra Dorgali, Orune e Nuoro – dal regime di dittatura nel triennio circa 1926- 1929, il pensiero nostro di sardi si può volgere dunque oggi, non soltanto con l’occhio algido dell’analista, ma con un sentimento di ammirazione e gratitudine morale, alle donne che, pur menomate della pienezza della cittadinanza, furono combattenti per il riscatto democratico della patria: tali furono nel risorgimento nazionale e così furono nell’antifascismo e nella resistenza non a caso chiamata “secondo risorgimento”.

L’Ottocento aveva visto fiorire un certo numero di guerriere in armi – si pensi alla gloriosa Repubblica romana –, di militanti umanitarie e di testimoni delle campagne emancipazioniste che nel mazzinianesimo trovarono l’humus ideale per l’affermazione di una società di uguali nella libertà. Il diritto elettorale doveva essere allora strumento e prova di una uguaglianza civile e giuridica, sicché non mancò il contributo femminile – di fonte cioè così deprivata – a quelle scuole spontanee di base che, anche in Sardegna, in specie nel nostro Sassarese, nel passaggio di secolo, puntavano ad alfabetizzare i tanti braccianti che a fine giornata, lasciata la zappa, dovevano prendere in mano la penna – una penna più pesante della zappa, confessarono tutti – perché soltanto l’esame riuscito del biennio elementare consentiva loro l’accesso all’urna del voto.

Ancora per quasi mezzo secolo, ancora nella stagione giolittiana e quanto più in quella della dittatura (e qui con doppia malvagia ragione), le donne furono escluse dal voto, e dunque appare ancor più ricco di significato l’impegno femminile, civile e democratico, non soltanto sociale, contro il fascismo, data la sua piena gratuità e dunque generosità, ma data anche la consapevolezza che soltanto un ordinamento libero e avanzato, e direi repubblicano, avrebbe assicurato il pieno riconoscimento dello status di cittadinanza a quella metà di popolazione che i diffusi ritardi culturali, nazionali e locali, escludevano da sempre dai luoghi della responsabilità pubblica.  

È all’interno di questa contezza e di queste suggestioni che ho individuato, nel novero delle combattenti antifasciste, alcune figure che in Sardegna seppero associare ai valori di emancipazione della loro terra quelli universali della libertà e della giustizia sociale in essi includendo, e non facendone né accessorio né soltanto formale postulato, la promozione femminile. Taluna di esse – mi riferisco a chi la vita familiare aveva portato a una residenza sul continente – non s’era negata dal tessere qualche metro, o qualche chilometro, di trama partigiana, talaltra costretta nel chiuso materiale dell’Isola e della provincia aveva partecipato nel tempo, a costo anche dell’arresto e della prigione, alla segreta battaglia di opposizione.

La prima suggestione che risalta fondendo ragione e sentimento è l’assoluta gratuità oblativa di una presenza, nonostante l’elettorato negato. Così l’elettorato attivo come, ancor più, quello passivo. V’era stata quella certa norma della costituzione della Repubblica romana del 1849, a collegare l’elettorato pieno allo status di cittadinanza, quando la cittadinanza era riconosciuta paritaria fra uomo e donna, ma troppo presto le armi francesi avevano demolito tutto (e dopo la morte di Mameli costringendo Garibaldi a salvarsi senza poter salvare Anita nel riparo verso Venezia), restituendo la futura capitale d’Italia alla teocrazia di Pio IX. Quella stessa teocrazia che avrebbe sparato su Giuditta Tavani Arquati congiurata garibaldina nel ‘67 – stagione di Monterotondo e Mentana – uccidendo lei incinta, con il giovane marito e il primo dei figli.

Sicché le donne combattenti nella resistenza al nemico nazista e fascista, fra il 1943 ed il 1945, e quelle che già prima, anche nelle periferie sarde, avevano onorato il loro patto di coscienza con la democrazia – sardiste e repubblicane nella ideale sorellanza con la confinata socialista – affermavano, testimoniandoli, i valori che la dittatura aveva conculcato: valori i quali erano propri di una scuola di pensiero che rimandava al risorgimento ed al post-risorgimento, al femminismo suffragista e sociale che era stato di Anna Maria Mozzoni, di Jessie White Mario, di Anna Kuliscioff,per dire soltanto tre dei cento nomi possibili i più esposti nella vita pubblica nazionale, richiamandosi taluna al mazzinianesimo talaltra al primo socialismo.

Ricorderò in questa breve ricognizione alcune donne sarde dell’area democratica – cioè della sinistra non comunista – più attive, ciascuna a suo modo, nella partecipazione agli sforzi di riscatto collettivo, cinque personalità a me particolarmente care e cui, nel tempo, ho dedicato molto studio e svariate pubblicazioni: l’oranese Marianna Bussalai, le nuoresi Mariangela Maccioni e Graziella Sechi, le sassaresi Bastianina Martini ed Ines Berlinguer.

Chi di loro fece famiglia associò al proprio il cognome del compagno che non fu tale soltanto nella più naturale delle affezioni personali, ma anche negli ideali politici ampiamente condivisi: la Maccioni quello di Raffaello Marchi, la Sechi quello di Dino Giacobbe, la Martini quello di Domenico Musu, la Berlinguer quello di Stefano Siglienti. E ciascuno di loro conquistò un posto chiaro, grande o piccolo non importa, nella comune ed epocale battaglia.

Conobbero il carcere la Maccioni e la Sechi, non si risparmiarono nella perigliosa resistenza romana la Martini (che il governo Parri volle portare alla Consulta Nazionale) e la Berlinguer (che protesse i resistenti clandestini e sventò, nella capitale, le retate nazi-fasciste in danno dei compagni azionisti, architettando e realizzando anche l’evasione da un campo di prigionia dei burgundi suo marito esponente di Giustizia e Libertà e chiamato poi, col primo governo di CLN, alla responsabilità di ministro delle Finanze).

Marianna la poetessa lussiana dei “battor moros”, e mittente di uno dei documenti più rilevanti, a mio parere, delle difficoltà di reciproco buon vicinato che alcune forze politiche scontarono alla vigilia della Costituente, pagò alla malattia ogni suo sforzo, cadendo nel 1947, di poco anticipata da Bastianina che alla prima seduta della Consulta, a Montecitorio, nei banchi dei repubblicani azionisti, non poté partecipare, sconfitta dal tumore che l’aveva oppressa anche nei più duri passaggi dell’impegno di appoggio alla guerra di liberazione.

Ci s’accosta alla umanità di queste campionesse alle quali dobbiamo, anche a loro dobbiamo per la semina della testimonianza, la nostra libertà, con un sentimento che certamente è di “riconoscenza”, ma che per non esaurirsi nel generico, deve anche essere, ed essere prima di tutto, di “conoscenza”. Ed ho piacere speciale – ora che siamo usciti dal conformismo delle frasi fatte e confezionate perfino presso le cattedre universitarie, secondo cui l’antifascismo e la resistenza s’identificavano pressoché globalmente con l’azione dei comunisti (dei quali evidentemente non può negarsi il rilevantissimo contributo, ma che idealmente si riferivano al mito sovietico e al pugno di Stalin così alieno dalla prevalente sensibilità democratica dell’occidente e nostro) – di affiancare al nome della riformista Lina Merlin già sodale di Matteotti e Turati – quello di alcune repubblicane e sardiste che rimandavano le proprie idealità, in via diretta o indiretta, alla scuola risorgimentale che fu di Mazzini e Cattaneo, di Giorgio Asproni e Giovanni Battista Tuveri, direi anche di Efisio Tola e di Gavino Soro Pirino il suo concittadino che tanto impegno produsse per affermare le fratellanze operaie nella Sardegna del XIX secolo.

Di Lina Merlin classe 1887 le Nostre furono, anagraficamente, come delle sorelle minori ma pur tutte della stessa generazione: Mariangela del 1891 e Bastianina del ‘92, Ines del ‘99, Graziella del 1901, Marianna del 1904. Sono questi gli stessi anni di nascita – per dire soltanto di qualcuno che riporta alla stessa scuola politica – di Francesco Fancello (1884), di Emilio Lussu (1890), di Michele Saba (tre volte incarcerato) e Mario Berlinguer (1891), di Dino Giacobbe (1896), di Fanuccio Siglienti e Gonario Pinna (1898), di Cesare Pintus e Silvio Mastio (1901), di Titino Melis (1904)…

La linea che seguirò in questa mia comunicazione sarà quella dell’accostamento fra loro di militanze ideali in capo a scuole politiche di minoranza sardo-repubblicana – ché il socialismo riformista, quello di Matteotti e Turati, ben si compendia ed è santamente celebrato nella grande figura di Lina Merlin – e, di lato, sarà quella che, diciamo diacronicamente e secondo l’insegnamento offertoci mille volte da Carlo Azeglio Ciampi negli anni della sua indimenticata presidenza della Repubblica, sviluppa i percorsi che partono dal risorgimento e, passando per la grande guerra, arrivano all’antifascismo e alla guerra partigiana. Di cui tanto è in Sassari con Bastianina e con Ines e, con varie mediazioni, è in Barbagia, sol che pensiamo, con Graziella e Mariangela, alla Nuoro di Giorgio Asproni e, con Marianna, alla Orani di Bardilio Delitala Satta ed alle pagine sequestratissime della sua “La Giovine Sardegna”. Di quel giornale cioè che si disse Giuseppe Mazzini tenesse fra le mani quando morì clandestino in quel di Pisa, di quel numero che conteneva un articolo di Edoarda Berlinguer che con sua sorella Caterina, negli anni ‘60-80 dell’Ottocento, aveva aperto una strada all’emancipazionismo politico femminile in Sardegna.

Aggiungo che una tale esposizione – intendo ora quella del gemellaggio territoriale fra Sassarese e Barbagia – mi parrebbe giustificata anche dalla inclusione, fin dagli anni della riforma Rattazzi e fino al 1927, del circondario di Nuoro nella Provincia di Sassari, la seconda dell’Isola: il che, nella lunga stagione di passaggio di secolo, nella stagione di Sebastiano Satta e di Francesco Ciusa e anche di Attilio Deffenu, motivava una prossimità di molte cause, e certamente vi figuravano quelle della scuola secondaria e dell’università… Troveremo anche Mariangela studentessa a Sassari, amica di Iole Berlinguer, di Pina Talu, di Anita Mossa, insomma di coetanee discendenti delle famiglie repubblicane del capoluogo turritano…

Fonte: Gianfranco Murtas
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