L’indimenticabile sindaco di un’epoca indimenticabile. Cento anni fa la morte di Ottone Bacaredda
di Gianfranco Murtas
Fu il titolo del lungo articolo che il sindaco di Cagliari Pietro Leo pubblicò su L’Unione Sarda a direzione Crivelli, il 5 febbraio 1956: “L’indimenticabile sindaco di un’epoca indimenticabile”. Lo ripropongo oggi io anche in onore di quel benemerito lontano successore e ammiratore del mitico Bacaredda, oggi che del mitico Bacaredda celebriamo il centenario della morte. Evento che sopravvenne nel giorno di Santo Stefano, incuneatosi, estraneo, nelle atmosfere del Natale, a tre anni appena dalla fine della grande guerra e mentre Cagliari soffriva delle ancora incomposte risoluzioni ai mille problemi postbellici: dal carovita alla penuria degli alloggi, alla disoccupazione aggravata dalla smobilitazione militare, nella elaborazione anche e ancora dei trecento lutti cittadini.
«I suoi funerali furono veramente imponenti per concorso di popolo: quando la bara circondata da un folto gruppo di studenti universitari sboccò dalla Via S. Giovanni in Viale Regina Elena la folla qui radunata faceva spavento: mai più ho visto un tale spettacolo: tutta la città aveva voluto salutare il suo Sindaco. Io che seguivo la bara non potei fare a meno di pensare allora quanta verità vi fosse nel pensiero dettato da Bovio per una lapide collocata nell’atrio dell’Università: “La giustizia postuma è rimorso”.
«Un giorno mentre visitavo gli uffici delle Imposte di Consumo, la mia attenzione fu irresistibilmente attirata da un tavolo lasciato in un angolo, in deplorevoli condizioni ma che pur rivelava una linea di nobiltà e di decoro. Lo feci trasportare al Palazzo Comunale per farlo restaurare: un vecchio impiegato appena lo vide esclamò: ma questo è il tavolo di lavoro di Bacaredda!
«Lo feci collocare nel mio ufficio, nella parete davanti al mio tavolo, rimane così sempre davanti ai miei occhi a ricordo, ad ammonimento, a conforto. Sic transit gloria mundi».
La stessa Unione Sarda, il 29 dicembre 1921, nella dettagliatissima cronaca dei funerali svoltisi nel pomeriggio del giorno precedente, aveva scritto: «Alle 14 già lungo tutto l’itinerario che il corteo seguì, la folla era enorme. Il terrapieno, il Bastione, la Passeggiata Coperta, le scalee della Pass. Coperta, tutte le finestre dei palazzi siti in Piazza Costituzione, quelle della lunghissima Via S. Giovanni erano letteralmente e paurosamente gremite di gente… crediamo di non andare errati affermando che la folla che stazionava nei migliori punti di vista, ascendono alle dieci o dodici mila persone… Alle 15 precise gli studenti universitari sollevano la pesante e bellissima cassa… Il corteo si muove… Più in là l’eco delle trombe e le preci dei sacerdoti. Ancora più in là le vergini preghiere degli innumerevoli bimbi, delle bimbe, e dei vecchi che l’Estinto col suo spirito umanamente e profondamente buono, aveva beneficato… Il corteo impiega due ore per arrivare al Camposanto… Il rombo secco dell’aeroplano che gitta l’ultimo fiore allo Scomparso si dilegua rapidissimo».
Immaginiamo d’esser presenti anche noi fra la folla ai lati della strada e nel seguito del carro. Un film emozionante, sequenza dopo sequenza. Emozionante ancora dopo cento anni. E meriterà ritornare in argomento, recuperare dalla cronaca questo o quel particolare – la prima tumulazione non lontana dal colombario in cui, nel 1910, fu sepolta la madre Efisia Poma e da quello che già prima, nel 1894, aveva accolto il padre Efisio (nella parte inferiore dei gradoni Cima, oggi non transitabili a causa di vari smottamenti) – e recuperare anche le promesse o gli annunci mancati circa una più solenne custodia («… Ma da indiscrezioni subito raccolte, possiamo assicurare i lettori che il nostro Comune, traverso la sua rappresentanza, provvederà all’erezione d’una Cappella in cui troverà più degno riposo la salma del diletto figlio di Cagliari»).
Immaginiamo d’esser presenti alla scena descritta da Pietro Leo, anche da lui, fra piazza Marghinotti e palazzo Valdès, e di poter un giorno riammirare la scrivania di Ottone Bacaredda. Immagino d’esser anch’io, giusto lì, in quel punto preciso, fra quelli in affaccio dalla balaustra bianca della terrazza Umberto I, la terrazza del nostro Bastione. E per associazione di… luoghi ripenso al bastione di Saint Remy in altre due circostanze – direi circostanze pubbliche, rivelate dalla letteratura – nello stesso 1921. Non m’interessa oggi ripensare al raduno popolare e al comizio delle opposizioni nel maggio 1906 – il nostro “maggio rosso”, quando il municipio (accusato di non aver saputo regolare il calmiere dei prezzi) era ancora a Castello. No, penso alla terrazza del Bastione in quell’A.D. 1921 che s’era aperto, nel giorno dell’epifania, con la visita cagliaritana di David H. Lawrence e quasi concluso con un’altra visita, a fine ottobre: quella di monsignor Angelo Giuseppe Roncalli, il futuro papa Giovanni XXIII.
1921, la spianata del bastione passeggiata da Lawrence…
«Ed ecco, d'improvviso, Cagliari: una città nuda che sorge ripida, ripida e dorata, ammucchiata nuda dalla pianura verso il cielo, al vertice della vuota insenatura informe. E’ strana e un po' incantata, non ha nulla di italiano. La città si ammucchia alta e nobile e quasi in miniatura, e mi fa pensare a Gerusalemme: senza alberi, senza riparo, sorge così un po' nuda e fiera, remota come nel passato della storia, come la città di un messale monastico miniato…. E’ una città ripida e solitaria; senz'alberi, come in un'antica alluminatura. Ma ha, anche, qualcosa del gioiello: un nudo gioiello d'ambra che si apre improvviso, a rosa, nel profondo dell'ampia insenatura. L'aria soffia fredda e pungente, il cielo è tutto grumi...
«Il solito lungomare con alberi scuri sulla passeggiata e, dietro, imponenti edifici, non rosa e allegri, qui, ma più reticenti, più severi, di pietra gialla. Il porto è un piccolo bacino d'acqua nel quale scivoliamo cauti, mentre tre chiatte cariche di sale bianco come la neve strisciano intorno da sinistra, tirate da un minuscolo rimorchiatore. Nel bacino ci sono soltanto altre due navi abbandonate…
«Passiamo dalla Dogana, poi dal Dazio. Infine siamo liberi. Ci avviamo per un'ampia, ripida strada nuova fiancheggiata da alberelli. Ma è di pietra, arida, ampia pietra nuova, giallastra sotto il cielo freddo... e come abbandonata. Benché, naturalmente, vi sia gente in giro. Il vento del nord soffia, pungente. Ci arrampichiamo su per un'ampia gradinata, salendo sempre, su per l'ampio ed erto viale desolato con accenni d'alberi. Cerchiamo l'albergo e siamo morti di fame. Finalmente lo troviamo, l'Albergo Scala di Ferro: e in fondo a un cortile con alberi verdi…
«Dopo un ottimo pasto uscimmo a vedere la città. Erano passate le tre e tutto era chiuso come di domenica in Inghilterra. Fredda Cagliari di pietra d'estate devi essere infocata come un forno, Cagliari. Gli uomini se ne stavano intorno a gruppi, ma senza la sfacciata attenzione degli italiani che perseguita ogni passante.
«Strana Cagliari di pietra. Ci arrampicammo per una strada che pareva una scala a chiocciola Leggemmo manifesti che annunciavano un ballo in maschera per bambini. Cagliari è molto ripida. A metà salita c'è uno strano posto che chiamano i bastioni: un'ampia spianata come una piazza d'armi alberata, stranamente sospesa sulla città, da cui parte una specie di viadotto, lungo e ampio, il quale passa sopra la scala a chiocciola che monta ripida. Sopra questo bastione la città sale ancora, erta, fino alla Cattedrale e al forte. La cosa curiosa è che questa terrazza, o bastione, è così vasta, come un enorme campo da gioco, da essere quasi desolata, e non si riesce a capire perché sia così sospesa a mezz'aria. Giù in basso c'è il piccolo cerchio del porto. A sinistra una bassa piana marina dall'aria malarica, con ciuffi di palme e case d'aspetto arabo. Di lì parte la lunga striscia di terra verso il forte bianco e nero, e la strada bianca prosegue. A destra, curiosissima, una lunga, strana striscia di sabbia attraversa, come un terrapieno, la parte meno profonda dell'insenatura, con il mare aperto da un lato e dall'altro ampie lagune che sembrano la fine del mondo. Dietro, s'innalzano irte, scure montagne, così come oltre l'ampia insenatura sorgono malinconiche colline. E’ uno strano, strano paesaggio: come se qui finisse il mondo».
Ancora: «Dalla terrazza proprio sotto la fortezza, sopra la città, non dietro, ci fermiamo a guardare il tramonto. E' terribile questo tramonto che si svolge dietro gli aggrovigliati monti dal profilo serpentino che sorgono, azzurri e vellutati, oltre le ampie lagune. Scuro, opprimente, cremisi-carico, è l'occidente, sinistro così solcato da barriere e banchi di fosche nuvole azzurre. Tutto dietro le vette fosco-azzurre si stende il sipario rosso-acceso, sinistro, fino al mare. Sotto, profonde, si aprono le lagune marine…». Il Bastione e i bastioni. E giù altre descrizioni, come quelle che già altri visitatori stranieri o italiani della penisola hanno fissato sulla carta e altri non mancheranno di porgere ai loro lettori del continente.
… e da un futuro papa
La terrazza attraversata da monsignor Roncalli, accompagnato dall’arcivescovo Piovella – suo corregionale lombardo – il 29 ottobre di quel 1921. Di passaggio fra la cattedrale e il santuario di Nostra Signora di Bonaria dove deve dire messa e lasciare un appunto autografo per la storia. Ripensa a quell’attraversata: «Anzitutto, il ricordo di Cagliari, come è ancora nei miei occhi e nei sentimenti del mio cuore. Rammento di essere andato discendendo dalla collina, perché la Cattedrale sta su, in alto; verso sera, credo, mi venne indicata una Chiesa, alla memoria di San Lucifero cagliaritano. Guarda un po' che nome, che contraddizione! Quello che fu dato a una stella che prevaricò, è restato invece come uno splendore per un gran Santo...».
Il 9 luglio 1960, ricevendo una folta delegazione di chierici diocesani accompagnati dal nuovo arcivescovo Paolo Botto e da diverse autorità regionali, il pontefice ritorna con la memoria a quasi quarant’anni prima, a quella passeggiata fra la città alta e quella a valle, per la risalita finale sul colle di Bonaria.
Direi che è una suggestione, soltanto una suggestione questa immagine del Bastione che il sindaco Bacaredda e gli uffici tecnici del Comune da lui amministrato avevano realizzato ricomponendo fra loro quei secolari manufatti militari che erano serviti, lungo i secoli, per la difesa di Castello-Callari e che ora potevano divenire un luogo di collegamento fra le parti dislivellate della città, luogo simbolico della unità cittadina, mentre il municipio scendeva esso a valle, collocandosi di fronte al porto, polmone economico della Cagliari moderna.
Ho cercato di preparare ed accompagnare il centenario bacareddiano con alcuni articoli usciti su L’Unione Sarda nei mesi scorsi e, su Giornalia.com, richiamando alcune pagine mie stesse che al grande sindaco avevo dedicato negli anni tanto più in diversi libri (così dalla fine degli anni ’80: si pensi a L’Edera sui bastioni. I repubblicani a Cagliari nell’età di Bacaredda oppure a Cagliari 1889. Chiesa, politica, società all’esordio dell’Unione Sarda, e naturalmente anche in numerosi altri lavori fra libri e riviste come Sardegna Economica).
Qui appresso richiamo soltanto i brevi interventi apparsi sul quotidiano che sorse cocchiano ed avversario di Bacaredda e, dopo i moti del 1906 e nel quadro delle riconquistate armonie interne alla galassia liberale, del sindaco e leader civico divenne invece convinto sostenitore.
Bacaredda, Lussu e il futuro Papa (28 luglio 1921)
Ce la possiamo immaginare la Cagliari di cento anni fa, dopo la fine della grande guerra costata la vita a 298 dei suoi, i cui nomi sarebbero stati riportati in due bande marmoree nella basilica mercedaria allora ancora cantiere. A dicembre il censimento della popolazione quantificò in 65.666 i suoi abitanti che, valicando i confini dei quattro quartieri storici, iniziavano a prender casa, come a raggera, verso San Benedetto, la piana di Bonaria ed oltre il Corso in direzione di Sant’Avendrace e quindi di Is Mirrionis. All’indomani di quel Natale tutti avrebbero pianto il sindaco Ottone Bacaredda, spentosi alla fine di un anno della sua amministrazione rilanciata nell’autunno 1920.
Bisognerà celebrare Bacaredda ora che s’approssima il centenario della sua scomparsa e ricordare alcuni episodi, parimenti centenari, rimasti nel calendario della ripresa postbellica, magari mischiati alle crescenti tensioni sociali per le dimensioni della disoccupazione (aggravatasi con la smobilitazione dei ranghi militari) ed il carovita. Fonti esse stesse di quei turbamenti che sarebbero stati progressivamente anche politici, per lo spazio acquistato dal movimento fascista e le esplosioni di violenza di cui avrebbe presto fatto prova l’assassinio di Efisio Melis militante sardista. La stessa Unione Sarda, con la nuova proprietà di Ferruccio Sorcinelli, dopo un posizionamento in area radicale fra 1920 e 1921, si sarebbe collocata sul fronte di quel fascismo “duro e puro” che il prefetto Gandolfo ed i fasciomori avrebbero sconfitto negli anni seguenti, presentando alla scena pubblica un nuovo ceto dirigente.
Superato lo sbarramento anagrafico, Emilio Lussu trentenne proprio nel 1921 poté essere eletto alla Camera ed avviare la sua carriera politica destinata a molte evoluzioni anche ideologiche, passando dal sardismo al socialismo, soffrendo la cella e il confino e poi l’esilio, le fatiche dei governi di CLN e della Costituente ed infine del Parlamento repubblicano. Esordì da deputato poche settimane dopo che ad Oristano la militanza dell’Associazione Combattenti formalizzò la propria costituzione in partito politico, il PSd’A appunto. Raggiunse Montecitorio con Pietro Mastino, Paolo Orano e Umberto Cao, questi ultimi due successivamente transitati nelle schiere dei governativi in dittatura.
Sembra interessante ricordare che per sostenere la conferma dell’uscente avv. Mauro Angioni, venne in Sardegna il gran maestro della Massoneria Domizio Torrigiani, che alcuni anni dopo si sarebbe trovato ristretto, con Lussu, a Lipari: qui per cinque anni, fino alla perdita della vista e, può dirsi, della vita. Venne a Cagliari e raggiunse poi Sassari e Caprera, il gran maestro: nella sede di via Barcellona celebrò la democrazia massonica che ritornava a Mazzini e Garibaldi, a Bovio e Carducci – tutti effigiati in busti di gesso e pietra fra i Passi Perduti e il Tempio. Da Iglesias e da Oristano gli assicurarono obbedienza elettorale Fratelli di sponda liberale o socialista, uomini che erano… nomi importanti in quelle città. Angioni però non riuscì e alcuni mesi dopo aprì la sequenza delle migrazioni sardiste verso il fascismo.
Pochi mesi dopo, ad ottobre, raggiunse Cagliari, e pure lui anche Sassari, monsignor Angelo G. Roncalli, il futuro Giovanni XXIII, incaricato allora di promuovere, con iniziative di sensibilizzazione, le opere missionarie. Parlò nella chiesa di Sant’Antonio abate della via Manno e colse l’occasione per celebrare con i giovani dell’associazionismo cattolico, il 300° anniversario della traslazione dei resti mortali di San Saturnino. Accompagnato a piedi dall’arcivescovo Piovella attraversò tutta la città passando per le terrazze del Bastione e il viale Regina Margherita, raggiungendo il santuario di Nostra Signora per celebrarvi la messa e firmare il registro degli ospiti.
Ottone Bacaredda tra storia e mito (5 settembre 1921)
Sarà inevitabile, celebrando nelle prossime settimane, il centenario della morte di Ottone Bacaredda portarci dietro quel tanto di mitologico che sul nome del grande sindaco di Cagliari (e per tre anni anche deputato) si è aggrumato. Sarà inevitabile ma, credo, non necessariamente sconveniente, perché la stessa mitologia riflette il sentimento che la città, anche quella parte d’essa che gli era politicamente avversa, ha nutrito per lui e che invero gli stessi funerali del dicembre 1921 – con il tributo largo anche dei socialisti e repubblicani (speculare a quello dei primi fascisti) – rivelarono.
Il mito e il sentimento comunque non soffocheranno né altereranno mai il profilo alto, amministrativo e civile, che il nome stesso di Bacaredda evoca nella rappresentazione di quella Cagliari “en marche” che uscì dall’Ottocento per entrare nel secolo nuovo godendone degli sviluppi sociali e tecnologici – dal primo telefono al primo cinematografo, dai primi cimenti dello sport collettivo (ciclismo e atletica, calcio e nuoto) all’esordio de “gli” automobili a motore nella via Roma – e soffrendone però anche i luttuosi strappi della grande guerra.
Bisognerà ricollocare Bacaredda in quella prima prevalente missione ch’egli si diede, a un quarto di secolo dalla dismissione di Cagliari da piazzaforte militare: fare dei quattro quartieri richiamati oltre mezzo millennio prima da Fazio degli Uberti nel suo Dittamondo e rappresentati graficamente da Sigismondo Arquer alla metà del Cinquecento nella famosa Cosmographia del Munster, una città unitaria, che pur non umiliasse gli antichi orgogli di quartiere. L’imponente scalinata – per salire e per scendere – dalla piazza Costituzione alla terrazza Umberto I dei bastioni unificati significava questo e fu un passo decisivo per ogni successivo piano urbanistico, per individuare poi le zone di espansione, fra San Benedetto e Is Stelladas e Bonaria o, all’opposto, verso Sant’Avendrace e Is Mirrionis.
Una simbologia della storia incalzante la trovavi anche nel municipio che dal concerto con la cattedrale e il Viceregio scendeva a valle, in area portuale, non soltanto per valorizzare nella via Roma (porticata) la prima direttrice dello sviluppo viario già pensato dal Todde Deplano, ma per affermare che i comandi amministrativi non potevano disgiungersi da quelli economici presenti, in una città di mare, negli scagni e nei traffici fra moli e banchine. Tanto più il porto diventava, dopo l’abbattimento delle mura, la porta della Sardegna intera, porta d’accoglienza e porta di collegamento con l’universo mondo: non soltanto per l’economia ma anche per il costume. Quel municipio significava anche il riconoscimento della funzione sociale – economica e quindi anche amministrativa – della borghesia mercantile, in definitivo ricambio del ceto patrizio (tardo feudale) castellano.
Se ne potrà dire, così come dell’originaria inimicizia con Cocco Ortu, risolta soltanto dopo i moti del 1906 (quando la borghesia liberale si compattò per tema dei socialisti) ed anche del complesso rapporto di Bacaredda con la Chiesa degli arcivescovi di lungo pastorato, fra Berchialla, Serci-Serra e Balestra e di un clero numeroso e… combattente, ancora ostile allo Stato liberale che era allora quello di Crispi e poi di Zanardelli e Giolitti. E così sarà interessante ritornare al Bacaredda giovane (cronista del goliardico A Vent’anni) che aveva celebrato Porta Pia, nel 1870, spedendo due telegrammi: uno a Mazzini recluso a Gaeta, l’altro a Garibaldi in domicilio coatto a Caprera. L’Apostolo non ebbe forse mai il messaggio, mentre al mittente tornò indietro quello indirizzato al Generale con rimborso della tariffa, allora destinata dal prossimo sindaco ai feriti del 20 settembre.
Bacaredda nell’immaginario (22 settembre 1921)
Nel nostro immaginario di cagliaritani la figura di Ottone Bacaredda, di cui è imminente il centenario della morte, si pone come un indistinto modernizzatore ferito soltanto, né fu poca cosa, dai moti popolari del 1906 contro il carovita che il sindaco non avrebbe saputo prevenire né fronteggiare. Si tratta di una vulgata inevitabile perché, dovendosi andare per sintesi, del trentennio nel quale si dipana quella leadership civica si colgono in positivo gli elementi della tendenza generale ma anche le contraddizioni, pagate dai ceti umili della popolazione, delle scelte politiche che, ai piani di costruzione delle case operaie, avevano preferito gli onerosi investimenti per i bastioni e il municipio.
Naturalmente tutto è più complesso di come si rappresenta. Dell’intero ciclo gli anni di effettiva presenza del Nostro in giunta furono poco più della metà, seppur sia anche vero che le sindacature “di collegamento” – quelle di Picinelli e Marcello, in parte anche di Nobilioni – e altresì i commissariati prefettizi venuti a supplire a consigli e giunte dimissionari rispondevano essi pure agli indirizzi amministrativi impostati fin dall’origine.
II partito della “casa nuova” che portò Ottone Bacaredda dalla sedia di presidente dell’Ospedale civile a quella di sindaco fu la risposta ai seguaci di Cocco Ortu (che il Comune governavano da molti anni) cui si imputava una certa connivenza con i responsabili del crollo bancario del 1887. Fu l’agonia civica identificata con le amministrazioni Ravot e Orrù, speculari ai primi trionfi ministeriali di Cocco Ortu esordiente sottosegretario di Stato.
Consigliere e assessore comunale lui stesso da qualche anno, Bacaredda esordì da sindaco alla fine del 1889 e con la sua squadra godette, giusto alla fine del suo primo mandato, della fortuna di poter spendere una montagna di soldi (tre milioni e mezzo di lire, pur non giunti tutti in una volta) per la vittoria di una trentennale causa che aveva opposto il Comune all’Erario circa alcuni diritti tributari rivendicati da ambe le parti. Quei fondi furono massivamente volti alle grandi infrastrutture che dovevano ammodernare la città ma anche dar lavoro al ceto operaio cittadino che soffriva la doppia concorrenza della mano d’opera dell’hinterland e dei “forzati” di San Bartolomeo (a minor costo). Non solo bastioni e municipio, però, anche scuole nei quartieri (dal Satta a Santa Caterina, in vista il Riva di Villanova) e chiaviche e strade.
Nel 1900 Bacaredda si illuse di poter sostenere gli interessi di Cagliari da deputato, candidandosi con i ministeriali di Pelloux (ma votando poi i più avanzati governi Saracco e Zanardelli). La cosa non funzionò e dopo tre anni si dimise da Montecitorio. Rimasto comunque in giunta, a Cagliari, da assessore di Picinelli, si ripresentò nel 1905 e per un anno – fino alla rivolta popolare, anticipata da un crescente malumore anche di certa piccola borghesia impiegatizia e di lavoratori autonomi – governò la cosa pubblica nuovamente da sindaco. Eletto e rieletto ancora nel 1907 non accettò di tornare in partita se non per pochi mesi concentrandosi in un processo che lo oppose ad Umberto Cao (l’ “anima nera” della rivolta) conclusosi con una sentenza di condanna per quest’ultimo.
Toccò al sindaco Giovanni Marcello amministrare Cagliari per tre anni, fino al 1910 e procedere alla pubblicizzazione dei servizi acqua-gas e all’avvio delle costruzioni delle case popolari di Campo Carreras. Dal 1911 e per sei anni, marcando il passaggio dal liberalismo alla democrazia e il tratto laico della coalizione, riapparve in scena il prim’attore che avrebbe replicato, per un anno soltanto, a guerra finita: 1920-1921.
I volti meno noti di Bacaredda (17 ottobre 1921)
C’è stato naturalmente un Bacaredda prima… di Bacaredda su cui meno si insiste quando si biografa il grande sindaco. Il Bacaredda semplice assessore, presidente dell’Ospedale civile, professore universitario, avvocato, notista collaboratore dei giornali. Più conosciuto è il novelliere e il poeta (e memorialista, a ripensarlo autore di quell’Ottantanove cagliaritano, riflessione ex post sui moti del 1906).
Sarà forse utile, comunque gradevole, vederlo, il grande sindaco, protagonista di queste altre scene. Cagliaritano “integrale”, figlio di un Efisio e di una Efisia (!) e, per di più, nato stampacino, egli ebbe la cattedra universitaria e (fino al 1914) l’ufficio di amministratore civico a Castello ma l’abitazione (con lo studio legale) mobile sempre e soltanto fra tre le “appendici”, in quella città che progressivamente andava attenuando le sue separazioni interne. Da via Angioy si trasferì in via Manno (abitava a sa Costa quando era parlamentare, all’inizio del Novecento), e poi nel viale Regina Margherita ed anche – insistendo sulla Marina (da dove veniva la madre di cognome Poma) – in via Barcellona, e infine in quella via San Giovanni – quasi nell’innesto di Villanova con Is Stelladas – nella quale visse negli anni della grande guerra e dove morì.
Nato nell’anno dello statuto albertino e della “perfetta fusione” amministrativa dell’Isola con il Piemonte fu, come intellettuale, giurista e politico, un liberale che, prima di altri, intuì la necessità storica della evoluzione democratica: il suo discorso al nuovo insediamento sindacale del novembre 1911 fu un inno alla democrazia. Dedicò alla “dottrina della libertà” il corso universitario che tenne nel 1881-82 e ancora si ricorda il suo appoggio ad Ignazio Cogotti – il futuro sindaco di Villacidro e celebrato poeta popolareggiante – che discusse la sua tesi di laurea nel 1894 su Lo stato d’assedio prendendosi i rimbrotti del reazionario giornale diocesano.
Lui s’era laureato nel 1871 ed aveva impegnato gli anni di studio anche nel giornalismo, cofondando il periodico A Vent’anni e collaborando con varie effemeridi ed i quotidiani Il Corriere di Sardegna e L’Avvenire di Sardegna, con puntute analisi politiche ma anche con gustose cronache esplorative di vita cittadina. Di penna rapida e vivace, molto avrebbe scritto anche per il teatro così da esser considerato un commediografo vero e proprio, oltre che tutto il resto…
Seguendo il padre (funzionario delle Finanze e lui esordiente, ma scontento, alle Dogane) a Firenze e Genova non mancò di inviare, piuttosto frequenti, le sue corrispondenze. A Genova sposò una giovane esperta in letteratura russa che, col primogenito Ottorino – poi musicista e prefetto! – portò a Cagliari, al suo definitivo rientro, nel 1875, qui allargando la famiglia con due femmine. Aggregato a Giurisprudenza (La donna di fronte alla legge penale il suo dottorato, Del voto politico della donna la prossima tesi del figlio), ebbe l’incarico di diritto commerciale dal 1882, ed iniziò allora a pubblicare studi giuridici di qualche peso.
Entrò in Consiglio comunale 36enne, e fu presto in giunta (Amministrazione Ravot); dal 1887 – l’anno del terribile crac bancario – fu anche consigliere provinciale nonché presidente dell’Ospedale civile. Sotto la sua gestione il nosocomio arrivò a 140 posti letto ed accolse la prima clinica medica universitaria.
Finalmente si decise per il gran salto municipale all’insegna degli “uomini nuovi”, alternativi all’establishment cocchiano. Lo supportò il giornale La Giovine Sardegna, di cui era firma principale Emanuele Canepa, il fratello minore, e ateo (e garibaldino), di un prossimo vescovo e di un prossimo canonico. A Palazzo di città dal novembre 1889.
Il privato familiare di Ottone Bacaredda
Si potrebbe scrivere una storia del privato di Ottone Bacaredda che forse sarebbe non meno interessante della sua biografia pubblica centrata sulle sue cinque sindacature e la breve e deludente deputazione (1901-1903). Perché se quest’ultima, tanto più con le sindacature – 1889-1900, 1905-1906, 1907 (pochi mesi), 1911-1917, 1920-1921 –, è stata molte volte evocata e anche minuziosamente raccontata, di quella privata si sa quasi nulla: cioè che veniva da Efisio Baccaredda (con le due c, di cui solo lui si sarebbe privato) intendente di finanza e autore di quel magnifico reportage Cagliari ai miei tempi che è come un grandangolo della città dalla “perfetta fusione” ai primi anni ’80 dell’Ottocento; che suo nonno Baccaredda (Gaetano) era un commerciante di larghi traffici Sardegna-Continente già al tempo di Napoleone; che suo bisnonno pure Baccaredda (Agostino) ed il prozio Raffaele erano conciatori del quartiere della Marina prima della… Rivoluzione francese o durante.
Se ne potrebbe dire, delle sue ascendenze e dei collaterali. Lui agnostico ebbe un prozio ed uno zio religiosi: il primo, Antonio, morì nella tempesta colerica del 1854-55 (riferendosi ad Ottone, allora bimbo di cinque anni, aveva consigliato: «Questa cara creatura è piena di grazia e di spirito ma troppo vivo per cui vuole a tempo essere moderato»), un altro, Agostino, pupillo del can. Spano, gli fu sempre vicino anche come parroco collegiato di Sant’Eulalia.
Da parte della madre Efisia Poma ebbe rimbalzi di glorie patriottiche: lo zio Cosimo, due volte decorato con l’argento, cadde a San Martino, nella 2.a guerra d’indipendenza; ma seminò benemerenze militari anche uno dei consuoceri – Francesco Boy (mai conosciuto per la prematura scomparsa) –, tenente dei bersaglieri sullo sfortunato campo di Custoza (3.a guerra d’indipendenza), restando gravemente ferito e menomato. Tanti fotogrammi d’una pellicola associante momenti di vita privata a scene sociali, nazionali addirittura.
Da Gaetano in poi la residenza dei Baccaredda fu in piazza Yenne: qui visse anche il figlio Efisio e nacque il nipote Ottone, qui Ottone tornò dopo quel lustro trascorso fra Firenze e Genova (al seguito del padre promosso a sedi più importanti), quando nel 1876 volle ricominciare nella sua città: adesso con moglie italo-russa (Rosa Rossi nata a Taganrog come anche la madre e la nonna) e primogenito (Efisio Ottorino, prossimo prefetto e provetto musicista). A Stampace crebbero anche Katia (sposata poi con il giudice Tiana) e Antonina (sposata con quel Giovanni Leonardi – dei Leonardi della futura Vinalcool – che l’avrebbe invedovata appena un anno dopo: andata a seconde nozze con il giovane avv. Imperi avendone altra discendenza, sarebbe stata stroncata dalla spagnola nel 1918!). Qui perse Aldo, il quartogenito.
Ai tempi dell’università, a Cagliari, aveva scritto decine e decine di articoli, di costume soprattutto, sui giornali sardi, e aveva proseguito con numerose corrispondenze dal continente: ora però, neppure trentenne padre di famiglia e avvocato esordiente, volle cominciare anche con la carriera universitaria. Gli sarebbe riuscito molto bene, in mix agli impegni in municipio. Concludendola nel 1920-21. Una contestazione degli studenti avverso il rettore gli impedì però di tenere il discorso inaugurale dell’anno accademico – tema La gioia di vivere, quanto mai significativo dopo quattro anni di guerra! – e pochi mesi dopo dovette arrendersi a una cancrena che gli costò l’amputazione di una gamba.
I funerali, tre giorni dopo il Natale 1921, furono di popolo. Cagliari li avrebbe conosciuti, quarant’anni dopo, soltanto per fra Nicola da Gesturi e per don Mondino De Magistris.
Fonte: Gianfranco Murtas
Autore:
Gianfranco Murtas
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