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Gianfranco Murtas

Mi chiamo Efisio Marini, cagliaritano (seconda parte)

di Gianfranco Murtas

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Ecco la seconda parte della rappresentazione – non scenica, se non nella immaginazione, soltanto parlata – che nella mezza sera di venerdì 7 dicembre 2007, invitato dall’Università della Terza Età di Quartu, nell’ex municipio divenuto ufficio dei Vigili Urbani quartesi (viale Colombo 167) promossi volendo presentare in umanità uno scienziato andato in bel recupero di notorietà negli ultimi anni. Titolo della pièce: “Efisio Marini: conversazione impossibile su vicende private e pubbliche”.

Ricordo quanto già detto: furono con me (che vestivo i panni ideali del giornalista intervistatore), Sandra Agnesa (che prese la parte di Giovanna Giuseppa Maria Tarasconi, detta Carmina da Francesco Alziator e come tale adottata dallo scrittore Giorgio Todde nei suoi felici romanzi di grande successo), Vito Biolchini (per phisique di role protagonista nei panni del dottor Efisio) ed Elio Turno Arthemalle (geniale interprete di sedici personaggi che nella Cagliari dell’Ottocento e/o del primissimo Novecento ebbero posizioni di assoluto riguardo: Giovanni Spano, Giovanni Marghinotti, Francesco Alziator, Carlo Brundo, Vittorio Angius, Vincenzo Brusco Onnis, Ottone Bacaredda, Gaetano Cima, Ignazio Marturano, Emanuele Marongiu Nurra, Giovanni Bovio, Pietro Ghiani Mameli, Stefano Rocca, Antonio Giuseppe Satta Musio, Pietro Martini e Luigi Zanda).

Dopo aver raccolto le testimonianze… pro quota di Marghinotti e Cima, Spano e Brusco Onnis, Marturano e Marongiu Nurra, Alziator e Bacaredda, Brundo e Angius e le prime battute di Giovanni Bovio – che nell’Italia del passaggio di secolo fu il Mazzini redivivo, nobilissimo democratico, repubblicano e massone – si riprende stavolta ascoltando quanto hanno da dire il rettore Zanda e il commendator Martini (direttore della Biblioteca governativa detta Universitaria), il magistrato Satta Musio (deputato al parlamento subalpino e deputato del Grande Oriente presso le logge massoniche isolane) e il banchiere garibaldino Ghiani Mameli, il fondatore della Società Operaia Stefano Mameli (consigliere comunale e dignitario massone pure lui)…

Giuseppa – Giovanna Giuseppa Maria Tarasconi, sposata nel 1854 ad Efisio Marini (meno che ventenni entrambi) nella chiesa di Santa Caterina a sa Costa – lei è sempre presente, interviene nella discussione quando vuole, aggiunge di suo e rievoca, rileggendo dai ritagli stampa che ha raccolto in vita e custodito nel non tempo come fotografie di memoria e documento per la storia, i successi scientifici e professionali del suo Efisio… 

La biografia è sempre su due livelli che si incrociano, quello privato e quello pubblico: c’è il dottor Efisio e c’è la città. Dopo l’urbanistica e l’amministrazione, dopo l’arte e il giornalismo, dopo il costume e la Chiesa e altro ancora, ecco ora l’università, ecco l’umanitarismo a Napoli – nella Napoli della sua emigrazione sempre sperando nella cattedra -, ecco la massoneria con la loggia Vittoria e i suoi uomini, ecco altro, molto altro…  



Tra Cagliari e Napoli, è l’umanità sempre la vera protagonista


Giornalista: Onorevole Bovio, lei frequentava anche la casa del dottor Marini?


Giovanni Bovio: L’amico Marini ha vissuto in diverse case, a Napoli, ma ovunque fosse, sempre la sua abitazione era una specie di museo anatomico, anche macabro se così vuol dirsi; aveva poi degli spazi appositi per lo studio… 

Nel centenario della sua nascita, nel 1935, una di quelle case “tremende”, fu ricordata, sull’“Unione Sarda”, proprio dal nipote Felice Melis Marini, che andava a trovarlo, di tanto in tanto, già da ragazzino…

  

Fu, l’amico Marini, un santo autentico nella competenza e nel servizio alla causa dei malati, nel 1884, alla Sezione Mercato e Torre Annunziata, nella circostanza tragica della epidemia colerica!… 

Fissò sulla carta la sua testimonianza scientifica, trasmessa al commendatore Mariano Semmola, Ispettore sanitario della Croce Bianca. 

Una copia di quel libretto preziosissimo lo avete nella vostra Biblioteca Universitaria di Cagliari. 

Inviando quel testo prezioso alla Biblioteca, egli cercava ancora il contatto con quella Cagliari sempre avara con lui… 

Triste a dirsi, ma vero. E, si sappia, «la giustizia postuma è rimorso»!


Vorrei ricordare, per dare appena un’idea delle dimensioni della epidemia che si diffuse a Napoli nell’84, che soltanto nella prima decade del mese di settembre furono riscontrati oltre 3.300 casi, il 90 per cento fra i quartieri poveri e malsani. 

Allora Napoli contava 45mila vani e 54mila bassi… 


Ad ottobre Efisio ricevette, con altri medici e volontari, il diploma di benemerenza – di «valentissimo e solertissimo» – della Croce Bianca. 

Della sua opera scrisse a lungo “Il Piccolo” di Napoli: ancora non usciva “Il Mattino”, che è del 1892. 

Ho qui con me un lunghissimo articolo che descrive la tecnica curativa, assolutamente geniale, e più ancora descrive i risultati: «L’apparecchio per enteroclisi ed ipodermoclisi che adoprò ed usa il Marini è assolutamente nuovo e da lui ideato…». 

Qualcuno propose di aggiungere il suo nominativo ai premiati fra gli espositori della Mostra nazionale…


Tutti partecipammo al soccorso, le parrocchie e le logge, i repubblicani e socialisti e i confratelli della Madonna o di San Gennaro, senza differenze e senza ambizioni di benemerenze fra i volontari… 

Noi massoni avevamo le nostre tre stellette sul petto e la croce verde sul braccio, nessuno si scandalizzò…Altroché! 

Bisognerebbe raccontarla quella storia di autentica fratellanza… Marini fu un campione di carità civica!


Giornalista: Grazie professor Bovio. Grazie anche per la sua simpatia verso la Sardegna. Suoi sono gli epitaffi che, al nostro monumentale, ricordano Giovanni Battista Tuveri e il qui presente Vincenzo Brusco Onnis, e all’università – dal 1902 – proprio il nostro dottor Marini…


Lei sa, poi, che nel 1905, i cagliaritani, con un gran concorso di offerte, le dedicarono un busto in marmo, collocato al centro dello “square” delle Ferrovie reali, l’attuale piazza Matteotti. 

Gran cerimonia e migliaia di partecipanti all’inaugurazione…


Tornerei, magari per avviarci alla conclusione, alla questione “massoneria”, interrogando l’onorevole Pietro Ghiani Mameli, a lungo Segretario e poi anche Venerabile della loggia di Cagliari. 


Dottor Efisio: Allora, negli anni ’60 e ’70, c’era stata questa idea, di noi framassoni come causa della rovina non soltanto materiale – perché famelici, perché ingordi –, ma anche morale della città…


Pietro Ghiani Mameli: Eh, caro Efisio, ce ne hanno dette! Anche se è vero che neppure noi eravamo immacolati. Ma chi è immacolato a questo mondo? 

Anch’io mi porto dietro la responsabilità del crac bancario del 1887. Ho commesso molti errori e li ho pagati – errori e colpe –, anche con il processo e il carcere... 

Per quei pasticci saltò anche il monumento a Pietro Martini e nacquero perciò anche tensioni fra te e il sindaco Bacaredda… 


Il comitato aveva raccolto i fondi per il monumento al commendatore, e li aveva depositati nella mia Cassa di risparmio. Qualcosa come 700 lire.

Ma poi ecco il dissesto e un riparto di appena 139,11 lire. 

Bacaredda che ti scrive, Efisio – tu eri allora a Napoli –: «niente monumento, metteremo la salma intatta di Martini in un loculo di prima classe, togliendola da quella cassa depositata da trentadue anni a due metri di altezza nello stambugio di lato alla cappella»; 

tu che gli rispondi: «ma così nessuno la vedrà quella salma, e io l’ho trattata con i bagni, trent’anni fa, perché tutti onorassero il commendatore in saecula saeculorum, vedendolo»… Eh, “L’Unione Sarda” ne scrisse a lungo, fra il 1895 ed il ’98… 


Dottor Efisio: E’ vero, io pensavo di comporre quelle spoglie in una cassa metallica sormontata da un cristallo ovale e trasparente. D’ordinario tutto sarebbe stato coperto da una seconda cassa di legno. Così era successo per il Manzoni. 

Quella saletta ad alta volta, illuminata e ripulita, sul fianco destro dell’oratorio al cimitero di Bonaria, sarebbe dovuta diventare l’aula di venerazione del Martini. Lo scrissi al sindaco Bacaredda, nel 1898: «Nel centro si può fare una base e collocarvi sopra la cassa. Così togliendo il coperchio di legno, in ogni occasione, e specialmente per la commemorazione dei morti, si può dar agio ai nostri concittadini di rammentare le fattezze dell’illustre uomo». 


Giornalista: Onorevole Ghiani Mameli, ci racconti della loggia.


Pietro Ghiani Mameli: La Vittoria fu fondata alla fine del 1861. 

Nostro primo Venerabile fu il dottor de Lachenal, un magistrato di corte d’appello proveniente dalla Savoia, ancora giovane e in carriera. Uomo molto riflessivo, ma direi anche pieno di iniziativa. 

Era giunto a Cagliari fresco a sua volta di iniziazione ricevuta a Torino con la missione di dar vita alla Libera Muratoria nelle Valli della Sardegna. Lanciò anche l’idea di una Accademia umanistico-scientifica, che riunisse tutte le migliori intelligenze dell’Isola, per sostenerne il progresso generale…


La denominazione Vittoria guardava ai traguardi nazionali che erano nei nostri obiettivi di cittadini e patrioti. 

Io ero garibaldino, come Salvatore Marini... 

Consegnai io al generale la teca col suo sangue pietrificato da te, Efisio…


Dottor Efisio: Eh, lo so bene, Pietro! L’ho anche accennato. Ricevetti a Cagliari una ampolla abbondante, inviatami dal medico che curava la gamba di Garibaldi. Spedii al generale, tuo tramite, il primo dei due medaglioni, su cui avevo inciso col bolino «Il sangue di Garibaldi rosseggia eterno»… 

Egli mi inviò due autografi, a giugno e ad ottobre 1865: «… l’Italia andrà superba del vostro genio ed io sono per la vita», «La vostra terra natale andrà superba di voi… opera stupenda». Parole del generale! 

Avrei voluto, vent’anni dopo, conservare – sempre con opera gratuita – anche il suo cadavere, ma le dispute fra la famiglia che voleva la cremazione e l’autorità di governo che l’impediva fecero passare troppo tempo per il trattamento…


Giuseppa (Carmina): Sì, nel 1882 eravamo, o meglio: eravate – ché io appartenevo già alle Valli Celesti… –, nel periodo della residenza napoletana. 

Efisio scrisse una lettera al quotidiano “Roma”, raccontando delle due teche col sangue del generale. E riferì di aver conservato il secondo medaglione per donarlo alla sua città natale…

Il giornale giunse a Cagliari e questa lettera fu ripresa dall’

“Avvenire di Sardegna”. 

Immediatamente il sindaco di allora, Salvatore Marcello, indirizzò a Efisio una lettera – pubblicata anch’essa dal quotidiano di De Francesco – con cui gli diceva che l’Amministrazione comunale sarebbe stata onorata del dono: «… la cittadinanza cagliaritana gliene serberà perpetua riconoscenza…».

Se non sbaglio, Efisio, non gliela hai mai donata, però, quella teca, al Comune…


Dottor Efisio: Il 1882 fu un anno impegnativo. Tornai a Cagliari, a dicembre, per l’ispezione alla salma del commendator Martini… – ah!, erano i giorni del barbaro patibolo in cui gli austriaci giustiziarono Guglielmo Oberdan, irredento triestino, 24 anni, fratello ideale del nostro Goffredo Mameli… «Viva l’Italia!».

Ero a Cagliari, appunto nei giorni in cui gli studenti universitari della città manifestarono contro l’Austria…

Si riunì quasi nelle stesse ore il comitato per il monumento al commendator Martini. C’erano, in città, altri comitati con obiettivi simili, per onorare il professor Cima o il generale Cugia…   


Giornalista: Torniamo all’onorevole Ghiani Mameli e alla massoneria cagliaritana. Chi eravate, cosa facevate, di cosa discutevate?


Pietro Ghiani Mameli: La Massoneria – per me ha sempre la maiuscola – è una società di tradizione e di discussione, che pende fra una istanza spirituale – scavare prigioni al vizio – ed un obiettivo sociale – lavorare al bene e al progresso dell'umanità. 

Purtroppo noi uomini non siamo mai all’altezza né di un programma né dell’altro. 

Noi non si dovrebbe discettare di politica e religione, ma è chiaro che le contingenze storiche ci hanno tutti condizionati. 

Eravamo tutti quanti politicamente per l’unità d’Italia, per una Italia sotto casa Savoia (lo volevamo, realisticamente, anche noi che pur avevamo qualche venatura repubblicana). Ed eravamo per un ordinamento costituzionale e laico. 

Questi temi venivano fuori di frequente, sia sotto il venerabilato del Fratello de Lachenal, che sotto quello del suo successore, il Fratello Smeraldo Scannerini, che era un medico ospedaliero militare.  


Noi chi eravamo, e quanti? All’inizio pochi, una decina, forse quindici, con il tempo siamo raddoppiati. Il che non è stato bene, sono nate tensioni. 

La loggia aveva figliato – era nata nel 1866 la Fedeltà – e poi ci si era dovuti mettere insieme, loggia-madre e loggia-figlia, ed era nata la Vittoria-Fedeltà. Poi sarebbero sorte la Fede e Lavoro, che si riuniva nell’albergo la Concordia, gestito dai Fratelli Castello – se andate al cimitero di Bonaria troverete una lapide con squadra e compasso e il nome di Giuseppe Castello –… Era un albergo giusto di fronte a casa tua, Efisio, lo ricorderai…

Poi vennero su altre logge a Cagliari: la Gialeto, la Libertà e Progresso… 


Diversi dei nostri erano professionisti vicini alla politica, parlamentari o consiglieri comunali: la prevalenza democratici, altri liberali moderati… 

Ricorderei Francesco Salaris, amico di Depretis e deputato lui pure di lunghissimo corso, 

come anche Giuseppe Palomba, che fu segretario della Camera di Commercio di Cagliari fondata dai nostri Fratelli Enrico Serpieri e Gaetano Rossi Doria, 

e ancora Antonio Ponsiglioni, Giuseppe Luigi Delitala e Luigi Siotto – a Montecitorio chi in una legislatura chi in un’altra, o magari insieme –, 

e anche Salvatore Parpaglia, bosano-oristanese finito senatore… 


Avevamo con noi intellettuali di razza, docenti universitari, qualcuno anche preside e rettore: ricorderei Luigi Zanda, della facoltà di Medicina – qui presente –, 

Gavino Scano, della facoltà di Giurisprudenza, 

Filippo Vivanet, della facoltà di Scienze matematiche… 

Avevamo Dante Pantanelli, toscano, raffinatissimo docente di lettere del Dettori, 

ed Efisio Thernes, direttore dell’Istituto Pavesi e consigliere in Municipio, 

avevamo il provveditore agli studi, avevamo avvocati di grande rinomanza… 

I nomi sono davvero molti: ricordo il Fratello Antioco Cadoni villacidrese – presente in ogni iniziativa culturale ed economica della metà del secolo in Sardegna, anche con la “Rivista dell’economia” che usciva a Roma, ed giocava fra università e parlamento lui pure…

 

Giornalista: Bella gente, complimenti complimenti. Ma gli argomenti delle vostre discussioni? E poi: c’erano attività, magari di lobby, accanto ai discorsi?


Pietro Ghiani Mameli: Iniziamo dai discorsi. Il nostro top data forse agli anni 1866-67, a ridosso della terza guerra d’indipendenza cioè, quella che portò il Veneto nel regno d’Italia. Tutte le logge erano allora infuocate dal sogno risorgimentale… 

Allora diffondemmo alcune delle nostre tavole architettoniche dedicate una al principio di nazionalità – tutto il contrario del nazionalismo, naturalmente, perché combinato al principio di democrazia –, 

un’altra alla patria – anche stavolta secondo una logica che valorizzava l’appartenenza, ma in una dimensione universalista. 

Un’altra tavola la dedicammo all’eguaglianza civile degli uomini.

 

Fummo, con la nostra filantropia, dietro a ogni disgrazia del mondo, non solo dell’Italia o della Sardegna… Gocce nel mare del bisogno… Promuovemmo, nella provincia di Cagliari, con le biblioteche popolari circolanti e con lezioni ad hoc nei giorni festivi, la istruzione fra i ceti poveri: lottammo contro l’analfabetismo; 

animammo con interventi indiretti e discreti tutta una serie di sodalizi culturali e sociali, compresa una società mutualistica; 

ci dichiarammo con documenti firmati e bollati contro la pena di morte, che anche il pontefice-teocrate applicava bellamente a Roma, come ha ricordato il nostro Efisio…


Dottor Efisio: A proposito. Qui ho ricordi abbastanza chiari anche io, allora giovane ventenne o poco più. 

Scendevo da Pisa a Cagliari, l’estate, e mi imbattevo in giornali clericali assurdi… 

Nel 1856 – ero già sposato allora –, nel pieno delle tempeste anticlericali, uscì in città un foglio religioso politico letterario, o forse soltanto clericale nero nero, “Ichnusa”, che difendeva perfino la legittimità del rapimento, da parte del papa, del piccolo Mortara, l’israelita bolognese battezzato dalla fantesca… Perché battezzato, il papa rivendicava la proprietà del piccolo, sottratto così alla famiglia. Quando è stato proclamato beato, gli ebrei hanno contestato un’altra volta ancora Pio IX…  

Era un giornale fremente di furore antimassonico, anche quando la Massoneria – anch’io sono per la maiuscola! – non c’era ancora, non era ancora stata rifondata in Italia! Dava corpo alle ombre. Concordi, Vincenzo? 



Vincenzo Brusco Onnis: Eccome! E giacché hai ripreso l’argomento del giornalismo, completerei allora il quadro flash delle presenze negli anni a cavallo dell’unità d’Italia. Erano lo specchio di quel certo ribollimento sottotraccia, anche se non sempre di qualità…


Ci furono, a Cagliari, “Il Flagello” (cautamente progressista), “Lo Statuto” (liberal-moderato, fondato dall’economista villacidrese e prossimo rettore Giuseppe Todde), “La Bussola” (che si avvalse della collaborazione di un giovanissimo Francesco Cocco-Ortu, e che nel 1862 ti difese – caro Efisio – da sgangherati attacchi apparsi in un certo giornale «delle tenebre» torinese), e altre testate ancora…


Creatura di un gruppo di personalità di vario background intellettuale e politico ma accomunate dalla militanza massonica, fu il “Corriere di Sardegna”, quotidiano finanziato e diretto dal professor Gavino Scano, partecipe anche il qui presente dottor Antonio Giuseppe Satta Musio oltre che da Enrico Serpieri, esordiente nel 1864, attentissimo alle vicende economiche isolane in stretta connessione con le dinamiche nazionali, che sempre molto spazio dette alle tue ricerche ed ai tuoi successi, caro Efisio Marini…


Giuseppa (Carmina): E’ vero, io li conservavo quei giornali che parlavano di Efisio, tante e tante volte in prima pagina, nelle appendìci che poi proseguivano all’interno… Sono decine… Ho addirittura una raccolta ordinata di quegli articoli… Spesse volte erano, soprattutto nel “Corriere”, riprese di pezzi apparsi su giornali continentali o addirittura esteri… Ve ne do un esempio rapido. 


Dicembre 1864: «Lettere pervenuteci da Parigi ci mettono in grado di annunziare che il nostro concittadino dottore Efisio Marini ebbe una cordiale e simpatica accoglienza in quella città. Appena arrivato, egli si mise in relazione colla scuola d’anatomia e diede saggi delle sue preparazioni agli illustri prof. Tardien e Sapey. Gli fu esibita e messa a sua disposizione una camera con due inservienti. Fu grande la sorpresa nel vedere conservate…», ecc. ecc.


All’inizio, quando ancora vivevamo a Cagliari, ci era sembrato che, da soli, quei riconoscimenti pubblici avrebbero pesato nelle decisioni dell’università…, ma la cattedra non è mai venuta. Col tempo ci siamo rassegnati.  


Marzo 1868: «“Sardi fuori patria”. Annunziamo colla più intima soddisfazione che il nostro amico dott. Efisio Marini, dietro rapporto d’una commissione della Accademia imperiale di Parigi che esaminò i suoi preparati ed il suo sistema di conservazione, fu dall’Imperatore insignito della croce di cavaliere della Legion d’onore. 

«Il nostro amico, che fece dono a quel sovrano del magnifico tavolo di cui ebbe già ad occuparsi il nostro appendicista, ebbe alla Corte delle Tuillerie la più cordiale accoglienza e fu spesse volte chiamato dall’Imperatore e dall’Imperatrice che vollero esaminare i suoi lavori.

«Il tempo delle prove per il nostro ottimo amico è passato. Valgano le onorificenze che gli vengono offerte all’estero a compensarlo delle sofferenze che gli cagionarono le basse e meschine guerre degli invidi detrattori della sua fama, qui nella sua città natia.

«Ci riserviamo di pubblicare dimani la traduzione d’un articolo del giornale scientifico “Les Mondes” che riguarda appunto i lavori del Marini».


Giornalista: Ecco, volevo dire questo: i riconoscimenti non le sono mancati, dottor Marini, in Italia e fuori, tanto più a livello di istituzioni scientifiche. Ricordo – scorrendo rapidamente la sua scheda biografica – quelli dell’Accademia Nazionale di Francia e nell’Associazione Scientifica di Astronomia, Fisica e Matematica… Ma ricordo anche, dal ministro di Agricoltura, sempre a Parigi, un “brevetto di invenzione” della durata di quindici anni, che le fu riconosciuto quando non aveva ancora trent’anni! 


Ricordo le sue presenze alle Esposizioni di Parigi, Londra, Vienna, Torino, Milano, Roma…, ricordo i titoli di ufficiale delle Palme Accademiche o della Corona d’Italia… 


Speculare all’apprezzamento nazionale ed internazionale fu il muro di invidia e maldicenza che si alzò contro di lei nella sua città. A scorrere la stampa si troverebbe la prova di attacchi e sfottò che erano iniziati, in verità, già dai primi anni ’60.


Il rilancio delle sue speranze sembrò affidato, da principio, alla proposta dell’istituzione, a spese congiunte di Comune e Provincia, di un «gabinetto anatomico Marini» – idea lanciata da un giornale genovese e ripresa dal consigliere civico Emanuele Ravot. Senza seguito, però…


Dottor Efisio: E’ vero: nell’aprile 1865 la proposta fu depositata in Consiglio: relatore era Giuseppe Lullin, consigliere camerale e amabilissima persona che da giovane era stato compagno di studi, a Genova, di Mameli e con lui si era scontrato per questioni di… ragazze!, e con lui sottoscrissero diversi altri Fratelli massoni, da Serpieri a Rocca, da Thermes a Scano, ad altri ancora…


Giornalista: Era il tempo, se non sbaglio, in cui lei aveva studio in contrada Gesus civico 33, dov’era l’antica porta dirimpetto alla manifattura dei tabacchi e un tempo convento francescano di San Salvatore da Hora… Lì ricevette anche alcuni giornalisti nazionali e stranieri, e studiosi… 

Ma credo, dottore, che in mezzo a questo atteggiamento avaro o avverso, possa averle fatto speciale piacere il diploma di socio onorario della Società degli Operai di Cagliari…


Dottor Efisio: E’ vero, fui raggiunto dalla notizia della delibera della Società Operaia, poche settimane dopo che lasciai Cagliari, deluso per la chiusura mostratami da tanti settori della città e più ancora per l’ostilità manifestatami dagli ambienti universitari…


Giornalista: Abbiamo qui Stefano Rocca, che quel riconoscimento fortemente volle darle. Prego, signor Rocca.


Stefano Rocca: Come presidente della Società degli Operai toccò a me comunicare al dottor Marini che desideravamo averlo nostro socio d’onore. Egli colse l’occasione di una rapida visita in città – era esattamente l’11 ottobre 1868 – per raggiungerci nella nostra sede e raccogliere dalla plenaria del nostro sodalizio mutualistico la medaglia con questa epigrafe: «Al dottor E. Marini redivivo Segato, i Soci operai della sua città natale». 


Noi deliberammo questo riconoscimento il 23 gennaio, all’indomani del conferimento della consegna della croce di cavaliere della Legione d’Onore francese al dottor Marini, per il merito delle sue scoperte. Ci complimentammo con lui anche per l’incarico universitario, pur a tempo, ricevuto a Napoli…


Egli ci donò la sua fotografia, e quella del suo famoso tavolino con i pezzi anatomici pietrificati (premiato all’Expo mondiale di Parigi), ed anche l’istantanea del commendator Pietro Martini pietrificato. Fu gentilissimo. 


Allora stavamo in via Barcellona, giusto dove era stata per tanti secoli la famosa porta del Molo, di passaggio fra l’abitato e il porto. 

Il nostro sodalizio contava allora una dozzina di anni, era nato dalla urgenza di provvedere alle necessità di vita di quegli operai messi sulla strada da una improvvisa disoccupazione, o da una malattia o da altri accidenti personali o familiari… 

I soci versavano un modesto contributo periodico, ma erano salvi in caso di guai seri.


Giornalista: Eravate numerosi?


Stefano Rocca: Quando ci siamo costituiti, nel 1855, eravamo oltre 200, ma l’iniziativa partì da una dozzina soltanto di noi operai. Nascevamo, con maggiore o minore consapevolezza, nel solco delle società operaie mazziniane e garibaldine, non socialiste, e sotto lo sguardo diffidente della Chiesa, che vedeva ovunque nemici veri o potenziali. 


Preti e vescovi e quelli della cosiddetta “nobiltà nera nera”, come ha detto prima il dottor Marini, erano in lutto completo tanto più dopo il 20 Settembre di Porta Pia, ed avrebbero costituito più in là una propria società operaia fedele ai comandamenti. 


Giornalista: Grazie signor Rocca. Un altro riconoscimento al dottor Marini, molto significativo anch’esso, fu quello promosso con la famosa colletta del 1874. Ne chiederei qualcosa a lei, cavalier Satta Musio.


Antonio Giuseppe Satta Musio: Capitò, non a Cagliari ma a Sassari, che nel marzo 1874 un comitato presieduto dal conte Alessandro di Sant’Elia avesse lanciato l’idea di una pubblica sottoscrizione per onorare il nostro dottor Marini già emigrato a Napoli. Furono raccolte 1.564 lire. 

Noi cagliaritani – dico noi cagliaritani perché vivevo a Cagliari allora, ma io sono bittese come Asproni e amico di Asproni, e Bitti con Nuoro faceva capo allora alla provincia di Sassari, di cui fui anche consigliere –, dico noi cagliaritani ci costituimmo come sottocomitato e raccogliemmo, fra il capoluogo e la provincia – almeno una cinquantina di comuni –, circa 700 lire che girammo agli amici sassaresi per il conio di una speciale medaglia d’oro. 


A Cagliari l’iniziativa fu gestita da diversi di noi Fratelli liberi muratori – c’erano il professor Vivanet, il professor Scano, il mio collega giudice Carlo Costa, che di più se ne occupò aprendo un libretto alla Banca Agricola Sarda…, ma certo non era cosa di loggia. 

E debbo dire, anzi, che furono numerosi i preti che aderirono al nostro invito, offrendo il loro contributo: così a Siliqua, Carloforte, San Pantaleo, Fluminimaggiore, Quartu Sant’Elena (reverendo Giuseppe Durzu, e il suo vice), Santadi, ecc.


Giornalista: La cosa è intrigante, cavaliere. Ci dica ancora.


Antonio Giuseppe Satta Musio: Riguardo alla raccolta fondi le dirò che i partecipanti furono, nel cagliaritano, oltre quattrocento. 

Rilevammo l’universalità dell’ammirazione che raggiungeva il nostro dottor Marini: pretori, cancellieri, carabinieri e brigadieri – come a Serramanna o a Lunamatrona –, farmacisti, avvocati, notai, sindaci, medici, segretari comunali, uscieri, maestri, commercianti, professori, e tanti altri, lavoratori dei campi e delle officine, poveraglia generosa… 

Il grosso era costituito da oboli modestissimi, nell’ordine dei centesimi, o della mezza lira, ma nessuno si tirò indietro. 


Noi ci muovemmo così: mobilitammo i nostri amici personali, o colleghi o conoscenti del nostro stesso ambiente professionale, e poi a valanga, clienti e conoscenti venivano invitati a partecipare, e partecipavano, tutti conoscevano o avevano sentito parlare del dottor Marini… 

I preti che offrirono il proprio obolo non vedevano il libero pensatore, lo scienziato che sfidava la morte – non Dio, sia bene inteso –, ma vedevano il sardo che si faceva valere in mezzo mondo e onorava la sua terra… 


Giuseppa (Carmina): Efisio ringraziò Sassari con il dono, nel 1876, di un pezzo anatomico pietrificato: la mano di una fanciulla con polsino in argento, inciso con la dedica alla città. Così anche nel cofanetto. 

So che oggi questo reperto si trova nella collezione anatomica intitolata al protomedico Luigi Rolando, di quella università. 


Antonio Giuseppe Satta Musio: Verissimo, signora. 

Vorrei concludere con una considerazione: 

Efisio dottor Marini è un genio e un cittadino benemerito, che forse noi sardi non ci siamo meritati, tanto meno i cagliaritani. 

Dico i cagliaritani all’ingrosso, perché evidentemente, molti furono anche coloro che lo stimarono.


Giornalista: Tornerei a lei, dottor Marini, a qualche tappa della sua vita, per arrivare alla decisione, certo triste, di lasciare la sua città.


Dottor Efisio: Mi iscrissi all’università nel 1852, scelsi medicina come corso di laurea perché meglio rispondeva a quella passione di ricercatore che avevo scoperto ed alimentato dentro di me fin dalla prima adolescenza. 

Era quello il mio mondo, la combinazione fra la teoria e la pratica, fra lo studio e il fare. 

Frequentando il gabinetto anatomico, da matricola, arrivai a sottrarre un arto umano, per qualche sperimentazione più o meno clandestina. 

Nascosi poi quella gamba in un nostro magazzino di Pirri: lì la mia famiglia ha avuto sempre case e terreni, come anche ricordava il maestro Marghinotti… e anche Franz, mio pronipote: non so se avete letto il suo “Attraverso i sentieri della memoria”, pubblicato dopo la sua morte. Pagine delicatissime firmate Francesco Alziator, orgoglio della nostra famiglia nei rami a discendere…

La cosa venne scoperta e fui punito dai professori. 


Preferii andarmene a Pisa, che era un ateneo fra i più prestigiosi d’Italia: dico Italia, anche se allora era soltanto Granducato di Toscana… 

Qui mi laureai dapprima in medicina, quindi – da buon allievo di Giuseppe Meneghini, che era un mineralogista accademico dei Lincei –, conseguii un secondo dottorato in scienze naturali. 


Commemorandomi dopo la morte, per lo scoprimento del medaglione dedicatomi dal Fratello Pippo Boero, il mio amico professor Carlo Fadda, cagliaritano anche lui e anche lui residente a Napoli, dove è stato anche rettore dell’università, ricordò che la mia vita è stata – testualmente – «un misto di giovanili scappate e di lavoro triste e penoso, malgrado de’ suoi confortanti risultati». Eh!… 


Infatti, rientrato nell’Isola, dal 1860 ricoprii l’incarico di assistente presso il museo di storia naturale, dedicando tempo ed energie allo studio della paleontologia e, in tale contesto, all’università. E intanto ero stato richiesto come consulente anatomo-patologo del Tribunale, come capitò a Nuoro… Avevo 23 anni soltanto!

 

La mia vera aspirazione era la cattedra, o almeno un insegnamento ufficiale, come la legge Casati del ’59 mi avrebbe consentito senza troppe difficoltà, fra i corsi di anatomia umana e di anatomia patologica… Avrei potuto reggere un gabinetto di anatomia patologica, invece che uno di mineralogia…

Il mio gabinetto era frequentato, ogni giovedì, dagli studenti di Medicina. 


Dovetti accontentarmi, all’inizio, di insegnare ai ragazzi dell’Istituto tecnico (per il che mi valse, fortunatamente, il titolo in scienze naturali). A quell’istituto avrei donato, un giorno, una parte non modesta del mio museo geonaturale. Lo ha ricordato prima il professor Bacaredda.

Ma pare che abbiano perduto tutto…


Nelle more di veder realizzati i miei sogni, continuai lo studio dei fossili mappati nella vasta area fra Cagliari ed Elmas (e poi anche nell’Iglesiente) oltreché, nel capoluogo, a Monreale di Bonaria. 

Nel 1861 ne detti conto pubblicando un libretto di taglio evidentemente evoluzionistico: “Idee di Paleontologia Generale”. 


Portando la mia attenzione a quei residui organici conservati nei fossili più antichi, misi a punto un procedimento di trasformazione della materia “inverso” a quello del degrado biologico: 

insomma, dal fossile alla vita, tanto animale quanto vegetale, stabilendo in conclusione che la fossilizzazione altro non sarebbe che lo stato di perfezione della materia che sconfigge il processo degenerativo e conquista… l’eternità. 


Trascorsi lungo tempo, nelle ore silenziose della sera, nello stambugio obitoriale del nuovo cimitero cagliaritano, tanto più quando dovetti lasciare l’università: 

dopo il museo fui autorizzato all’utilizzo dell’anfiteatro anatomico e sala incisoria, con accesso dal lato corto del palazzo, sulla via del Cammino Nuovo, da dove entravano i cadaveri di studio. 

La scuola di anatomia umana – come anche ha scritto mio nipote Franz Alziator – era allogata in un edificio a pian terreno, sui bastioni che guardano la piazza San Carlo, poi Yenne; 

la sala incisoria si apriva nel cortile interno del palazzo, proprio di fronte all’ingresso del mio gabinetto: era una sala spaziosa, rotonda, senza finestre, con un’ampia cupola con le vetrate in cima, sembrava una cappella… 


Giornalista: Fu in quegli anni che lei inviò le risultanze del suo lavoro alla commissione ministeriale di Torino… di Torino capitale del regno?


Dottor Efisio: Sì, ed anche a Londra. 

Mi assistevano, all’obitorio del monumentale, mio fratello Salvatore e il becchino comunale. 

Dovevo lavorare nella tranquillità, senza distrazioni o disturbi. 

Fu un braccio d’uomo quello che – rispondendo al trattamento – mi confermò di aver azzeccato la tecnica non soltanto dell’arresto della decomposizione, ma anche della preservazione della qualità dei tessuti e della elasticità, plasticità e perfino colore delle masse muscolari e della pelle. 

Molto meglio di quanto avesse ottenuto Gerolamo Segato, all’inizio del secolo…


Giornalista: E nel 1866, finalmente, l’evento: la pietrificazione del cadavere del commendator Pietro Martini…


Pietro Martini: Ah, chiamato in causa ora debbo dire la mia. 

Fui effettivamente pietrificato nel mio fatale febbraio. 

Avevo giusto 66 anni, e come il dottor Marini ero e sono cagliaritano, pur di padre ligure. 

Studiai anche io dai padri scolopi, e frequentai poi giurisprudenza. 

Dopo, e durante l’esperienza giornalistica – quella dell’“Indicatore Sardo” –, fui nominato direttore della regia Biblioteca Universitaria, e fu in quel contesto che conobbi il dottor Marini, assai più giovane di me…


Ero stato poeta, anzi verseggiatore, nei miei anni verdi, con qualche ambizione patriottica; fui soprattutto storico. I titoli dei miei studi sono numerosi: “Relazione sul viaggio fatto in Sardegna nel 1841 dal re Carlo Alberto”, “Sull’unione della Sardegna colla Liguria, col Piemonte e colla Savoia”, “Studi storico-politici sulle libertà moderne d’Europa dal 1789 al 1852”, “Storia ecclesiastica di Sardegna”, ecc.

 

Inciampai purtroppo, si sa, nei cosiddetti “Falsi d’Arborea”, cioè in quelle pergamene scritte allora ma che venivano fatte passare per millenarie, che ricostruivano con autentiche invenzioni la storia buia della Sardegna nell’alto medioevo… 

Le comprai con i fondi della Biblioteca e anche miei, ci credevo…, non fui complice, fui vittima e feci vittime.


Venni accusato anche, dalle frazioni liberali, di essere un sostenitore della “camarilla” che governava il Comune… 

Me ne prendo la responsabilità, mi sembrava giusto però: non eravamo fatti per la democrazia, il popolo era troppo ignorante…


Dottor Efisio: E voi ce lo lasciavate nell’ignoranza ed ai margini sociali. 

La cultura era per i colti, come la ricchezza per i ricchi… 

Codino e reazionario, lei era codino e reazionario, senza offesa, illustre commendatore… perché le riconosco anche generosità...


Pietro Martini: Demagogia, caro dottore… Comunque, quando io morii, si affacciò questa idea di imbalsamarmi, anzi no, di pietrificarmi. 

Quattro mesi dopo, a giugno, fui portato fuori dalla cassa in cui il mio corpo era stato messo dopo i bagni, e venni sistemato bello seduto e fotografato da Agostino Lay Rodriguez che allora aveva studio alla congiunzione di su Brugu con la piazza San Carlo. 


Giuseppa (Carmina): Ricordo benissimo anch’io la cosa. Io stavo per partorire Vìttore, allora, Efisio era eccitatissimo per questa sua avventura professionale che si sovrapponeva a quell’altra nostra domestica, familiare.

La foto del commendator Martini fu diffusa in qualche vetrina di negozio di Cagliari, e destò molta curiosità in città. Lo si rivedeva, quattro mesi dopo la morte, come era, il commendatore!


Pietro Martini: Ottima memoria, signora. 

Mi vorrei ricordare come mi descrisse, per la commemorazione post mortem, il professor Vivanet: 

«Era Pietro Martini di piccola sebbene proporzionata persona. La fronte spaziosa, il colorito pallido tradivano sul suo viso imberbe, senza marcata espressione, le interne abitudini alla meditazione e allo studio. Dimesso senza negligenza nell’abito, camminava leggermente ricurvo». 

Così mi rividero, corpo e… anima, ad ogni riapertura della cassa: nel 1871, nel 1882, nel 1898… «pasta molle, duttile, elastica arrendevole al tatto», parole di Felice Uda pubblicate sul “Corriere”: «Marini aveva un assoluto impero su di lui; egli poteva atteggiarlo a gravità di storico, comporlo nella fattizia animazione d’un amichevole colloquio, dare al suo labbro quella piega abituale di simpatica ironia ch’era così famigliare al valentuomo».

E’ vero che alcuni giornali fecero polemica sul fatto che, pur così ben ricomposto, non fossi da morto uguale uguale a com’ero da vivo… ma insomma, era una polemica strumentale e anche un po’ stupida, bisognerebbe dire…


Le polemiche che seguirono non mi videro, evidentemente, parte attiva: “La Gazzetta”, un tempo amica del dottor Marini, irrise all’esperimento, e ingiustamente. 


Giornalista: Grazie, commendatore. Ridarei la parola al dottor Marini.


Dottor Efisio: Naturalmente io volli dare anche una applicazione, diciamo così, industriale, alla mia formula. 

Noi abbiamo sempre avuto il problema della conservazione delle carni, tanto più nelle stagioni calde… 

Altre utili applicazioni si sarebbero potute avere anche nella medicina forense, e così pure nelle ricerche zoologiche e botaniche… Alghe, molluschi, pellami…

All’estero più che in Italia parvero sensibili a questo campo applicativo… 

Partecipai a numerose manifestazioni internazionali… 

Scrissi per una importante rivista scientifica britannica…

Ottenni riconoscimenti, premi, perfino l’offerta di insegnamenti universitari… 

Ovunque, ovunque si ripeté l’invito a fermarmi, a prendere residenza di studio ora a Parigi ora a Berlino, ora a Madrid ora a Liegi, o ad Amsterdam o a Londra… 

Due anni prima che morissi una rivista scientifica tedesca mi dedicò due numeri speciali della sua collana…

Ma nella mia città mi fu rifiutata la cattedra…  


Un mio lavoro fu studiato, fu giudicato, fu apprezzato, fu lodato, all’ospedale Santa Maria Novella di Firenze nel 1867: ero riuscito a bloccare la putrefazione del cadavere di una creatura morta da svariati giorni. 


Giuseppa (Carmina): Una rivista medica fiorentina scrisse… ce l’ho qui… «egli ha superato il suo predecessore in questo, che è riuscito a ridurre allo stato lapìdeo la stessa sostanza nervosa, cosa a cui non era arrivato il Segato. Egli mostra infatti il sangue e pezzi di vari visceri, reni, fegato e lo stesso cervello, ridotti allo stato lapìdeo, mentre per le altre apparenze loro di conformazione e di colorito lasciato a divedere la natura loro primitiva»…

Insomma, quando la dissecazione non era completa, riuscivi a restituire le membra alla forma e ai volumi naturali, e incidendo quelle carni mostravi in sezione muscoli, tendini, nervi, arterie e vene, sembrava una nuova creazione… Non c’era l’anima, ma tu non eri Dio…


Dottor Efisio: Realizzai allora, con esito favorevole, anche delle sperimentazioni sulle piaghe di difficile suturazione. Anche di questo ne scrissero i giornali scientifici, se ne parlò nelle accademie… E’ tutto documentato.

Qualcuno ricordò, sulla stampa anche del continente, che lavoravo su queste materie dal 1852, dacché ero un ragazzo, diciassettenne! prima ancora che m’iscrivessi all’università…

Vorrei ribadirlo: fra il 1867 ed il ’68, essendo ancora nell’organico precario dell’ateneo di Cagliari, fui chiamato a Firenze a disposizione del ministero della Pubblica Istruzione, perché eseguissi quei lavori di «conservazioni anatomiche» convenuti da alcuni autorevoli professori: fra questi, ricordo testualmente, «arrestare la putrefazione di un cadaverino dopo dodici giorni dal decesso». 

Il professor Pellizzari mi chiese che arrestassi la putrefazione di un’intera massa intestinale. 

Il risultato fu felicissimo. 

Ma non bastò perché avessi la mia cattedra nella università della mia città.


Giornalista: Debbo allora insistere con il canonico Giovanni Spano.


Canonico illustre, lei fu a capo della nostra regia università per un buon decennio e fu durante il suo rettorato che il dottor Marini non ebbe l’insegnamento cui ambiva e che, direi, meritava. Le domando: quali ragioni si opposero allora a soddisfare quella legittima aspettativa? E’ vero che nel corpo accademico della città c’erano ostilità preconcette? 


Giovanni Spano: E’ possibile che questo sia avvenuto. 

Allora, parlo soprattutto del mio decennio, la situazione era press’a poco la seguente: dopo una prolungata copertura, da parte dei professori dell’area umanistica (Teologia, Filosofia e Lettere), il mio rettorato rappresentò l’inizio della valorizzazione di quella scientifica, o medico-scientifica. 

Io, che venivo da Teologia, divenni magnifico nell’estate del 1857 per concludere nel mese e nell’anno in cui tornò, il dottor Marini, da Napoli, per prendersi la qualifica onoraria della Società Operaia…


A fine 1868, passai il testimone all’illustre collega Antioco Loru, di Giurisprudenza – il Loru di “Paese d’ombre” di Giuseppe Dessì per intenderci!, che fu rettore per quattro anni e replicò negli anni ’80. Un villacidrese di gran razza, il Loru. 


E a proposito di villacidresi, a coprire il rettorato pochi anni dopo ci fu anche il professor Todde, colui che aveva ospitato il D’Annunzio ventenne nel “paese d’ombre”… A lui aveva prima accennato il dottor Brusco Onnis illustrando il panorama giornalistico di Cagliari nel nostro tempo…

Dopo Loru toccò, per un triennio, al professor Patrizio Gennari, preside di Scienze, il promotore dell’Orto botanico di Cagliari… 


Dottor Efisio: E dopo ancora, fra 1875 e ’76, toccò a Pasquale Umana, preside di Medicina e Chirurgia, e anche parlamentare e rispettabile maestro di loggia, come anche Gavino Scano, poi senatore, preside di Giurisprudenza…


Luigi Zanda: … e Luigi Zanda, qui presente e qui parlante… A me toccò per un quadriennio, fra il 1883 e l’88. Molto dopo dacché il dottor Efisio Marini aveva espresso le sue legittime ambizioni…


Giornalista: E comunque può darci la sua testimonianza?...


Luigi Zanda: Certo … Io ero amico del dottor Marini, siamo quasi della stessa classe anagrafica…

Abbiamo entrambi studiato medicina ed abbiamo anche condiviso idee liberali in tempi in cui non era facile… 

Egli è poi diventato amico dei repubblicani, io ho sentito ad un certo punto il richiamo della fede cattolica, e mi sono ritratto dai circoli esoterici, ero anch’io nella loggia Vittoria… Sono entrato nei ruoli universitari e sono divenuto preside. 


Effettivamente allora il collega Marini spendeva molte energie per raggiungere il suo obiettivo. 

Era bravo, molto bravo professionalmente, ma non convincevano, ai fini dell’insegnamento, non della ricerca, quel suo background ideologico ed il modo in cui lo portava avanti, sempre lui contro tutti, era preso da un egotismo esasperato ed esasperante… 

E queste cose contano quando…


Dottor Efisio: Rispetto la tua opinione, caro Zanda, ma essa stessa è carica di ideologia. Tu, e gli altri più ancora di te, avevate il controllo delle decisioni, ma eravate autoreferenziali anche riguardo ai modi in cui ci si dovesse porre davanti all’istituzione accademica. 

Concepivate soltanto la subordinazione rispetto alle scrivanie del potere. Pensavate tutto soltanto in termini di cooptazione. I giovani non era importante che fossero talentuosi, era importante che vi assomigliassero… Ma la scienza non va per specchi, va anche per scommesse, per intuizioni che affrontano la sperimentazione… 

La ricerca è questa, e bisognava portare la ricerca nuova dentro l’università vecchia… 


Luigi Zanda: Tu sei sempre stato così deciso ad affermare la tua verità…


Dottor Efisio: E voi non meno di me, per affermare la vostra verità…


Giornalista: Prego, canonico…


Giovanni Spano: Da collega anziano del professor Zanda, e da estimatore del dottor Marini, posso permettermi di dire che le due tesi sono valide entrambe. Ci fu forse eccessiva rigidezza da ambe le parti… 

Bisognava rispettare, da parte del dottor Marini, quel che l’università era, e bisognava anche che da parte del corpo docente non si sacrificasse, per ragioni di pur giustificato orgoglio, una risorsa fertile come era il nostro giovane talento sardo… 


Giornalista: Un’occasione persa per l’università cagliaritana, e per la città, e certo tanta sofferenza e il senso di ingiustizia nel dottor Marini. Anche se è vero che, come diceva l’onorevole Bovio, quella porta sbattuta in faccia consentì poi a lui di compiere esperienze importanti fuori Sardegna…


Giornalista: A lei, dottor Marini, l’ultima battuta.


Dottor Efisio: Ho già parlato a lungo. E non ho niente da aggiungere, se non ringraziare i tanti che si sono occupati di me, per un verso o per l’altro, con romanzi di successo, con siti internet, con mostre fotografiche e in altri modi ancora. E anche con questa pièce.

Non sono stato dimenticato. E anch’io, che ormai da 107 anni terrestri vivo il non tempo delle Valli Celesti, conservo nel mio cuore la Sardegna e Cagliari. Ho abbondantemente perdonato chi mi ha osteggiato. Può essere che, senza cattiva intenzione, gliene abbia dato io stesso motivo, ed anch’io perciò mi scuso.

Quella certa analisi grafologica compiuta dall’Ulzega sulla mia scrittura mi ha rappresentato con le caratteristiche della «tenacia» e della «testardaggine»; ha scorto in me «avvedutezza, intraprendenza, capacità di discriminazione e di programmazione», disponibilità al sacrificio se riconosciuto «dal prossimo»; e ancora «intelligenza profonda, con elevato spirito di osservazione volto anche ai minimi particolari», «capacità di ragionamento e critica, associati tuttavia ad impulsività e vanità intellettuale». E per concludere: chiusura di carattere, o almeno riservatezza, amore all’ordine e odio della superficialità e dell’approssimazione…

Dei molti che si sono affacciati alla mia esperienza umana, non soltanto scientifica, il mio giovane collega Antonello Maccioni ha rilevato, con grazia, che «il mistero più grande» della mia vita non era, non è «il segreto della “pietrificazione”», bensì «il vero motivo» che mi ha spinto a dedicare «cultura ed intelligenza» al particolare filone di ricerca, costringendomi «ad un volontario esilio, alla ricerca di una comprensione» che effettivamente mai ho ottenuto.

Egli adombra ispirazioni metascientifiche. Scrive infatti – ipotizzando suggestioni rosacruciane – che «le tre fasi individuate (nel processo di fossilizzazione) – asportazione delle molecole organiche, incrostazione con acque calcarifere e combinazione del calcio – ricalcano fedelmente quelle alchemiche della distillazione, fusione e sublimazione, utilizzate nella ricerca della “pietra filosofale”».

Può essere che, nel mio inconscio, vi fosse anche questo obiettivo…

So di aver condotto le mie ricerche con mente aperta, e di aver speso per esse l’intero e pur modesto patrimonio ereditato e costruito negli anni. 

Ho lasciato via Santa Brigida, via Montedidio e via Giuseppe Ricciardi, dove venivano a trovarmi fratelli e nipoti con le loro famiglie, ho cambiato varie tane, fino all’ultima di via Summonte. 

Sempre mi sono portato dietro il mio museo. 

E sempre ho potuto contare sull’aiuto pieno, impagabile, di mia figlia Rosa.  


Giuseppa (Carmina): Concedimelo, Efisio. Io non avrei voluto lasciarti così giovane – giovane tu e giovane io –, avrei voluto invecchiare con te.

Ti ho amato moltissimo, credo di aver capito tutto del tuo mondo interiore da subito, allora, quando cominciammo a far l’amore.

Eri bello, bellissimo – ECCOTI, guarda, ho portato io le tue fotografie, in sequenza d’età sono qui dietro, e io mi sono messa vicino a te [foto]–, avevi occhi che mi prendevano, intelligenti e malinconici... Ti ammiravo, non ti amavo soltanto!

Giovane di vent’anni, avevi sembianze e posture di un uomo vissuto, di un professore patriota risorgimentale…

Avevi una parola pacata, forse vincevano i silenzi, ma erano silenzi pieni, i tuoi… Pieni di pensiero e di sentimento. Quanto t’ho amato, per gli sguardi e le carezze, per le parole e anche per quei silenzi!

Di me, non ho deciso io, lo sai, ma Domineddio… Ho lasciato la vita a 42 anni, non stavo bene da tempo… ti ha accudito Rosa con amore devoto e infinito.

Sono dovuta migrare, molto prima di te, nelle Valli Celesti dov’è la pace delle creature amate…, quella pace che gli uomini neppure immaginano, se non i poeti forse, o gli uomini della musica, o i mistici…

Non ti sono mai stata lontano, però… E quando, nel non tempo, ci siamo reincontrati, ci siamo presi di nuovo com’era stato allora…


Dottor Efisio: Eppure, secondo il metro sensibile della nostra umanità non posso negare di aver vissuto in sofferenza tanta parte del mio tempo. 

Mi si voleva ingannare, si voleva ingannare uno che aveva iniziato gli studi sull’innervatura dello stomaco umano, sul cancro… 

Mi consola un giudizio dell’onorevole e Fratello Asproni, lontano nel tempo, agosto 1870. Anch’egli allora, vigilia di Porta Pia, viveva a Napoli. Scrisse nel suo diario: «E’ venuto a visitarmi il Dr. Marini di Cagliari, ed è molto soddisfatto dei successi felici delle sue cure mercé l’invenzione di un certo liquido che guarisce le malattie cancerose. I medici gli fanno guerra. Invidia e bottega dappertutto. Il Marini è uomo modesto e di modi semplici: non ha neppure ombra di ciarlataneria».

Avevo 35 anni, come in qualcunja di quelle fotografie che ha messo lì Giuseppa Carmina. ECCOMI lì [foto]. Non che i miei preparati, i miei dosaggi, potessero sconfiggere i tumori così, quasi miracolisticamente. La scienza si muove per piccoli passi. Ma nel grande, grandissimo numero di tumori, il mio contributo, per modesto che fosse, avrebbe potuto, già allora, trovare il suo spazio combattente …

Avvertivo questa diffidenza nei miei confronti, ostilità anzi, in crescendo, e ingiustamente.

M’ero ridotto, alla fine, a sospettare di tutti, costringendomi addirittura ad acquistare fuori Napoli le sostanze per i bagni, e perfino a riempire la casa di canfora, in occasione delle visite, per coprire gli odori dei miei composti, e non mettere nessuno sulla pista… della spia… 

Ha scritto bene mio nipote Franz. Forse… forse uscii anche di senno, alla fine. Gli ultimi sei mesi sono stati di indicibile prostrazione, non soltanto fisica, di agonia vera e propria. 

Ma non ho mai smesso di amare, neppure allora: non soltanto Rosa che mi assisteva come un angelo, e Vìttore anche, non soltanto le memorie familiari – tu Giuseppa, e il mio piccolo Gerolamo, e tutti gli altri di casa, fratelli e genitori e nonni e zii e cugini e nipoti e cognati –, ma anche la mia Sardegna tutta intera, la mia Cagliari matrigna: i luoghi, i colori di Cagliari bella come l’anticamera del Paradiso, il vento e il sole, le spiagge e i colli, le strade e le case, i monumenti e il movimento della gente...  

Non ho mai rinnegato la mia gente, la mia terra. Il mio amore è stato, anzi, struggente e malinconico, perché lo sapevo non corrisposto. O, mi dicono oggi, immaginato non corrisposto, e forse invece corrisposto, corrisposto da molti non da tutti… chissà…

Ma l’amore è l’unico vero tesoro dell’uomo: perché, quando è autentico, esso è gratuito, non guarda alla contropartita.

Era così il mio amore di esule: gratuito e vestito di pena.



Fonte: Gianfranco Murtas
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