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Gianfranco Murtas

Nel mondo di don Angelo Pittau, prete glocal: poeta ed educatore, operaio e sperimentatore, amico del rischio

di Gianfranco Murtas

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Nella sala convegni del compendio minerario Sa Marchesa, in località Acquacadda di Nuxis, si è svolta lo scorso giovedì 27 giugno la presentazione del libro-intervista Viaggiando Chiesa, da Villacidro al mondo dal Vietnam alla Sardegna. I preti non sono fatti in serie, di Angelo Pittau, da me curato insieme con l’editore cagliaritano Andrea Giulio Pirastu (coi tipi EDIUNI).

Il libro, già presentato a San Gavino Monreale ed a Villacidro, poi anche a Cagliari (presso gli exAllievi salesiani), è stato accolto da un centinaio di amici dell’associazione Speleo Club Nuxis, che con Maria Antonietta Pinna ha organizzato la serata. Hanno preso la parola, coordinati da Gian Paolo Cirronis, il sindaco Piero Andrea Deias, Adreano Madeddu (vice presidente dell’associazione Minatori di Nebida), Tarcisio Agus (presidente del Parco Geominerario Storico della Sardegna), Alberto Secci (docente e scrittore); in conclusione ho parlato io stesso e, nel gran finale, ha parlato – essenziale ed efficace come sempre – don Pittau, largamente festeggiato da tutti.

Con tre distinte esibizioni di pezzi in lingua sarda ha mostrato tutta la sua valentia il Coro Polifonico Collegium Musicum di Santadi, diretto dal maestro Paolo Sanna. Il saluto conclusivo è stato affidato, con tutte le sue speciali suggestioni, all’Ave Maria sarda, giustamente salutata da grandi applausi.

Se Cirronis, in apertura, ha esposto una rapida scheda biografica di don Pittau, ad Adreano Madeddu – in quanto ex sindacalista e pubblicista – è toccato evocare momenti di cooperazione con questi nella redazione di Confronto, il mensile che dal 1977 al 1992 ha alimentato nell’Isola il dibattito intorno alla questione sarda chiamando alla partecipazione laici e cattolici, progressisti e moderati, sempre senza censure e anzi invitando all’anticonformismo delle analisi e delle proposte. In quegli anni, tanto più nel Villacidrese, il processo di industrializzazione (nel polo tessile) andava per crescenti chiaroscuri, fino al crollo definitivo. 

A Tarcisio Agus è andato invece il compito di raccontare don Pittau come egli, al tempo sindaco di Guspini, lo incontrò e frequentò per lunghi anni – ora sono già passati alcuni lustri – associando le risorse del Comune a quelle del volontariato organizzato dall’allora parroco di San Nicolò vescovo, tanto più al servizio delle quote più fragili e marginali della società guspinese (a parte quanto offerto nell’ordinario dalla Caritas, in paese don Pittau mise a disposizione di una cooperativa giovanile “Santa Maria” i 120 ettari di terreno proprietà della parrocchia). 


dal sito "la provinciadelsulcisiglesiente.it"

Piuttosto impegnativo anche l’intervento del prof. Secci che da subito ha rilevato come il libro offerto all’attenzione del pubblico riveli pienamente la personalità versatile e pragmatica (ma tanto pragmatica quanto spirituale nelle sue motivazioni) dell’ormai anziano presbitero villacidrese, assai più di quanto lo stesso don Pittau abbia mai osato esplicitamente rivendicare… perché le opere parlano per lui. Nella “sapienza che si traduce in una vasta gamma di abilità” – così testuale dal suo discorso – Secci ha colto anche gli elementi che, a proprio parere, supportano una figura fattasi quotidianamente prossima all’universo sociale via via incontrato: la libertà (da intendersi come “il dovere scelto in base alle circostanze da santificare”, cioè la disponibilità ad usare i propri mezzi per un fine chiaramente definito) e la misericordia (come propensione a comprendere quanto si muova nella verità delle persone e delle cose, oltre l’apparenza sovente ingannatrice: da cui il suo apostolato sociale vissuto come realizzazione del suo sacerdozio).

Sintesi di una riflessione confidata sottovoce

Per quanto mi riguarda, ho creduto di dover proporre la persona (o la personalità) di don Angelo Pittau inquadrandola entro due coordinate interpretative nelle quali si potrebbe collocarne il vissuto in questi suoi primi ottanta fecondissimi anni d’età. La coordinata temporale che lo vede bimbo negli anni della seconda guerra mondiale, adolescente negli anni della ricostruzione postbellica, giovane in quelli della Rinascita, uomo maturo nel tempo dei disincanti e della crisi (dal boom consumistico al riflusso disoccupativo, alla droga di massa in ampie fasce giovanili allo sbando anche nei paesi del nostro Campidano): ciò dopo aver “bucato” l’esperienza paesana-regionale con una impegnativa prova, durata un quinquennio e più, fuori Sardegna, addirittura nel mondo in guerra (nel Vietnam della fine degli anni ’60) e nel mondo operaio (tra Lione e Torino nella prima metà del decennio successivo).

La coordinata spaziale, infatti, segna di suo, radicalmente, l’esperienza di vita di don Angelo, strettamente rivelatrice del “latte” evangelico che l’ha cresciuto. Se ragazzino tredici-quattordicenne egli ha incontrato nel seminario minore di Seddanus, in Villacidro, il carisma di Carlo Carretto che introduce ai Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld, negli anni di teologia vissuti a Cuglieri è egli stesso a proporsi al diaconato mosso da un’istanza anticonformista lungamente meditata e interiorizzata: andando prima a vivere, settimane e settimane, con 30 ragazzi di 26 nazionalità diverse in quel di Marsiglia, fra le fatiche di braccia e spalle di un porto di smerci internazionali.

Da queste anticipazioni prendono forma progressivamente compiuta i progetti futuri che avranno repliche innumerevoli nelle dinamiche attive della Caritas diocesana alerese. Così, cioè, anche quando egli, tornato stabilmente in Sardegna, è fatto parroco nella sua Villacidro e poi a Guspini: perché dalla diocesi di Ales si svilupperanno collaborazioni importanti di natura sociale ed ecclesiale con tutti i continenti, dal centro e sud America all’Asia orientale, dall’Europa balcanica all’Africa nera del Ciad e della Tanzania.

E’ importante cogliere questo “glocalismo” di don Angelo Pittau e spiegarsene la matrice tutta evangelica per poter definire il profilo pubblico di un sardo che, al pari di quel Giuseppe Dessì da lui interrogato al tempo della prima sua tesi di laurea a Roma, intende ogni punto dell’universo come il centro dell’universo, emancipando la sua isola dal rischio dell’… isolamento sterile e perdente.


dal sito "la provinciadelsulcisiglesiente.it"

Ad accompagnare la sua religione tradotta in fatti tangibili sono il giornalismo e la poesia, strumenti espressivi che egli fa propri fin dagli anni del seminario, con le prime collaborazioni a Nuovo Cammino (che si svilupperanno poi a Torino con Il Foglio ed a Villacidro con Confronto) e con la pubblicazione dei suoi versi in numerose sillogi. Ricorderà, don Pittau, con commozione ogni volta rinnovata, il padre scoperto a leggere le sue poesie giovanili e così commenterà quell’arte coltivata come un’ascesi: “Mi penso bambino e ricordo che mi affacciavo la mattina presto a guardare dalla finestra della stanza dove dormivo, mi affacciavo a guardare la pineta, il muro bianco della facciata della chiesetta del Carmine. Contemplavo luoghi che erano per me incanto: il lavatoio, i fiori delle magnolie posati come colombe nelle foglie verdi, il campanile della chiesa di Santa Barbara visto da via Lavatoio, il Santissimo esposto nella chiesa di Sant’Antonio. In me tutto si faceva stupore, incanto, silenzio. Nel passare degli anni il silenzio si è fatto contemplazione, immagine, parola, ritmo, musicalità, sospiro, palpito, segno, verso libero. Sono momenti imprevisti, sfide per cogliere il mistero del vivere: i giorni, le ore, gli attimi, le immagini, la memoria, i sorrisi e le lacrime, il dolore vivido, la gioia tenue, le ferite sanguinanti dell’anima, dell’amore. Tutto si fa armonia, si ricompone nella sinfonia del mio vivere, della mia passione. Ecco, la mia poesia, il mio essere poeta, è la mia passione. La passione accompagna la mia vita. Non è dolore, è intensità… anelito dell’invisibile, dell’indicibile, dell’ora e non ancora, della ricerca… La poesia è bellezza, bellezza di stupore che si fa parola, ritmo, immagine, mistero…”.

Naturalmente don Pittau cronista delle sue intuizioni, dei suoi trasalimenti poetici, è uomo che intuizioni e trasalimenti, slancio spirituale vive nella fatica materiale del quotidiano, che è quella dell’operaio: operaio sempre e comunque, quando pensa e progetta, quando organizza, quando dice messa o presiede una redazione o una comunità, quando si rimbocca le maniche e si carica a giorni “anche cento paioli d’impasto / sulla spalla salendo una ripida e lunga scala / tirando una fune sempre troppo ruvida / non porto guanti, non ne ho / i paioli sono troppo pesanti per me / e fa freddo”, come scrive risvegliando le fatiche nel villaggio di Grenay, in Francia, alla fine della esperienza di mille giorni nel Vietnam, da cui gli americani e i militari fascisti al governo del paese l’hanno costretto ad andar via imputandogli le denunce da lui fatte della sporcizia che in quella guerra ha scoperto in supplemento alla sporcizia che c’è in ogni guerra. (Sarebbe tornato in Vietnam per qualche settimana per conto dell’ONU, al fine di documentare il rischio di genocidio dei Montagnard, vessati dai vietcong comunisti così come dai regolari alleati degli americani).

Operaio sempre e operaio nella sua terra, sperimentatore e controcorrente. Nell’oratorio di Tuili, da giovanissimo viceparroco, fra 1965 e 1966, ha abbattuto gli artifici delle separazioni fra ragazzi e ragazze, ha consentito e anche favorito il gioco comunitario, il ballo degli adolescenti… A Villacidro, parroco fondatore della Madonna del Rosario mette in capo ai laici almeno la metà delle responsabilità di conduzione della comunità. E quando potrà combinare la responsabilità della parrocchia a quella della Caritas diocesana, dopo essere partito con cooperative e corsi professionali, si lancerà nella costruzione di una rete di centri d’ascolto, e poi appunto di comunità e case alloggio in risposta ai bisogni sociali più vari: nel tempo verranno le comunità di recupero dei tossicodipendenti (a Morgongiori e a Serramanna), le case per anziani, per malati psichici, per donne violate, ecc. L’intero territorio, dal Terralbese al medio Campidano passando per la Marmilla, ne è interessato. Verranno cooperative di produzione e lavoro, così nell’artigianato come nell’agricoltura, verranno iniziative le più diverse mischiando la Chiesa alla società, la società alla Chiesa…

Il prete glocal ha sposato una causa, non un territorio soltanto, ma tutti i territori, tutte le società, tutte le persone. Don Angelo Pittau è un orgoglio nostro. 

La parte finale della sua intervista consegnata al libro Viaggiando Chiesa è tutta riferita a quanto egli ha avvertito ed avverte essere l’urgenza forse prioritaria della Chiesa d’oggi (o forse della Chiesa di sempre): la parresia, la franchezza evangelica, lo sforzo (ripagato dalla… incomprensione, e forse ostilità, generale) di dire sempre e comunque la verità, a se stessi e ai più vicini, e poi a tutti, come dono, non come giudizio di condanna… Le sue parole sono insieme delicate e sferzanti: teme l’acquiescenza della Chiesa comoda, il conformismo e il perbenismo, quello stare sempre in zona protetta, mai sulla frontiera.

Fra breve, agli 80 anni, a Villacidro don Angelo Pittau sarà festeggiato con una grande mostra degli scritti minori e non conosciuti di Giuseppe Dessì: tutti sono invitati a partecipare.


Alcuni scritti – taluno è anche inedito – di Angelo Pittau


Vietnam, e un programma di vita

Il dolore è così profondo che ormai ha raggiunto i limiti dell'inesprimibile. Più che dolore, momento passeggero di vita è diventato mistero. L’inesprimibile è questo mistero. Mi sembra oggi di riuscire ad incominciare ad esprimermi almeno con me stesso non tanto nella verità dei fatti ma nella comprensione, passione di questa mia vita.

Ieri, la sera, ascoltavo perdersi nel limite di questa foresta le note di un trio di Beethoven, perdersi nel silenzio e nelle infinite voci di questo bosco tornato bestialmente inesplorato o abitato dall'uomo in attesa d'uccidere pietrificato dalla paura d'essere ucciso. È stato quel momento che mi ha risvegliato ed adesso batto le palpebre al contatto di questa luce che sapevo d' incontrare.

Forse sono venuto qui per questo, chiamato dalla linfa vitale che non vuole perdermi.

Prima mi ero agitato nel ricordo dell'ieri poi nelle notizie di questo Vietnam. Adesso sto per perdermi ancora nella preoccupazione di fare qualcosa, di una programmazione, di un futuro. Mentre niente di tutto questo è il mio problema: quanto piuttosto nella libertà e nell'autenticità vivere il respiro del mio essere, abbandonarmi ad esso e nient'altro.

La vita si delineerà sola, aperta, calda, pronta ad essere posseduta.

Alla vita non si fa violenza. Essa si dà, è vero, solo ai forti ma i forti devono possederla nell'amore, e sarà questa la loro forza.

Questo dolore è un mistero. Non è la mia vita. È la vita di questi uomini con i quali vivo, degli uomini tutti. Il condividerlo è la mia chiamata, il mio sogno. Tutto l'altro nella mia vita è secondario, orientato a questo.

Non voglio leggere nel mio passato, la mia apparente inquietitudine era una chiamata vitale per sorseggiare (o inghiottire amaramente piuttosto) ai differenti calici del mondo: le masse del Sud Italia, l’immigrazione, l’alienazione delle nostre città, il proletariato e poi questo calice amaro che è il Vietnam.

Qui il dolore diventa l'aria che respiriamo. Non è più a livello individuale ma di popolo. Un dolore come quello degli schiavi nei secoli passati, dei proletari russi, francesi... Un dolore che qui si trasforma (Dio mio non so se bestemmio) in male perché è accettato, a volte benedetto, predicato. La gente lo evita, non sale a livello di coscienza, imputridisce tutto.

In alcuni è diventato coscienza e a livello di coscienza molla di ribellione, rivoluzione, ansia di liberazione. In altri invece è fonte di bestialità. I morti e feriti qui sono milioni: non c'è famiglia che non piange qualcuno, l'odio è negli animi e con l’odio la paura. Su questo odio e su questa paura sapientemente fatti crescere specula il capitalismo, la sete di potere di pochi...

Ecco, il dolore è questo dolore di un popolo che in me si sta facendo coscienza, spasimo. E il mistero sono queste vite perse.

Una madre che vende la figlia, una ragazza che si vende per 200 piastre, non è meno triste di 200 mila prigionieri torturati, dei morti di Kontum dopo la firma della pace, dei preti che si arricchiscono coi mille traffici (compreso quello delle ragazze), di questo popolo vietnamita vittima ma che a sua volta si fa omicida del popolo Montagnard e sperpera il poco che ha per cose non essenziali.

Io sono immerso in questo popolo, sono nella sua corrente, lucido vedo e sopporto; soffro ma impotente. Alla sofferenza del popolo che cerco di condividere (in me fatta coscienza) si aggiunge la sofferenza di questa mia impotenza. L’impotenza del singolo: sono i popoli che fanno la storia; e l'impotenza di essere in una casta che, qui più che altrove, ti vuole persecutore, oppio dei popoli…


Soccorso dai samaritani

In un albergo di Genova, dopo la fine della esperienza del Vietnam, respinto per aver detto la verità della guerra del Vietnam, anzi soltanto un decimo della verità: è bastato dire un decimo della verità per farmi cacciare, non sarebbe bastato dire tutta la verità per togliere il sonno a chi non vuole sapere.

Il disagio interiore è squassante, impedisce di riprendere la militanza diocesana come se l’esperienza vietnamita non ci fosse stata. Ci vuole tempo per rientrare nell’Europa bene. C’è ora il bisogno di sparire, addirittura sparire a se stesso. Nell’Europa bene bisogna rientrarci, e dopo in Italia e in Sardegna e in diocesi, ma maturando altre esperienze preparatorie; sennò il rischio è l’involuzione. Quella non del prete-operaio, se prete-operaio è soltanto una formula, ma quella dell’operaio, del manovale, del muratore, essendolo integralmente: come i Piccoli Fratelli. Manovale-muratore con gli emigrati a Lione, gente dell’Italia e della Spagna o del nord Africa o della Jugoslavia.

Mantenendo certo consapevolezza del sacerdozio conquistato ma vivendolo diversamente da ogni catechismo arrugginito, riportando l’umanità, il tratto umano in quel tanto di sacro che è contenuto – come dice la parola stessa – nel sacerdozio. Dunque diventare un poveraccio come quello della discesa da Gerico a Gerusalemme e incontrare i samaritani, i volenterosi che mi accolgono e curano. Non sono io ad accogliere e curare, sono accolto e curato. “Mi ungono con l’olio dell’amicizia, mi purificano con l’aceto della verità”. Sono quelli del Gallo, a Genova, che mi assistono.

Non ho neppure trent’anni, vorrei incontrarmi, confrontarmi con i preti giovani come me. Ho bisogno di tornare all’infanzia quando volevo crescere per diventare prete, invece che diventare uomo. È cambiata oggi la prospettiva. 

Al confine dell’Isère, verso Lione: luogo senza terra, senza fatti e senza vocazione, luogo di vita e di essere che soffrono e lavorano mai coscienti.


A dir di poesia

L’amore alla poesia mi ha accompagnato per tutta la vita, quasi dalle elementari. Ho letto i classici greci, latini, delle lingue moderne, ho letto i poemi indiani, le poesie cinesi, giapponesi. La bibbia per me è un libro poetico.

Credo che l’estetica, il bello non sia una componente della vita, ma la vita stessa.

La vita è bella ed è buona, nella Scrittura bello e buono sono un’unica parola: Dio è bello e buono, anche l’uomo è bello e buono, la creazione, il cosmo è bello e buono. Così colgo nella mia vita attimi di bello e di buono, attimi che diventano tratti, parole, soffio, respiro.

Nel mio scrivere non ci sono punti e virgole. I versi sono immagini, che si delineano con le parole dei versi, che prendono corpo con il respiro, le pause gli a capo.

A volte è il mio pensiero, l’ascolto delle sensazioni, dei brividi, dei sorrisi accennati, delle lacrime, della gioia che esplode, del dolore che lacera, dei sentimenti che emergono dal magma del mio vivere.

A volte la mia poesia è il mondo che irrompe nel mio vivere: la famiglia, le famiglie, i bimbi e i giovani, i volti delle donne, i poveri, la guerra, la fame, il lavoro e la mia fede: così la mia poesia diventa comunicazione, comunicare con l’altro, comunicare l’Altro, il Totalmente Altro.

 Nella poesia si diventa liberi, una libertà che supera i limiti del ruolo, della paura, del giudizio. Nella poesia si è sinceri, se non si è sinceri non è poesia: il bello, il buono, il vero, sono veri, liberi.

Questo mio scrivere mi ha seguito negli anni della giovinezza in seminario a Cuglieri, poi a Tuili, in Vietnam, in Africa, in Honduras e tra i Chiapas in Messico, in Ciad, in Haiti… ma tutto ritorna all’infanzia, a Villacidro, alla passione per la sua gente.

Da questo sono nate le mie poesie. Anche quelle che scrivo per una nascita, per un matrimonio, per i Natali, per la Pasqua. 

Se penso ai miei libri di poesie che sentii il bisogno di scrivere e di pubblicare credo che siano il percorso della mia vita.

Lasciatemi solo a pensare, furono momenti della mia giovinezza che volevo fissare e non perdere. Al di là del Giordano era il mondo mio che scoprivo ricco di fascino e che in qualche modo dovevo lasciare per andare “al di là”, un mondo sconosciuto, pagano, un mondo dove dovevo essere profeta inascoltato. Mie ferite è il mondo del Vietnam che diventa totalizzante, ferite del mio vivere, del mio essere. Ed Io ritorno è il peso del vivere amaro in Vietnam, a Torino. È il richiamo della mia Sardegna, del mio unicum. Stelle di Terra sono il mio andare per terre e città sconosciute ma amate. Sono poesia della maturità, dell’impegno, di una dimensione che ho sempre avuto, quello di cittadino del mondo. Leggère sono poesie dei miei ultimi anni affaticati dagli impegni, responsabilità. In certo qual modo sono rugiada nel mio sudare.

Ho continuato a scrivere in questi anni, non so se pubblicherò, ma ho scritto per me, per gli amici, perché anche per loro sono… Brividi miei.


Del rapporto con Giuseppe Dessì

Conobbi Giuseppe Dessì negli anni di teologia. In estate veniva a Villacidro con una certa regolarità, credo che ne avesse bisogno per il suo scrivere, per il suo narrare.

Lo conobbi grazie alle sue cugine, Angela che viveva a Villacidro ed era la farmacista del nostro rione ed Antonia che in estate veniva con i due figli nella casa paterna, la casa di dott. Alfonso Dessì medico e mio padrino di battesimo con la figlia Antonia. 

Ci incontravamo la sera all’albergo Esit sotto Giarranas: dall’albergo si vedevano Villacidro e i paesi vicini. Era un incanto. Attorno a Dessì c’era dott. Gino Aru, dott. Aldo Bolacchi, dott. Zuddas, Mario Palmas. Mi aggiungevo a loro io chierico, in sottana per di più. Loro erano tutti laici, agnostici. Più grandi di me mi accoglievano senza difficoltà, si parlava di tutto. Ricordo che li ascoltavo, mi ascoltavano, tra loro erano amici e si rispettavano, si accettavano così come erano l’uno diverso d’altro.

Dessì ascoltava e cercava di portare la conversazione sul paese, sulle famiglie, sul passato ma anche sulla situazione attuale, sulla vita sociale, comunitaria.

Quando mi iscrissi alla Pro Deo, l’attuale Luiss, subito frequentai Dessì nella sua casa di Monte Mario. Una casa piena di libri e di quadri. Sentivo Dessì amico come anche la sua compagna poi moglie, Luisa.

A casa di Dessì c’era una specie di foyer, Dessì cominciò a non uscire un po’ bloccato dall’ictus. Lui si rifugiava nello scrivere e nel dipingere. 

Dessì voleva che gli parlassi di Villacidro, mi riempiva di domande, non riuscivo ad inseguire i suoi ricordi di bambino: le strade, le campagne, la gente di Villacidro, il cambiamento, un mondo nuovo che si affacciava spegnendo il vecchio.

Voleva soprattutto che gli parlassi della sua famiglia, dei Dessì, dei Pinna. Poi pian piano parlammo di religione, della chiesa, del Concilio.

Era amico di Carlo Carretto e me ne parlava tanto, era amico di Gino Bulla della Pro Civitate Christiana di Assisi, fondata da don Giovanni Rossi: Carlo Carretto e la Pro Civitate Christiana hanno influenzato decisamente la mia vita.

Dessì aveva un modo di credere oggi diremmo irrazionale: credeva come credeva sua nonna. Lui non si è mai detto ateo, sotto il cuscino aveva il rosario, lui mi disse che era il rosario della nonna.

Anche con Luisa avevo un bel rapporto di amicizia e confidenza. Luisa era fragile e allo stesso tempo forte per poter vivere a fianco di Giuseppe Dessì non solo al vertice della letteratura italiana ma ormai anziano, malato, bisognoso della sua assistenza. 

Luisa mi disse, allora ero prete da poco più di un anno, che io ero l’amico intermediario fra lui Giuseppe e Dio. Mi mise questa responsabilità e non so se ne sia stato capace di rispondere a questo suo desiderio: Dessì in quegli anni era sereno. Ottenuto il divorzio poté sposare Luisa, al matrimonio celebrato a casa c’era Berlinguer, Dessì volle che ci fossi anch’io e un padre domenicano, quasi testimoni.

In Vietnam ebbi una corrispondenza quasi regolare con Dessì. Voleva che gli raccontassi. Lui mi rispondeva mostrando la preoccupazione di un padre verso il figlio in pericolo.

Mi sentivo confortato per il suo sostegno alle mie prese di posizione. Al rientro dal Vietnam continuai a frequentarlo sino alla morte, morì nel 1977. Mi cercarono con ansia, non fui presente. Ma a Villacidro l’ho seppellito io, concordai con Luisa il progetto della sua tomba e la lapide posta in via Roma. 

Dopo la morte mi ritirai delicatamente, tanti erano quelli che si volevano protagonisti. Nel 67 quando diedi la tesi “L’ambiente sociale nell’opera di Dessì”, Dessì mi mostrò non solo l’amicizia e l’interesse ma quasi il suo orgoglio: mi bastò e mi basta.

Oggi esiste la Fondazione Dessì ed esiste il premio letterario. Non posso che approvare ma credo che bisognerebbe fare un’azione più completa.

Sembra che la Fondazione e il premio operino per una settimana, la comunità villacidrese partecipa a suo modo alla settimana del premio con presenze che non hanno niente a che fare con Dessì e con Villacidro.

La Fondazione Dessì deve lavorare con continuità per Villacidro, deve far sì che il messaggio dell’opera del Dessì che scaturisce dai romanzi e da tutto il vivere di Dessì stesso serva alla crescita sociale, culturale, umana di Villacidro.

Morto Dessì ho conservato tutte queste cose dentro di me, mi hanno aiutato a maturare, forse a far meglio il parroco a Villacidro per oltre ventisette anni, mi sono servite ad amare il paese con spasimo, ad immergermi nella vita quotidiana come uomo di lotta nella vita sociale, nel mondo del lavoro, nei quartieri e perché no? nella Chiesa, il luogo della mia fede.

Fonte: Gianfranco Murtas
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