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Gianfranco Murtas

Nell’artigianato artistico, nel dibattito civile e nelle provocazioni socio-politiche i linguaggi della rivoluzione quotidiana della Comunità di Sestu adesso ai cinquant’anni

di Gianfranco Murtas

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Prendendo lo spunto e quanti materiali! da Comunità di Sestu, a 50 anni dalla nascita, il libro che ho in mano ancora fresco di stampa, preziosa raccolta di cronache nonché fonte – bisogna dirlo – di innumerevoli spontanee suggestioni di mente e sentimento, vorrei con questo nuovo contributo fermare l’attenzione specialmente su due aspetti che conquistano ancora alcune fra le prime delle duecento pagine dell’opera (peraltro diffondendosi per vie carsiche in molta parte del corposo resto): l’apporto recato da Salvatore Vargiu, soprattutto in quanto disegnatore, al lavoro d’artigianato artistico della cooperativa comunitaria e l’impegno socio-politico, in un più ampio quadro culturale e di presenza ed attenzione civile, da parte della Comunità in quanto tale.

Parto da quanto, in un breve ma densissimo capitolo, è dedicato al pittore e commediografo (oltreché cento altre cose tutte di qualità creativa) quartuccese il quale, fin dai primi tempi, era stato coinvolto nel progetto della famiglia comunitaria, nel suo farsi e stabilizzarsi, nel suo divenire maturando, allargando il cerchio delle partecipazioni così come delle attività. Sì, così in un misto continuo di quotidianità, sempre consapevole di limiti e però anche di potenzialità, e di avanzamenti, di novità tanto nella tipologia delle produzioni da cui ricavare i mezzi materiali del vivere con signor decoro quanto nell’offerta (ora di spettacoli ora di dibattiti e “serate pensanti”) al paese, al territorio, a quei circuiti sociali sparsi in provincia e oltre…




Salvatore Vargiu

Salvatore, tuttora componente della Comunità, a lui dobbiamo l'affermazione dei lavori artistici su rame. Artista poliedrico (soprattutto pittore), drammaturgo, poeta, attento osservatore delle vicende umane, con il suo genio creativo ha dato, ad una materia fredda come il rame, un'anima, l'anima di un popolo in tutte le sue sfaccettature.

Usi, costumi, tradizioni, spiritualità e sentimenti di un mondo in lenta agonia (la società agricola e pastorale della Sardegna) sono diventati "disegno", ovvero impronta base da riportare sulla lastra in rame. In tal modo la cooperativa ha usufruito nel tempo di una straordinaria galleria di immagini e di elaborazioni grafiche che permettono a chi oggi continua a lavorare il rame di soddisfare le più svariate richieste. Salvatore ha saputo con pazienza e tolleranza umana completare l'addestramento di alcune persone che altrimenti non avrebbero raggiunto buoni livelli esecutivi. Il suo tocco artistico correggeva, completava, integrava e dava energia non solo alle figure umane ma anche agli ambienti domestici e ai paesaggi del Campidano, oggi in parte scomparsi.

 Siamo anche orgogliosi che la Compagnia Olata di Quartucciu, da lui diretta e per la quale ha scritto tante commedie in lingua sarda, per tanti anni ha utilizzato il nostro palcoscenico, aperto a tutti, per le anteprime, servivano anche per gli ultimi ritocchi prima di essere rappresentate pubblico. Davvero peccato che soltanto tre suoi testi siano stati pubblicati. Se si pensa che ha scritto una quarantina di commedie, di cui tre rappresentate dalla sua compagnia, ci auguriamo che prima o poi qualche gruppo teatrale in attività riporti sulla scena i personaggi del mondo creato da Salvatore.

Lo spazio-tempo di un creativo talentuoso

Io Salvatore Vargiu l’ho conosciuto quarant’anni fa: ero stato introdotto alla sua arte e insieme alla sua persona, e attraverso lui e con lui dagli Olata teatranti e anche, perché non dirlo? da don Efisio Spettu nelle ricchezze umane di Quartucciu, fratello minore, si diceva di Quartu Sant’Elena, cuscinetto fra Quartu e Selargius, porzione originale unica e irripetibile di quell’impasto che è l’entroterra urbano di Cagliari, tutto Campidano e paese senza complessi d’inferiorità verso il capoluogo. Quartucciu che tante volte mi è occorso, con Dino Pinna e i suoi colleghi di scena oppure con don Spettu di attraversare nella sua spettacolare dimensione più intima, quella che fu di un vescovo che ho molto amato e affettuosamente biografato come fu don Raffaele Piras, presule in Abruzzo.




A Salvatore Vargiu mi occorse di dedicare un lungo articolo nel 1981, riservandogli per il mensile Il Cagliaritano un ritratto di parole da accostare a quello che lui stesso di sé giovane tratteggiò con mano sicura e talento evidente: “Spogliare la pittura per centrare la vita” fu il titolo con sommarietto “Vent’anni di arte di un contemporaneo che tenta una analisi con segni e colori dell’uomo che vive in situazioni difficili” (cf. n. 1/1981).

Eccone di seguito il testo.

Salvatore Vargiu è sì un artista, ma per niente stravagante e superstizioso: sicché, neanche facendo caso al numero, nella mostra che ha allestito poco più di un mese fa presso la cagliaritana galleria del Portico S. Antonio, la stessa dove debuttò vent’anni non ha posto – per quanto sia stata la tredicesima personale – nessun’altra speranza che quella, legittima e naturale, di trovare critici interessati e pubblico attento. Non so quanto gli uni e l’altro abbiano corrisposto alle attese, certo è che il giudizio che ne ha espresso Enrico Endrich, visitatore assiduo delle manifestazioni d’arte e insieme critico sempre lucido e competente, vale una laurea: «Salvatore Vargiu ha saputo spogliare la sua pittura di tutto il superfluo, l’artificioso ed inutile che appesantisce l’espressione artistica, per rendere invece l’essenziale, in forme assolutamente moderne. Egli riesce a dare la massima efficacia alla sua rappresentazione della realtà, che penetra attraverso una particolarissima sensibilità maturata nella grave esperienza del dolore. La tecnica pittorica è compiuta, ed il gioco di luci e di colori, che è poi il suo linguaggio, è da lui espresso in modo assolutamente impressionante, magistrale».

Quarantasette anni, autodidatta, Salvatore Vargiu ha preso in mano i pennelli poco più che ventenne. Sono gli acquarelli di Beppe, il fratellino che ormai è pure lui cresciuto affermandosi anch’egli nel mondo magico dei segni e dei colori.

Da anni passa gran parte della sua giornata sempre attivo, nel domestico studiolo di via Eritrea 9 a Quartucciu. Qui vengono a trovarlo, magari per bere – fra un discorso e l’altro – una buona vernaccia, amici e appassionati d’arte, ma anche il gruppo degli “Olata”, una giovanissima compagnia teatrale fatta in casa, che recita in giro un po’ in tutto il basso Campidano le commedie in dialetto ch’egli scrive alternandole ai quadri e firmandole con uno pseudonimo anagrammatico. V. Aguris quasi a sottolineare la distinzione fra le due anime, quella del pittore e anche dello scultore e quella del poeta e del commediografo.

Non solo lo studiolo dove lavora – una tana, tre per tre, pennelli e pannelli, spatole e colori, il torchio per la stampa – ma tutta la sua casa quartuccese è una galleria d’arte. Le decine di quadri appesi alle pareti richiamano i diversi momenti artistici attraverso i quali, in quasi vent’anni di lavoro quotidiano, egli è passato fino agli approdi che abbiamo appena conosciuto.

La personalità dell’artista – eclettica eppure schiva – e la generale opinione favorevole che sul suo conto ho raccolto mi hanno indotto a questa scarpinata, in fondo agevole e gradevole, attraverso carte e testimonianze, lungo i vent’anni di un’attività sempre presente a se stessa e intellettualmente coraggiosa.

Le carte sono quelle scritte da alcuni dei maggiori critici e uomini di cultura isolani che di Salvatore Vargiu hanno seguito, con simpatia ma non con minore obiettività, passo passo l’evoluzione, l’affinamento delle tecnica pittorica non meno della maturazione dei contenuti. Potrei cominciare dalla fine, da quanto nel pieghevole dell’ultima mostra ha scritto Placido Cherchi. «Provenendo da un’esperienza “verista”, la pittura di Vargiu si inoltra attualmente in una dimensione linguistica che sembra esplorare la condizione assoluta di uno spazio-tempo posto alla radice di cose e situazioni che una volta fermavano la sua attenzione. Si tratta di una dimensione in cui le concrezioni del mondo organico – gli oggetti e i nessi storici dell’esperienza – spariscono quasi del tutto per dar luogo ai nudi contesti spaziali e temporali della loro esistenza concreta. Non più parlare dell’oggetto e delle sue qualità, ma delle condizioni qualitative del suo essere in potenza…».

Più precisamente: «Vi è sempre un qualcosa che, in forma dichiarata o inconscia, è allusivo di una finestra o di una porta: si tratta di una soglia che stabilisce una differenza tra dentro e fuori, tra l’esserci in un mondo definito “interno” e l’indefinito universo di presenza che dilaga oltre quel limite. Il rapporto è dato dalla luce». Una luce, aggiunge Cherchi, che non obbedisce a leggi fisiche, bensì ad una logica di uso simbolico: «la possibilità di un graduale trapassare del possibile nell’essere e che tuttavia si pone come cesura assoluta fissando come differenza ontologica la pur elementare differenza fra questo spazio qui e un possibile mondo là… All’atteggiamento estatico-interrogativo del metafisico subentra la concretezza operativa dell’espressionista che ristabilisce il “proprio” mondo: ne nasce una poetica dell’interiorità [sviluppantesi anche attraverso] un cromatismo molto intenso e sempre ragionato».

Questo contrasto fra i due piani dell’opera – una norma nella sua produzione degli ultimi dieci anni – fra il segno rigido e cupo dell’immagine prospetticamente di immediato rapporto, l’interno, sbarre di finestre, legno o acciaio e il chiarore dello sfondo, l’esterno, quasi vuole marcare la consapevolezza, piena di drammatiche sensazioni , della violenza in atto, o solitudine o noia, agonia dello spirito – metafisica della desolazione –, ma pure l’irriducibile fede nel futuro che viene, la speranza nella redenzione, l’attesa della vita incorruttibile che non finisce e che appaga le ragioni ultime ed essenziali dell’umanità.

Pennellate o spatolate mosse ormai più dalla intelligenza che non dalla foga, dalla rabbia o dalla fretta quasi di un tempo, un’attenzione maggiore alla costruzione, un’adesione ormai completa alle esigenze della “superficie”. È nato il quadro-pannello, s’è concluso il dominio dei barocchismi di cornici e passe-partout.

Gli approdi d’un lavoro ventennale. “Verista” Salvatore Vargiu partecipa nell’aprile 1961 (dopo tre anni di prove ed esercizi, di stimoli e di consigli che in specie Antonio Mura non gli risparmia) assieme a una novantina di artisti, alla terza mostra regionale d’arte sarda. Partecipa con un paesaggio ad olio, «sufficientemente lirico e intriso di dimessa tristezza», come scrive Francesco Masala.

È proprio Masala a seguire i primi passi di Vargiu nel mondo dell’arte osservando che egli «dipinge contro la sorte sereno e forte».

Quel che è possibile ammirare nelle sue tele – 38 ne espone nello stesso anno alla prima personale – è quel che può vedersi dalla finestra d’una stanza, in una casa popolare di Quartucciu: gli illuminati mattini quartuccesi e i crepuscoli oscuri di Selargius, il sole forte e penetrante del nostro Campidano, gli oggetti di casa e della terrazza, del cortile: una sedia, una brocca, una caffettiera, un bidone, un fiore secco. I primi passi percorsi nell’ambito d’una preferenza paesaggistica.

Masala profetizza, «dall’attuale condizionamento vedutistico, la sua pittura diverrà via via tesa al racconto della condizione umana osservata da un punto di vista estremamente unilaterale e soggettivo come storia di un uomo di fronte all’andare irrefrenabile degli altri uomini».

I ritratti che comincia a comporre, e forse soprattutto i mesti autoritratti (premiati) testimoniano l’intelligenza d’uno sguardo che muove dalle ricchezze inesplorate e inesauribili dell’anima e sa proiettarsi dentro le realtà più segrete dell’uomo.

Alla quarta mostra regionale delle arti figurative (Cagliari, 1962) – una manifestazione cui partecipa il gotha della pittura e della scultura sarda – Vargiu insiste coi suoi soggetti iniziali: quella carriola da muratore dimenticata in un cortile evoca la memoria di esperienze personali ormai irripetibili, e fa pensare, chissà, come emblematico documento d’una comunanza di vita familiare che s’è spezzata nel fare, alla conversione repentina e non desiderata d’una esistenza appena alle soglie della maturità.

Le personali si susseguono ormai una all’altra. Egli permane sì entro il canone verista, ma domina meglio il colore, le voci dei colori, quelle cupe, vespertine, della stanchezza e dell’abbandono non meno di quelle vivide, mattutine, solari, della riscossa e della speranza.

Osserva Mario Ciusa Romana: «Pare non senta più di spessire le linee perché il segno troppo insistito non gli permetterebbe di realizzare quel senso nostalgico di cose perdute, di elegiaco che costituisce la trama della sua attuale pittura».

Espone al “Nuovo” di Quartu: balza quindi nel continente, alla galleria romana “il Camino”. Altre significative presenze di quegli anni riguardano Sorrento e poi la collettiva cagliaritana dedicata ai mutilati ed invalidi civili, un mondo alle cui pene partecipa con la verità dell’esperienza. E poi ancora un’altra personale, sempre a Cagliari, che segna il primo, anche se temporaneo, distacco dall’iniziale ispirazione: è cessata l’evocazione «delle cose piccole e intime della casa e di qualche ricordo paesistico, la contemplazione serena del mondo… Sono sorte al suo posto delle figurazioni quasi paurose, umani simboli che si innalzano e si agitano spettrali contro fondi di cielo chiari… Raccontano davvero un dolore e una speranza», scrive Ciusa Romagna.

Anche Paolo Pais sottolinea lo stacco netto fra la produzione dei primi tre anni e quella che proprio nel ’64 anticipa caratteri, forme e ispirazioni dei lavori definitivi. Non più pittore a “plein air” di marine e paesaggi, della scafa cagliaritana e di cortili e tetti campidanesi. La trentina di oli ch’egli presenta nel ’64, frutto del lavoro invernale recano «infernali visioni che sembra vogliano, in un impeto di follia, staccarsi, quasi scappare dalla tetra scura prigione per involarsi nella calda luce che filtra dagli squarci delle anfrattuosità».

L’autore stesso indica nelle mostruose figure dei suoi quadri l’angoscia dell’uomo afflitto dal male morale e fisico, e nella luce in lontananza, l’anelito o forse la chiamata alla conversione di vita, che è però di non sempre facile comprensione: «Luce che splende nelle tenebre et tenebrae eam non comprehenderunt».

Dello stesso 1964 è la personale di Rovereto, presentata da Vittorino Fiori, e che raccoglie favorevoli critiche. È poi la volta – con un’immagine di Cristo «incantata e triste» – dello “Studium” di Cagliari che allestisce, organizzata dall’indimenticato francescano Michele Angelo Serra, una collettiva giovanile d’arte sacra.

Dopo la parentesi astrattista, Vargiu torna, fra il ’65 ed il ’69, quando più volte espone a Cagliari, e poi a Oristano, a Roma, alla dimensione figurale e paesaggistica originaria: stagni, saline, cave… simboli di povertà, «paesaggi pregnanti di cupo abbandono», come scrive Lino Cortese.

Lo accompagnano, in questi anni, ancora le critiche di Pais, che ne scrive fra l’altro sulla Tribuna della Sardegna diretta dall’indimenticabile amico Bruno Josto Anedda, del giornale dell’archidiocesi Orientamenti, dell’ottimo periodico sardo socialista Sardegna oggi, diretto da Sebastiano Dessanay, di Giovanni Lilliu che nei suoi oli rileva la prevalenza dell’interesse «per i paesaggi privi in assoluto della presenza umana o biologica [attraversati da] una totale solitudine». Un motivo di sempre che troverà compimento nei lavori degli anni ’70, fino all’ultimissima produzione.

Un numero impressionante di visitatori si presentano all’uscio di via Eritrea 9 a Quartucciu, nei trenta giorni dell’autunno ’70 nei quali egli espone proprio a casa. L’artista riceve i suoi ospiti, ha con loro un contatto immediato, una possibilità di colloquio e di confronto diretto. Una esperienza unica, che lascia il segno.

Quelle pennellate per così dire di espressionismo astratto, nelle quali però la figura ancora non è del tutto eliminata o superata, anticipata nella breve parentesi del ’64, prendono a frequentare di nuovo le tele di Vargiu. Fra il 1965 e il ’70 egli ha lavorato, s’è esercitato in prove e bozzetti. Intende esprimere i tempi, il degrado del mondo.



La contestazione giovanile che dilaga un po’ in tutte le nazioni – dai campus universitari americani è approdata a Parigi e ad Amsterdam, e poi a Milano e nelle città del sud – gli offre nuove occasioni di riflessione, ulteriori ispirazioni, anche se non è quella a convertire, a determinare la sua pittura. Dalla ricerca dei ritmi esterni della natura egli passa a «visualizzare i ritmi della vita dell’uomo, nelle sue ragioni più inconsce, nei suoi momenti veraci», come scrive nel ’74 Paolo Pais: Vargiu «tenta un’analisi dell’uomo che vive incatenato da situazioni tragiche (l’ossessivo ricorrere al rosso lo esprime eloquentemente), soprusi e violenze lo minacciano da ogni parte (il filo spinato, i ganci, gli sbarramenti)»; in lontananza però il giallo della redenzione, «la speranza dell’Assoluto e dell’Eterno», come lo stesso artista aveva detto nell’intervista a padre Serra giusto dieci anni prima: la speranza che può dominare «il dramma di tutti e di sempre senza limiti geografici o storici».

Quell’uomo insieme protagonista e spettatore, «vittima e assassino, costruttore e distruttore, oppresso e oppressore» emerge splendidamente in due quadri di quest’ultimo periodo, anche se non si tratta dei più recenti. La presenza del figurativo (“astratto figurativismo”) trova le sue estreme conferme.

“L’aborto” e “L’avaro morente”: con essi chiudo questo lungo viaggio sopra le tele e dentro l’anima d’un artista “grande”. Me li sono fatti presentare dall’amico Dino Biggio, che conosce quanto pochi altri mai, per una lunga consuetudine di vita, Salvatore Vargiu.

Quel che assimila fra di loro le due opere è la forza espressiva dei personaggi che incarnano, nella loro presenza-simbolo, la realtà dell’oppressione. Nella xilografia sull’aborto emergono le tre figure dell’ostetrico, della donna, del feto morto, rappresentazioni di sentimenti e condizioni esplodenti: la violenza del forte sul debole, il dramma «sofferto quasi passivamente, con estremo senso di impotenza e, ad un tempo, di rabbia», la realtà d’una morte che condiziona – quella «massa informe sanguigna» – le relazioni sociali.

Osserva acutamente Biggio: «Anche se si sarebbe portati a vedere solo nel feto o nella donna le vittime del dramma, l’opera di Vargiu ha un contenuto di maggiore respiro, che richiama l’idea della mancanza di libertà, propria della società contemporanea e di tutta una cultura, e benché l’ostetrico la esprima emblematicamente e in modo quasi irreale, egli stesso è, in definitiva, figlio (e vittima) del suo tempo, della sua società, della sua cultura».

Questo medesimo status ritorna con vigoria nell’ “Avaro morente”: la faccia disumana, le mani proteste «in un disperato tentativo di serrare qualcosa che ormai sfugge al suo dominio, causa di oppressione verso altri uomini, personaggi che non compaiono eppure sono non meno presenti». Ecco la presenza-assenza di cui sopra si diceva, di personaggi ormai non più necessari. Parlano i segni, i colori di Salvatore Vargiu.




Ancora su Quartucciu e Sestu in tv

Fu nello stesso 1981, in autunno, che potei riportare un caro discorrere sui talenti di Salvatore Vargiu, ma cogliendone anche il versante letterario/teatrale, in televisione. In quegli anni – sono già passati quattro e più decenni! – l’emittenza privata in Sardegna poteva contare sulla già robusta “quercia” di Videolina e sulla (forse) più leggera e (forse) più fantasiosa rete inventata da Gianni Onorato insieme con Antonio Costantino e alcuni altri: La Voce Sarda, con sede in un’ala dell’antico e prestigioso palazzo Sanjust di piazza Indipendenza e ingresso in via Canelles. Mi fu data allora l’opportunità di “giocarci” anch’io, e fu per me un impegno per molti mesi piuttosto totalizzante, seppure a complemento dei miei prioritari doveri di fabbrica e (sempre gratuitamente) dopo gli “speciali” dedicati a Francesco Alziator ed a Foiso Fois ed i numerosi servizi che anticiparono tutto, facendomi fare ottimo apprendistato, con la discreta direzione di Paolo Latini e la collaborazione di giovanissimi e bravissimi tecnici e registi. Vennero fuori allora tredici trasmissioni (più uno “speciale”) impostate come “puzzle” di quadri tematici fra storia e attualità così nella città capoluogo come nella provincia.

Fu in quel contesto che tornarono Sestu con la sua comunità e cooperativa (nella terza puntata, ottobre 1981) e Quartucciu con il suo Salvatore Vargiu ed i suoi teatranti Olata (nella sesta puntata, novembre 1981).

Scorrendo dunque le pagine di Comunità di Sestu, a 50 anni dalla nascita – lo ripeto: bellissime e preziose, necessarie alla riflessione sociale d’oggi, ma anche… risarcitorie, moralmente e religiosamente risarcitorie, di numerose memorie che abbiamo pianto in privato, nel tempo – mi sono tornati alla mente alcuni episodi che la famiglia comunitaria di vico Dante/via Quasimodo e le sue colonne hanno avuto per protagonisti e me come marginale sì, ma affascinato biografo, partecipe.

Si sa come funziona il giornalismo televisivo, tanto più quello documentario, chiamato a combinare, nel montaggio, il testo letto fuori campo e gli inserti ora d’intervista ora di scena.

La penso dunque soltanto come modesto contributo di documentazione alla storia della Comunità-cooperativa sestese ed alla biografia di Salvatore Vargiu in abbraccio ai suoi Olata, questa ripresa odierna, d’obbligo parziale, dal pilotino delle trasmissioni registrate e diffuse allora…

Peraltro è da dire che i testi pubblicati sulla carta nei mesi precedenti – così sulla Comunità-cooperativa come su Quartucciu e il suo artista – poterono essere utilmente riversati nel nuovo prodotto televisivo, forse anche valorizzati dal lettore, se bravo, e dalle immagini di accompagno…

“Quartucciu fra quadri e commedie”.

[Commedia - Olata - min. 3,44] – Così Quartucciu si rivela specchio dell’intero campidano e di tutta la Sardegna: la disoccupazione, la promessa d’un lavoro, la delusione per un posto che non arriva mai, la tentazione, qualche volta la prepotente affermazione, del qualunquismo, della sfiducia, della rinuncia alla lotta [su immagini della commedia]

[presentazione degli attori]


Ecco il giovane gruppo teatrale tutto composto da operai, e intitolato a Olata – uno sbandato quartucciaio dell’inizio del secolo scorso che, ristretto nelle prigioni di San Pancrazio, alla popolarità d’una sua canzone dovette la propria liberazione – che già da qualche anno ha dedicato l’esclusivo della propria attività alle commedie dialettali di Salvatore Vargiu, dopo il fortunato debutto coi classici lavori di Antonio Garau [immagini della commedia]

Quartucciu: fu il regio decreto n. 1056 del 26 aprile 1928 anno VI dell’era fascista a declassare Quartucciu, facendolo – assieme a Monserrato, Pirri e Selargius – frazione di Cagliari. 53 anni fa: “mezzo secolo di umiliazioni e di soprusi”, di dimenticanze e di disattenzioni da parte del Consiglio comunale del capoluogo, dicono – senza distinzioni di scelta politica – i cittadini di Quartucciu, che da anni combattono per l’autonomia [repertorio di Quartucciu, inframmezzato ogni 15 secc. circa da 10 secc. da commedia senza audio]

Con circa 8.000 abitanti e un territorio di 2.700 ettari, Quartucciu è una delle periferie di Cagliari, periferia nel senso peggiore dell’espressione, non avendone né la vocazione né la storia: lo denunciano l’irrisolta centrale questione urbanistica, se è vero che l’abuso e l’imprevidenza l’hanno vinta su ogni sforzo programmatorio; e gli esplodenti problemi sociali, dalla disoccupazione e sottooccupazione agli essenziali servizi collettivi – autentici disservizi, dall’acqua alle fogne, dalle strade ai trasporti, dal verde pubblico all’illuminazione, ecc.

Il cinquantennale fagocitamento nell’ambito amministrativo del capoluogo ha stravolto la fisionomia dell’ex Comune che da sempre e fino agli anni ’30, aveva conosciuto un notevole sviluppo agricolo: vigneti, agrumeti, mandorleti, ecc.

Accanto all’attività agricola, particolare rilievo ha sempre avuto l’artigianato. Ma agricoltura e artigianato sono oggi in crisi, mentre cresce la disoccupazione giovanile – che però, anche se non piace sentirselo dire, noi senza gratuito populismo non addossiamo alla responsabilità solamente del cd. “sistema”. Comunque sia, si fa sempre più difficile l’inserimento dei giovani nella società, e nel vuoto delle attività associative e culturali, a Quartucciu la droga è ormai diventata una maledizione da cui non ci si sa più redimere.

Soprattutto nell’immediato dopoguerra, e poi durante tutti gli anni ’50 e ’60 la frazione è stata tributaria verso il capoluogo di autentiche folle di muratori, maestranze a cui si deve, in gran parte, la ricostruzione di Cagliari. Cagliari – bene o male – è rinata; Quartucciu – nel frattempo, ed è sempre peggio – si è socialmente disfatta.

Oggi è un dormitorio, progressivamente invaso da cagliaritani riuniti in cooperative edilizie cui sono stati assegnati diversi terreni all’interno del perimetro della frazione.

Quartucciu ha perduto la sua anima, e non la sa ritrovare. Speriamo abbia modo di concretarsi, sennò è la fine, quel certo risveglio di spirito associativo, nella cultura o nello sport, nel teatro o nel folclore, che è sembrato recentemente avvertirsi. [su repertorio di Quartucciu…]

Fino ad ora gli Olata e il loro autore hanno, quasi da soli, riempito il vuoto. [sugli Olata mentre si presentano]

Gli Olata e il loro autore, Salvatore Vargiu: il quale – se è vero che da pochi anni ha cominciato ad esser conosciuto come commediografo, come scrittore di teatro – è anche vero che già ormai da oltre vent’anni è sulla scena: artigiano del pennello e artista del colore [su Salvatore Vargiu silenzioso]

[intervista: iniziai nel ’58… dal niente … cose più elementari… feci presto… mi ammisero alla regionale nel 61… mostra regionale – diverse fasi: mia domanda

[prima in questo cortile, finestre, uscire, mare, saline, scafa, strade di paese fino al ’70] [lasciandogli il primo piano – coprire con xilografie]

«Quella carriola da muratore evoca la memoria di esperienze personali ormai irripetibili e fa pensare, chissà, come documento di una comunanza di vita familiare che s’è spezzata nel fare, alla conversione repentina e non desiderata d’una esistenza appena alle soglie della maturità»

Dietro il muro di una casa anonima, una casa fra le tante di Quartucciu o di Selargius, dimenticata in un cortile [su case, vie, carriola]

«Quel che può vedersi dalla finestra d’una stanza: gli illuminati mattini quartucciai ed i crepuscoli oscuri di Selargius, il sole forte e penetrante del nostro campidano, gli oggetti di casa e di terrazza, del cortile: una sedia, una brocca, una caffettiera, un fiore secco, un bidone»

«È Francesco Masala a profetizzare l’uscita dal condizionamento vedutistico; sarà Mario Ciusa Romagna a rilevarne il salto di qualità: cessata l’evocazione “delle cose piccole e intime. La contemplazione serena del mondo”; ecco al loro posto “figurazioni quasi paurose, umani simboli che si innalzano e si agitano spettrali contro fondi di cielo chiari. Raccontano davvero un dolore e una speranza…»

[intervista: c’è sempre questa ricorrenza… contrasto interno-esterno… fondo chiaro… esprimerlo… sempre qualcosa – l’intenzione esprime contrasto condizione umana… spiritualità]




«Nelle mostruose figure dei suoi quadri, Salvatore Vargiu esprime l’angoscia dell’uomo afflitto dal male morale e fisico, e nella luce, in lontananza, l’anelito o forse la chiamata alla conversione di vita, che è però di non sempre facile comprensione: Luce che splende nelle tenebre… Ecco la pittura della maturità, il pittore vuole esprimere i tempi che vive, il degrado del mondo»

«Dalla ricerca dei ritmi eterni della natura egli passa a visualizzare i ritmi della vita dell’uomo, nelle sue ragioni più inconsce; Paolo Pais sottolinea l’impegno di Salvatore Vargiu ad analizzare l’uomo che vive incatenato da situazioni tragiche, soprusi e violenze lo minacciano da ogni parte, in lontananza però il giallo della redenzione, la speranza dell’Assoluto e dell’Eterno – secondo un’espressione dello stesso artista – si afferma come simbolo di quella speranza che può dominare il dramma di tutti e di sempre, senza limiti geografici o storici»

Quel contrasto fra i due piani dell’opera – ottimamente analizzato da un altro critico, Placido Cherchi – «fra il segno rigido e cupo dell’immagine in primo piano, l’interno, sbarre di finestre, legno o acciaio, e il chiarore dello sfondo, l’esterno, quasi vuole marcare la consapevolezza, piena di drammatiche sensazioni, della violenza in atto, o solitudine o noia, agonia dello spirito – metafisica della desolazione ma pure l’irriducibile fede nel futuro che viene, l’attesa della vita incorruttibile che non finisce e che appaga le ragioni ultime ed essenziali dell’umanità»

Questo è Salvatore Vargiu. Ora il lucido linguaggio dei colori, con la durezza delle idee e il contrappunto dei sentimenti affidati a pennelli e spatole, ora con l’arte dell’ironia, nella commedia o nella poesia, egli partecipa, attivo, al suo tempo, entra nei meandri della psicologia sociale, e non smette di dire la sua. [inserto quadri – focus aborto - , mix commedia]

“Sestu ed i suoi ramai”

“Ad sextum lapidem”: così, per ben 1.800 anni, Sestu è stata conosciuta, per così dire, dal mondo intero. La pietra che ne testimonia il battesimo romano (è stato detto trattarsi del 208 d.C.) è appunto a pochi metri dal battistero della monumentale chiesa gotico-aragonese di San Giorgio, che risale però a circa mille anni dopo. [su panoramica]

Le origini del paese, ad ogni modo – vi si diffonde Franco Secci in un documentato articolo pubblicato sul numero I di “Su Bandu”, un periodico fabbricato in economia ma ricco di notizie e di interventi, uscito di recente a Sestu – possono farsi risalire al terzo millennio avanti Cristo. [su “Su Bandu”]

Sestu nacque nella zona dove dal 13° secolo la piccola chiesa di San Gemiliano si impone, al cielo e alla terra, come simbolo storico e capitale monumento del paese. [su San Gemiliano]

Ha scritto Foiso Fois [testo dattiloscritto… la chiesa è un minuscolo]




Tutt’intorno un parco che l’amministrazione civica – una delle più dinamiche dell’intera provincia – sta sempre meglio attrezzando per l’uso dei cittadini. Dentro il parco, a ridosso del muto di cinta che circonda la chiesa, le baracche che, come nelle feste paesane della Barbagia, durante la festa del santo patrono si riempiono dei paesani che qui trasmigrano.

Ha scritto Cesarino Picciau Farris [testo dattiloscritto… Nelle verdi colline].

Presentando Sestu ai lettori de “L’Unione Sarda” il giornalista Mauro Manunza, in un recente reportage, dopo aver riferito sull’imminente conclusione dei lavori d’impianto della rete fognaria cittadina, con archiviazione – speriamo – di tante epidemie infettive delle quali il centro campidanese ha finora avuto quasi il primato nella provincia – ha scritto [testo dattiloscritto…Risolti i problemi igienici] [su repertorio]

Sestu ha la febbre dello sviluppo, la fregola di equilibrare quanto finora non è andato per il verso giusto, nei servizi collettivi e nelle attività associative, culturali e sportive, non meno che nell’edilizia (soprattutto quella popolare, pubblica e privata), e nella produzione industriale e agricola. [idem]

Il problema incombente è quello dell’occupazione per quasi un migliaio di giovani, molti dei quali con titolo di studio. [su panoramiche nuove]

La droga – sono forse 200 di tossicodipendenti – e la delinquenza minorile sono sintomi gravi e allarmanti del disagio umano e sociale di masse giovanili sbandate. Che non scusiamo, si badi bene. [idem]

Può essere che presto l’amministrazione civica, magari d’intesa con la scuola, riesca a muovere i sestesi, i giovani soprattutto, verso attività associative alla ricerca di uno spirito davvero comunitario, evitando alla cittadina il ruolo mortificante di estrema periferia di Cagliari.

Chi già da dieci anni, senza tanto chiasso, sta operando in questo senso – più d’una volta promotrice di dibattiti su argomenti amministrativi non meno che culturali, di dibattito e anche di provocazione agli spiriti quieti – è la Comunità di Sestu, anche con la sua cooperativa di artigianato artistico. [esterni cooperativa]

Sociopolitica e cultura in comunità nei primi trent’anni

Autonomia nella sussidiarietà, perciò nella inclusione, e con il lavoro, valorizzando il potenziale non lamentando il deficit. Protagonisti senza cattedra, e neppure predella, protagonisti nell’individuale e nel collettivo, testimoni di un possibile mondo migliore, senza gerarchie artificiali, ammesse soltanto quelle funzionali nell’utile di tutti. Un polmone di vita e di pensiero, di lavoro e di discussione, una presenza dinamica in una realtà comunale sì strutturata, sagomata dalla storia secolare ma pure giunta ora ad una svolta epocale, sempre più quella dell’area metropolitana che parla anch’essa, sul versante amministrativo, di sussidiarietà e coordinamento, di inclusione-integrazione (anche città-campagna) per il bene di tutti, di quelli all’apparenza alti come di quelli all’apparenza bassi.

Si racconta la Comunità di Sestu anche su questo fronte, di quel che ha pensato di essere e fare nel maggior contesto paesano ed oltrepaesano, come adesione a linee di una civiltà riformata, se non vogliamo chiamarla – ma lo potremmo - rivoluzionaria. E tutto entra qui, dalla riflessione ambientale a quella socio-sanitaria (per mali antichi e per nuove emergenze, si pensi alla droga sparsa fra i giovani adolescenti), dalla bioetica alla questione religiosa se e come in una società orgogliosamente laica (ma anche, nella sua secolarizzazione, a rischio di perdita di riferimenti), dal rilancio della conoscenza della lingua sarda a quello dell’arte musicale tradizionale, ecc.




È praticamente impossibile riassumere l'impegno nel campo socio-politico e culturale della Comunità di Sestu dalla sua nascita fino ad oggi. Un nostro limite è stato di non aver mai pensato ad una raccolta organica di quanto prodotto fin qui. Disponiamo di poco materiale e spesso è il ricordo di amici o qualche pubblicazione (non sempre a noi nota) che ci permettono di avere un quadro abbastanza verosimile.

Nei primi anni (praticamente fino agli inizi anni ottanta) le tematiche che ci hanno maggiormente visti impegnati erano quelle legate al mondo dell'invalidità e dell'emarginazione sociale in genere: organizzando convegni (come ad esempio quello per l'approvazione della Legge regionale n.6 del 1976 per la prevenzione, cura riabilitazione dei portatori di handicap); sostenendo la nascita nell'ambito del 24° comprensorio, di cui anche Sestu faceva parte, di un servizio riabilitativo per handicappati (il primo della Sardegna proprio nella nostra cittadina); favorendo in ogni sede istituzionale le politiche favorevoli all'integrazione scolastica, familiare, lavorativa; contro fogni orma di nuova istituzionalizzazione, perché la persona con difficoltà potesse trovare sul suo territorio risposte concrete ai suoi bisogni.

Nel contempo si cercava di favorire la nascita di cooperative "integrate" per tentare di avviare esperienze lavorative nelle tre (allora) province sarde (oggi ben otto). La Comunità, in questa fase, è una sorta di laboratorio, punto di riferimento per singoli e gruppi che intendono impegnarsi per una diversa cultura della disabilità. In particolare si lavora con le famiglie affinché (con i primi, miseri, sussidi dello Stato) non allontanino i congiunti con invalidità grave, ma li aiutino a stare in famiglia, rivendicando con forza alla classe politica il diritto sacrosanto ad essere sostenute.

In molti Comuni manca persino il servizio sociale (a Sestu fu istituito alla fine degli anni settanta) ed i mezzi finanziari sono praticamente inesistenti. Identico discorso vale per i malati di mente: chiusi in manicomio, senza prospettive, privati di ogni elementare diritto, allontanati dai loro ambienti spesso con provvedimenti di natura poliziesca, sono al centro di un vivacissimo dibattito politico e culturale che in Sardegna arriva affievolito.

Nel 1974, nel cinema "S. Antonio", la Comunità organizza una giornata di sensibilizzazione con una mostra sulla situazione dei manicomi e con la proiezione di un film "Matti da slegare" che suscita discussione e polemiche accese. Sono anni difficili. La riforma Basaglia arriverà nel 1980, ma la Sardegna, come sempre, non è una regione modello. La riforma psichiatrica inizierà a decollare solo alle soglie del 2000 (quando verrà chiuso definitivamente il manicomio di Cagliari) e non sappiamo ancora quanto dovremo attendere per attuarla in pieno. Il governo Soru (ai primi di gennaio 2007) ha approvato il piano sanitario regionale (dopo vent'anni di attesa) e la questione psichiatrica è tra le priorità che si intende affrontare e portare a compimento. In Italia alcune forze politiche vorrebbero, però, "rinchiudere di nuovo con la forza" e non sappiamo se lo Stato sarà capace e disposto a fare di più per evitare le sofferenze di tanti individui e delle rispettive famiglie (quando ci sono), che portano, spesso solitariamente, un peso inumano.

La droga a Sestu è arrivata alla fine degli anni sessanta. Pochi anni dopo il suo insediamento, la Comunità organizza nei locali della biblioteca comunale di via Gorizia un incontro-dibattito dal titolo emblematico: «Droga. Che fare?», che significava che non se ne sapeva molto e che si brancolava nel buio. Non è nostra intenzione ricostruire quegli anni, quanto mettere in luce l'assoluto deserto di iniziative pubbliche e l'impegno, spesso senza risultati, di pochi pionieri che "si inventavano" interventi da strada, che troppe volte non erano in grado di risolvere i problemi. Ricordiamo che a Sestu, per iniziative anche di alcuni giovani "recuperati", si era costituito un comitato "Prevenire, non punire" a sostegno di un nostro concittadino che, divenuto operatore di una comunità di recupero all'estero, era stato arrestato quando era tornato in paese per fare visita alla madre.

Il gruppo di giovani aveva fatto molte proposte valide relative alla riduzione del danno, al senso della pena, al valore del metadone, come terapia di mantenimento per chi aveva un lavoro e non voleva perderlo andando in comunità, all'importanza dei servizi pubblici per le tossicodipendenze (SERT), all'esigenza che nelle carceri i dipendenti da droghe trovassero anche le cure, e via di questo passo. In questo primo decennio un altro fronte d'impegno fu quello del diritto alla casa. Alcune famiglie problematiche vivevano praticamente in situazioni invivibili e non esistevano le condizioni perché potessero trovare alloggi decenti. Si cercò di dare qualche soluzione provvisoria e si lavorò con le Amministrazioni del tempo per dar loro un appartamentino popolare adeguato.

Nel 1978 un evento tragico (la morte per "malasanità" di Bruno Fresi, distrofico, cofondatore della Comunità) fece scalpore anche a livello nazionale e mise in luce la drammatica arretratezza della sanità in Sardegna. I viaggi della speranza erano all'ordine del giorno e occorrevano conoscenze e "accozzi" per riuscire a partire in tempi accettabili. Fu, purtroppo, una grande occasione per una sorta di mobilitazione popolare di gruppi, associazioni, neonati "tribunali per la difesa dei diritti dei malati" per spingere la sanità pubblica (di lì a poco nascerà il Servizio Sanitario Nazionale) a lavorare per dotarsi dei servizi e delle strutture essenziali non solo per i cittadini più deboli (anziani, handicappati, traumatizzati, nefropatici, ecc.), ma per tutti i cittadini che non avevano santi in paradiso.

La riforma sanitaria avrebbe successivamente messo le basi per realizzare un modello universale (valido cioè per tutti i cittadini), dichiarando che la salute è un diritto primario. Chiunque segue queste faccende sa quanto sia non del tutto attuato questo principio, in particolare per chi non ha mezzi economici e non è in grado di scegliere ospedali e cure avanzate. Per non parlare della prevenzione che è ancora la cenerentola del sistema sanitario.

Negli anni successivi nascevano, anche in Sardegna, associazioni di "categoria" che avevano il fine di migliorare la vita di tanti individui in difficoltà (para-tetraplegici, dializzati, affetti da patologie genetiche, malati mentali e loro famiglie, e via dicendo) che favorirono l'attuazione di riforme, la sensibilizzazione della gente, il miglioramento delle condizioni di vita, il crescere dell'interesse politico-istituzionale. In poche parole: il prevalere della cultura dell'integrazione sociale diffusa nei confronti della vecchia concezione che tendeva a "nascondere" dentro strutture disumane, promiscue, fondamentalmente violente.

Ma c'è ancora tanta strada da fare, perché prevalga la cultura dell'accoglienza rispetto a quella della separazione. Ultimamente assistiamo ad un sempre più massiccio ricorso agli spettacoli di beneficenza per raccogliere fondi per le più disparate iniziative a favore di questa o quella organizzazione. Segno che l'interesse delle istituzioni per politiche sociali forti si vanno, in parte, affievolendo a tutto vantaggio delle organizzazioni potenti, che riescono a rastrellare denaro con il determinante sostegno delle televisioni e del mondo dello spettacolo.

L'impegno sociale e culturale non è mai venuto meno. Convegni, seminari, dibattiti pubblici da una parte; teatro, cinema, spettacoli dall'altra. Per almeno dieci anni la Comunità si è impegnata per portare a Sestu tutto quanto veniva considerato spettacolo e animazione. Non esistevano spazi idonei e il "volontariato organizzato" era ancora di là da venire. A questa drammatica situazione si è cercato di supplire, con tutti mezzi, mettendo in moto tutte le risorse disponibili e l'entusiasmo necessari. Ricordiamo ancora una rappresentazione incentrata sui drammatici avvenimenti cileni (il golpe militare in Cile che fece un bagno sangue e uccise sul nascere il primo tentativo di democrazia nel continente Latino-Americano), che organizzammo nel cortile della casa Ugo sopra un carrello agricolo messoci a disposizione da un amico. Lo spazio era insufficiente e non poté contenere tutti. Questo tipo di iniziative andarono avanti per parecchio tempo: nessuno veniva pagato, vigeva la regola della cena collettiva dopo gli spettacoli. La interrompemmo quando il Comune iniziò a promuovere iniziative, per non essere "mai" sostitutivi di un compito che spettava all'Ente Locale.

Ci trasformammo, felicemente, in collaboratori e propositori, tutte volte che era necessario e opportuno. Gli incontri culturali, però, non si sono mai interrotti ed hanno spaziato in tutti i settori; politica regionale e nazionale, pace, sviluppo, divorzio, ora di religione, concordato Stato-Chiesa, cristianesimo e marxismo, condizione giovanile, politica internazionale, educazione alla pace, riforma socio-assistenziale, aborto, devianze giovanili; questioni energetiche, fonti alternative e rinnovabili, educazione ambientale e socio-sanitaria, agricoltura senza pesticidi, politiche urbanistiche, questione rifiuti, raccolta differenziata, denuclearizzazione, lingua sarda, fede e folklore, usi e costumi della Sardegna. Si sono anche, a più riprese, organizzati seminari di approfondimento per giovani frequentanti corsi di formazione per operatori socio-sanitari e, in varie occasioni, si è messo a disposizione il nostro centro studi per ricerche sia nel settore dell'handicap che in quello dell'educazione alla pace e alla nonviolenza.

Non sono mancate alcune tesi di laurea sia su temi legati al mondo della disabilità e alle politiche sociali, sia a temi quali l'obiezione di coscienza, le tecniche di difesa popolare nonviolenta, lo sviluppo in Sardegna dei movimenti di base (anni 80/90) come risposta della società (successivamente definita "civile") nei confronti della politica organizzata. Con la collaborazione del Comune, a metà anni ottanta, si è realizzata una importante scuola di launeddas, affidata al maestro Aurelio Porcu di Villaputzu (uno degli ultimi grandi maestri della tradizione musicale della Sardegna), che è durata tre anni con risultati importantissimi non solo per la rinascita dello strumento, ma anche per creare una nuova generazione di suonatori.




Per la cronaca: l'ultimo grande incontro tra i quattro "grandi suonatori dello strumento (Dionigi Burranca di Ortacesus, Aurelio Porcu, Giovanni Casu di Cabras e Luigi Lai di San Vito) è avvenuto nell'aula consiliare di via Scipione il 14 marzo 1986. Oggi ci sono decine e decine di validi musicisti e lo strumento (unico al mondo) sta conoscendo una nuova primavera.

Quell’ “odor di umanità”. Il ricordo “rappato” di Paolo Cadeddu

Chiamali pure “canto d’amore” i versi e le strofe di Paolo che ha vissuto intensamente, e in stagioni diverse, la comunità, ad essa offrendo il suo senso di partecipazione e da essa ricevendo l’esempio dell’accoglienza e la lezione del camminare, camminare insieme.

Ci sarà da dire, sono tutti lì in assemblea, ciascuno magari con il suo calendario, ciascuno con il suo modo chi più franco e immediato e chi più lento e timido, chi più allegro e chi più pensoso, chi più bambino per età ed innocenza chi più esperto e smaliziato, chi più operativo e chi più progettuale, chi più creativo e chi più inquadrato, domestico ed ortolano, ciascuno con la sua età e la sua esperienza, la sua circostanza di vita, una funzione tutta sua e una sostituibile… Emanuel dopo Francesco, e Gino con Renzo e Massimo, Giovannino e Mario, Daniel e Sergio, Efisio e Dino, Carlo e Tore e Dante, Pierino e Maria, Salvatore e… Mecojoni, Chico e Oro, Massimo e Daniela, Marco e Mariano e Francesco e Andrea, Anna e Maristella, Franca e Sabrina, Raffaele e tzia Bonaria, Ettore e Mariolino, Anna ancora e Dionisio e Angelo e Claudio… Mi accorgo in corso d’opera di aver fatto un errore a tentar di stendere l’elenco: i più mancano, interni interni e interni associati, Maria Pia e Roberto, Lia ed Seiichi Enomoto, Giacomina e Giampiero e Barbara, Marcello ed Ivo, sì anche Paolo e Mena… l’elenco non lo so continuare. Non massa, comunità invece, somma e moltiplicazione dei conferimenti di quell’arte umana appresa il giorno stesso della prima poppata e plasmata da ciascuno, in ciascuno, dalla vita…


Da quando ho conosciuto questa comunità

ho avuto solo esempi di tanta umanità.

Era passato appena il famoso sessantotto

e a star nelle comuni era un vero quarantotto

ma questa qui di Sestu era la Comunità

con tanta ideologia, esperienza e serietà.


L'appoggio del paese lo conquistava tutto

perché faceva comodo alla gente il suo aiuto.

Si viveva in una vecchia casa fatiscente

aperta a tutti quanti senza chiedere mai niente.

Gli interni erano poveri ma anche dignitosi

entravan proprio tutti persino preti e sposi.


E la parola d'ordine era "autofinanziamento"

"aiutare senza chiedere" era il comandamento.

E si sa che in questa zona certo non mancava

chi il loro aiuto grato accettava.

E questo atteggiamento non passò in secondo piano

convinse proprio tutti, anche sindaco e cappellano.


Un giorno dal Comune arrivò la circolare

"La casa è pericolante ve ne dovete andare".

La cosa non stupì anche perché era vera

ma l'unica reazione fu di riunirsi la sera.

Eran tutti d'accordo "da qui non ce ne andiamo".

A meno di una casa se no non ci muoviamo.


Riunioni su riunioni e poi in delegazione

ma chi di più contava era la popolazione,

tanto che un bel giorno l'accordo fu redatto

e alla Comunità un terreno fu assegnato.

E la gioia fu tale che in quel contesto

non ci si rese conto del contratto capestro.

 

Nel terreno assegnato che al Comune appartiene

Bisogna costruire le strutture per bene.

Entro date precise bisogna finire

Altrimenti l'accordo si vede fallire.

Tutto questo a spese della Comunità

Che poi passa al Comune tutta la proprietà.


Il progetto è oneroso e la Comunità

Non può certo accollarsi tutta la gravità.

Qui subentrano in massa tutti quanti gli amici

che da tutta Italia (e non solo) intervengono felici.

Per produrre dal nulla una grande struttura

bella comoda solida tutta in muratura.


Quattro anni di campi e di intenso lavoro

Lungo tutto l'estate e l'autunno e non solo.

Il cantiere era infatti una sola metà

del lavoro che gravava sulla Comunità.

L'autofinanziamento ricordate e sia chiaro

era l'unico modo per avere il denaro.


Si facevan le buste si faceva i facchini

si impagliava le sedie si svuotava i tombini;

i lavori più duri come trasportare pesi

come quelli più umili a pulir le fogne ai Sestesi.

Ma se questo era segno di grande umiltà

non mancava l'impegno e la solidarietà.


Quattro anni abbiam detto ed il più era fatto

cosicché in un baleno hanno pur traslocato.

 Quella sedia quel tavolo la cucina e il divano

I miei libri i tuoi diari e anche il tuo lavamano.

Quattro foto alla casa che tra un po' diverrà

una piazza ritrovo per la collettività.


E la vita continua nella nuova struttura

Ma si prospettano anni di convivenza dura.

C'è un bel laboratorio e si lavora il rame

ma il problema è la cassa, senza soldi c'è fame.

L'illusione che il rame fosse la soluzione

Disillude un po' tutti e si passa all'azione.


L'intenzione è di trovar dei lavori

che potessero dare dei momenti migliori.

Ma non tutti avevano le stesse intenzioni

si formano quindi due diverse fazioni.

Una parte per procedere nelle innovazioni

l'altra invece mantenere le stesse condizioni.


Vinse intanto la prima e così piano piano

si poté vivacchiare in un modo più umano.

Con la corniceria e poi anche coi "Ring"

si poteva sperare in un nuovo "Revival".

Si poteva anche poi in condizioni normali

affrontare anche meglio i problemi sociali.


Per principio od orgoglio non so ben come sia

sta di fatto che alcuni piano piano van via.

Non volendo accettare la nuova situazione

si dà spazio al litigio e all'incomprensione.

Han lasciato con l'odio la Comunità

non mostrando neanche un po' di elasticità.


Ad un fianco ferita ma ancor più motivata

a seguir la sua strada la Comunità è andata.

Tante lotte civili tanti impegni sociali

sono stati intrapresi per guarir certi mali.

Però intanto anche se il grande impegno è palese

c'è qualcuno al Comune che fa la nota spese.


Sembrerebbe che a loro spettasse il diritto

di infilare all'interno oltre al naso anche il dito.

Mentre invece dovrebbero con modestia e bontà

ringraziar per l'impegno la Comunità.

Quell'impegno importante nel tessuto sociale

che sarebbe spettato al consigliere comunale.


Son due anni che ormai son fisso qui dentro

e non posso spiegare quanto sono contento.

La mia vita è cambiata e mi son guardato attorno

non c'e solo il lavoro ma anche tutto il contorno.

Qui c'è tanto di tutto ma molto "Odor d'umanità"

lunga vita è il mio augurio alla Comunità


***

Scrivo queste note mentre continuano a giungere, drammatiche, le notizie da Kiev e dalla Ucraina tutta. Sia maledetto chi ha scatenato l’inferno ed ha provocato la morte e la sofferenza di tanti innocenti. (Ed ancora una volta abbiamo la plateale dimostrazione della nullità liberale degli esponenti della destra italiana, pagana e imbrogliona, da cui insistenti sono venuti, negli anni, gli accarezzamenti ad un pericoloso dittatore nato).


Fonte: Gianfranco Murtas
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