Paolo Pili e il sardofascismo. Ripubblicato il suo “Grande cronaca, minima storia”
di Antonello Angioni
Penso che se "Grande cronaca, minima storia", anziché un libro, fosse un film e io avessi le competenze del regista, per spiegare l'intera vicenda, probabilmente partirei dal fotogramma finale, dall'epilogo racchiuso nell'analisi contenuta nella lettera che, dal carcere di Turi, Gramsci invia al fratello Carlo il 22 marzo 1929, vale a dire a distanza di poco più di un anno dalla defenestrazione di Pili. Ma "Grande cronaca, minima storia" non è un film - è un libro-testimonianza che racconta fatti realmente accaduti - e, soprattutto, io non sono un regista per cui è bene inquadrare i fatti oggetto di narrazione nel tempo e nello spazio che ne governarono il corso.
In tale ottica, si tratta di individuare e comprendere le radici storiche, le motivazioni e quelle che furono le prospettive del "sardo-fascismo", fenomeno complesso e importante che ha visto Paolo Pili tra i principali protagonisti. E non vi è dubbio che tale lavoro debba essere fatto con grande rigore e onestà intellettuale sostituendo ai limiti dell'ideologia e alle contingenze della "ragione politica" l'etica della scienza, vale a dire la verità storica che emerge dalle carte d'archivio, ma anche dalle cronache e dalle testimonianze del tempo.
Tutto ha inizio con la fine della grande guerra quando, anche in Sardegna, si da vita alle sezioni degli ex combattenti, i reduci che ben presto divennero il punto di riferimento di un vasto movimento di rivendicazione politica e sociale. La grande guerra aveva forgiato il carattere dei fanti e creato in essi un senso di appartenenza. Il fatto che quasi centomila uomini (pari a circa l'11% del totale della popolazione sarda) lasciò l'Isola per affrontare la drammatica esperienza della trincea - che non è fatta solo di atti di eroismo e di encomi - ne modificò la coscienza e l'identità con rilevanti conseguenze per l'intera regione. Gli stessi diventarono consapevoli del fatto che la condizione di arretratezza economica e sociale in cui versava la Sardegna non era il frutto di un cattivo destino ma, principalmente, dell'assenza di una classe dirigente autonoma, non asservita alle consorterie politiche dell'Italia del tempo.
La situazione si presentava assai complessa in quanto la grande guerra aveva accentuato tutti i limiti e fatto esplodere le contraddizioni presenti nello Stato liberale la cui classe dirigente dimostrava l'incapacità sia di governare secondo i vecchi schemi giolittiani, sia di elaborarne altri in grado di dare risposte adeguate alle criticità esistenti. In pratica, la grande guerra aveva portato al pettine i nodi presenti nella società italiana ma la politica non riusciva a districarli.
Dallo scontro sociale in atto si venne a formare una classe dirigente nuova la cui ossatura sarà data da intellettuali e proprietari forgiati dall'esperienza della trincea, soprattutto nella Brigata Sassari. Come ha scritto Pili, «il movimento combattentistico sardo prendeva forma e sostanza e si preparava a combattere nelle lotte civili e sociali con lo stesso spirito rivoluzionario della Grande Guerra, per la redenzione morale ed economica della Sardegna». Nella sostanza, l'Associazione dei Combattenti avviava la sua rapida trasformazione in partito politico, dai forti connotati autonomisti, capace di elaborare e proporre un programma teso a favorire la rinascita economica e morale dell'Isola.
"Grande cronaca, minima storia" fa rivivere al lettore l'atmosfera di entusiasmo, di speranza e, a tratti, anche di illusoria certezza di una vittoria che poi si rivelerà impossibile alla luce delle forze in campo e degli interessi in gioco. In tale percorso, uno dei passaggi più significativi è costituito dal terzo congresso dei combattenti sardi, svolto a Macomer l'8 agosto 1920, che segnò l'apogeo del movimento e vide l'approvazione di un documento (la c.d. Carta di Macomer) che costituirà la base del programma del Partito Sardo d'Azione: documento che verrà trasmesso alla Reggenza del Carnaro che, a sua volta, indirizzò a Lussu una lettera di piena condivisione. Tale programma inoltre verrà definito da Gabriele d'Annunzio «un monumento di sapienza sociale».
Va detto che il movimento dei combattenti si muoveva in un quadro di incertezza ideologica, pur risultando evidente l'influsso delle istanze sindacaliste rivoluzionarie e del pensiero di d'Annunzio. È in tale contesto che, sul versante nazionale, si presenta in fascismo, anch'esso senza un programma ben definito, pur essendo evidente la volontà di sostituire la discussione parlamentare con la lotta di piazza. In Sardegna il fascismo si manifesta per la prima volta a Iglesias nel marzo del 1921.
Un mese dopo, il 16-17 aprile, a Oristano, si svolge il quarto congresso dei combattenti sardi nel cui ambito viene fondato il Partito Sardo d'Azione. I congressisti approvano un documento, contenente il programma politico, che inter alia evidenzia il fatto che la nuova formazione «deve combattere ogni tendenza ideale che si richiami alle tradizioni democratiche ritenendo ormai […] vuota di contenuto ideale la parola democrazia». Tale affermazione era in linea col pensiero di Bellieni che, già nel 1920, scriveva a Salvemini: «Abbiamo schifo della parola democrazia che invece è carissima a tutti i pagliacci e a tutti i disonesti».
Non vi è dubbio che, con la fondazione del Partito Sardo d'Azione, aveva trovato espressione la plurisecolare aspirazione dei Sardi di affrancarsi da una condizione di dominio esterno, che li aveva impoveriti, e di affermare l'autogoverno. Nella ricerca di possibili alleanze a livello nazionale, il 20 settembre del 1921, viene sottoscritto, col Partito Molisano d'Azione, un patto che evidenzia che le due formazioni politiche sono avversarie del socialismo, del liberalismo, del cattolicesimo popolare, del repubblicanesimo e del nazionalismo. Le posizioni antisocialiste, del resto, erano già state espresse, in modo assai netto, da Luigi Battista Puggioni e Egidio Pilia, tra i fondatori del PSd'A.
La situazione si presentava molto confusa. Lussu, ad esempio, intorno al luglio del 1922, più volte, aveva fatto cenno alla possibilità di trovare un'intesa col partito nazionale fascista. Ma dopo qualche mese, nel terzo congresso del Partito Sardo d'Azione (Nuoro, 28-29 ottobre 1922), emergeva forte il desiderio di arginare il movimento fascista, con Lussu schierato in prima fila per stringere i ranghi nella lotta contro tale minaccia.
A livello nazionale, in esito alla "Marcia su Roma", il re affidava a Mussolini il compito di formare un nuovo governo. Da allora, in Sardegna, è un periodo (che si protrae per sei mesi) denso di avvenimenti che culmineranno, il 26 aprile del 1923, con la "fusione" tra sardisti e fascisti. Ma procediamo con ordine. Negli ultimi giorni del dicembre del '22 arriva a Cagliari il generale Gandolfo per ricoprire la carica di prefetto ma con l'espresso mandato di attuare la "fusione": progetto approfondito da Lussu il 7 gennaio del 1923, recandosi a Oristano a incontrare Pili e Putzolu, inizialmente contrari a tale percorso ma che poi finirono per assecondare i desiderata di Lussu il quale ricorda tale particolare in una deposizione testimoniale resa in Tribunale, a Cagliari, il 17 luglio 1925.
Lussu, ritenendo che per i sardisti fosse giunto il momento di assumere responsabilità di governo, si dichiarava pronto a trattare la "fusione". Lo stesso quindi richiese (ed ottenne) il pieno mandato dal direttorio sardista e, nella seduta del Consiglio Provinciale di Cagliari del 23 gennaio 1923, esaltò i nuovi compiti dei sardisti nel fascismo esprimendo riconoscenza verso il prefetto Gandolfo. Lussu evidenziava che la fusione non si era ancora perfezionata ma che sarebbe avvenuta e che dalla stessa doveva derivare «ogni fortuna dell'Isola». Concludeva quindi affermando: «il Partito Sardo entra così in un movimento di avvenire e si affaccia alla vita nazionale con rinnovata coscienza per il bene dell'Italia e per il risanamento politico e morale del Paese».
A tale seduta fece seguito un periodo di trattative contraddittorio. Il 2 febbraio del '23 "L'Unione Sarda" pubblicava una lettera di Bellieni che non approvava le trattative ed esortava i sardisti a non farsi trascinare dal fascismo. Le trattative comunque proseguirono. Lussu, a fronte delle proposte del prefetto Gandolfo, dettò delle controproposte. Peraltro entrambi i documenti prevedevano che gli iscritti al PSd'A sarebbero passati in blocco al PNF. Insomma, Lussu restava il principale fautore e protagonista della "fusione" considerando il fascismo una chance per rinnovare in radice la vita politica dell'Isola, eliminando il sistema delle clientele locali che dominava incontrastato. Lo stesso, peraltro, pregava Pili di concludere in prima persona le trattative volte alla positiva definizione della vicenda.
Intanto, il PSd'A attraversava una profonda crisi ideologica e programmatica. In tale frangente, Lussu riteneva che la gran massa degli iscritti al partito sardo dovesse passare al fascismo e che solo un piccolo gruppo sarebbe rimasto all'interno del partito per mantenere nei ranghi i combattenti che sarebbero stati capeggiati dello stesso Lussu. Si era convinti che i "sardisti", indossata la camicia nera, sarebbero diventati i veri padroni del fascismo in Sardegna. Pili quindi intensificò i rapporti col generale Gandolfo.
Si arriva così al 26 aprile, giorno che sancirà la "fusione". Pili, in compagnia di Putzolu, si reca da Lussu per pregarlo di aderire al fascismo insieme a loro. Ma Lussu, pur essendo stato l'iniziatore e il principale sostenitore della "fusione" e pur avendo ribadito di essere favorevole a tale passaggio, decise di stare fuori per organizzare i combattenti. Nel contempo invitò Pili e Putzolu ad andare avanti precisando: «Se voi non fate questo passo, tradite in nostro movimento e la Sardegna: sapete che io, in questo momento, non posso ma vi prometto che fra qualche mese sarò con voi o mi ritirerò completamente dalla vita politica».
A distanza di circa un mese dalla fusione, dopo una breve gestione provvisoria, si tenne a Macomer una riunione di tutti i dirigenti fascisti nel corso della quale Pili viene nominato segretario politico provinciale fino alla convocazione del congresso. Con la fusione ebbe inizio il "sardo-fascismo", una vicenda cruciale nella storia della Sardegna contemporanea. Va anche detto che, del tutto inaspettatamente, alle elezioni politiche del 6 aprile 1924, Lussu si candidò nella lista denominata PSdA e venne eletto. Anche Pili venne eletto.
Nei mesi successivi venne elaborato un piano di interventi straordinari per la Sardegna da realizzarsi in dieci anni attraverso la richiesta allo Stato di un finanziamento di un miliardo di lire. Il piano venne presentato da Pili a Mussolini che lo condivise ritenendo necessario un provvedimento eccezionale a favore della Sardegna. Ai primi di novembre del '24 venne quindi approvata, da parte del Consiglio dei Ministri, la c.d. "Legge del Miliardo".
Tra le aspirazioni della nuova classe dirigente che si era formata intorno a Pili vi era quella di debellare il monopolio industriale e commerciale che strozzava l'economia della Sardegna, in particolare nei settori del grano, del latte e del formaggio. Il progetto era assai ambizioso poiché si poneva contro la plutocrazia continentale. Pili pertanto, nell'ottobre del 1925, diede vita alla Federazione delle Latterie Sociali e alla Cooperativa Sylos. Nello stesso anno furono fondati le cantine sociali cooperative e gli oleifici sociali. Poi fu la volta dell'Ente di Cultura e della Scuola d'Arti Applicate di Oristano la cui direzione venne affidata a Francesco Ciusa. Intanto, nel Municipio di Cagliari si parlò, per la prima volta, di "porto franco": si prevedeva la creazione di un grande emporio destinato al traffico mediterraneo.
Forte di questa spinta, il 17 marzo 1926, Pili partì dalla Sardegna verso gli Stati Uniti con prima tappa Roma, dove espose i progetti a Mussolini che condivise tutto e in particolare l'istituzione, ritenuta di valenza strategica, del "porto franco" a Cagliari. Ai primi di maggio, Pili sbarca a New York dove stipula un importante contratto con una società svizzera che garantiva l'esportazione di 50.000 quintali di pecorino all'anno per cinque anni.
A questo punto, le oligarchie economiche e finanziarie si organizzano contro Pili dando avvio a una campagna di discredito per ottenerne la defenestrazione. Infatti le iniziative, in particolare quelle nei settori agricolo e lattiero-caseario, se avevano generato notevoli consensi a Pili tra gli agricoltori e i pastori sardi, costituivano per i grandi potentati dei due settori un gravissimo pericolo. Gli stessi quindi provocarono un'inchiesta sulla Federazione fascista di Cagliari che tuttavia non ebbe l'esito sperato dai promotori. Pili venne allora chiamato a Roma dal capo del Direttorio, l'on. Turati, che gli ingiunse di «mollare» le organizzazioni economiche in quanto stavano creando seri problemi.
Nel secondo anno di vita, la Sylos dovette subire i colpi durissimi inferti dalla deflazione conseguente il "discorso di Pesaro", dall'azione infedele dei suoi magazzinieri e soprattutto dalle manovre poste in essere dalla cricca affaristica di Roma che puntava alla distruzione della cooperativa. Nell'agosto del 1927 venne inviato da Roma un alto funzionario del Ministero dell'Interno per l'avvio di un'inchiesta. Si accertò un ammanco di oltre un milione di lire e la Sylos venne fatta fallire.
I successivi sviluppi politici fecero cadere nel nulla tutto il lavoro di ricostruzione economica e sociale promosso da Pili: l'attuazione del suo programma venne dapprima dilazionata e poi abbandonata. L'8 novembre del 1927 Pili, ormai sfiduciato, presentò al segretario del PNF le proprie dimissioni da segretario federale. Quindi, nel dicembre del 1927, si recò per l'ultima volta da Mussolini. Vi fu anche una coda velenosa: Pili venne sospeso dal partito.
E arriviamo ora, per concludere, all'analisi - enunciata in apertura - fatta da Gramsci, con straordinaria lucidità e chiarezza. La chiave di lettura che ci fornisce è che Pili tentò di utilizzare il nuovo corso politico nazionale (il fascismo) per far ottenere alla Sardegna i maggiori risultati possibili. Ma quel tentativo non poteva avere successo e dovette soccombere di fronte alla «colossale forza che gli si opponeva» e che ebbe la meglio sino a provocarne l'annientamento politico. Quella «colossale forza», infatti, come osservava Gramsci, non poteva certo «rimanere inerte a contemplare la sua progressiva rovina». E la reazione, come abbiamo visto, non si fece attendere.
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